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Mazzino “Aldo” Fedi

Ad ogni modo, è interessante analizzare il motivo per il quale Fedi e i propri compagni avessero deciso di entrare in azione proprio nel corso di una manifestazione così partecipata e in vista come una corsa ciclistica. L’obiettivo era quello di sferrare un vero e proprio attacco allo «sport capitalista», definito un «mezzo efficace adottato dalla borghesia di tutti i paesi per distrarre i giovani dalla vita politica, da quello che è il loro interesse vitale (difesa delle conquiste, libertà di riunione), creato con lo scopo di stabilire fra tutti i giovani sparsi per il mondo capitalista un filo che li colleghi al Fascismo». Questo filo, riportava un comunicato dal Fronte unico dei giovani lavoratori:

è quello dello sport professionale, che in questa località vi è una grande maggioranza di giovani ciclisti italiani i quali hanno aderito alla società ciclistica diretta dal Consolato, agente della repressione fascista, le cui mani sono lorde di sangue proletario. Noi giovani che amiamo lo sport non dobbiamo essere diretti dagli agenti consolari che sono al servizio del capitalismo, per difendere il loro capitale, capitale finanziario, ma dobbiamo formare delle società dirette da noi giovani lavoratori, senza un controllo assiduo da parte del fascismo affamatore e assassino. Scacciare via i dirigenti che tentano con la loro demagogia dello sport di fare di voi giovani carne da macello per la futura guerra che il capitalismo italiano prepara febbrilmente. A questo scopo il Comitato d’azione del Fronte unico giovanile di Toulon fa appello a tutti i giovani sportivi di partecipare alla riunione che si terrà il giorno 19 aprile alla Bourse du travail […] per gettare le basi di creare una società sportiva operaia diretta dai giovani ciclisti. Avanti giovani ciclisti, per la formazione di una società senza dirigenti mussoliniani!

Queste note guardavano da vicino l’organizzazione del Dopolavoro e delle associazioni sportive e culturali, declinando nuove forme di conflittualità negli spazi comunitari e della società civile. Esperienze non certo isolate, eppure indicative del dispiegamento e dell’attività portata avanti dai militanti antifascisti anche durante la clandestinità. Su Fedi intanto si era fatta incombente la minaccia di espulsione dalla Francia. A decreto confermato, riuscì però a spostarsi nuovamente a Tolone e a riprendere da lì il proprio lavoro di proselitismo. Con fare provocatorio, continuò oltretutto a spedire all’indirizzo di Giuliano Giovannelli stralci e ritagli di giornali comunisti; fu lo stesso Giovannelli a consegnare alla polizia una nuova busta contenente un numero “Battaglie Sindacali” (n°. 6, 1934), organo della Confederazione generale del lavoro aderente all’Internazionale sindacale rossa (Profintern), accompagnato da un foglietto vergato a penna e recante un messaggio sibillino: «Sei convinto? Fattela leggere».

Condizionato da un carattere irascibile e poco disposto a compromessi, Fedi finì per entrare in conflitto anche con gli altri militanti. Le sue posizioni sull’anarchismo avevano destato più di qualche perplessità, ma la vera crepa si formò in seguito alle voci – dichiarate fittizie dallo stesso Fedi – che lo accusavano di essersi avvicinato alla causa trotskista: la Centrale del partito comunista lo sollevò quindi dal suo incarico a Lione e lo sostituì con il redattore (indicato come Catena) della rivista antifascista “Vita Operaia”. Consapevoli della sua condizione di assoluta indigenza, gli agenti dell’OVRA – secondo una procedura consolidata – tentarono invano di avvicinarlo per ottenere informazioni su altri sovversivi, cercando di sfruttare eventuali risentimenti. Fedi tuttavia riuscì a far perdere le sue tracce per alcuni mesi, girovagando tra il Varo e la Provenza in cerca di occupazione.

Una nuova segnalazione sul suo conto arrivò nel luglio 1935, quando il ristoratore Gino Lombardi riferì alla polizia di averlo visto consumare pasti per circa un mese nel suo locale (lasciato insoluto un debito di 100 franchi) di Villeurbanne e di saperlo in partenza per Marsiglia. Pochi giorni dopo la polizia intercettò un telegramma diretto a Rhon, nel quale la zia di Fedi, Evelina, dichiarava al nipote di non potergli consegnare l’indirizzo della sorella, probabilmente per timore di fornire troppe informazioni. Tra continui cambi di nome, Fedi venne così arrestato ancora una volta il 24 febbraio 1936 – assieme a Giovanni Tognetti e Gino Lombardi – con l’accusa di «infrazione al decreto di espulsione e […] sospetto di aver commesso […] un furto di gioielli». Scortato in carcere, dichiarò apertamente di «essere antifascista» e di aver commesso il reato: ciò si tradusse in una condanna a cinque mesi di reclusione e a 300 lire di multa per ricettazione, aggravando una posizione personale sempre più compromessa. Il fascicolo del Casellario Politico Centrale manca però di fornire aggiornamenti su ciò che accadde nei mesi successivi, lasciando ipotizzare una nuova fase di latitanza nella Francia governata dal Front populaire.

Il suo nome ricomparve nel febbraio 1937, segnalato tra i venti fuoriusciti che tra il 5 e il 19 gennaio erano partiti dalla Seyne per Marsiglia; lì si ricongiunsero ad una cinquantina di reclutati da Reynier, Six Fours-la Plage e St. Mandrier, pronti a salpare verso la Spagna e combattere nelle file delle Brigate internazionali. Nell’immanenza, i dati e le comunicazioni continuarono ad essere lacunosi e imprecisi: stando alla documentazione raccolta nel fascicolo del Casellario Politico Centrale tra il 1937 e il 1938, Fedi risultava infatti essere rientrato in Francia ed aver abbracciato la causa del Partito socialista italiano. Sappiamo invece con certezza che egli rimase in Spagna fino al 1938. Sarebbe stato lui stesso a confessarlo nel luglio 1940, una volta consegnato alle autorità italiane[1]. In terra iberica, ad Albacete (sotto il comando nominale di André Marty), venne infatti subito inserito nel servizio sanitario del Battaglione Garibaldi quale barelliere e successivamente come motorista. Passò poi alla XII Brigata Garibaldi come artigliere, per finire aggregato alla XV Brigata nordamericana Lincoln (batteria antiaerea) sui fronti del Levante e dell’Estremadura. Come mitragliere prese invece parte ai combattimenti del Guadarrama, Teruel, Caspe, Brunete e Huesca[2], prima che una ferita alla gamba lo costringesse ad un lungo soggiorno nell’ospedale di Murcia e ad uno più breve in quello di Albacete.

Non più idoneo fisicamente e colpito da forti febbri, una volta dimesso fu adibito ai servizi ausiliari: nell’ottobre del 1938 lasciò comunque la Spagna con convoglio sanitario e tornò in Francia, a Parigi. Nella capitale francese, schiacciato da una situazione economica estremamente complessa e trovatosi ai margini dell’attività partitica, decise di scrivere alla sorella Fulvia dopo un lungo silenzio, manifestandole l’intenzione di partire clandestinamente per l’America del Sud:

Ormai per me in Europa non c’è più nulla da sperare perché la conosco palmo per palmo. L’unico paese dove si poteva vivere un po’ meglio era la Francia, ma per me è finita pure in Francia perché sono espulso e non posso più avere la carta d’identità per lavorare e se mi prende la polizia mi arresta per un bel pezzo. Certo la mia intenzione è quella di andarmene nell’America del Sud, ma per andare legalmente occorrono molti soldi che io non posso far fronte a una simile spesa, perché attualmente è molto difficile fare fronte anche alle spese giornaliere, per mangiare, malgrado che io sono sempre stato più sveglio di tanti altri. Quando sono mesi e mesi che non si lavora puoi immaginarti come possiamo vivere. Quindi guardo di lasciare l’Europa clandestinamente se posso, certo non posso dirti che sia oggi o domani.

Il tentativo non andò a buon fine. Arrestato, nel 1939 venne internato a Gurs – dove dal 15 marzo 1939 le autorità francesi avevano deciso di installare un centre d’accueil per i reduci delle Brigate Internazionali e i fuggiaschi che arrivavano dalla Spagna – e a Vernet, realtà in cui si trovò a scontare – dopo essere passato dalle compagnie di lavoro vicino a Calais – le durissime condizioni a cui venivano sottoposti gli «stranieri sospetti e pericolosi». Incorporato nel campo di Moulin de Torpac (253 CTE) e costretto al lavoro coatto a Saint Omer (Pas-de-Calais), riuscì a fuggire e ad evadere in Belgio: qui venne fermato dai nazisti, rinchiuso temporaneamente in carcere a Dunkerque e poi inviato di nuovo – nel 1940 – a Vernet come «capo di una cellula anarchica […] molto intelligente e pericoloso».

La stipulazione dell’armistizio tra Francia e Italia, tuttavia, sancì l’immediata liberazione dei civili italiani internati e la loro rimessa alle autorità militari italiane. Ai prigionieri era teoricamente lasciata la possibilità scegliere se essere o meno riconsegnati, condizione che nell’estate del 1940 spinse una Commissione di Armistizio a visitare i campi per convincere i connazionali a firmare per il ritorno in patria. A luglio, tra pressioni e opere di convincimento, a sottoscrivere il rimpatrio (forse costretto) fu anche Mazzino Fedi che, una volta consegnato alle autorità, venne interrogato e destinato a cinque anni di confino sull’isola di Ventotene «quale elemento politicamente pericoloso». Durante il quarto trimestre del 1941 fu poi spostato ad Ustica, prima di un ultimo trasferimento – dopo Cassibile – nel campo di Renicci d’Anghiari (Arezzo), dove venne liberato il 15 settembre 1943.

Non disponiamo di ulteriori notizie su di lui, se non che dal 1965 si stabilì a Torino con la moglie Vincenzina Bertone. Prese probabilmente parte alla Resistenza, anche se al momento quest’ultima resta solo un’ipotesi. La sua figura emerse comunque come quella di un antifascista «zelante negli incarichi ricevuti», capace di muoversi abilmente nella rete clandestina e di evidenziare l’importanza specifica di individui e organizzazioni che – nella loro eterogeneità – risultarono fondamentali nella costruzione e nel rafforzamento di un sentimento democratico e antifascista.

[1] A confermare la presenza di Mazzino Fedi in Spagna sovvennero anche le confessioni alla polizia politica di Francesco Guido Berard, rilasciata il 9 aprile1940, e di Giuseppe Jacopini (17 ottobre 1941).

[2] Cfr. http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=2093.

*Federico Creatini è dottore di ricerca in Storia del lavoro. E’ stato borsista di ricerca presso l’Università di Pisa e l’Istituto Ferruccio Parri. Attualmente è borsista di ricerca presso il Centro di ricerca Maria Eletta Martini-Scuola superiore Sant’Anna.




Una testimonianza sul ruolo degli Arditi del popolo nei «fatti di Sarzana» del luglio 1921

Premessa

La Stampa 22 luglio 1921 i fatti di Sarzana

All’alba del 21 luglio 1921, nella città di Sarzana, all’epoca in provincia di Genova, giunse una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini e Umberto Banchelli, con l’obbiettivo di assaltare la città e recarsi alla Fortezza Firmafede per liberare alcuni fascisti che vi erano incarcerati, fra cui Renato Ricci, il leader del fascio di combattimento carrarese, ritenuti responsabili di efferati atti di violenza e degli omicidi avvenuti nei giorni precedenti. Il prefetto di Genova, per proteggere la città da ulteriori assalti fascisti, aveva ordinato l’invio di un reparto di carabinieri e di militari in città, al comando di Guido Jurgens, i quali fronteggiarono i fascisti, che durante la giornata di scontri persero quattordici uomini, ottenendo infine la liberazione di Ricci grazie solo all’intervento politico del procuratore filofascista di Massa. Ai «fatti di Sarzana» ‒ uno degli eventi principali che segnarono la prima Resistenza armata al fascismo ‒ parteciparono anche un consistente gruppo di arditi del popolo e numerosi contadini del luogo riuniti in un Comitato di difesa.

Nella_città_perduta_Sarzana

Nel 1980 l’uscita del film Nella città perduta di Sarzana girato dal regista Luigi Faccini, che raccontava appunto le vicende relative ai «fatti di Sarzana», avviò un intenso e partecipato dibattito sulle radici del fascismo e dell’antifascismo che coinvolse storici di fama come Renzo De Felice e Paolo Spriano. Il film venne proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia nel 1980, poi a Milano, in seguito in diverse città italiane e anche fuori d’Italia come a Nizza e Villerupt. Al Festival del cinema neorealistico di Avellino (1981), il film ottenne la targa d’argento “Pietro Bianchi” e nell’estate, sempre del 1981, la RAI lo trasmise sul secondo canale nazionale. Anche a Carrara, dove il film venne proiettato, si aprì un serio dibattito testimoniato da vari articoli pubblicati dai quotidiani locali e non poteva essere altrimenti dal momento in cui proprio le squadre fasciste carraresi guidate da Renato Ricci furono tra le protagoniste principali di quell’episodio.

Umberto Marzocchi, classe 1900, originario di Firenze ma all’epoca dei fatti operaio a La Spezia, anarchico e sindacalista, poi fuoruscito in Francia e volontario in Spagna durante la Guerra civile (1936-39) e infine maquis durante la Seconda guerra mondiale, intervenne nel dibattito con una lettera sul ruolo degli arditi del popolo nei «fatti di Sarzana». La lettera, poco conosciuta e citata, crediamo sia una testimonianza preziosa nella ricostruzione di quel episodio e la pubblichiamo, oltre per ricordare la figura di Marzocchi, in occasione proprio del centenario dei «fatti di Sarzana» come contributo per il dibattito e la ricerca storiografica[1].

La testimonianza di uno che c’era[2].

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Ho letto con ritardo i commenti critici al film «Nella città perduta di Sarzana» ed i successivi interventi, direi storici, su «I fatti di Sarzana», tendenti a ristabilire alcune verità in modo chiaro ed inequivocabile, pubblicati nel giornale e, poiché fui uno dei protagonisti di quei fatti, con una cinquantina di Arditi del popolo venuti da La Spezia e rimasti al fianco del sindaco socialista, avvocato Pietro Arnaldi Terzi, a Luigi Luciani, Ugo Boccardi (Ramella), Lucherini ed altri compagni anarchici, socialisti e repubblicani sarzanesi, vorrei contribuire con la mia testimonianza ed i miei ricordi alla necessaria, storica chiarificazione, già in parte compiuta da chi mi ha preceduto.

Se nella realtà si ebbe ragione di criticare il Partito Socialista Italiano per il famoso Patto di Pacificazione, dobbiamo riconoscere che i socialisti di Sarzana ne erano come noi amareggiati e decisi a seguire il sindaco nel suo atteggiamento politicamente onesto che nel film si manifesta con la frase: «Io resto con la mia città». Non si deve però dimenticare che i socialisti (come Giuliani nel film) divenuti dopo il congresso del gennaio 1921 a Livorno, militanti del  Partito comunista italiano, commisero anch’essi un grosso errore nell’accettare la decisione presa dalla direzione del partito ai danni degli «Arditi del Popolo» e quindi della rivolta antifascista del popolo italiano, iniziata con i fatti di Sarzana.

Con l’arrivo a Sarzana, nel tardo pomeriggio del 21 luglio 1921, degli Arditi del Popolo di La Spezia, Carrara ed i paesi intorno a Sarzana, venne organizzata la difesa, dislocando i circa 200 arditi ed un numero maggiore di sarzanesi in blocchi di difesa avanzati verso l’Emilia, verso la Liguria e verso la Toscana. All’interno della città, gruppi di operai e contadini armati vigilavano: sui tetti delle case, sul campanile della chiesa vennero ammucchiati sassi e bombe a mano.

Gli arditi si erano severamente autodisciplinati e furono in parecchie circostanze ragionevoli, rispettosi delle istruzioni che ricevevano da ex ufficiali dell’esercito, un socialista di La Spezia, Vallelonga, e due repubblicani di Sarzana dei quali non ricordo il nome. Lo stesso Trani, ispettore generale di P.S., su cui è incentrato il film di Faccini, nella sua «relazione al ministero dell’Interno», scrive: «… bastò che io sinceramente rassicurassi gli organizzatori e gli esponenti dei partiti estremi di La Spezia e di Sarzana, che bastavano le mie forze a difendere tutti dalla violenza fascista, perché di organizzazioni di Arditi del popolo in armi non si ebbero altre apparizioni». Infatti, onde evitare un conflitto con le forze di polizia che perlustravano le vie cittadine, ci eravamo uniti ai sarzanesi più in vista, raggruppati nei posti di blocco, e ciò risulta anche dagli incartamenti processuali nel processo per l’uccisione di Maiani e Bisagno.

La critica alle presunte atrocità commesse dagli Arditi del popolo richiede una più dettagliata spiegazione, in quanto essi furono estranei a tali eccessi. Solo l’uccisione dei due fascisti spezzini, Maiani e Bisagno, sulla quale venne imbastito un processo, fu attribuita agli Arditi, ma la loro cattura evitò conseguenze peggiori e forse una seconda strage, dopo quella della stazione di Sarzana. La testimonianza dell’ardito del popolo sarzanese Gino Lucherini, raccolta da Franco Ferro in «I fatti di Sarzana» è a questo proposito irreprensibile e ne confermo l’esattezza: «A Sarzana, il mercoledì 21 luglio, al posto di blocco del Ponte sul Magra, venivano fermati i due giovani, e siccome essi non conoscevano la parola d’ordine, furono costretti a tornare indietro. Camminarono da prima disinvolti poi, percorso un centinaio di metri si misero a correre, gettando via qualcosa. Una donna li vide, raccolse ciò che era stato gettato e accortasi che si trattava di due tessere del fascio, diede l’allarme e i due furono ben presto nelle mani degli Arditi del popolo che li interrogarono e li perquisirono accuratamente, trovando nell’interno della giacca di uno dei due giovani, cucito sotto la fodera, un messaggio inviato dai fascisti spezzini a quelli di Carrara, contenente indicazioni precise che avrebbero permesso alle squadre di prendere Sarzana come in una morsa. Il messaggio diceva anche che fra Cerri e Monte Marcelli, e precisamente ad Ameglia, squadre armate erano pronte ad attaccare la città. Il Comitato di difesa decise allora di mandare da quelle parti gruppi di armati: avvenne così il primo scontro nel quale ebbero la peggio i fascisti che furono ricacciati verso La Spezia». Chi ha fatto la Resistenza comprende che cosa si prova in quelle situazioni e la lotta partigiana annovera decine di episodi come questo.

I giornali fascisti e quelli ben pensanti – continua Ferro – subito dopo il 21 luglio, com’era già avvenuto altre volte in simili circostanze, misero in atto la loro tecnica deformatrice della realtà e, poiché la spedizione punitiva c’era stata e di essa i fascisti erano chiaramente i soli responsabili, si diedero a narrare innumerevoli atrocità commesse dai «comunisti» contro le persone degli squadristi che fuggivano attraverso le campagne del sarzanese, e a parlare con insistenza di bande armate che, a cominciare dal 21 luglio avrebbero sparso il terrore nella Lunigiana, mentre i giornali socialisti e quelli anarchici, al contrario si affrettarono a negare tutto ciò. A dire il vero, le atrocità ci furono, ma si trattò di delitti commessi da una popolazione esasperata, perché vissuta per molti mesi sotto una pesante minaccia; delitti che sembrano non potersi attribuire all’organizzazione degli Arditi del popolo, ma piuttosto a gruppi di contadini che, non potendo essere efficacemente protetti dal Comitato di Difesa cittadino, i cui sforzi erano principalmente concentrati in città avevano provveduto ad armarsi autonomamente ed avevano ricevuto armi e munizioni dallo stesso Comitato di Difesa.

Per quanto concerne l’uso dell’aggettivo repubblicano attribuito al Ricci ricordo che il Ricci non fu solo il provocatore fascista ma fu l’ex legionario fiumano accorso con ex interventisti, sindacalisti deambrosiani, futuristi e militanti fascisti al seguito di Gabriele D’Annunzio, per partecipare alla spedizione di Fiume, nel settembre 1920, alla quale nessun militante aderente al Partito Repubblicano tradizionale partecipò. Una parte di quei legionari seguaci di de Ambris auspicò che la Reggenza del Carnaro, retta da D’Annuzio a Fiume, si trasformasse, in odio allo stato liberale e in opposizione agli accordi italo-jugoslavi di Rapallo, in Repubblica del Carnaro. Da qui nacque l’equivoco di legionari repubblicani… improvvisati. E mentre Ricci continuava la sua opera fascista il regime combatteva il Partito Repubblicano Italiano, creato da Giuseppe Mazzini nel 1831-32, fino a sopprimerlo come formazione legale. Bisogna quindi sfatare la leggenda resa per un certo periodo di tempo credibile della Repubblica del Carnaro e dei legionari fiumani repubblicani.

Umberto Marzocchi

[1] La lettera è stata recentemente inserita, insieme ad altri articoli, sul tema nel volume di R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ‘800 e ‘900, Pisa, BFS, 2020, pp. 401-403.
[2] U. Marzocchi, La testimonianza di uno che c’era, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 5 ottobre 1981, p. 21.




Mazzino “Aldo” Fedi

Stando a quelli schedati nel Casellario Politico Centrale, furono 23 gli antifascisti pistoiesi che si recarono in Spagna per combattere la Guerra civile. Il numero sale a 36 dalle stime riportate nel progetto Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, promosso e realizzato dall’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Dalla seconda metà del 1936, ortolani, braccianti, artisti teatrali, tappezzieri, minatori, verniciatori, operai, muratori, decoratori, manovali, calzolai e terrazzieri si mossero da più parti della provincia per raggiungere la penisola iberica, valicando a piedi i Pirenei dalla frontiera di Port Bou o raggiungendo Barcellona dal porto di Marsiglia. Un’operazione rischiosa e svolta in totale clandestinità, animata – riprendendo le parole di Leo Valiani, recuperate da Ilaria Cansella – dalle «loro idee di libertà, di democrazia, di socialismo nella forma più pura ed universale»[1].

Alla fine dell’ottobre 1936, di questo scenario entrò a far parte anche Mazzino “Aldo” Fedi. Nato a Pistoia il 19 aprile 1912 da Ferruccio e Isola Nesi, a soli vent’anni finì sotto la lente della Polizia politica. Il suo fascicolo venne infatti aperto nel 1932, pochi giorni dopo la denuncia che lo aveva raggiunto dalla questura di Firenze per essersi iscritto alla sezione del Partito comunista d’Italia segretamente ricostituitasi a Prato. Quel giovane minuto e dai capelli ondulati, finallora privo di qualsivoglia ruolo attivo in campo politico, era stato descritto – secondo la tipica retorica utilizzata dai fascisti nei confronti degli oppositori – come un ragazzo dal «carattere impetuoso, ozioso, di comune intelligenza» e di «limitata cultura, avendo frequentato solo la scuola elementare». Eppure la sua scaltrezza gli aveva permesso di ottenere subito credito come «fiduciario di zona dei giovani comunisti», aspetto ancor più rimarchevole se considerata la natura manifatturiera di un’area come quella di Prato. Nella città del tessile si era recato nel 1927 in cerca di lavoro, trovandolo come manovale e lanino: a Pistoia aveva lasciato la sorella Fulvia e il cognato Alfredo Boni, entrambi definiti di «buona condotta morale e politica»[2].

Braccato e denunciato al Tribunale speciale – il 30 giugno 1932 – per «organizzazione comunista», Fedi fu quindi costretto alla fuga. Iscritto alla Rubrica di frontiera, al Bollettino delle ricerche e in possesso di documenti falsi per eludere il mandato di cattura (emanato il 23 luglio), diede inizio ad un lavoro di depistaggio che lo accompagnò per tutto l’arco della sua lunga latitanza. Per uscire dall’Italia utilizzò la falsa identità di Aldo Ferri, munito di un passaporto spagnolo «rilasciato dal Gobernador Civil di Oviedo il 16 gennaio 1932 e intestato a don Pedro Antonos, nato a Bilbao il 14 febbraio 1904»: l’uomo risultava arrivato da Bardonecchia il 19 aprile 1932 e ripartito da Livorno il 23 seguente, diretto a Marsiglia dopo una tappa nella città corsa di Bastia. Una traiettoria estremamente battuta all’interno della rete clandestina antifascista. La vera identità di “Ferri” fu scoperta solo alla fine dell’agosto 1932: Fedi – indicava il prefetto di Firenze, Luigi Maggioni – aveva «effettivamente fatto ritorno a Prato il 20 aprile [1932], da dove si era allontanato qualche mese prima, ed […] essendo per ragioni politiche ricercato, riuscì a fuggire come ha scritto ai familiari, espatriando proprio dal porto di Livorno il 23 aprile stesso e riparando in Corsica».

Nel frattempo la sua attività aveva già conosciuto ulteriori evoluzioni, procedendo anche in Francia la militanza nelle file comuniste. Non passò comunque molto perché la sorveglianza fascista ottenesse un primo risultato: Fedi scoprì infatti che a segnalarlo alla polizia fiorentina era stato Giuliano Giovannelli, zio di Nella Giovannelli, maestra elementare di San Giusto con cui aveva avuto una relazione. Decise pertanto di scrivere all’indirizzo del suo detrattore una lettera durissima, accompagnandola con alcuni espliciti ritagli de “l’Unità” ed un opuscoletto relativo al XV° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre:

Oggi stesso sono venuto ad avere un colloquio con un compagno che sono pochi mesi che è giunto dall’Italia, dove io [h]o voluto che esso mi facesse una relazione sul mio conto. E mi è stato riferito che il colpevole della mia causa sei stato tutto te. Non credevo mai…Sì, sei te il traditore del proletariato del nostro paese? Vigliacco: vergognati, un artigiano rovinato come sei tu mettersi al servizio della société del mondo attuale. Quando vedi un proletario ogni giorno che lotta per le tue rivendicazioni e te vai a denunziarlo che esso lotta per un miglioramento di vita per tutta la classe lavoratrice, e per i contadini che dona tutta la sua vita per coloro che non hanno ancora compreso cosa è il Fascismo e tu vai a fare la spia? Vergognati. Sfido io se fossi un uomo che avresti un po’ di umanità dovresti fare il tuo volto pieno di rossore quando passi di fronte a un lavoratore. Perché sei un suo traditore, un disgregatore delle file rivoluzionarie del proletariato dove i meglio combattenti portano una lotta senza quartiere per un benessere di tutta l’umanità sofferente, e te vile uomo dal cuore di marmo vai per le sedi della questura a denunciare il suo ideale, il suo pensiero che essi vogliono sferrare gli anelli delle sue catene fasciste. Dimmi uomo senza cuore cosa [h]ai raggrumolato durante (11 anni) di dominio fascista? Parla su questo punto perché è molto importante. Nulla, non è vero? Altro che miserie e torture e sacrifici e fame, giorno-giorno. Questo non lo puoi negare, lo so meglio io che te da che andavi a farti prestare 10 lire per mangiare in quel giorno. Uomo venduto, uomo senza cuore sei stato a venderti al Fascismo per un tozzo di pane, cioè forse per la gloria, ti contentavi soltanto che venisse a pronunciare un linguaggio che dicesse: bravo Giovannelli, tu sei un vero e proprio italiano, un vero fascista. Non è vero? Uomo che sa cosa è il Fascismo, un uomo che è stato come da…ti sei ridotto a fare la spia? Vergognati mascalzone. Traditore della classe sfruttata. Forse lo facevi per via venissero a metterti alla [g]reppia? 1°) Ti ricordi quando ero latitante il giorno 21 aprile che [venisti] a trovarmi nella capanna, che mi dicesti questa sera verrai a dormire in un posto che te lo procuro io. Volevi farmi arrestare, non è vero? Furbo il gatto, ma furbo il topo. 2°) Ti ricordi quando alla tua nipote gli mandasti quella lettera che gli spiegavi che faceva all’amore con un comunista, con l’uomo più pericoloso del paese, e gli dicevi che era il prete del paese che l’aveva inviato? Per via che essa venisse a intimorirsi che il nostro amore venisse a troncare. Ma tutto il contrario. Fu forte e potente. Perché facevi tutto questo? Sfido che l’indovino, ascolta: perché siete molto amanti del denaro, siete gente che vivete per un soldo soltanto. Vi piace di vedere le gemme d’oro tanta ricchezza. Avete molto la mentalità borghese. Siamo noi proletari ad ammirarsi che si trova, che siamo gli sfruttati, che noi non ha nessun mezzo di sussistenza, che noi lottiamo efficacemente per mandare in un fondo precipizio la società attuale per un benessere della classe proletaria come hanno fatto i nostri fratelli russi che loro hanno saputo liberarsi dalla schiavitù zarista. Quindi molti vorrebbero impedirla questa lotta, e una tra i quali sei te uomo malvagio. Quello che mi denunciavi lo avevi indovinato. Sì lo ero e non mi vergogno a ripeterlo, e sempre lo sarò, sono molto orgoglioso di essere un giovane comunista, un vero e proprio rivoluzionario che tutti i giorni porta una lotta che non ha fine. Guarda, prendi questo esempio: tu sei stato alla guerra, hai lasciato tutto sul fronte per difendere la borghesia dove molti e molti dei lavoratori hanno lasciato tutti la sua vita, molti sono restati mutilati, molti bimbi sono restati senza babbo, senza una gioia, senza felicità. E te, voi, a tradire il proletariato. Mascalzone, ricordati che presto tornerò che nulla mi sono dimenticato di quello che [h]ai fatto. Sono giovane e tutto sono bono ad affrontarti. Non credere che io venga dicendoti così che io soffro perché sono lontano dal mio paese. Non è soffrire trovandosi lontano dalla gente che amo e quello che [h]o sempre amato, ma soffrono coloro che della vita fanno mercato come uno tra i quali sei te che vai mettendo la tua vita all’asta e la vendi. Cesso di mandarti tante di queste parole ma ne avrei ancora da farti un lungo romanzo perché ritrovandomi all’estero mi sono ancora più istruito.[3]

Nell’inviare l’epistola, Fedi dovette necessariamente indicare un suo pur generico riferimento: Bar Restaurant Gino, 288 Avenue D’Arles, Marsiglia. Consapevole di essere stato individuato, cercò così di sviare ancora una volta la polizia annunciando la sua immediata partenza per Nizza.

Nell’aprile del 1933 risultava in realtà ancora residente nel capoluogo provenzale, dove – comunicava il console reggente Valeriani – figurava «abbastanza» attivo «nella locale sezione del Partito comunista, che ha sede presso il Club International des Marins». Sicuramente si spostò invece nel giugno 1933, inviato a Tolone dall’Organizzazione centrale comunista di Parigi; all’incarico nel dipartimento del Varo ne seguì poi un altro «per propaganda» nel vicino comune di La Seyne-sur-Mer. Qui – sotto i falsi nomi di Feoli, “Masaniello”, “Alfredo” e “Fieno” – partecipò all’organizzazione del Congresso dei comitati del Fronte unico antifascista ed entrò in contatto con Giorgio Salvi, celebre antifascista di Poggibonsi che proprio in quel momento stava per completare un lungo giro della Francia in cui si era impegnato a propagandarne la causa[4]. Fedi stesso sarebbe stato tra gli oratori della prima adunanza del Fronte a Marsiglia (24 e 25 dicembre 1933), appuntamento a cui presero parte anche il dottor Giuseppe Berti, Giacinto Bruno Serrati, Bruno Monciatti, Angelo Lucchi, Giuseppe Steddatu, Pasquale Donno, Alighiero Bonciani, Amedeo Frosine, Celestino Vittone, Alessandro Bandoni, Gino Bagni, Attilio Millin, Ettore “Trinca” Privilegi, Ovidio “Lupo” Pessi e Silvano Picchi.

Nel luglio del 1932, peraltro, aveva intrattenuto un breve carteggio anche con l’anarchico Errico Malatesta (indirizzando le lettere alla moglie Elena Melli), già gravemente malato e destinato a morire pochi giorni dopo (il 22 luglio) l’ultima lettera di Fedi (datata 15 luglio). Al centro dello scambio era finita la volontà di alcuni antifascisti italiani di chiudere la pubblicazione di “Lotta”, periodico comunista spesso vicino ad alcune delle posizioni espresse dall’Unione anarchica italiana: una scelta con la quale il nativo di Pistoia si era mostrato in sostanziale disaccordo, evidenziando indirettamente le distanze che ormai persistevano tra la base del Pcd’I e il movimento anarchico italiano[5]. Tra il 1933 e il 1934 furono invece frequenti i suoi contatti con Mazzino Chiesa, membro della Federazione italiana dei lavoratori del mare che – sotto le direttive del comitato centrale del Pcd’I di Marsiglia – aveva ricevuto l’incarico di organizzare i marittimi delle «navi mercantili italiane che tocca[va]no quel porto» e di avvicinarli «distribuendo loro stampa del partito e tessere»[6]. Era stato proprio Chiesa – stando alla ricostruzione del capo della divisione Polizia politica Di Stefano – a chiedere a Fedi un aiuto nella divulgazione del materiale propagandistico, almeno fino a quando il pistoiese non si imbatté erroneamente nel console:

Per il mattino alle ore 9 del 15 aprile 1934 la S.S. Italia (O.N.D.) aveva organizzato una corsa ciclistica che ha ottenuto un brillantissimo successo. Durante le operazioni preparatorie della partenza, due individui modestamente vestiti ed assai giovani di età incominciarono ad aggirarsi fra i corridori distribuendo manifestini. Essi si avvicinarono anche a me e me ne diedero. Constatato – come supponevo – che si trattava di manifestanti antifascisti, strappai quelli che avevo in mano e rivolgendomi a colui che me li aveva dati, feci il gesto di strappargli di mano il poco che teneva ancora. Ne seguì una discussione assai vivace, nel corso della quale, avendo io detto che non eravamo in sede adatta per fare della politica e che volevo sapere che cosa volessero da noi, uno dei due si tolse la giacca e propose una “partita di pugni”. Risposi tranquillamente e semplicemente volgendo le spalle; l’individuo (che nel frattempo avevo riconosciuto per il Fedi Mazzino, ben noto a codesto R. Ufficio) disse allora “sapremo ritrovarti”; rivoltomi allora verso di lui gli dissi: “Ti aspetto e perché tu non abbia a sbagliare ti dico che sono il Console”. Il Fedi, seguito dall’altro che si era sempre tenuto tranquillo, si allontanò quasi immediatamente, ma continuò a distribuire gli stampati. Persona che si trovò poi vicina a lui nello stesso tram che li riconduceva a Tolone, lo ha udito dichiarare che “se avesse saputo che parlava con il Console non avrebbe fatto così” ed ha constatato che il Fedi era leggermente preoccupato delle conseguenze del suo gesto. Tale preoccupazione non gli ha però impedito – a quanto pare – di ricominciare nel pomeriggio al Velodromo di La Seyne. In una riunione ivi organizzata dai francesi, i corridori vincitori della mattina dovevano fare un “giro d’onore”. Erano quindi presenti alcuni dei dirigenti della S.S. Italia ed uno di questi (Germinale Cantone, organizzatore della Squadra Ciclistica) fu preso a mal partito; incidenti seri sarebbero stati evitati unicamente grazie all’intervento del padrone del Velodromo (M. Philip) che fece intervenire un agente che espulse uno dei figuri che peraltro non pare fosse il Fedi (che però era presente).

L’episodio portò Fedi (sotto l’ennesima falsa identità di Rolando Caccioni) all’arresto, avvenuto a Tolone nei primi mesi del maggio 1934.

[1] Cfr. I. Cansella, Volontari in guerra, in http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/percorsi_volontari_ita.htm (ultima consultazione: 3 giugno 2021).

[2] Fedi aveva anche un’altra sorella, Olga, coniugata con Federico Marchi.

[3] Come anticipato, alla lettera – qui riportata per intero – seguivano anche alcuni ritagli de “l’Unità” e un opuscolo. I primi – del 17 e del 25 novembre 1932, anno IX – recavano due articoli indicativi: Le promesse e i fatti del Decennale nei discorsi del fascismo e Le contraddizioni del fascismo, firmato Ercoli (Palmiro Togliatti). Sul bordo della testata, Fedi aveva inoltre appuntato: «Fedi Aldo, russo, nato a Mosca, Lenin». Il volantino invece era titolato 7 novembre 1917 – 7 novembre 1932. Difendiamo la nostra patria socialista! Lottiamo per fare come in Russia, riferendosi ovviamente al XV° anniversario della Rivoluzione russa.

[4] Dopo lo scioglimento della Concentrazione antifascista, alla quale il Partito comunista d’Italia non aveva aderito, sorsero alcuni organismi unitari che ebbero però breve durata. Tra questi vi fu anche il Fronte unico antifascista, destinato a precedere la linea dei Fronti popolari della seconda metà degli anni Trenta. Quanto a Giorgio Salvi (1896-1979), dal 1928 era entrato a far parte – assieme ad Angelica Balabanoff – del Comitato esecutivo del Bureau International des Partis Socialistes come rappresentante del Psi, carica che ricoprì fino al 1933. Dal 1933 al 1936 proseguì invece il suo impegno nel Comitato centrale del Comitato mondiale per la lotta contro il fascismo, noto appunto come Fronte Unico Amsterdam-Pleyel. Cfr. https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=49707.

[5] La morte di Malatesta venne fatta passare sottotraccia dalla stampa italiana. Uscì un solo trafiletto su “l’Unità”, dove l’anarchico veniva comunque definito «politicamente morto» da diverso tempo.

[6] Cfr. S. Gallo, Mazzino Chiesa, un uomo in mare, in https://www.toscananovecento.it/custom_type/mazzino-chiesa-un-uomo-in-mare/ (ultima consultazione: 3 giugno 2021).




Aspettando la rivoluzione: dai grandi scioperi alla “nascita” del PCdI a Firenze.

L’Italia del 1919-’20: un Paese spaesato, diviso, violento, gravato dal sommarsi di paure diverse e nuove, da consolidata estraneità nei confronti dello Stato, ostilità o indifferenza verso una classe dirigente spesso lontana e impermeabile, da un diffuso antiparlamentarismo, gravato dalla crisi economica, da disagio sociale, segnato dagli effetti di  una pandemia – la Spagnola – e dalle conseguenze del primo conflitto mondiale.

Firenze è parte di questo contesto. Anzi qui semmai le divisioni sono ancora più nette e gravi. La città è dominata da una classe dirigente conservatrice, ostile alla stella politica giolittiana, forte dei domini terrieri, signori dei poderi mezzadrili, detentori del potere politico ed economico. La propria superiorità rispetto ai ceti inferiori è un dato di fatto, una distanza naturale e incolmabile. Per povertà e disagio sociale può esserci solo benevolenza, paternalistiche concessioni, beneficenza. La città è stata interventista, intellettuali e studenti, professionisti si sono mobilitati, del resto proprio Firenze era stata sede della fondazione del movimento nazionalista, dimora di D’Annunzio, frequentata da Marinetti e dai futuristi. Fili ed eredità che si ritrovano nella fioritura di tante associazioni nazionaliste e anticomuniste nel dopoguerra, fra le quali anche un fascio abbastanza debole e precario. Ma è anche città di una crescente classe operaia. Paradossalmente proprio grazie alla guerra.

Firenze non era città di vere grandi fabbriche, se confrontate alla realtà del nord. I maggiori stabilimenti nel primo dopoguerra contano fra i 1000 e 2000 addetti. Ma è città di manifatture, che si radicano nella tradizione artigiana del territorio, pur in assenza di grandi stabilimenti è anche città operaia, frutto di uno sviluppo relativamente recente fra il primo decennio del secolo e gli anni della guerra. Di una classe operaia di tradizione artigiana, fiera del proprio mestiere, del proprio lavoro frutto di arte e conoscenze. Ancora a fine ‘800 la tradizionale dimensione agraria della classe dirigente fiorentina e la volontà di mantenere l’immagine di una Firenze d’arte e cultura avevano limitato lo sviluppo produttivo in una realtà frammentata e dispersa. Solo in età giolittiana ha una prima crescita, ma soprattutto negli anni del primo conflitto mondiale con la mobilitazione bellica degli stabilimenti, ad esempio le Officine Galileo passano dal 1907 al 1917 da circa 200 a circa 2000 addetti.

Una crescita che parallelamente vede l’esplosione di una presenza organizzata del sindacato e del partito socialista.  Nel 1920 il PSI conta oltre 8700 e la Camera del Lavoro oltre 63.000 soci divisi in circa 218 leghe. Una massa arrabbiata per i sacrifici e le scelte della guerra si organizza in una straordinaria rete di associazioni mutualistiche, ricreative, cooperative, accanto a quelle di partito e sindacato, trovando piena espressione nella dirigenza massimalista che ne ha assunto il controllo. Proprio la prospettiva neutralista e l’ostilità verso il conflitto mondiale accrescono i consensi dell’ala più intransigente del Psi fra le masse dei lavoratori già esasperate dalla precarietà e dalla durezza delle proprie condizioni lavorative. Peraltro la componente riformista, nonostante fosse ancora rappresentata da uomini come Giovanni Pieraccini e Giuseppe Pescetti e fosse radicata nelle associazioni economiche, sindacali e cooperative, aveva subito un duro colpo a seguito della svolta intervista di suoi numerosi esponenti, a partire dal direttore del periodico del partito “la Difesa”, Michele Terzaghi, espulso insieme all’on. Carlo Corsi. Tanto che proprio negli anni della prima guerra mondiale Firenze è definita la “capitale dell’intransigentismo”. La città aveva ospitato nel 1917 la Direzione nazionale del Psi che indica il sentimento patriottico come incompatibile con il marxismo e, in novembre, la riunione costitutiva dei gruppi “intransigenti-rivoluzionari” di Lazzari, Serrati, Gramscie Bordiga.

Un ruolo dominante dell’ala massimalista e rivoluzionaria che è ulteriormente rafforzato dal difficile contesto del dopoguerra. Fin dai primi mesi di pace tutte le categorie avanzano rivendicazioni e attuano scioperi. Alla Galileo sono molteplici le rivendicazioni per carovita o obiettivi politici. Centro dei moti per il carovita nel ’19 (con oltre 1400 arresti e oltre 400 persone mandate a processo) ai quali partecipano gli operai che raccolgono il malcontento di una comunità prostrata dal conflitto e dalle scelte governative dell’immediato dopoguerra. Del resto tutta la regione è scossa da tensioni e scontri. Nel 1919-1920 la Toscana è la seconda regione per numero di scioperi agricoli, seconda solo all’Emilia Romagna. I proprietari sono costretti nel corso del ’19 a rivedere le proprie posizioni e a concedere aumenti salariali.

Nel 1920 la situazione precipita. Toscana ed Emilia spiccano per numero di scioperi in un contesto nazionale che vede peraltro il nostro Paese al primo posto a livello europeo nel primo semestre di quell’anno. A gennaio quelli dei postelegrafonici e quindi dei ferrovieri aprono, pure a Firenze, una lunga scia di agitazioni, che vedono emergere sempre più la figura di Spartaco Lavagnini segretario della sezione fiorentina del sindacato ferrovieri. Proseguono le lotte agrarie. Nella primavera scontri prima in Emilia, poi in Toscana provocano vittime fra i lavoratori delle campagne e con scelte dal basso viene proclamato lo sciopero  a Firenze, Piacenza, Bologna e Modena. Dopo mesi di tensioni il 7 agosto 1920 viene firmato il nuovo patto colonico regionale fra agrari e Federterra. Ma la disputa sui patti agrari fra popolari e agrari nell’autunno del ’20 rimette tutto in discussione.

Anche nel mondo dell’industria i fronti contrapposti si muovono, gli industriali si organizzano in proprie associazioni, a maggio nel corso dell’ottavo congresso della FIOM Bruno Buozzi fa approvare un documento che chiede aumenti salariali del 40%, indennità di licenziamento, dodici giorni di ferie pagate all’anno. La CGdL approva i consigli di azienda destinati a tutelare i lavoratori in fabbrica e intervenire nell’organizzazione del lavoro. Per gli industriali è troppo. Contratti, diritti, miglioramenti delle condizioni di lavoro sono pretese inaccettabili in una totale negazione della dignità del lavoratore e del lavoro tanto più offensiva in un territorio come questo segnato da forti tradizioni e culture professionali. Non è solo una questione economica, è ancor prima una questione di rispetto mancato, negato, di riaffermazione di potere, gerarchie, tradizioni. Reazioni consolidate ma che diventano inaccettabili in un momento in cui davvero si vede la rivoluzione scuotere l’Europa. I lavoratori si muovono.

A Firenze il clima è già incandescente. 10 agosto  a Firenze in via Centostelle viene fatta saltare in aria la polveriera di San Gervasio provocando otto morti e molti feriti. 29 agosto comizio socialista a Firenze all’interno della campagna nazionale del partito per chiedere la smobilitazione delle classi di leva ancora sotto le armi, eliminazione della censura sulla stampa, amnistia per i reati di guerra, rapporti politici ed economici con la Russia. Le forze dell’ordine sparano sul corteo dei manifestanti senza adeguato preavviso per fermare una parte del corteo, di giovani, che volevano andare in corso dei Tintori verso la sede della Camera del Lavoro. 4 morti (tre operai e una guardia) e vari feriti. Mentre almeno cinquantamila persone con bandiere rosse seguono il funerale dei tre operai, viene proclamato lo sciopero generale.

L’occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20 ha una partecipazione compatta e disciplinata delle poche grandi fabbriche e di molte delle aziende di modeste dimensioni. Dal 2 al 30 settembre l’occupazione interessa circa una decina di fabbriche e circa 3000 operai organizzate da fitta rete di rappresentanti di fabbrica, , commissioni interne, commissari di reparto, consigli di fabbrica, capaci di autogestire gli impianti che infatti, a differenza di altre regioni, continuarono a garantire ritmi di produzione quasi normali.

Aspetto qualificante delle lotte di fabbriche è l’attenzione prestata al tema della professionalità, al ruolo sociale e produttivo del lavoro. Aspetto che affonda le sue radici nelle caratteristiche di fondo della classe operaia fiorentina e che vede come corollario la lotta contro la concezione della fabbrica come dominio assoluto del padrone. C’è un’attenzione, quasi una cura della fabbrica, delle macchine, dei prodotti che segna la storia della classe operaia fiorentina e che emergerà in un momento drammatico quale la primavera estate del ’44 quando saranno gli operai a salvare le fabbriche dal trasferimento in Germania, voluto dai nazisti in ritirata, smantellandone i pezzi in modi tali da poterle poi, a liberazione avvenuta, ripararle, tutelando cose i beni dei padroni ma anche e soprattutto il proprio futuro e quello del Paese. La Pignone è la fabbrica che meglio rappresenta questa tendenza, non a caso nell’occupazione del 1920 commissione interna e commissari di reparto sono impegnati fortemente a dare prova di capacità e autonomia organizzativa e produttiva, la fabbrica sono anche loro perché senza il loro lavoro, senza la loro cultura del lavoro, la loro professionalità, i loro sacrifici, essa non esisterebbe, la fabbrica quindi non è solo il padrone. La rivendicazione del valore sociale ed economico del lavoro operaio sarà il filo rosso che segnerà tutte le diverse fasi del Novecento.

Contemporaneamente la dirigenza della sezione socialista conosce un processo di ulteriore radicalizzazione che si concretizza nell’esclusione degli esponenti riformisti dalle liste per le elezioni amministrative nell’autunno del 1920, che vedono peraltro la vittoria della lista “nazionale”. Al di là delle aspettative di massimalisti e comunisti, l’aspettativa della rivoluzione, spaventando ceti sociali diversi, consolida le forze conservatrici. A novembre la corrente comunista assume la guida della sezione urbana e di tutta la Federazione. L’adesione della maggioranza dei delegati fiorentini al Partito comunista d’Italia nel congresso di Livorno del gennaio del 1921 non appare quindi una sorpresa, ma il culmine del processo di radicalizzazione articolatesi negli anni e nei mesi precedenti. Infatti 4003 voti andarono ai comunisti, 3309 ai massimalisti e 229 ai riformisti. Come già sottolineava Giovanni Gozzini molti anni fa, tutta la regione vede una significativa adesione al nuovo partito, tanto che la Toscana ne è il secondo punto di forza a livello nazionale dopo il Piemonte. La scissione è maggioritaria nelle province di Firenze, Arezzo e Massa Carrara. Ma proprio a Firenze emerge uno degli elementi di maggiore novità del PCdI rispetto al PSI, pur nella stretta contiguità con valori e miti del massimalismo (che si rispecchiano in parte anche in una contiguità di classe dirigente): l’emergere di una nuova classe dirigente – ben simboleggiata dal segretario provinciale Spartaco Lavagnini – non solo espressione dei ceti operai e non più medio-borghesi, ma soprattutto interprete “di un rapporto diverso con le masse popolari, non più di tipo pedagogico e tribunizio – proprio degli “intellettuali” appartenenti alla tradizione socialista – bensì fondato su un’esperienza diretta di lotta e di organizzazione, molto più vicino alle aspirazioni e ai bisogni del popolo” [cfr. La formazione del partito comunista in Toscana 1919-1923, Quaderni dell’Istituto Gramsci – Sezione Toscana n. 3, Firenze, 1981, p. 208]. In città il nuovo partito riesce a strutturarsi significativamente e rapidamente grazie all’adesione plebiscitaria della Federazione giovanile socialista che porta in dote non solo entusiasmo, ma anche molte sedi, fondamentali per avviare un’organizzazione effettiva sul territorio. Immediato è l’impegno a costituire gruppi nei luoghi del lavoro, a partire dalle fabbriche; significativa la “conquista” della FIOM cittadina. Ma la strada appena imboccata non sarebbe stata agevole. E non solo per le divisioni a sinistra.

Firenze è, infatti, contemporaneamente precoce anche nelle violenze squadriste che intervengono a segnare la vita della città e della provincia, con la forza della violenza, proprio fra il dicembre del 1920 e i primi mesi del ’21, spinte dalle paure dei ceti medi spaventati dalla rivoluzione minacciata e soprattutto dai sostegni di agrari e industriali, la vecchia classe dirigente gravemente turbata dalla perdita del potere locale dopo le sconfitte alle elezioni amministrative tenutesi nell’autunno (con l’eccezione di Firenze città). Dopo il settembre delle bandiere rosse il quadro stava infatti rapidamente mutando e avrebbe colpito in primo luogo proprio la neonata sezione del partito comunista d’Italia con la barbara uccisione del suo segretario Spartaco Lavagnini, il 27 febbraio 1921. Troppo evocata, la rivoluzione aveva saputo suscitare e unire tutti i suoi oppositori proprio mentre i suoi sostenitori si dividevano ed isolavano, rimaneva mito e spettro, senza, del resto, essere mai stata realtà.




Nascita di una democrazia

«La Repubblica non fu e non doveva essere soltanto un cambiamento di forma di governo: doveva essere, e sarà, qualcosa di più profondo, di più sostanziale: il rinnovamento sociale e morale di tutto un popolo; la nascita di una nuova società e di una nuova civiltà» (Piero Calamadrei)

La nascita della Repubblica è stata giustamente considerata una data storica per il nostro paese, ma non è stata quello che si potrebbe definire ‘un parto facile’, tutt’altro. Non a caso intorno alle circostanze della sua proclamazione si addensano ancora oggi molti interrogativi cosi come le accorate e solenni parole di Piero Calamandrei sopra riportate non sono che un’aspirazione alla nascita di una ‘religione civile’ repubblicana nutrita a lungo da una componente dell’antifascismo.

Dopo una guerra sanguinosa e vent’anni di  dittatura fascista, proprio il 2 giugno 1946 l’Italia è chiamata ad un doppio compito: esprimersi sulla forma dello Stato (monarchico o repubblicano) e votare i partiti che saranno rappresentati all’Assemblea Costituente.
Alcuni decreti luogotenenziali avevano posto le basi legislative per il referendum: quello del Governo Bonomi (n. 151 del 25 giugno 1944) e soprattutto tre del governo De Gasperi  (16 marzo 1946, n.74, n. 98 e n. 99) che  integravano e modificavano la normativa precedente, affidando appunto ad un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello stato e fissando le norme per la contemporanea effettuazione delle votazioni per il referendum e l’Assemblea costituente, quest’ultima da eleggersi con sistema proporzionale.

Dopo molto tempo gli italiani tornano a votare democraticamente (in Italia non accade dal 1924, escludendo i plebisciti del 1929 e del 1934) e, inoltre, si tratta della prima consultazione in cui hanno diritto di voto le donne.
Il 31 gennaio del 1945, infatti, con il Paese ancora diviso ed il nord sottoposto all’occupazione tedesca il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne (Decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n. 23).
Questo è esercitato nel corso delle elezioni amministrative del marzo 1946 ma è sicuramente con il voto del giugno che la rappresentanza politica femminile acquista un valore che si può definire sicuramente fondativo della nuova democrazia repubblicana. Sui banchi dell’Assemblea costituente sedettero una prima pattuglia di donne: nove della Democrazia Cristiana, nove del Partito Comunista Italiano, due del Partito socialista ed una dell’Uomo qualunque.

Riguardo alla scelta istituzionale, le forze politiche si schierarono diversamente: il partito comunista, il partito socialista e il partito d’azione manifestarono apertamente la loro posizione repubblicana, insieme ovviamente al partito repubblicano.
Un’analisi più attenta va fatta sulla posizione tenuta dalla democrazia cristiana, che al suo interno aveva posizioni variegate. Nell’aprile 1946 si tenne il congresso di Roma dove la maggioranza della DC si schierò a favore della repubblica, ma con dei distinguo poiché al suo interno i rappresentanti del Nord erano quasi tutti in favore della repubblica, quelli del Sud per la monarchia. Nonostante questa scelta, probabilmente per la presenza di queste queste posizioni contrapposte, il partito non obbligò i suoi membri a votare in un senso piuttosto che in un altro. La stessa libertà venne lasciata ai membri del partito liberale, a netta maggioranza monarchica.

Un tentativo per portare la bilancia a proprio favore fu fatto dalla monarchia italiana: il 9 maggio 1946 il re Vittorio Emanuele III (che portava con sé la responsabilità di avere spalancato le porte al fascismo) abdicò in favore del figlio Umberto, una mossa che cercava di dare nuova luce alla monarchia ma che giunse troppo tardi.

Il nuovo corriereIl 2 giugno 1946 il popolo italiano si espresse in favore della repubblica. La campagna elettorale fu assai vivace, e l’affluenza alle urne fu altissima: votò l’89,1 per cento dei 28.005.449 aventi diritto, per un totale di 24.947.187 votanti. La forma repubblicana venne sostenuta da 12.717.923 voti contro i 10.719.284 a favore della monarchica.
I risultati del referendum mostrarono concretamente come le forze politiche del Paese erano geograficamente spaccate tra Nord e Sud. Culla dei voti monarchici fu proprio il Mezzogiorno dove questi cercarono il loro consenso nel tentativo di colmare le distanze nei confronti dei repubblicani, ben consci del fatto che sarebbe stato inutile condurre tale operazione al Centro e al Nord. Lo stesso Piemonte, padre della dinastia, a seguito del referendum darà una netta maggioranza repubblicana.
Nelle elezioni per la Costituente, la Democrazia cristiana divenne il primo partito (35,2%), seguito da due partiti di sinistra, il Psiup (20,7%) e il Pci (19%).
Il 13 giugno, dopo la pubblicazione ufficiale dei risultati, Umberto II lasciò l’Italia e partì in esilio per il Portogallo. Luigi De Nicola, liberale, venne eletto Presidente provvisorio.

In Toscana la scelta repubblicana è nettissima. Nel referendum istituzionale i voti a favore della repubblica sono il 71,6 per cento; alla monarchia solo il 28,4 dei voti validi. Nelle elezioni per l’assemblea costituente, il Pci raccoglie il 33,6 dei suffragi, la Dc il 28,2, il Psiup-Psi il 21,9, il Pri il 5,6 mentre il Fonte dell’uomo qualunque il 4,2. Seguono il Partito d’azione (1,6) e i cristiano sociali (1,1). Il Pci sarà rappresentato da 14 costituenti, la Dc da 13, il Psiup-Psi da 10, gli azionisti da 2 e 1 il Pri. Il Partito d’azione, dalle cui fila provenivano esponenti di primo piano della Resistenza toscana e che non a caso aveva dato i tre presidenti del Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN) si scioglierà e i suoi rappresentanti confluiranno in diversi partiti. Tra i capoluoghi di provincia italiani, Grosseto e Livorno furono rispettivamente terzo e quarto nei voti a favore della repubblica (primi Ravenna con 91,2 e Forlì con 88,3).

La percentuale dei voti espressi per la Repubblica nei capoluoghi di provincia toscani fu la seguente:

schedaGrosseto 80,9
Livorno 80,5
Pistoia 74,3
Pisa 71,2
Massa 70,0
Arezzo 64,4
Firenze 63,4
Siena 59,2
Lucca 55,8

Una pagina fondamentale e fondativa della Repubblica democratica veniva cosi scritta e vedeva proprio la Toscana tra le regioni italiane che con più diffusa convinzione contribuiranno attraverso i propri rappresentati (tra gli altri basti qui ricordare il ruolo di primo piano svolto da Piero Calamandrei e Giorgio La Pira)  ai lavori dell’Assemblea Costituente che porteranno alla stesura della nostra Carta costituzionale entrata in vigore dal 1 gennaio 1948.

Festa nazionale già dal 1947 la celebrazione della data del 2 giugno non decollerà mai del tutto nella sua dimensione popolare, spesso ristretta ad uno  stanco cerimoniale fatto di parate militari e ricevimenti nei giardini del Quirinale fino ad essere soppressa nel 1977. Con la Presidenza di Carlo Azelio Ciampi  invece, in seguito alla L.336 del 20 novembre 2000, il 2 giugno è tornata ad essere una festa nazionale del calendario civile repubblicano, celebrata quale momento essenziale della storia unitaria.




Cantini e Ferrari: comunisti internazionalisti livornesi.

Quarta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

CANTINI  Astarotte (Bruno Baroni)

(Livorno 30.5.1903 – URSS settembre 1938?)

Cantini (1)Nato a Livorno nel 1903, da Milziade e Natalina Parenti, di professione è operaio-manovale. Il fratello Alessandro, classe 1907, è militante comunista. Già nell’immediato primo dopoguerra inizia la sua attività politica come militante rivoluzionario nelle fila del movimento anarchico e nel 1921, in qualità di anarchico convinto e di azione, come recitano i rapporti di polizia entra negli Arditi del Popolo partecipando a scontri di piazza contro i fascisti livornesi tra il 1921 e il 1922. Viene arrestato una prima volta, insieme ad altri tre anarchici livornesi (Virgilio Fabbrucci, Bruno Guerri e Ilio Scali, i cosiddetti bombardieri di via degli Avvalorati) nel giugno del 1922 per fabbricazione e detenzione di materiale esplosivo, da usare contro le squadre fasciste livornesi comandate dal tenente Marcello Vaccari e per questo condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Dopo aver scontato 13 mesi esce per amnistia nel 1923 e viene sottoposto a stretta vigilanza di polizia sino al settembre del 1924; successivamente svolge il servizio militare nella Regia Marina. Nel luglio 1926 è sottoscrittore del giornale anarchico Fede! e sempre in quel periodo emigra in Francia probabilmente sotto il falso nome di Bruno Baroni. Nel settembre 1926 fa parte di una delegazione operaia che visita l’Unione Sovietica, dove soggiorna per tre mesi, per poi rientrare in Francia. L’anno successivo si trasferisce a Esch-sur-Alzette, in Lussemburgo, dove continua la sua attività politica, redigendo e diffondendo giornali e altri stampati anarchici. Scrive più volte ai militanti anarchici Bruno Guerri e Athos Ricci per avere notizie delle situazione economica e politica di Livorno, da pubblicare eventualmente nella stampa anarchica. Nel 1928 viene espulso dal Lussemburgo insieme ad altri anarchici pericolosissimi (Adone Franchi, Luigi Sofrà e Giuseppe Morini) e si trasferisce in Belgio ma pochi mesi dopo ritorna in Francia, a Pavillons-sous-Bois e a Livry Gargan. Qui nel 1929 viene avvicinato da Natale Vasco Jacoponi, anch’egli livornese, militante del P.C.d’I. e passa dalla militanza  anarchica a quella comunista. In questa fase della sua vita politica, il Cantini diffonde a Marsiglia materiale del Komintern e tra le altre attività nel 1929 invia a Livorno, tramite posta clandestina, una copia del giornale Fronte Antifascista a Menotti Gasparri, suo amico sin dall’infanzia, nonché militante comunista livornese (che cadrà  in Spagna nel 1936), insieme a quattro talloncini in cui si invitano i lavoratori livornesi a lottare per l’aumento salariale del 20%  (nel 1929 il salario medio operaio  era diminuito drasticamente a causa della politica economica del regime fascista).  Costantemente vigilato dall’OVRA che lo classifica ancora come dirigente antifascista e come anarchico-attentatore, il Cantini nel 1931 o 1933 si trasferisce in Unione Sovietica, probabilmente utilizzando ancora lo pseudonimo di Bruno Baroni, grazie al quale riesce a trarre in inganno l’OVRA e a far perdere le sue tracce per qualche anno. Nel giugno 1933 infatti invia alla madre una falsa lettera proveniente da Le Havre, nella Francia settentrionale, nella quale le annuncia che dovrà lasciare  la Francia “per ragioni di lavoro”, nel tentativo riuscito di depistare l’OVRA che solo nel l’aprile 1935 sarà certa della sua presenza in Unione Sovietica. In Urss viene inviato dal Partito Comunista, ormai stalinizzato nel suo corpo dirigente, a studiare a Mosca alla MLS, la Scuola leninista. Terminati gli studi presso la scuola di partito, viene ulteriormente inviato come istruttore del Club Internazionale dei Marinai a Tuaspe, nel Kraj (territorio) di Krasnodar, nella Russia meridionale e successivamente a Voroscilovgrad, attuale Lugansk (Luhans’k), nell’Ucraina orientale, dove probabilmente lavora in una fabbrica di dirigibili, almeno fino al 1935 e dove nel 1937 ha dalla moglie Zina (detta Lina), cittadina sovietica, un figlio di nome Gino. Nell’aprile 1936, in una lettera alla madre, menziona un altro comunista italiano transfuga in Urss, Decio Tamberi, il quale deluso dal regime staliniano, gli confessa che vorrebbe rimpatriare in Italia perché non riesce ad adattarsi alla vita sovietica.  Negli ultimi anni della sua vita il Cantini rimane a Voroscilovgrad  (Ucraina), da dove esprime, nel giugno 1937, il proprio dispiacere per la morte in combattimento, sul fronte di Madrid, dell’amico Menotti Gasparri, comunista livornese già esule in Unione Sovietica e da dove scrive alla madre: “…quanto a me, mia moglie e Gino, siamo in ottima salute e speriamo che Gino cresca bene, così un bel giorno lo potrai vedere ed abbracciare. Mia moglie si trova in ferie per ancora due mesi dopo il parto con paga completa, e più 95 rubli per la nascita di Gino. La nostra vita è buona in tutto e per tutto, non si pensa al domani… ”. Già inviso alla dirigenza e ai quadri staliniani del Pci a partire dal 1935 a causa di alcune critiche che il Cantini aveva espresso in passato nei confronti della politica di Togliatti e di Stalin, per essere ideologicamente anarchico, non abbastanza disciplinato (secondo quanto conservato nella documentazione sovietica) e per aver frequentato elementi ritenuti vicino al trotskismo, tra il maggio e il giugno 1938 viene arrestato nella città di Voroscilovgrad con la falsa accusa di spionaggio e il 25 settembre dello stesso è condannato ad una pena imprecisata da una trojka del NKVD. Non vi è certezza sulla sua sorte, tuttavia possiamo affermare che il Cantini è stato probabilmente fucilato nell’immediato e sepolto in una fossa comune, insieme a centinaia di trotskisti. Riabilitato nel luglio 1956, nella cosiddetta fase di destalinizzazione, avviata dal segretario generale del PCUS Nikita Chruscev, il suo nome tuttavia resta dimenticato dal P.C. livornese, a causa della sua morte da antistalinista.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE

Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Biblioteca Franco Serantini, collezioni digitali, dizionario biografico degli anarchici italiani, ad nomen; Memorial, Italiani in Urss, schede biografiche, ad nomen; Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (Anppia), Antifascisti nel casellario politico centrale, Quaderni i-xix, Anppia, Roma 1988-1995, ad nomen.

FERRARI  Fernando

(Livorno 19.7.1900- Livorno 28.5.1943)

Nato a Livorno nel 1900 da Girolamo ed Elisabetta Di Rosa, di professione è facchino portuale, successivamente venditore ambulante, in ultimo operaio al cantiere Odero-Terni-Orlando. Segnalato inizialmente come anarchico, agli inizi degli Anni Venti si evidenzia per la sua attività antifascista. Nel dicembre 1922 viene condannato dalla Corte d’Appello di Lucca a 3 anni 10 mesi e 20 giorni di reclusione per aver sparato ad un fascista ferendolo,  nel corso degli avvenimenti sanguinosi che in quegli anni videro contrapporre le squadracce e i “sovversivi” nella città di Livorno. Amnistiato nell’ottobre del 1923, emigra per un certo periodo in Francia, per poi rientrare in Italia. Si avvicina quindi al Pcd’I divenendo probabilmente militante in quegli anni. Nel marzo 1930 viene fermato e subisce una perquisizione domiciliare nel corso della quale viene rinvenuto un pugnale, che gli viene sequestrato e per ciò viene condannato, il 1 giugno di quell’anno, ad una ammenda di L. 100 per omessa denuncia.  Nel dicembre 1930 è invece arrestato insieme ad altri dirigenti del Partito Comunista livornese in una vasta operazione di polizia mirante a smantellare l’organizzazione territoriale clandestina del Pcd’I: il Ferrari è ritenuto essere capo della cellula del rione Borgo San Iacopo, dove risiede, nonché comandante della squadra d’azione (servizio di sicurezza) del settore di Piazza Mazzini. Dalle carte d’archivio si apprende che tra il 1929 e il 1930 si era effettivamente ricostituita a Livorno l’organizzazione comunista clandestina, che risultava divisa in due settori: Barriera Garibaldi (Livorno Nord) e Piazza Mazzini (Livorno Sud). Ogni settore a sua volta era diviso in diverse cellule che variavano di numero in base ai quartieri e ai luoghi di lavoro e ogni dirigente aveva dei compiti prestabiliti. Il settore Sud, quello di Piazza Mazzini, diretto da Arturo Silvano Scotto aveva tra fiduciari: Oreste Baldi, per la stampa e la diffusione nei quartieri e nei luoghi di lavoro; Rosolino Pelagatti per il Soccorso Rosso e Fernando Ferrari per il servizio sicurezza, chiamata squadra d’azione. Al momento dell’arresto gli viene sequestrata anche una somma pari a lire 230 a lui versata dagli altri capi cellula, frutto di una raccolta fondi, per l’acquisto di armi. In effetti Ferrari si sarebbe dovuto occupare dell’acquisto in quei giorni di una sessantina di rivoltelle ed altre armi, cosa che sfumò a causa dell’arresto. Deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato il 24 dicembre 1930, viene condannato nel maggio successivo a quattro anni di reclusione, tre anni di vigilanza ed esclusione perpetua dai pubblici uffici per il reato di ricostituzione del Partito Comunista e per propaganda sovversiva, condanna che sconta nelle carceri di Roma e Civitavecchia. Scarcerato nel novembre 1932, in quanto beneficia dell’amnistia del “Decennale”, rientra a Livorno, dove viene costantemente vigilato. Fermato nel marzo 1933, insieme a moltissimi altri comunisti, in occasione dei funerali di Mario Camici e per l’esplosione notturna di due ordigni presso il Dopolavoro San Marco e la caserma della MVSN, viene rilasciato dopo pochi giorni. In un elenco del 1934 dove sono segnalati i nomi dei militanti del Partito comunista espulsi per attività controrivoluzionaria (elenco rinvenuto dalla Polizia politica fascista), risulta essere stato espulso dal Partito comunista non per aver inoltrato domanda di grazia, cosa che fece nel settembre 1931, ma per un non meglio precisato tradimento, forse perché probabilmente vicino alle posizione bordighiste o trotskiste. Dopo aver esercitato il mestiere di venditore ambulante, nel maggio 1937 viene assunto in qualità di operaio al cantiere navale Odero Terni Orlando, ma nell’ottobre dello stesso anno viene nuovamente arrestato per aver rifiutato di dare indicazioni sulla propria identità personale alle forze dell’ordine e condannato al pagamento di un’ammenda di L. 50. Nel gennaio 1938 viene scarcerato e riprende l’attività lavorativa presso il suddetto cantiere Orlando. Costantemente vigilato, in quanto ancora comunista, Ferrari muore a Livorno nel corso del bombardamento aereo alleato del 28 maggio 1943 che distrusse buona parte della città.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile.




Livorno 1921. Ipotesi su una bandiera

Il Telegrafo / La Gazzetta Livornese 1º maggio 1923:

Due bandiere rosse sequestrate dai fascisti.

Dai fascisti dalla Sezione delle Case Popolari sono stati sequestrati nelle case di due ferrovieri due vessilli rossi: uno di seta con frangia nera, appartenente alla Sezione comunista di Livorno e l’altra al gruppo socialista «Spartaco».

Le bandiere sono state consegnate ai dirigenti del Fascio.

  Da questo vecchio articolo potrebbe iniziare una nuova ricerca per ricostruire la vera storia della bandiera della Sezione di Livorno del Partito Comunista d’Italia, attualmente esposta a Livorno presso il Museo della Città, dopo il difficile recupero e restauro compiuto nel 2015, durante cui è andato perduto ciò che restava sui bordi delle frange originarie (nere o dorate).

La sua storia – orale – è abbastanza nota: cucita da compagne livornesi, si sarebbe salvata dalle incursioni fasciste e durante il periodo della clandestinità, dopo essere stata nascosta da Ilio Barontini e da Armando Gigli sino alla Liberazione. Dopo di che sarebbe stata conservata presso le sedi della Federazione del PCI per approdare al Circolo democratico S.Marco-Pontino “Lanciotto Gherardi” con sede in via Garibaldi.

Sempre secondo la memoria tramandata, questa sarebbe stata la prima bandiera della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, risalente alla fondazione nel gennaio 1921 e avrebbe persino sventolato sul Teatro S. Marco.

Telegrafo 1MAGGIO23

Telegrafo 1MAGGIO23

L’articolo del maggio 1923 sembra però contraddire tale datazione. Innanzitutto, va precisato che all’epoca i vessilli delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio erano uniche e quindi è da escludersi l’esistenza di due bandiere per la stessa sezione locale del PCdI, come di qualsiasi altro sodalizio sovversivo.

Infatti, il momento dell’inaugurazione era politicamente e simbolicamente importante, tanto che avveniva in forma solenne in occasione di manifestazioni, come il Primo Maggio, o con feste collettive dedicate proprio a tale presentazione, comprendenti significativi discorsi degli esponenti del partito o della lega.

Soltanto l’usura o la perdita accidentale di tale bandiera poteva motivare la fabbricazione e la comparsa in pubblico di una nuova.

L’articolo in questione non lascia quindi molti dubbi sul fatto che il sequestro si riferisce con ogni probabilità alla prima bandiera della sezione comunista livornese.

La successiva consegna della stessa, come trofeo di guerra, alla sede del Fascio in piazza Cavour era poi una “consuetudine” fascista, così come ricordato da Garibaldo Benifei nelle sue memorie che vi aveva veduto: «una sala in cui stavano in bella mostra, come trofei di caccia, le bandiere conquistate ai “rossi” durante le spedizioni, gli agguati, gli scontri».

Almeno parte di tale raccolta venne trasferita a Roma, assieme ad altri cimeli, nel 1932 per la Mostra della Rivoluzione Fascista, ma soltanto alcune bandiere provenienti da Livorno sono state recuperate e si trovano conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato; per cui, si può affermare che quella comunista è andata perduta, magari nelle contingenze belliche.

Il dettaglio della frangia nera è inoltre comune a numerose bandiere comuniste – ed anche socialiste – dell’epoca.

La bandiera che è arrivata sino a noi potrebbe dunque, pur essendo del tutto autentica, essere quella che sostituì, in un momento successivo, quella sequestrata dai fascisti.

A rafforzare tale sospetto, ci sono due elementi. La scritta nera nella parte inferiore del campo rosso, con la dicitura Sezione di Livorno, appare in caratteri diversi e meno elaborati, rispetto all’iscrizione superiore – Partito Comunista d’Italia – ricamata in un bellissimo stile Liberty.

Anche in fase di restauro, è stato osservato che la scritta inferiore risulta realizzata in un momento successivo, come per adattare e connotare una bandiera pre-esistente, circostanza questa alquanto improbabile se si fosse trattato della prima bandiera del neonato partito.

In secondo luogo, può essere interessante una considerazione iconografica, in base al confronto con tutte le bandiere comuniste note del periodo; talvolta senza simboli (come quella di Pitelli). Il simbolo centrale della stella con inscritta la falce e martello (peraltro posizionati in senso contrario rispetto all’orientamento tradizionale) risulta del tutto inconsueto, per non dire eccezionale, nel 1921. Come si può constatare pure nelle tessere del Partito, la stella, di derivazione sovietica, entrò infatti nella simbologia comunista soltanto anni dopo – anche perché in Italia era legata ad altri movimenti e contesti culturali – e quindi rafforza la convinzione dell’esistenza di un’altra storia, ancora sommersa e tutta da scrivere.

Un’altra bandiera comunista scomparsa nel vortice della guerra civile è quella della Federazione giovanile di Livorno, con sede in via Solferino devastata nel 1922 dai fascisti, ricordata dal militante Ilio Paperi (“I giovani livornesi affrontano i fascisti sulle piazze”): «anche noi giovani comunisti s’aveva una bandiera bellissima più grande di quella della federazione adulta, e che purtroppo non è stata mai ritrovata».

 




Vittorio e gli altr*: storie di guerra, di scelte e di lotta in terra di Siena

Per il comunista Vittorio Bardini, noto al regime fascista fin dalla seconda metà degli anni Venti per la sua attività “sovversiva”, condannato al carcere e al confino, emigrato in Unione sovietica, combattente come volontario a difesa della Repubblica nella guerra civile spagnola, la scelta della Resistenza dopo l’8 settembre del ’43 è una strada segnata, la tappa decisiva di una lunga sfida, che lo sottopone ancora a prove estreme come la detenzione nel lager di Mauthausen, ma che lo porta nel 1946 a Montecitorio, eletto all’Assemblea costituente, “padre” della nuova Italia, anche in nome dei compagni caduti nella lotta, come Aldo Borri che negli anni Trenta aveva rinunciato al lavoro di insegnante piuttosto che iscriversi al partito fascista e che dopo l’8 settembre era diventato membro del Comitato militare clandestino senese, ma che era morto in conseguenza del primo bombardamento alleato sulla città, il 23 gennaio 1944.
Così era stato per gli “antifascisti storici” (p. 77), quelli che avevano fronteggiato il regime negli anni dell’Italia in camicia nera e che, dopo l’armistizio, non indugiano nella scelta della lotta armata, come ad esempio Giovanni Guastalli, commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini. Non solo uomini, è lo stesso per Norma Soldi e Alva Bucci che di quella brigata si definiscono “staffette di vigilanza”, sempre attente a riferire ogni mossa di tedeschi e fascisti. Accanto alle convinzioni ideologiche che guidano i comunisti, vi sono anche altri percorsi.
Per il giovane Vittorio Meoni è l’ambiente dell’Azione cattolico che lo spinge a posizioni sempre più critiche con il fascismo negli anni della guerra, fino all’avvicinamento al comunismo e alla scelta partigiana. Mentre non mancano ufficiali che, fedeli al giuramento al re, organizzano gruppi armati, come il colonnello Adalberto Croci, comandante del Raggruppamento Monte Amiata.
E poi vi sono coloro che, senza impugnare le armi e più per adesione ai valori umani che per consapevolezza politica fronteggiano la guerra e l’occupazione nazi-fascista boicottandone le direttive e proteggendone i “perseguitati”: dai propri figli richiamati alla leva fascista a perfetti sconosciuti, ma riconosciuti sempre come uomini (ebrei, disertori, ex prigionieri di guerra..), fino agli stessi partigiani. Fra questi spiccano figure di sacerdoti e religiosi, come il francescano Quirino Bulletti che aveva fatto nascondere ai partigiani le armi nel cimitero della confraternita della Misericordia di cui era cappellano, subendo poi l’arresto da parte dei fascisti o come i padri del Monastero di Monte Oliveto impegnati a nascondere gli ebrei e quindi a ricercare rifugi più sicuri rispetto alla loro stessa residenza. Ma fra i resistenti vi sono anche gli ufficiali e i soldati, ben 1328, che per essersi rifiutati di combattere con i nazisti e fascisti sono trasferiti nei campi di prigionia nel Reich, privati dello status di prigionieri – con le relative tutele, ridotti a “schiavi” a servizio dell’economia nazista, come Martino Bardotti ufficiale di Poggibonsi, reso fermo nella difficile scelta dalla formazione ricevuta in Azione cattolica.

CopertinaQuesti sono solo alcune delle figure che aprono – o che animano – i capitoli della nuova Storia della Resistenza senese pubblicata dall’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea: un volume importante e “ambizioso”, come ricorda Nicola Labanca nel suo saggio introduttivo non solo perché presenta una sintesi compiuta ed al tempo stesso agile, a molti anni dal precedente volume di Tamara Gasparri (allora, nel 1976, innovativo ed approfondito) e alla luce dei successivi sviluppi della storiografia, ma anche per il metodo adottato.

Il libro è infatti prodotto dal “gruppo di lavoro” dell’Istituto senese, composto non solo da generazioni, ma anche da professionalità diverse. Un lavoro in comune che deve aver comportato un complesso, ma certamente arricchente, processo di scambio e confronto, arricchito dall’apporto di competenze diverse, quali quelle dell’antropologia, visibili in particolare nelle pagine sul mondo mezzadrile, ma ben amalgamate lungo tutto il volume. Le diverse sensibilità infatti, probabilmente per la consuetudine ad un lavoro comune consolidatasi nel tempo, hanno infatti prodotto un testo omogeneo, scorrevole, intenso, dove le singole individualità degli autori possono apparire fra le righe, ma senza disorganicità. Il testo è stato indubbiamente possibile per il vasto impegno svolto fin dalla sua fondazione dall’Istituto per la promozione della conoscenza storica di quegli anni così complessi, alla luce delle nuove domande e sfide poste dalla storiografia dagli anni Novanta, a partire dalle fondamentali questioni poste da Claudio Pavone, fino alle preziose banche dati sulle azioni della Resistenza e sulla nuova classe dirigente post-Liberazione realizzate o in via di elaborazione. Ma nella sua efficace configurazione è certo frutto delle scelte del “gruppo di lavoro”, probabilmente consolidate dalla positiva esperienza vissuta nel 2019 all’interno del progetto “Pillole di Resistenza”, la serie di video-documentari sulla Resistenza Toscana, realizzata dallo Studio RUMI, coordinata dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea, insieme a tutti gli istituti provinciali, grazie al sostegno della Regione Toscana.

Il libro è, infatti, articolato, come rileva Nicola Labanca “per temi, classici in questo tipo di studi, intrecciati ad un certo filo cronologico” (p. 12) che consentono di toccare tutte le questioni principali, a partire da profili biografici “esemplari” che le introducono. Nello scorrere delle pagine, ai volti di uomini e donne, colti nella loro complessa umanità, si succede così la narrazione dei fatti essenziali e l’individuazione dei nodi essenziali della riflessione storica: il rapporto della Resistenza con le precedenti generazioni dell’antifascismo e con la stagione della violenza politica avviata dallo squadrismo fascista nel primo dopoguerra, lo spaesamento delle istituzioni e delle persone nella convulsa estate del 1943, il tema essenziale delle scelte dopo l’8 settembre, del collaborazionismo fascista a servizio dell’occupazione nazista e delle sue dinamiche di sfruttamento del territorio e della popolazione (delineato con cura anche per “decostruire” la falsa narrazione diffusasi nella memoria locale sulla natura “blanda” dell’ultimo fascismo senese), delle forme molteplici della Resistenza a partire dalla dimensione della lotta partigiana cui viene data una dovuta centralità, senza per questo dimenticare le altre forme di Resistenza, cui viene dedicato il capitolo ottavo e dando un giusto rilievo alla presenza e al ruolo delle donne (gravemente segnate dalle violenze di guerra, basti solo pensare ai numerosi stupri ad opera delle truppe marocchine del Corpo di spedizione francese), il ruolo dei Comitati di liberazione nazionale, la complessa stagione stretta fra la liberazione del territorio e l’attesa della conclusione del conflitto in Italia.
Menzione specifica merita il settimo capitolo dedicato al mondo della campagna, travolto dal conflitto totale, per la rilevanza della mezzadria e in generale della dimensione rurale nella realtà sociale della provincia senese, ma anche per la comprensione della mentalità e della cultura della maggioranza della popolazione, così da comprendere meglio l’impatto avuto dal conflitto. L’analisi delle scelte dei contadini nel contesto dell’occupazione e di fronte al movimento partigiano evidenzia, infatti, tutta la complessità della vicenda storica, al di là di facili ed illusori schematismi che hanno animato annosi dibattiti e polemiche e aiuta a cogliere il carattere dirompente che l’impatto del conflitto ha su quella classe sociale, segnandone mentalità, scelte, comportamenti ben oltre l’esaurirsi dell’evento bellico. Ma opportuno e significativo è anche il terzo capitolo che tratteggiando l’impatto della “guerra totale” sul territorio senese e sulla popolazione, a partire dalle conseguenze degli attacchi aerei anche a fronte della sostanziale assenza di “qualsiasi struttura difensiva a tutela della popolazione e del ricco patrimonio storico-artistico” (p. 55), contestualizza bene il vario formarsi delle resistenze nel processo di disgregazione del rapporto fra italiani e regime favorito dal conflitto.

IMG_4134La dimensione del volume (oltre 270 pp.) significativa, ma “ridotta” in relazione alla complessità delle questioni trattate ne evidenzia il carattere “coraggioso” di sintesi che quindi inevitabilmente può scontare l’opportunità di alcune scelte o la minor trattazione di alcuni temi o aspetti (come ad esempio quelli dell’avvio del processo di ricostruzione e della formazione della nuova classe dirigente in un difficile rapporto con i comandi alleati, tratteggiati nell’ultimo capitolo), ma che ha in ciò il suo merito. A fronte di tanti contributi specialistici che indagano nei dettagli singoli aspetti, ciò che spesso manca (anche a livello di sintesi regionale) è un contributo che possa richiamare l’integrità del quadro senza “spaventare” il potenziale lettore per il numero eccessivo di pagine, ma piuttosto stimolandolo a proseguire un cammino di conoscenza grazie ad un apparato di note puntuali, ma non invasivo e pletorico.

Infatti, in conclusione, ritengo che il merito principale del volume sia quello di rivolgersi a tutti. L’assenza di retorica e soprattutto le scelte narrative accattivanti, la capacità di evidenziare i nodi più interessanti per la realtà locale ma anche in una chiave nazionale, lo stile e il linguaggio adottati, lo rendono “piacevolmente” leggibile per un pubblico vasto di interessati e non (solo) di specialisti (oltre che adatto per un sistematico uso didattico) in una stagione che, privata dai testimoni diretti, deve vedere proprio nel ritorno alla conoscenza storica la strada principale per rendere patrimonio comune della cittadinanza questi snodi essenziali della nostra storia comune. Direzione nella quale, con questa pubblicazione, l’Istituto di Siena aiuta tutti a fare un passo importante.