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Mohicani all’ombra delle mura: la Democrazia proletaria lucchese dal “Manifesto” all’89

A partire dalla fine degli anni ’60, a sinistra del Pci – anche sull’onda delle esperienze movimentiste del ’68 – nascono numerose formazioni politiche di ispirazione marxista, da Lotta continua a Potere operaio passando per il Manifesto (nato proprio da una corrente interna del Partito comunista), il PdUP e Avanguardia operaia: decine di sigle e un tratto in comune ben preciso, la critica al Partito comunista – colpevole agli occhi di alcuni militanti e simpatizzanti più giovani, molti dei quali provenienti da ambienti universitari, di aver abbandonato qualsiasi strategia rivoluzionaria1 – e di conseguenza all’Unione sovietica e ai regimi del blocco socialista in Europa orientale, accusati di essere paesi capitalisti mascherati da “falso socialismo”2 e scalzati nell’immaginario collettivo dai miti di Che Guevara e della Cina maoista.

Fra tante formazioni, una in particolare spicca per l’originalità dei contenuti e della proposta politica (che nel corso degli anni si configurerà sempre più come una sintesi di pacifismo, ambientalismo, marxismo libertario e cattolicesimo progressista), un partito – o meglio un cartello elettorale, almeno nei suoi primissimi anni di attività a partire dalla fondazione nel 1975 – che riunisce vari soggetti dell’area della sinistra rivoluzionaria (PdUP, AO, Movimento lavoratori per il socialismo e altri gruppi minori): è Democrazia proletaria, “uno strano gruppo di protocristiani” (così l’avrebbe definita nel 1987 l’attore Paolo Villaggio, allora candidato nelle liste di Dp3) che nel corso dei suoi circa sedici anni di vita fino alla confluenza in Rifondazione comunista avrebbe costituito la principale forza politica a sinistra del Pci.

Anche a Lucca – “città bianca” per eccellenza nella rossa Toscana – la tribù dei “mohicani”4 demoproletari riesce a piantare le proprie tende: una “piccola comunità” – così la descrive Eugenio Baronti – “di militanti superattivi, preparati, colti; alti livelli di scolarizzazione, elevata qualità del dibattito e del confronto politico”, quasi il partito di una élite intellettuale – nonostante l’obiettivo prefissato della costruzione di un partito di massa5. Fra loro c’è Gian Paolo Marcucci, allora giovane studente e militante della sinistra marxista, già vicino al locale circolo del Manifesto, assieme al quale abbiamo ripercorso alcune delle tappe più significative della storia di Dp a Lucca.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia proletaria? Avevi già militato in precedenza in altri partiti o movimenti?

Sì, a 17 anni , nel 1971, proprio in concomitanza con l’uscita dell’omonimo quotidiano, mi avvicinai al circolo locale de Il Manifesto. Iniziai praticamente con la diffusione del giornale davanti alla scuola – Istituto magistrale – che frequentavo a Lucca. In seguito, dopo il mancato successo elettorale del 1972 iniziò il progetto di unificazione con i compagni dello Psiup che avevano deciso di non confluire nel Pci o nel Psi e che insieme ai compagni del Movimento politico dei lavoratori (cattolici di sinistra) avevano dato vita al PdUP. Se nel gruppo lucchese del Manifesto vi erano prevalentemente studenti e insegnanti, nel Pdup vi era una discreta presenza operaia di quadri di fabbrica.

Nel 1975, si arrivò all’unificazione e nacque il Partito di unità proletaria per il comunismo, fra i cui esponenti maggiori erano Lucio Magri, Vittorio Foa e Rossana Rossanda. Nel frattempo si era aperto un dialogo con altre formazioni della sinistra extraparlamentare, come Avanguardia operaia e il Movimento studentesco di Mario Capanna, che ebbero come primo risultato la presentazione alle elezioni amministrative del 1975 di liste denominate “Democrazia proletaria” in alcune regioni. In Lombardia , dove il successo fu più marcato fu eletto consigliere Capanna. In Toscana fu presentata la lista Pdup per il comunismo ma intanto, a livello locale, iniziarono gli incontri con AO e con la Lega dei comunisti, altra organizzazione con un certo radicamento in regione.

Nel 1976, in occasione delle elezioni politiche anticipate, dopo travagliati tira e molla si arrivò ad un cartello elettorale (da non confondere con il futuro partito) ribattezzato “Democrazia proletaria”, che raggruppava le tre forze più consistenti alla sinistra del Pci: Pdup, AO e Lotta continua. C’era l’auspicio da un lato del sorpasso della Dc da parte del Pci e di una tenuta del Partito socialista, dall’altro di un buon successo delle forze della nuova sinistra, riuscendo a superare il 50% del consenso elettorale in modo da rendere possibile la formazione di un governo di sinistra, nonostante la politica indirizzata al compromesso storico dei comunisti.

Perché proprio Dp e non il Pci, allora la principale forza politica a sinistra? Cosa differenziava Democrazia proletaria dal Partito comunista “ufficiale”?

C’era la convinzione della “rivoluzione dietro l’angolo”, considerati gli eventi che in parte si intrecciavano sul piano nazionale e internazionale: la resistenza del popolo vietnamita, Cuba e i fermenti in America latina, le lotte di liberazione anticoloniali in Africa, le ribellioni studentesche e le lotte operaie in tutta Europa – sia a est che ad ovest – e per ultimo la caduta del fascismo in Portogallo ad opera dei militari democratici; parafrasando Dylan, i tempi stavano cambiando. E così avveniva anche in Italia dove il Partito comunista sicuramente dava un fondamentale contributo dall’opposizione con la sua forza istituzionale, supportando di fatto anche i socialisti nel contraltare governativo rispetto alla Dc, all’attuarsi delle riforme in questo periodo. Non convinceva però, soprattutto alla luce della strategia della tensione – portata avanti da gangli importanti della Dc unitamente a servizi segreti ed estrema destra per bloccare le conquiste del movimento operaio e studentesco – la proposta del compromesso storico. Fra l’altro in quegli anni era emersa una piccola ma significativa area militante di cattolici di sinistra che respingeva il collateralismo con la Dc come partito dei cattolici.

Per questi motivi, nonostante i risultati elettorali del 1976 fossero stati al di sotto della aspettative per le sinistre, l’ipotesi su cui intendeva muoversi il Partito comunista non mi convinceva, tanto più quanto all’allontanamento da Mosca non corrispondeva una posizione di autonomia e non allineamento, bensì si accettava la protezione dell”ombrello della Nato”. Quando poi nel corso dell’estate del ’76 fu varato il governo monocolore democristiano di Andreotti con l’astensione del Pci, fu chiara la direzione che stava prendendo quest’ultimo e che avrebbe poi indebolito le lotte sindacali e ridato ossigeno alla Dc in difficoltà. Fu per questo che, pur nel subbuglio creato dalla delusione elettorale che portò a scissioni e abbandoni della politica, e nonostante a livello nazionale come a Lucca la componente Manifesto conservasse il marchio Pdup per il comunismo, personalmente aderii al processo di formazione di Democrazia proletaria che tenne il suo primo congresso due anni dopo, nel 1978, in un clima fortemente deteriorato a causa del terrorismo brigatista e delle politiche securitarie appoggiate anche dal Pci. Democrazia Proletaria chiaramente non riteneva più la rivoluzione dietro l’angolo, però non si rassegnava né alle scorciatoie della lotta armata né al blocco delle rivendicazioni operaie.

Chi sono i principali esponenti di Democrazia proletaria a Lucca? Quali sono le loro storie politiche?

Prima di rispondere a questa domanda vorrei fare una distinzione fra le tre fasi della vita di Dp a Lucca e nel paese. La prima è quella che va dalla sua costituzione fino alla debacle elettorale con il cartello Nuova sinistra unita (1975/1979) ; la seconda fase, dalla ricostruzione dalle macerie fino al rientro in Parlamento (1980/1983); la terza, che passando per la scissione dei Verdi arcobaleno arriva fino allo scioglimento di Dp (1983/1991). Del primo periodo ricordo soprattutto Gildo Tognetti, già dirigente di rilievo nello Psiup a livello nazionale, che poi si allontanerà nell’80. Altri compagni furono Claudio Orsi, già dirigente sindacale lucchese, proveniente da AO che resterà attivo fino alle elezioni dell’83; poi Eugenio Baronti e Danilo Ascareggi (ex Lega dei comunisti), Marcello Nelli (ex Pdup e Acli) e, dalla valle del Serchio, Leonardo Mazzei e Mario Regoli (ex Stella rossa se non sbaglio); tutti resteranno più o meno in Dp fino alla fine, confluendo in Rifondazione.

La terza fase fu quella di maggiore espansione in termini di iscritti e militanti: soprattutto dopo le amministrative del 1985, in cui ottenemmo un buon risultato – considerando le nostre forze – livello locale (un consigliere provinciale e un consigliere nella circoscrizione Lucca-Centro) entrarono compagni storici del movimento lucchese del ’68, come Francesco Giuntoli, Daniele Squaglia, Virginio Monti, Tommaso Panigada e Luca Franceschi, oltre ad altri compagni e compagne (seppur poche purtroppo) più giovani.

Dp è sempre stata molto critica verso l’Urss e i paesi del “socialismo reale”. In cosa consisteva questa critica?

Personalmente a 14 anni, pur orientato vagamente a sinistra ho dovuto fare i conti – oltre che con la guerra del Vietnam e la sfortunata impresa del Che in Bolivia – con la Primavera di Praga e la sua repressione ad opera del Patto di Varsavia. Quindi fra il difendere a spada tratta la “Patria del Comunismo” anche quando andava contro altre esperienze che pure non rinnegavano il socialismo, e sposare tesi che bollavano come totalitario a prescindere il pensiero comunista, ho dovuto cercare progressivamente di approfondire le ragioni di questa deriva autoritaria dei sistemi socialisti e delle possibili alternative senza rassegnarsi al “migliore dei mondi possibili” rappresentato dal capitalismo. Anche per questo avevo aderito al Manifesto e mi trovai a mio agio in Dp. Fra le critiche maggiori al socialismo reale, pur riconoscendone la capacità di assicurare – a differenza dell’Occidente e dei paesi in via di sviluppo sotto il suo tallone – la soddisfazione generalizzata dei bisogni primari (sanità, occupazione, istruzione), era l’identificazione fra Partito e Stato, la burocratizzazione dei rapporti sociali, la mortificazione delle spinte dal basso, la bollatura di ogni dissenso come complotto e infine un’organizzazione del lavoro che non si discostava nei meccanismi fondamentali da quella alienante capitalistica. Per non parlare delle purghe staliniane e del sistema dei gulag, sebbene l’Occidente stesso – che favoriva i golpe in Grecia e America Latina, sosteneva il Franchismo spagnolo e la strategia della tensione in Italia – non fosse da meno.

Nel 1989 cade il muro di Berlino, e da lì a pochi anni scompare la stessa Unione sovietica. Quali furono le reazioni dentro la Democrazia proletaria lucchese?

Riprendendo quanto detto sopra, c’era stata una certa attenzione da parte di Dp verso l’area del dissenso all’Est (ricordo un numero di “Unità Proletaria” dei primi anni ’80 dedicato a Solidarnosc e, se ben rammento, la candidatura del dissidente polacco Wlodek Goldkorn alle elezioni europee dell’89), ed anche sulla repressione di piazza Tienanmen ci fu sconcerto. In merito al crollo del muro di Berlino non ricordo le posizioni del partito (ma sicuramente ve ne furono, in questo caso fallano le mie memorie); personalmente vidi con favore ciò che avveniva, sperai che l’esito fosse una liberazione del socialismo dalla cappa burocratica in cui era stato ingabbiato, senza – come è successo – cadere dalla padella nella brace di una riunificazione delle due Germanie all’insegna di una sorta di colonizzazione neoliberista. Ciò purtroppo è avvenuto in varie forme in tutti i paesi dell’Est, dove spesso una parte della vecchia classe dirigente “comunista” si è riciclata per governare la nuova situazione.

Il 1989 è anche l’anno della “svolta della Bolognina” e dell’avvio di quel processo che porterà alla trasformazione del Pci in Partito democratico della sinistra (Pds). Questa scelta suscita stupore all’interno di Dp?

Diciamo parzialmente stupiti (perlomeno nel mio caso) non tanto perché non vedessimo una certa mutazione genetica avvenuta nel tempo (da anni parlavamo di “socialdemocratizzazione”) soprattutto in parte del gruppo dirigente del Pci, quanto per la decisione di scioglierlo cambiando il nome. Se dopo a fuoriuscirne oltre agli ingraiani furono i cossuttiani, pareva che i più dipendenti dal filosovietismo non fossero questi ultimi ma proprio chi voleva rimuovere la parola “comunista” dal nome. Come a dire: la fine dell’esperienza sovietica equivale alla fine del comunismo stesso, dunque si cambia nome. Chiaramente iniziò ad esserci attenzione nei confronti di chi dissentiva da quella scelta; fra l’altro Dp aveva già subito l’uscita di Capanna (che aderisce ai Verdi), Ronchi Tamino, Franco Russo (metà del gruppo parlamentare) e Molinari con loro vari consiglieri amministrativi, per cui l’eventualità di nuove aggregazioni poteva essere benvenuta.

A distanza di pochi anni dalla fine del Pci, anche la storia di Democrazia proletaria giunge al termine: nel 1991 infatti il partito confluisce nella neonata Rifondazione comunista. Quale strada scegliesti allora, e perché? Quale fu il dibattito sul territorio circa l’adesione al Prc?

Praticamente, se nel 1989 eravamo riusciti alle Europee a confermare un deputato – Eugenio Melandri – la scissione dell’area interna verde, che aderì alla lista Verdi Arcobaleno, indebolì l’immagine del partito sebbene, esclusi i non pochi rappresentanti nelle istituzioni, la maggior parte del corpo militante fosse rimasto in Dp. Anche a Lucca fu così: a livello provinciale uscirono  soprattutto i viareggini. Comunque il dato nuovo della formazione, sul finire del 1990 del Movimento per la Rifondazione comunista riaccese -pur fra i dubbi- le speranze per una nuova aggregazione . Ricordo una manifestazione a Camp Derby nel febbraio-marzo 1991, contro la Prima guerra del Golfo ancora in corso, cui parteciparono anche loro. Io, come la grande maggioranza degli iscritti lucchesi, decisi di aderire al Movimento (non ancora partito). Mi ricordo che la prima sede era una stanzetta, a Lucca, in Via Santa Chiara e la prima riunione cui partecipai mi sembra fu nell’autunno del ’91: le perplessità riguardavano soprattutto il rapporto con l’area cossuttiana (considerando le posizioni critiche sul socialismo reale) ma trovammo comunque abbastanza disponibilità, ho un buon ricordo dei primi anni. Per circa tre anni continuammo però a tenere la sede che avevamo in Via Fillungo, trasformandola in una piccola casa della sinistra, il “Circolo Utopia”.

1Critiche nei confronti della progressiva “istituzionalizzazione” del Pci erano già emerse in seno al partito stesso nel corso degli anni ’50, ad esempio con Pietro Secchia (vedi anche Vittoria, A., Storia del Pci, 1921-1991, Carocci, Roma 2007); l’episodio più emblematico resta però quello che vide protagonisti Adriano Sofri e Gian Mario Cazzaniga nel marzo 1964 alla Scuola Normale di Pisa, che contestarono a Palmiro Togliatti la mancata presa del potere rivoluzionaria in Italia nell’immediato dopoguerra, nonché il voto favorevole del Pci all’articolo 7 della Costituzione, che recepiva i Patti Lateranensi del ’29 (vedi anche Meucci, G., “Dalle aule alle piazze”, in Meucci G., Renzoni S., Il Sessantotto. Immagini di una stagione pisana, Pacini, Pisa 2017, pp. 39)

2Così un verso de “L’ora del fucile” (1971), del Canzoniere pisano: “In Spagna e in Polonia gli operai | dimostran che la lotta non si è fermata mai | contro i padroni uniti, contro il capitalismo | anche se mascherato da un falso socialismo. | Gli operai polacchi che hanno scioperato | gridavano in corteo: Polizia Gestapo! | Gridavano: Gomulka, per te finisce male! | Marciavano cantando l’Internazionale!” (vedi anche https://www.ildeposito.org/canti/lora-del-fucile)

4Il riferimento è al titolo del libro di Pucciarelli, M., Gli ultimi mohicani. Una storia di Democrazia proletaria, edito da Alegre nel 2011.

5Baronti, E., Con il piombo sulle ali, EDL, Lucca 2011, pp. 46-47; Eugenio Baronti (1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di Dp dal 1980, dopo esserne stato uno dei fondatori; nel 1991 aderisce al Prc, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente nel comune di Capannori.




Nel 10 di febbraio del 2020

È il sedicesimo anno di una data del calendario civile italiano, il 10 febbraio, non facile, come nulla è facile, nella costruzione della coscienza storica e civile, anche in presenza di leggi che fissano i giorni dell’obbligo di ricordare; rimane “passato che non passa” quello di cui non c’è solida conoscenza storica.

In Toscana si raccoglie l’eredità di un lungo e fertile impegno per la conoscenza e la disseminazione di sapere storico e la creazione di opportunità educative, partito già nel primo anno di istituzione del Giorno del Ricordo. Si sono susseguiti progetti importanti, che hanno incrociato le scelte culturali dell’ISGREC e della rete regionale di Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea con la volontà della Regione Toscana di applicare questa ed altre leggi nazionali o europee di memoria con interventi non occasionali.

La storia del confine alto-adriatico di cui parla la legge istitutiva del Giorno del ricordo era già stata scritta, non in piccola parte, ma non era ancora compiutamente patrimonio collettivo, prima del 2004. Se ne erano assunti il compito per primi storici appartenenti o originari dell’area giuliana. Sono lontane le opere di Ernesto Sestan, o gli studi di Teodoro Sala, per citarne alcune. È vero che nell’ultimo quindicennio si è fatta lunga la lista di opere pubblicate. Né era poca la memorialistica, specchio di sofferenze vissute dai sopravvissuti alle violenze degli anni della guerra o alle precedenti, di quando erano slavi e antifascisti ad esserne vittime.

Un piccolo libro, autore lo storico Guido Crainz, aggiunse nel 2005 uno strumento prezioso, per sua ammissione destinato a offrire proprio agli insegnanti un impianto concettuale alla difficile storia del confine “laboratorio della storia del Novecento”, italiana ed europea. Fu un contributo di metodo e merito, utilissimo a dare una dimensione europea alle storie di confine, dove le guerre del Novecento hanno lasciato ferite di violenze e, nell’Europa centrale, determinato spostamenti epocali di popolazione, milioni di profughi. Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa1 costituì un breviario per molti insegnanti di storia. È una storia che guarda di qua e di là dalla linea del “confine mobile”, fino all’ultimo, definitivo tratto di penna sulla carta geografica, tirato nel 1975 dalle diplomazie italiane ed europee. Queste parlavano un linguaggio diverso da quello delle memorie della gente di confine, che racconta storie di sofferenze e di abbandoni, di spaesamenti vissuti altrove, nell’esilio. Sono stati spesso i poeti e gli scrittori a dare voce ai loro sentimenti. Anche qui potremmo comporre una lunga lista, da toscani richiamare alla memoria il legame storico fra Trieste e Firenze, alleanze fra intellettuali, che sono state evocate in opere importanti. Allo straniamento di una lunga incertezza sul futuro, che per tanti precedette il dolore dell’abbandono e dell’esilio, dava forma poetica – solo un esempio scelto fra tanti – Giani Stuparich, nel 1948:

Erano i giorni più amari di Trieste e della Venezia Giulia, quando i potenti del mondo giocavano col ostro piccolo destino. Speranze e delusioni si alternavano, si passava dall’esasperazione all’abbattimento, dall’abbattimento alla rivolta. I cittadini camminavano per le strade smarriti, avviliti, o guardando da ogni parte, se non fosse per sopraggiungere qualche sorpresa che li scotesse, o li annientasse per sempre. I fuggiaschi di Pola e dell’Istria sbarcavano come storditi, si afflosciavano sulle rive, accanto alle loro misere masserizie.2

Una gran parte di quelle masserizie è ancora ammassata nelle stanze di Padriciano, uno dei centri profughi triestini. Una delle guide di Padriciano raccontò agli studenti toscani nel viaggio di studio del 2018 il senso dello sguardo sbigottito, che ci mostrò, nella foto di una donna che stringeva una sedia, fuori dall’edificio del campo. D’improvviso aveva riconosciuto qualcosa che le apparteneva, visitando quel luogo, e dopo aver urlato: “La mia sedia!” , l’aveva afferrata, stretta come per paura di perderla di nuovo e portata via.3

copertinaQuando alla progressiva crescita di conoscenza della storiografia si aggiunse la somma fra le suggestioni della letteratura, la scoperta delle testimonianze di gente comune, l’esperienza dei luoghi, per il lavoro dell’ISGREC e di altri istituti toscani, iniziò la stagione della produzione di strumenti utili non a coprire un vuoto, ma a farsi carico della scarsità di risorse per la scuola. In pochi anni: un primo viaggio di studio, un libro di strumenti didattici, una mostra e il primo fra i documentari4. Vale la pena di ricordare – lo abbiamo fatto poche settimane fa con Raoul Pupo – un convegno grossetano che risale al 1996 (Guerre civili nell’Europa del Novecento, i cui atti furono pubblicati a cura di due insegnanti5). Nel tempo a Grosseto è nata la curiosità per una storia che ci riguardava: quanto e come la storia di quell’esilio aveva toccato la comunità grossetana?

Così ha avuto inizio l’esplorazione di archivi locali e nazionali di Laura Benedettelli, insegnante-ricercatrice, che prima e più di altri frequentò letture importanti, appassionandosi in particolare alla scrittura femminile: Marisa Madieri, Nelida Milani, Anna Maria Mori…

Le carte dell’Ufficio affari di confine, a Roma, quelle dell’Archivio di Stato e della Prefettura, a Grosseto, la ricognizione sulla stampa locale andarono per anni di pari passo con lo studio. Non è stata impresa facile per la complessità che ognuno riconosce alle vicende del Novecento giuliano-dalmata e istriano. Abbiamo imparato da subito che era un terreno complicato, a ogni passo con il rischio di malintesi e contestazioni. È accaduto e accade, ora più che mai, con le ombre del Novecento, di cui sono una rappresentazione gli accadimenti affrontati dalla ricerca di Laura Benedettelli, impossibile da racchiudere nei limiti degli anni della seconda guerra mondiale.

Sono stati trovati numeri e nomi dei profughi arrivati a Grosseto, spesso dopo viaggi in più tappe, tra cui i campi profughi disseminati in tutto il territorio nazionale. Ogni storia personale e familiare ha similitudini e singolarità, rivelate dalle interviste. La ricerca ha riportato alla luce i dibattiti, sorti nelle sedi istituzionali e testimoniati dalle cronache della stampa locale. Fino alla definitiva accoglienza, alla costruzione del “palazzo dei profughi”, dove molti trovarono infine casa.

La prima edizione è stata un e-book6, che oggi si è deciso di stampare, anche se le risorse disponibili hanno consentito solo un piccolo numero di copie. Allegati all’e-book erano documenti sulla storia generale, dai trattati alle norme di legge, alle circolari applicative emanate nel corso degli anni, che rimangono consultabili on line, nel sito web dell’ISGREC Questi dati sono utili a comprendere il contesto di questo frammento di una storia che ha messo l’Italia, in analogia con il più vasto contesto europeo, di fronte a scelte politiche. I popoli, e dunque gli individui coinvolti, sono stati messi di fronte a scelte personali. Le guerre del Novecento hanno prodotto, anche se in forme diverse, il fenomeno della profuganza, dell’esilio, della migrazione, volontaria o forzata.

esodo pola

L’esodo da Pola, 1947

È una lezione per ogni tempo, anche se per i nuovi profughi del XXI secolo il distacco dalla patria ha una fenomenologia diversa e più estesa, da quando il mondo è diventato di fatto globale e le distanze si sono accorciate. Nella “letteratura di confine” del Novecento, che abbiamo letto insieme agli studenti, il viaggio sembra il sostrato di ogni vicenda narrata, in una accezione non certo turistica. Come ne L’infinito viaggiare di Claudio Magris7, dove si parla di spaesamenti per chi si allontana dal proprio luogo e anche di ritorni. Per lo scrittore triestino, che ha dedicato gran parte della sua scrittura al tempo della guerra e alle sue conseguenze, al tema del viaggio corrisponde l’idea di frontiera. Magris evoca, richiamando i ricordi della sua infanzia, il paesaggio che gli era stato familiare, guardato dal Carso. Quello stesso paesaggio era diventato la “Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due”, dietro alla quale c’era “…l’ignoto…il mondo dell’est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato”8  Col tempo, altri mutamenti hanno dato altri significati agli stessi luoghi, portando alla scoperta che si è sempre sia di qua che di là dalle frontiere.

Non è stato facile decifrare fino in fondo i ricordi degli esuli ascoltati da Laura Benedettelli, capire se hanno percepito la comunità grossetana come estranea e sentito una frontiera fra loro e “gli altri”. Gli atti concreti sembrano configurare una comunità accogliente, anche se non è scontato che non ci fosse traccia di indifferenza o diffidenza. Le nuove, attuali migrazioni hanno origini e motivazioni inedite, ma hanno una similitudine con quelle degli esuli istriano-fiumano-dalmati, perché esito di viaggi analogamente tortuosi, di attraversamenti di frontiere.

Fra i caratteri originali della Maremma c’è il suo essere terra di migrazioni, di inserimento nel lunghissimo periodo di nuclei di popolazioni, che sono state indispensabili e l’hanno resa migliore. Grosseto è diventata città solo grazie a migrazioni dalle provenienze più diverse; qui si ha la consapevolezza di avere origini “oscure”. Pensando a questo dato storico, probabilmente quell’accoglienza, dal secondo dopoguerra in poi, è stata reale.

Perché conviene ricostruire un itinerario noto, più volte documentato in queste stesse pagine? Ce lo suggerisce quel che era sperato e non è avvenuto: la presa d’atto di una uscita dal silenzio della storia del “confine difficile”, della disseminazione di sapere e coscienza critica nella scuola, di un impegno finalizzato a sottrarre a diatribe politiche vicende complesse e dolorose. Il 2020 sembra essere l’annus horribilis per i tentativi di annullare l’eredità di tanto lavoro. Il presente è fotografato da lapidi in memoria di crimini razzisti imbrattate, dalle stolpersteine (le pietre d’inciampo con cui l’artista tedesco Gunter Demnig sta riportando a casa, almeno con la memoria, i deportati europei nei lager nazisti) deturpate. I segni di antisemitismo crescono con un razzismo a tutto campo. Episodi di discriminazione e rifiuto, fino alle aggressioni fisiche ai diversi, per colore della pelle, culture e credo religioso sono quasi quotidiani.

In questo clima, il racconto del dolore delle vittime delle foibe o di altre forme di violenze e di perdite – l’abbandono di luoghi della propria vita e la profuganza, che vecchie e nuove memorie testimoniano, è scagliato come un proiettile, in un dibattito pubblico che ha come protagonista la politica. Rischia di entrare in crisi il dialogo avviato da tempo fra popoli e Stati del confine – Italia, Croazia e Slovenia – se si spingono le memorie personali verso il rancore. Quanto alla memoria collettiva, è ancora in corso la faticosa elaborazione del lutto per le vicende del confine alto-Adriatico, dopo troppo lunghi silenzi. Silenzi erano seguiti anche alla persecuzioni di ebrei e alla deportazione politica, da poco si sta recuperando quella degli internati militari italiani nei campi del III Reich. La legge istitutiva della Giornata della memoria precede solo di quattro anni la fissazione del 10 febbraio per ricordare foibe ed esodo.

esodo 2

Profughi si imbarcano a Pola, 1947

Le memorie, individuali e collettive, sono situate nel tempo, del mutare del clima sociale e politico. Sono verità mutevoli, fonti accanto ad altre. Ora che l’era del testimone sta finendo, a maggior ragione dovrebbe prevalere la voce della storia, lo sguardo al passato con il filtro di domande, che servono a superare il semplice racconto con la spiegazione. È devastante, rispetto al bisogno di verità storica, la confusione fra eventi e fenomeni diversi, la frammentazione di racconti che rimangono inspiegabili cronache, se rifiutano la stratificazione dei tempi lunghi e brevi, dei diversi livelli di responsabilità individuali e collettive. Non è per sminuire le violenze di confine, opera dei partigiani titini, che si pretende di interpretare foibe ed esodo nel tempo lungo del Novecento, o di fare luce sulle responsabilità italiane per le violenze taciute dei Balcani, o ricordare che non furono solo gli italiani ad essere infoibati.

Da un esule, Predrag Matvejevich, riceviamo una lezione di cogente attualità, seppure tratta da uno scritto datato 2005, all’indomani del primo giorno del ricordo:

…esiste il pericolo che si strumentalizzino e “il crimine e la condanna” e che vengano manipolati l’uno o l’altro. Ovviamente, nessun crimine può essere ridotto o giustificato con un altro. La terribile verità sulle foibe, su cui il poeta croato Ivan Goran Kovačić ha scritto uno dei poemi più commoventi del movimento antifascista europeo, ha la sua contestualità storica, che non dobbiamo trascurare se davvero desideriamo parlare della verità e se cerchiamo che quella verità confermi e nobiliti i nostri dispiaceri. Perché le falsificazioni e le omissioni umiliano e offendono9.

Quello scritto metteva in guardia da strumentalizzazioni e storie monche, generatrici di rivendicazioni rancorose, se fondate su fissazioni identitarie di tipo nazionalista e rigide ideologizzazioni. Se ne comprende meglio il senso pensando alla sua storia di vita. Padre ucraino, madre croata, eredità linguistiche plurime, che lo spingono a un destino di cosmopolita, a lui congeniale, ma duro da sostenere, “peccato originale” che, dice “non sarebbe piaciuto né ai nazionalisti né ai comunisti [e] ha avvelenato la [sua] infanzia”, fin quando ha scelto l’esilio10.

Scrive Walter Barberis a proposito della Shoàh che “l’abuso della memoria non è meno dannoso del cattivo uso della storia”11. Non è l’oblio la soluzione, ma l’uso critico delle memorie, un ripensamento alla luce del tempo presente degli appuntamenti con il passato, nei giorni stabiliti per legge. Il rumore di orazioni pubbliche celebrative, spesso retoriche, se non strumentali, non dovrebbe coprire i discorsi della storia, che procedono con lentezza e a voce più bassa.

Se sarà così, scrive in questi giorni lo storico Luca Bravi, non tutto sarà perduto.

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NOTE:

1 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. Le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005.

2 G Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Grazanti, Milano 1948, cit. ivi, p. 78-79.

3 L’episodio è avvenuto a Padriciano, nel febbraio 2018, durante il viaggio di studio degli studenti toscani. È stato il primo dei due progetti educativi promossi dalla Regione Toscana (Storia di un confine difficile. L’alto Adriatico nel Novecento) ed attuati grazie agli Istituti storici toscani sopra citati, giunti come impegno sistematico, dopo numerosi progetti minori, sostenuti fin dal 2007. Il prossimo 11 febbraio partiranno nuovi studenti, accompagnati da nuovi insegnanti, resi esperti da una formazione intensiva sulla storia del confine nel Novecento, con la summer school di Rispescia (Grosseto, agosto 2019).

4 Al primo documentario del 2010 – La nostra storia e la storia degli altri – , è seguito La conoscenza scaccia la paura, ambedue produzione Regione Toscana-ISGREC, regia di Luigi Zannetti.

5 C. Albana, P. Carmignani (a cura di), Guerre civili nell’Europa del Novecento, Editrice Il mio amico, Roccastrada (GR), 1999. Contiene il saggio di Raoul Pupo: Guerra civile e conflitto etnico: italiani, croati e sloveni.

6 In www.isgrec.it

7 C. Magris, L’infinito viaggiare, Grazanti, Milano 2005.

8 Ivi, p. XIII.

9 P. Matvejevic, in “Novi list”, 14 febbraio 2005 (traduzione di L. Zanoni per “Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa”) in https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Predrag-Matvejevic-le-foibe-e-i-crimini-che-le-hanno-precedute

10 P. Matvejevic, Mondo “ex”. Confessioni, identità, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano 1996, p. 24.

11 W. Barberis, Storia senza perdono, Einaudi, Torino 2019.




Memorie del ’73: Livorno a fianco del popolo cileno

Il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973, che portò alla tragica morte del presidente Salvador Allende e all’instaurazione del regime militare del generale Augusto Pinochet, attivò una delle più straordinarie mobilitazioni di solidarietà per un fatto di politica estera nel mondo, con l’Italia in primo piano nell’accoglienza dei rifugiati cileni. Secondo i dati dell’Istituto Cattolico per le Migrazioni su una popolazione di 13 milioni, circa un milione di cileni fu costretto ad abbandonare il paese per ragioni politiche a causa della dura e massiccia repressione inaugurata dal regime. L’interessamento italiano agli affari cileni fu, ancor prima del golpe, di carattere eminentemente politico e ad esso contribuirono in maniera rilevante gli intensi rapporti fra i partiti della sinistra cilena e di quella italiana. Per questo appare interessante l’atteggiamento tenuto in quella vicenda da una “città rossa” per antonomasia come Livorno.

La raccolta di alcune testimonianze orali di ex militanti e amministratori comunisti e i ricordi personali di uno degli esuli cileni che furono accolti a Livorno all’indomani del colpo di stato hanno consentito di mettere in luce aspetti dell’opera svolta dalla società civile e dal Pci nell’organizzare pratiche di solidarietà in favore dei rifugiati cileni.

Il punto di partenza di questa ricerca è un ex cinema di Livorno dove il nostro testimone cileno, Rafael Aguirre, si ritrova ogni settimana insieme ai suoi compagni del coro per provare.

Dopo poco i coristi decidono di preparare per la prossima esibizione “El pueblo unido jamás será vencido”, una delle più note canzoni legate alla presidenza di Salvador Allende (1970-1973) e al movimento di Unidad Popular.

IntiQuesta canzone è più attuale che mai: recentemente la tensione tra la popolazione civile cilena e le forze armate è sfociata in violenze che ricordano il passato e in migliaia sono scesi in strada a Santiago in segno di protesta intonando questo inno alla resistenza. Perché l’impatto emotivo suscitato da questo brano è ancora così forte? Cosa ha rappresentato per la generazione di cileni che ha vissuto il ‘73? E dalla prospettiva dei comunisti italiani cosa ha significato?

Come ricorda Mauro Nocchi, storico militante comunista di Livorno, l’esperienza della «via cilena al socialismo», sperimentata per la prima volta nella storia dal presidente democraticamente eletto, Salvador Allende, fu salutata dai comunisti italiani con grande entusiasmo:

Era un’esperienza importantissima, per noi rappresentava l’applicazione concreta di quello che già Togliatti aveva teorizzato nell’VIII Congresso (del Pci) fino alla morte, che era la «via italiana al socialismo». L’unità popolare era il fulcro di questo tentativo di trasformazione della società.

Tra i vari provvedimenti previsti dal progetto di riforma di stampo socialista cileno vi era anche il proseguimento della riforma agraria, che era già stata avviata dal governo precedente, guidato dal democristiano Eduardo Frei Montalva e che aveva portato alla nazionalizzazione di numerosi latifondi e a svariate occupazioni di terreno (“tome”). Il 3 novembre 1970, in un clima di fermento popolare, anche la famiglia di Rafael Aguirre, ottenne un piccolo appezzamento di terreno; da quel momento la sua vita inizierà ad intrecciarsi in modo indissolubile con l’esperienza allendista.

Dal 23 giugno 1973, data in cui avviene il primo tentativo fallito di golpe conosciuto come il “Tanquetazo”, si profila una minaccia concreta all’assetto democratico del paese. Successivamente a questo evento Aguirre (insieme ad altri cinque compagni che faranno parte del gruppo di rifugiati politici a Livorno) entra in contatto con le milizie di protezione di Allende, il cosiddetto «Grupo de amigos del Presidente» (Gap) e viene portato in incognito alla scuola di addestramento paramilitare presso la località montana di Cañaveral:

Noi eravamo lì da circa dieci giorni quando è iniziato il golpe. Quella mattina (11 settembre ‘73) ci hanno avvisato che i militari si erano sollevati a Valparaiso, di Santiago ancora non sapevamo niente; ci hanno dato delle armi e ci hanno mandati alla casa privata di Allende, in Tomás Moro. Quando siamo arrivati lì Allende era già partito per la Moneda, era rimasta la moglie, “la Tencha”, con le figlie. Quando iniziarono i bombardamenti, alcuni compagni del Gap portarono via i familiari del Presidente. Circa a quattro o cinquecento metri dalla casa c’erano i militari. Noi eravamo disposti a difendere il governo. Il combattimento non è durato molto, ma abbiamo resistito, i militari provarono ad entrare, ma non ci riuscirono. Io sono stato colpito da alcune schegge alla testa, il taglio più grande era quello al costato, senza conseguenze per fortuna. Abbiamo dovuto lasciare le armi e siamo scappati […] Bisognerebbe cominciare a prepararsi prima e non all’ultimo momento quando le cose precipitano. Forse è stato quello lo sbaglio dell’Unidad Popular e dei partiti di sinistra.

Una delle prime zone che perquisirono [i golpisti] fu il quartiere dove abitavamo noi, Lo Hermida, con un dispiego di forze enorme, c’erano i carri armati in strada […] Per più di una settimana non ho visto i miei compagni, cambiavo sempre casa e cercavo di evitare le pattuglie dei militari […] Durante quel periodo, durato almeno un mesetto, ci vedevamo sporadicamente e scappavamo per salvarci la pelle. Non sapevamo se i nostri nomi erano caduti nelle mani dei militari o no, di quelli che avevano occupato il Cañaveral, non sapevamo se i dirigenti erano riusciti a salvare i nostri documenti.

E aggiunge che negli anni seguenti:

a mano a mano venne pubblicato l’elenco con i nomi delle persone che non erano più ricercate [dalla Junta Militar]. Il mio nome faceva parte della lista. Era una lista enorme.

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“Il Telegrafo” di Livorno, 13 settembre 1973

Il golpe cileno segnò profondamente la società civile italiana, già di per sé inquieta e profondamente politicizzata, ma resa ancor più ricettiva dai timori di un’involuzione autoritaria del paese. Furono organizzate sin dai primi giorni in diverse città italiane, tra cui Livorno, numerose manifestazioni a sostegno del popolo cileno. Il quotidiano di Livorno “Il Telegrafo” in data 13 settembre ’73 riporta la notizia di reazioni di ferma protesta per il golpe cileno in tutti gli ambienti politici e sindacali cittadini, ma anche di astensioni al lavoro in segno di solidarietà con il popolo cileno e di una manifestazione unitaria presso il teatro “4 Mori”. Anche le parole di Mauro Nocchi ritraggono una città profondamente solidale:

Alcuni giorni dopo il golpe si organizzò al Goldoni un concerto con gli Inti-illimani (gruppo musicale andino n.d.a.). Questa fu la prima cosa che si fece. Con le canzoni che cantavano avevano già la linea politica.

Queste azioni di solidarietà si fondavano su valori condivisi da una parte consistente della società italiana, di giustizia sociale e antifascismo, proprio come testimonia il sindacalista della Cgil, Bruno Picchi:

I lavoratori si ritrovarono in Piazza della Repubblica […] C’era la consapevolezza di cosa significasse quel gesto. C’era tensione, nel senso di dover difendere i valori che ci avevano lasciato i nostri padri.

Intanto si diffondono le prime notizie delle terribili violenze subite dagli oppositori politici del regime di Pinochet. A livello istituzionale, l’Italia non riconosce il nuovo governo cileno.

Sempre Nocchi ci fornisce un’importante testimonianza riguardo alle azioni di protesta contro il regime:

Venne fuori l’idea di non far giocare la coppa Davis in Cile come atto di protesta. Io mi ricordo feci un manifesto, c’era lo stadio di Santiago con i prigionieri e la polizia che li sorvegliava con scritto sotto: “non si gioca nei lager”

Il Pci si impegnò in una mobilitazione organizzativa e propagandistica senza precedenti per un fatto di politica estera. La stampa di partito fu letteralmente tappezzata da notizie provenienti dall’America Latina a partire dall’autunno del 1973, in modo da fare del golpe che aveva affossato la democrazia cilena un motivo di discussione con l’intento esplicito di creare un clima utile al rilancio del Pci e della sua strategia.

L’allora segretario di partito Enrico Berlinguer, assieme ad altri dirigenti, aveva compreso già da tempo che l’«immobilismo dignitoso» in cui stagnava il partito non poteva più continuare. Il golpe cileno fece da catalizzatore, infatti a un mese da questo tragico evento Berlinguer decise di pubblicare una serie di articoli sulla rivista «Rinascita», nei quali espose l’idea del «compromesso storico» fra i principali partiti di sinistra: Pci, Dc e Psi, per impedire che l’Italia fosse colpita dallo stesso destino.

Dal punto di vista di Picchi la proposta di Berlinguer significava:

Ricercare nell’avversario di sempre le migliori forze, le migliori energie, per rafforzare la democrazia e una politica che fosse utile ai più deboli.

Per Daniela Bertelli (militante del Pci di Livorno):

Fu un fenomeno che portò ad un ripensamento sulla linea del Pci e non ebbe scarsa influenza sulla nostra politica […] Io ho creduto nel compromesso storico. Il discorso della differenza, che è un punto forte del femminismo italiano, per me era molto presente come modo di stare nel mondo. Questo perciò mi faceva anche essere aderente ad un tipo di impostazione come quella del compromesso storico.

Nel frattempo Rafael Aguirre, insieme ai suoi cinque compagni (e a molti altri oppositori di sinistra), decide di mettersi in salvo saltando il muro dell’Ambasciata italiana a Santiago, in modo da sfuggire alla spietata “caccia all’uomo” che si stava svolgendo all’esterno.

Quando eravamo all’Ambasciata i familiari passavano di fronte al cancello, noi li vedevamo, ma non potevamo dire niente, perché c’era sempre una pattuglia di militari; potevamo solamente mandare delle lettere alla famiglia tramite i funzionari del Consolato.

Dopo alcune settimane, Aguirre ed altri rifugiati ottengono il salvacondotto ed hanno circa 24 ore di tempo per abbandonare definitivamente il paese; grazie ai voli umanitari organizzati dall’ONU raggiungono Roma il 23 dicembre 1973 dove vengono in un primo momento accolti presso l’hotel Imperator, che era uno degli alloggi messi a disposizione dalla città capitolina per ospitare gli esuli cileni.

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La scheda di un esule cileno (Archivio Istoreco, Livorno)

Il palazzo romano di largo Torre Argentina diviene la sede dell’associazione “Italia-Cile” e dell’organizzazione internazionale “Chile Democratico”; in poco tempo Roma si trasforma nel maggiore centro propulsore, su scala internazionale, della massiccia azione di sostegno alla causa cilena.

Nel marzo del 1974 ad Aguirre e ad altri cinque compagni viene assegnata come città ospitante Livorno, partono quello stesso mese alla volta della città toscana. Solo nell’agosto del 1974 viene raggiunto dalla moglie Lina e dai figli, il ricongiungimento familiare era stato possibile grazie alla richiesta avanzata da Aguirre alla Croce Rossa internazionale presso l’Ambasciata italiana a Santiago.

Come testimonia Nocchi:

Alcuni cileni vennero anche a Livorno. Noi li aiutavamo come potevamo, alcuni trovarono lavoro nelle cooperative, poi piano piano si sono dispersi, c’è chi si è sposato, chi è tornato in Cile; poi nel tempo non li conosci più come cileni, sono livornesi […]

Inoltre, ci tiene ad evidenziare che:

Tutti i cileni che venivano stavano zitti. Erano talmente allibiti, addolorati da quello che era successo in Cile, che non se la sentivano di parlare. Sembra un po’ quello che accadde agli ebrei che tornarono dai lager nazisti.

Questo silenzio durato ben 46 anni che viene interpretato da Nocchi come reazione ad un sentimento di vergogna e sdegno per quanto accaduto, a mio avviso, può essere letto in parte anche come la conseguenza del sentimento di paura che, come affermato in un suo intervento dall’ex ambasciatore italiano Enrico Calamai dopo le sue esperienze in Argentina e in Cile durante gli anni Settanta, lascia tracce profonde anche a distanza di anni.

Questa testimonianza, come molte altre raccolte in questi anni da altri studiosi, è una memoria traumatica; un indicatore di questa sofferenza è il documento rilasciato dall’Ambasciata italiana a Santiago al nostro testimone, il quale successivamente deciderà di strapparlo. Oggi più che mai, è necessario rimettere insieme i pezzi di quel documento e ricomporre quella storia fatta di violenza e di nostalgia, ma anche di solidarietà e vicinanza.




La Linea Gotica in Toscana

Con l’avvio della campagna Alleata in Italia nel luglio 1943, l’8 settembre, e la lenta risalita delle truppe angloamericane nel sud della penisola, la strategia difensiva adottata dai tedeschi diviene quella della “ritirata aggressiva”. Essa presuppone un lento ripiegamento dal sud al nord della penisola su successive linee difensive fino a un tracciato fortificato principale individuato sugli Appennini centro-settentrionali. Questa è la Linea Gotica (ribattezzata poi Linea Verde), pensata dai nazisti per arrestare il più possibile l’avanzata Alleata e alleggerire la pressione militare su altri fronti di guerra. Inoltre, questo tracciato serve per sfruttare il più a lungo possibile il bacino padano ricco di fabbriche, risorse agricole, macchinari e capi bestiame.

I lavori per costruire la linea difensiva tra Massa (sul Tirreno) e Pesaro (sull’Adriatico), circa 300 km di fortificazioni che si inerpicano tra le Alpi Apuane e l’Appennino (per una profondità che varia tra i 15 e i 40 km), iniziano tuttavia solo nel febbraio 1944.

I tedeschi affidano la realizzazione della Gotica all’organizzazione TODT che arriverà a mobilitare 75.000 operai italiani. Nelle opere di costruzione della Gotica vengono impiegati prigionieri e lavoratori coatti, ma anche volontari: lavorare alle fortificazioni significa disporre di un reddito, poter accedere alle mense e alle infermerie e non essere deportati in Germania.

Lungo la Gotica vengono allestiti dei campi di lavoro per la TODT o sotto il controllo diretto della Wehrmacht: nell’estate del 1944 ne esistono ad esempio a Castelnuovo Magra (La Spezia), ad Anchiano (Borgo a Mozzano, Lucca) alla Futa ed a Traversa nel Comune di Firenzuola (Firenze), a Sasso Marconi (Bologna). Diversi rastrellati toscani sono condotti a Monzuno, Pianoro, Loiano e Medicina in provincia di Bologna, mentre a Nord della Gotica e nell’area del Po, oltre a una serie di campi mobili, fra le principali destinazioni fra agosto e settembre si contano Sala Baganza (Parma) e Vigarano Mainarda (Forlì).

Nonostante gli sforzi tedeschi i lavori procedono a rilento e, a metà di luglio del 1944, la Gotica non è ancora pronta: per questo le operazioni di approntamento si fanno frenetiche e il paesaggio diviene un campo di battaglia attraversato da carri armati e soldati, disseminato di campi minati, sbarramenti anticarro, postazioni in cemento per mitragliatrici, bunker e fortini.

Lo spazio appenninico e apuano preesistente alla costruzione della Gotica è caratterizzato dal mondo dei contadini di montagna e scandito dal lento e circolare ciclo delle stagioni, delle consuetudini e delle abitudini secolari. E’, in sintesi, un paesaggio fisico e culturale che viene violentato e trasformato dalla costruzione della Gotica. Le comunità vengono investite, quasi sorprese, dall’arrivo dei reparti tedeschi. La guerra, il fronte e il nazismo irrompono in casa.

Agli inizi di agosto 1944 gli Alleati hanno raggiunto la linea dell’Arno e, sull’Adriatico, Pesaro. A partire dalla metà del mese le operazioni si spostano così sulla Gotica.

Il settore orientale (romagnolo e marchigiano) e quello centrale (tra Firenze e Bologna) dell’ultimo baluardo tedesco in Italia sono teatro di dure battaglie. Il settore occidentale tirrenico, invece, viene ritenuto meno importante da entrambi i contendenti.

Il 25 agosto del 1944 ha inizio l’operazione Olive, l’offensiva Alleata che si concentra sul settore orientale del fronte. Per quanto riguarda la Toscana una della più importanti battaglie in questo periodo è quella del passo del Giogo (Firenze), vinta dagli Alleati il 18 settembre dopo ingenti perdite.

Tuttavia, l’avanzata delle divisioni britanniche e statunitensi viene bloccata dal terreno sfavorevole, dal maltempo, dall’ostinata resistenza tedesca e soprattutto dalla scelte strategiche dei vertici politico-militari Alleati che preferiscono concentrarsi sul fronte francese. L’attacco termina così alle porte di Bologna e, a fine ottobre, il fronte si arresta. Nel frattempo molte zone della Toscana occidentale rimangono in mano ai tedeschi: l’Alta Versilia, la Garfagnana e Apuania (Massa Carrara).

Il punto di svolta per quest’area toscana giunge solo dopo un altro durissimo inverno, nell’aprile del 1945, in concomitanza con lo sfondamento finale su tutto il fronte: il 10 è liberata Massa, l’11 Carrara e il 27 Pontremoli.

Lo spazio della Gotica non è solo uno spazio di scontro tra eserciti: l’attività delle formazioni partigiane, soprattutto a partire dall’estate del 1944, è un serio pericolo militare e politico per i nazisti e i collaborazionisti fascisti.

Innanzitutto, perché la guerriglia partigiana sollecita o provoca la fuga degli operai dai cantieri della TODT ritardando il completamento dei lavori di fortificazione.

In secondo luogo perché proprio a partire dall’estate si moltiplicano sulla Gotica le incursioni contro presidi fascisti e tedeschi, i sabotaggi, gli attacchi contro autocolonne e i convogli ferroviari. L’attività partigiana cresce di intensità anche perché dalle prime bande si passa a raggruppamenti più numerosi e meglio armati, capaci di impegnare militarmente il nemico, come ad esempio riesce a fare nel settore pistoiese e garfagnino della Gotica la formazione XI Zona di Manrico Ducceschi “Pippo”. Questa crescita qualitativa e quantitativa della Resistenza è il frutto di una più efficiente organizzazione in cui i comandi partigiani cercano di coordinarsi tra loro e le diverse bande presenti tendono a unirsi in formazioni più ampie.

Il settore versiliese, apuano e lunigiano vede attive già da prima numerose bande: comuniste, gielliste e anarchiche, ma anche formazioni autonome come i “Patrioti Apuani” di Pietro Del Giudice o il battaglione internazionale di ex prigionieri Alleati guidati dal maggiore inglese Gordon Lett. Nel luglio e nell’agosto del 1944 in queste zone si tenta di unificare alcune formazioni: nascono con questo intento, ad esempio, la Brigata Lunense e la X Bis Garibaldi Gino Lombardi.

La guerriglia partigiana costituisce inoltre un problema per i nazisti e i fascisti perché libera e controlla intere porzioni di territorio strategicamente necessarie alla tenuta della Gotica. L’esempio più noto è quello di Montefiorino, un’area di importanza strategica perché a ridosso degli assi viari di attraversamento degli Appennini (da La Spezia a Reggio Emilia, e da Pisa e Lucca a Modena), cruciali per rifornire le truppe che combattono a sud della Gotica. Montefiorino diviene uno spazio partigiano nel cuore della Gotica: attira centinaia e centinaia di uomini, anche dai territori vicini, dal bolognese e dalla Garfagnana. Ma altri esperimenti di “territorio libero partigiano”, benché più brevi e modesti, si hanno sul settore centrale della Gotica, nei comuni della Romagna Toscana e tra i valichi della Futa e di Casaglia a opera rispettivamente delle Brigate Garibaldi 8° “Romagna” e 36° “Bianconcini”.

In ultimo, i partigiani, i quali stringono rapporti di intesa e di protezione comunitaria con le popolazioni contadine, si presentano a queste come autorità legittima e alternativa ai nazifascisti.

Per tutte queste ragioni, tedeschi e fascisti rispondono alla minaccia partigiana, che opera alle spalle del fronte, con rastrellamenti e operazioni di bonifica del territorio che non risparmiano le popolazioni locali dando luogo lungo la Gotica a una serie di stragi di civili.

Come rilevato da Luca Baldissara, la Gotica è nello stesso tempo «una linea del fronte e di confine» che separa due eserciti (Alleati e nazifascisti), due governi (la RSI e il Regno del Sud) e due sistemi di occupazione (tedesco e Alleato). «Ma che diviene anche uno spazio in sé, dove migliaia di lavoratori faticano alla costruzione delle difese, dove decine di migliaia di soldati si insediano e si preparano al combattimento», dove i fascisti collaborano con i tedeschi e compiono (anche autonomamente) stragi e rastrellamenti, dove i partigiani operano, dove i civili vivono una quotidianità stravolta dalla guerra[1]. La Gotica, in sintesi, è uno spazio che racchiude in sé la storia della seconda guerra mondiale.

Inoltre, qui non si combattono solo statunitensi, inglesi, tedeschi ed italiani, ma uomini in uniforme provenienti dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Australia.

«Tanti percorsi si incrociano sulla Gotica e nel suo spazio allargato, dove molti uomini giungono da mondi diversi e lontani, incontrandosi con gli abitanti e i partigiani, trovandosi nemici o alleati in guerra, costretti alla prossimità nei momenti di sospensione del conflitto, in una convivenza più o meno forzata. E’ una grande esperienza collettiva filtrata dalla guerra, che fa della Gotica anche una linea mentale»[2].

[1]L. Baldissara, Gotenstellung. Linea del fronte, linea di confine, linea “mentale”, in M. Carrattieri e A. Preti, Comunità in guerra sull’Appennino. La Linea Gotica tra storia e politiche della memoria, Roma, Viella, 2018, p. 43.
[2]Ivi, p. 60.




«…tutto era cambiato, ma come fosse cambiato era tutto assolutamente da vedere…»

Con questa intervista a Giuseppe Matulli, Presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze, si apre su Toscana Novecento la nuova rubrica dedicata alla Storia e alla Memoria della “caduta del Muro” (https://www.toscananovecento.it/custom_type/una-nuova-rubrica-di-toscananovecento/). Un percorso di approfondimento e riflessione pensato in occasione del trentesimo anniversario del crollo del Muro di Berlino che proseguirà nei prossimi mesi con la pubblicazione di altre interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane che di quell’evento furono testimoni e, nei loro contesti di riferimento, a loro modo protagonisti.

 

[Avvertenza: nel trascrivere l’intervista si è cercato di mantenere il più possibile inalterato nei suoi aspetti formali ed espressivi il discorso parlato. Ove necessario, a scopo di chiarificazione si sono inseriti fra parentesi quadre brevi indicazioni e aggiunte al testo, rinviando invece ulteriori interventi di commento o spiegazione nelle note a piè di pagina. L’intervista è stata registrata il giorno 26 novembre 2019 presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze]

D. Presidente Matulli, può dirci intanto brevemente, lei che ruolo aveva nel 1989? Quali attività professionali e politiche svolgeva o aveva svolto sino ad allora?

R. Io mi sono occupato di politica fin da giovanissimo, militando nelle file della Democrazia Cristiana. Ero già stato vicesindaco del mio comune, Marradi, e consigliere regionale, eletto nel 1970 nella prima legislatura regionale. Fui poi eletto in Parlamento, nel 1987, dove sono rimasto fino al 1994. Dunque, nel 1989 ero parlamentare della DC[1].

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Giuseppe Matulli al tempo della sua deputazione parlamentare per la DC nella X e XI Legislatura (fonte:Wikipedia)

D. Presidente, come ha vissuto gli eventi che hanno portato alla caduta del Muro, il 9 novembre 1989? Aveva la percezione che qualcosa di quella portata potesse accadere? O invece è stato qualcosa di inatteso? Che emozioni e riflessioni le ha suscitato quell’evento? E inoltre, che tipo di impatto quei fatti ebbero sul piano politico, rispetto al suo ruolo e al partito cui apparteneva, ma anche nel suo contesto territoriale di riferimento?

R. La caduta del muro…quell’evento in realtà ci prese di sorpresa. Cioè, si capiva benissimo in quel periodo che la situazione si andava trasformando…sotto gli effetti della Glasnost’ e della Perestrojka avviate da Michail Gorbačëv[2]…ma il tipo di evento, per la sua portata e significato, lasciò scioccati tutti…c’è un episodio a tal riguardo particolarmente rivelatorio, che mi ricordo…quando De Mita era Presidente del Consiglio e fece un viaggio in Russia[3] prima della caduta del muro, si ebbero alcuni cenni di tensione con il nostro ambasciatore a Mosca, Sergio Romano, perché – almeno così pare – questi non ravvisava concretamente il segno di una radicale trasformazione in corso…riteneva che si trattasse [in riferimento alle politiche di ristrutturazione di Gorbačëv] prevalentemente di propaganda, senza nulla di sostanziale sotto…e quando De Mita gli chiese da cosa traeva queste conclusioni gli rispose che era la storia della Russia che gli faceva capire queste cose qui…evidentemente non aveva capito granché…le cose poi avrebbero rivelato tutt’altro…ma ciò è significativo del fatto che allora c’era questo processo difficile da decifrare…quali sarebbero state le conseguenze…

…certo qualcosa di nuovo c’era rispetto…non dico a Brežnev, ma anche rispetto ad Andropov o al suo successore[4]…ma non si riusciva a capire come si sarebbe risolto…quindi, la caduta del muro fu una sorpresa…che fu una sorpresa allora poi lo si vede anche nelle ricostruzioni del tempo…si pensi alla famosa domanda che il giornalista dell’Ansa rivolse alle autorità di Berlino est: “se è possibile [attraversare la frontiera], ma allora da quando è possibile?”…la risposta data dalle autorità fu addirittura sorprendente: “ci risulterebbe fin da questo momento”[5]…fu lì che esplose tutto, di fronte alle autorità tedesche dell’Est che praticamente dichiaravano il muro non più esistente, comunque non più una frontiera…

Ma come la vivemmo noi, in Italia…come un fatto che, in parte, era la conseguenza logica di quello che stava avvenendo con la presidenza di Gorbačëv…ma era una conseguenza logica difficile da prevedere, perché se era logico il movimento che veniva fuori…era difficile prevedere che le cose andassero così…erano movimenti, come dire, misteriosi, in un mondo altrettanto misterioso in cui si era visto di tutto…si era visto la Primavera di Praga, poi si era visto l’invasione…eran tutti colpi di scena che non consentivano, o almeno a noi, non consentivano di fare una valutazione…e quindi…si rimase così…sicuramente però fu un fatto enorme.

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12 novembre 1989. Achille Occhetto, segretario generale del PCI, intervenendo al rione Bolognina annuncia la “svolta” del partito che porterà poi nel febbraio 1991 al suo scioglimento (fonte: Wikipedia)

Naturalmente, cosa significava qui da noi, a livello locale, la caduta del muro…a livello locale, allora, il rapporto fra parlamentare e territorio era molto stretto, era difficilissimo passare un fine settimana senza avere un paio di incontri…ed era molto interessante andare a riflettere con la gente di questi avvenimenti, con tutte le incertezze…era sicuramente un fatto molto importante, talmente importante che poi qualche giorno dopo arrivò la Bolognina[6]….e ricordo che in Parlamento, una volta, mentre partecipavo ai lavori di una commissione, mentre si stava organizzando il calendario, dissi rivolgendomi a un collega: “voi del gruppo comunista…”. “Ma come” [mi sentii rispondere] “ma ci chiami ancora comunisti?!”…ma erano passati appena pochi giorni [dalla Bolognina]!!…[ilarità]…ecco c’era questa sensazione stranissima, ma non era una sensazione, che so io, che avesse dei connotati precisi…era una sensazione che tutto era cambiato, ma come fosse cambiato era assolutamente tutto da vedere…naturalmente, in periferia e in questi incontri, appunto…era molto interessante seguire i dibattiti, non solo per quanto mi riguarda nelle sezioni locali della DC, ma io ricordo di aver dibattuto molto con il segretario [regionale toscano del Partito Comunista Italiano], anche lui deputato, [Giulio] Quercini[7]…e gli dissi “d’accordo avete cambiato nome, ma avete aspettato che crollasse l’Unione Sovietica, o almeno che crollasse il muro”…sì, è vero…c’era questa sensazione di grande cambiamento…

Le conseguenze erano sicuramente rilevanti…io ricordo, come una mia impressione…non so se in occasione di una qualche ricorrenza della caduta del muro o di lì a poco nei primi anni Novanta…a me fece in qualche modo sorridere che la DC tirò fuori in quella particolare occasione un manifesto, facendo riferimento alla battaglia politica del 1948, un manifesto titolato “18 aprile 1948 dalla parte giusta” che era il modo più stupido di fare una cosa di questo genere[8]…che nel 1948 tu fossi stato dalla parte giusta lo dimostra ancora il fatto che ai primi anni Novanta eri ancora lì…ma non è che nei primi anni Novanta puoi avere vantaggio da una scelta fatta cinquant’anni prima…dà la sensazione di gente che pensava a una continuità che non ci poteva più essere…ma ecco, a parte questo, la percezione che non poteva più esserci la continuità, nel 1989, c’era…al punto tale che io qualche anno dopo partecipai a un seminario che fece a Berlino la Fondazione Adenauer sul processo di unificazione tedesca… qui siamo già successivamente al 1989, quando prese corpo il processo di unificazione tedesca….ma anche la partecipazione a questo seminario mi fece toccare con mano cose imprevedibili…

mi ricordo, a parte l’interesse di andare a vedere cosa accadeva là……ci portarono a vedere le vecchie zone della Germania dell’Est, Berlino Est…ma la cosa che mi fece più impressione, e che credo sia un fatto piuttosto significativo, è che…intanto la sensazione che si dice anche adesso, ma che non poteva essere che così…è stata un’unificazione o è stata un’annessione? Non poteva che essere un’annessione, perché la forza di quell’altra parte era crollata e quindi era inevitabile che succedesse questo…ma, tipico dei tedeschi – [perché] noi non saremmo mai riusciti a fare una cosa di questo genere – noi andammo a vedere l’esercito…l’unificazione dell’esercito era emblematica del sistema…tutti i corpi avevano il doppio comando…dall’inizio fu fatto così…un battaglione, una divisione eccetera era governato non da uno ma da due generali, uno di qua e uno di là [uno della Germania Ovest e uno della Germania Est]…due colonnelli…era tutto doppio, io rimasi allibito…è proprio la razionalità tedesca, per un certo periodo…non si fa la rivoluzione ma si fa l’unione, così si mettono tutti e due…vanno avanti alcuni mesi, dopodiché quelli della Germania dell’Est, ovviamente, vengono mandati in pensione, non è che vengono degradati o puniti…ecco…il fatto di vedere queste cose, in cui si vedevano due colonnelli che parlavano dell’unificazione delle forze armate era un fatto…che faceva un certo effetto.

Io per come la ricordo ora, almeno, fu proprio la sensazione di un enorme cambiamento, di questa vicenda incredibile dell’unificazione tedesca…anche un certo entusiasmo, il fatto che lo si considerava un fatto molto positivo…era la fine della guerra…la vera fine del dopoguerra…peraltro metteva in luce…la famosa battuta di Andreotti “ho tanta simpatia per la Germania che ne preferisco vedere due”[9]…che è una battuta…ma questo è un discorso che faccio ora naturalmente, e che non facevo allora…ma è una battuta significativa…a me viene in mente [per contrasto] Alcide De Gasperi…parlo di lui perché, per l’appunto, ho avuto recentemente la possibilità di studiarne aspetti di questo tipo[10]…quando De Gasperi è Presidente del Consiglio in Italia nel 1945…naturalmente il paese allora era del tutto isolato…lui approfitta immediatamente del fatto che i francesi, i quali erano e si consideravano – per certi aspetti anche meritoriamente nonostante il fatto che [nel 1940] fossero stati spazzati via immediatamente dai tedeschi – loro si consideravano gli unici vincitori continentali…e cosa succede, quando gli americani si organizzano con la cortina di ferro, si organizzano nel punto che loro ritenevano più delicato, cioè la barriera tedesca, e quindi…allora i francesi avevano tutto l’interesse per dire…guardate che la cortina di ferro arriva fino all’Italia…e quindi avere un fronte meridionale che fosse un po’ più importante…dunque dicevo, agevolato anche dal fatto che De Gasperi era persona stimata, peraltro era molto amico di Bidault[11] sul piano personale, e allora fecero subito…perché il primo uomo di stato che venne in Italia nel 1948 fu Bidault, il primo accordo internazionale che fece l’Italia fu l’unione doganale con la Francia, che non era cosa banale per rimettersi in moto…però…De Gasperi aveva anche questa caratteristica, un po’ perché era realista e sapeva che l’Italia non poteva andare a dettar legge in Europa…e quindi quando i francesi lo cercavano non gli pareva il vero…ma quando però i francesi gli dicono “si può fare tutto quel che si vuole [dell’Europa] ma i tedeschi vanno tenuti fuori”…e lui [De Gasperi] ha il coraggio di dire fin dall’inizio “finché i tedeschi non avranno riacquistato la sovranità piena il dopoguerra non sarà finito”…e il dopoguerra finiva di fatto, appunto, con l’unificazione tedesca…come dicevo prima, il dopoguerra finiva con il crollo del muro…e da lì in poi infatti cambia tutta la politica…

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Il diario di Giuseppe Matulli dei suoi due viaggi compiuti a Praga nel marzo 1989 e nel gennaio 1990, prima e dopo la caduta del Muro di Berlino.

…quanto ci fosse la consapevolezza allora di questo cambio di paradigma, io dubito molto…devo dire a livello personale…dopo che il  Partito Comunista Italiano era diventato PDS…[anche] la DC si trasformò…ritornò ad assumere il nome di Partito Popolare…ecco, quella era una finzione, perché le forze politiche rimanevano le stesse, ma si sentivano talmente inadeguate al loro tempo che cambiavano nome, però era una presa in giro…di se stessi, della storia, dell’opinione pubblica…perché rimanevano sempre quelli…io non partecipai, nonostante allora fossi sottosegretario alla pubblica istruzione, quando durante questo periodo ci fu la formazione del Partito Popolare Italiano, perché la cosa non mi convinceva per due motivi…il primo perché, nonostante il processo fosse guidato da un personaggio che godeva di stima universale quale Martinazzoli[12], il fatto di scegliere il 18 gennaio [1994] come data di fondazione, la stessa data in cui nel 1919 era stato fondato il Partito Popolare, era una cosa ridicola…il fatto poi che il partito era nato nel 1919 dall’appello agli “uomini liberi e forti” di Sturzo[13]….Martinazzoli aveva fatto un appello simile….cioè era uno scimmiottamento di una cosa avvenuta settant’anni prima che aveva del ridicolo, non aveva il senso della storia…naturalmente guardavano al passato…non aveva senso…e questo valeva anche per le trasformazioni del PCI…nelle sue varie metamorfosi…PDS, DS ecc. ecc…sia nell’uno che nell’altro caso, tutto fu fatto sulla base della caduta delle ragioni di contrapposizione fra due formazioni politiche che avevano cambiato nome…fu un processo tutto rivolto a guardare al passato, nel senso però di come rimediare al passato, senza però avere il coraggio di guardare al futuro…c’era quindi sempre questa sensazione che tutto era cambiato, ma che si faceva fatica a capire il cambiamento…

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La delegazione italiana a Praga è ricevuta dal dissidente ceco Jiří Hájek (al centro). Matulli è il primo sulla sinistra (fonte: G. Matulli, Praga prima e dopo…p.8)

Fu più o meno in contemporanea a questo processo che feci l’esperienza di un viaggio oltrecortina, a Praga[14]… l’idea del viaggio fu di Agrusti[15] di approfittare della vacanza del Parlamento per il congresso del PCI[16], siamo nel marzo del 1989, per andare a Praga al processo di appello al drammaturgo Havel[17] e prendere contatto con gli esponenti del movimento di “Charta 77”[18]. Jiří Pelikán che era in Italia[19] e Gilberto Bonalumi[20], un nostro amico ci davano una mano molto preziosa nella preparazione. Andiamo là e…mi ricordo cosa ci disse Hájek[21] che ci ricevette a Praga…ancora non era crollato il muro di Berlino ma era successo quello che era successo anche in tutti gli altri paesi del blocco sovietico…e Hájek ci disse; “certo che avverrà anche qui…[Matulli legge un passo del suo diario]…”sui marciapiedi della via lungo la Moldava dove abitava Havel, Hájek ci dice di non essere pessimista, ma, aggiunge: nei tempi della storia non in quelli della cronaca”…e questo in risposta alle nostre domande che gli chiedevamo cosa stesse succedendo….era significativo…dopo quando lo ritrovammo per il nostro secondo viaggio a Praga [vedi nota a piè di pagina numero 14] e gli ricordammo “ma lei ci aveva detto così…” [alludendo alla previsione rivelatasi sbagliata di  Hájek]…risultò chiaro che era perché nessuno, neppure Hájek poteva immaginare che lo Stato fosse praticamente un castello di carta e che bastasse dire “si vorrebbe” perché crollasse…quindi…io ho vissuto  questa esperienza…

…tutte queste novità, sì, ma si viveva in un’atmosfera talmente diversa che non si riusciva a dire che cosa sarebbe successo…c’era questa grande sorpresa e questa grande difficoltà che ancora oggi stiamo pagando…della incapacità di capire cos’era successo…forse oggi si ha la sensazione che buona parte…anzi…addirittura…noi lo capimmo solo quando si stava per andar via da Praga, per tornare in Italia… persino Jiří Pelikán e il nostro ambasciatore a Praga [Giovanni Castellani Pastoris], che pure tenevano rapporti con Dubček[22] e con Hájek, avevano cioè rapporti col movimento di dissenso al regime…nemmeno loro lo capivano, solo alla fine…cioè che i dissenzienti, che noi nel nostro viaggio a Praga andavamo a trovare nascosti nelle loro case, facendo finta di niente e non dicendo nulla a nessuno [per timore del regime]…e invece noi ci dimostrammo fuori dal mondo, dei “deficienti”…perché loro avrebbero voluto che noi…tre parlamentari italiani, certo non chissà quali autorità, ma comunque…loro avrebbero voluto che noi che si arrivava nella Praga di allora (prima cioè della caduta del muro) avessimo fatto una conferenza stampa con loro…perché questo significava dare forza a loro, far vedere che non erano dimenticati…e invece noi…non avevamo capito assolutamente niente di quello che succedeva là…è una riflessione che ho fatto dopo naturalmente[23]. Al punto tale che poi, al ritorno in Italia, qualcuno che si occupava di politica estera ci aveva detto che questi dissidenti erano velleitari, tanto che si ventilava la possibilità di accordi col regime di Husák, perché questi dissidenti erano dei velleitari…li chiamavano poi infatti “i poeti”…dopodiché, dopo tornati in Italia, i “poeti” invece avevano fatto la rivoluzione e avevano vinto…in questa rivoluzione….che però loro non volevano, giustamente, che si chiamasse “di velluto”…lo sapevano loro che cosa essa aveva significato…sacrifici…in tal senso ci sono anche molti aneddoti che ci raccontarono alcuni intellettuali…ci sono episodi anche carini, simpatici per così dire…ce ne è uno in particolare favoloso…[Matulli si prodiga a ritrovare l’esempio che vuol raccontare nelle pagine del suo diario del viaggio]…c’erano intellettuali che venivano posti [dal regime] a fare lavori non intellettuali perché sennò potevano essere pericolosi…e sicché, c’è il racconto…ecco…[Matulli cerca di ritrovare nel proprio diario il punto in cui si rievocano i casi dei due dissidenti Voclav Benda e Martin Paulosh, entrambi laureati in scienze e filosofia, ma costretti dal regime comunista cecoslovacco a lavorare come fuochisti di una caldaia, non trovandolo cerca di rievocare a mente le parole di Paulosh]: “…per mandare avanti una caldaia eravamo in tre ed avevamo cinque lauree”[24]…è bellissima questa…

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23 marzo 1989: Alexander Dubček (al centro) incontra la delegazione italiana. Matulli è alla sinistra di Dubček mentre alla destra vi sono Agrusti e Castagnetti (fonte: G. Matulli, Praga prima e dopo…p.31)

D. Presidente Matulli, so che lei ha fatto altri viaggi oltrecortina, in Polonia se non erro. Che ricordo ne ha, anche rispetto al ruolo che ebbe in quel contesto il cattolicesimo rispetto ai movimenti dissidenti?

R. Questo è un discorso a mio avviso molto difficile…perché, dunque io sono stato due volte in Polonia, la prima volta mi pare nel 1966 o 1967, poi dopo ci sono tornato qualche anno dopo…e in Polonia, intanto c’è un dato pacifico…la Polonia era un paese cattolico per un fatto nazionale…la religione era più importante della lingua, di tutto, perché si distingueva dagli ortodossi russi e dai protestanti tedeschi…un polacco non poteva che essere cattolico…questo dato identitario ha un’importanza enorme nella gestione del mondo comunista, perché il partito comunista anche nel periodo del potere stalinista non poteva fare a meno di tenere rapporti di un certo tipo con la Chiesa. La cosa singolare è che nella società polacca, e forse non solo nella società polacca, ma almeno lì il dato era evidente, c’erano divisioni…tre gruppi almeno di cattolici polacchi…io ne ricordo almeno due di posizioni più radicali…un gruppo che era praticamente collaborazionista col partito comunista e l’altro, che si chiamava Znac, “Il segno” in polacco…questo gruppo, associazione, pubblicava una rivista dal titolo Tygodnika Powszechnego, in italiano “Settimanale Universale” con sede a Cracovia…a Cracovia io incontrai il direttore Jerzy Turowicz[25] un intellettuale non da ridere, il quale, pur non avendo mai studiato l’italiano ma avendo studiato il francese e lo spagnolo parlava correttamente anche l’italiano…Turowicz, ci diceva che…la censura allora non scherzava…Turowicz…ecco purtroppo questa è una cosa che non si può più accertare…ma Turowicz era molto amico di Papa Wojtyla [Giovanni Paolo II] che allora era arcivescovo di Cracovia…ma Turowicz era un uomo di una laicità straordinaria, tanto è vero che durante il Concilio [Concilio Vaticano II, 1962-65] lui venne a Roma e io lo portai a Firenze, dove fece una conferenza…poi andò a parlare con La Pira [Giorgio La Pira] e quando lo riportai a Roma in macchina lui mi parlò dell’integralismo di La Pira, in termini…cioè, con molto rispetto perché La Pira è La Pira…ma La Pira aveva una visione che era più profetica che politica e quindi…poi La Pira lo dice addirittura nell’intervento alla Costituente, che lo Stato laico non ha nessun senso…e lui invece [Turowicz] era profondamente laico e quindi da questo punto di vista era abbastanza diverso anche da Wojtyla…

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Giiovanni Paolo II durante il suo primo viaggio in Polonia nel 1979 (foto di Barbara Bartkowiak, via Wikipedia Commons – CC)

…io non lo so, l’ho sempre sentito dire…tutti celebrano il peso determinante del papato di Wojtyla [nella caduta del comunismo]…dunque, però io, lo dico molto sinceramente, confesso di non averlo capito questo tipo di meccanismo…certo capisco benissimo che uno va…poi va in Polonia…in Polonia succede quel che succede[26]…ma Solidarnoś[27] succede per effetto del Papa oppure succede per effetto della Storia che crea questo…questa specie di bolla per cui si può essere al massimo cattolici e comunisti, ma non si può essere comunisti…?…cioè…la posizione del comunista anticattolico [in Polonia] è una minoranza estrema, insomma…per cui non lo so…io vedo più il crollo della capacità di [tenuta dell’Unione Sovietica]…

…perché l’Unione Sovietica secondo me…c’è una continuità storica impressionante nella storia della Russia…recentemente ho letto uno studio sui Gulag…i Gulag non sono niente di nuovo, cioè sono quelli che c’erano ai tempi dello Zar…la politica estera, al di là di tutte le affermazioni della Russia come stato guida del comunismo internazionale eccetera…ma anche nella diatriba interna al comunismo sovietico tra Stalin e Trockij… Trockij voleva predicare il comunismo in tutti i paesi del mondo e Stalin fa la politica di potenza, fin da quel momento, e la fa…e tutti gli avvenimenti gli consentono di fare esattamente quello che avrebbe fatto lo Zar…ed è esattamente quello che sta facendo ora Putin…cioè c’è una continuità impressionante…ed è in questa continuità che fallisce…cioè fallisce…ha fatto anche troppo devo dire [Stalin]…ha fatto anche troppo a reggere fin quanto ha retto…però alla fine, gli si è disgregato in mano tutto quanto….quindi in conclusione io credo che sia molto più la inconsistenza delle politiche sovietiche [la ragione del crollo del muro]…anche perché, la Russia è un paese ricco e il comunismo era riuscito a impoverirlo…

…ma forse anche questo è un elemento di continuità…un paese ricco, lo Zar lo gestiva con una mano di ferro da far paura, violentissima…tutta la gestione precedente della storia russa è violentissima…e quindi, cosa faceva [Stalin]…faceva quello che avevano fatto gli altri prima di lui…quel che facevano prima, lui [Stalin] lo faceva in nome del popolo invece che in nome della nazione, dello Stato ecc.…dopodiché, vedere in questo quadro un paese [la Polonia] che emerge all’attenzione mondiale, perché, prima il Papa…e questo Papa che ha anche un suo successo…certo, che si tratta di un fatto psicologicamente, simbolicamente enorme…ma insomma, quando va in Polonia…è un fatto che sicuramente contribuisce, ma contribuisce in una situazione che era già pregiudicata…ma comunque, tornando a Turowicz, questo intellettuale molto avanzato…lui diceva molto chiaramente, il cattolicesimo polacco è stato rinforzato dal comunismo…ma comunque il cattolicesimo polacco è anzitutto un fatto identitario nazionale…lo si vede anche oggi, come si è saldato di nuovo al nazionalismo in quel paese…ma io credo che le ragioni del crollo [del comunismo] siano assai più complesse di quelle legate a questo solo aspetto religioso…

[…]

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[1] Giuseppe Matulli (Marradi, 5 dicembre 1938), laureato in economia e commercio presso l’Università degli Studi di Firenze, ha svolto per lunghi anni attività amministrativa e politica, rivestendo importanti incarichi sia a livello locale che nazionale. Assessore e vicesindaco del proprio comune di nascita (Marradi) e Presidente della Comunità Montana dell’Alto Mugello, è stato consigliere regionale della Toscana dal 1970 sino al 1987. Sindaco di Marradi dal 1985 al 2002 è stato anche vicesindaco di Firenze dal 2002 al 2009. Esponente della Democrazia Cristiana, ne è stato segretario regionale per la Toscana dal 1983 al 1987. Eletto alla Camera dei Deputati nel 1987 per la X Legislatura e poi riconfermato sempre nelle file della DC alle successive elezioni del 1992, ha rivestito l’incarico di sottosegretario della Pubblica Istruzione nei governi Amato e Ciampi. Nel marzo 2019 è stato eletto Presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze.

[2] Glasnost’ (convenzionalmente, “trasparenza”) e Perestrojka (“ricostruzione”) indicano come noto l’insieme di riforme che caratterizzarono il nuovo corso politico di Mikhail Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito Comunista Sovietico, e che innescarono la catena di eventi che portò alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

[3] Ciriaco De Mita, politico, segretario nazionale della DC e Presidente del Consiglio dal 13 aprile 1988 al 22 luglio 1989. Nell’ottobre del 1988 De Mita, assieme al Ministro degli Esteri italiano Giulio Andreotti, si recò a Mosca in visita ufficiale a Michail Gorbačëv.

[4] Leonid Brežnev, Jurij Andropov e Konstantin Ustinovič Ĉernenko, in ordine i tre segretari generali del Partito Comunista Sovietico prima di Mikhail Gorbačëv.

[5] Matulli si riferisce qui alla famosa domanda che il giornalista italiano dell’ANSA Riccardo Ehrman pose il 9 novembre 1989 nel corso di una conferenza stampa a Berlino Est a Günter Schabowski, portavoce del governo della DDR circa l’entrata in vigore del nuovo regolamento di transito tra le due Germanie; regolamento dibattuto nei giorni precedenti dalle autorità tedesche orientali e nel quale erano contemplate graduali aperture nella legge che impediva l’espatrio ai cittadini della DDR. Al quesito di Ehrman, se cioè il regolamento valesse anche per il transito da Berlino Est a Berlino Ovest e se sì da quando, Schabowski rispose inavvertitamente “a quanto ne so, da subito”. La notizia, rilanciata da tutta la stampa, fu letta come il preavviso della decisione delle autorità della Germania dell’Est di aprire il confine tedesco e spinse un ingente numero di persone a radunarsi presso il muro

[6] Il 12 novembre 1989, il segretario del Partito Comunista Italiano Achille Occhetto durante la commemorazione del 45° anniversario della battaglia di Porta Lame tenutasi a Bologna nella sala comunale di via Pellegrino Tibaldi, nel rione della Bolognina del quartiere Navile, annunciò l’apertura (da cui, la “svolta della Bolognina”) del processo politico che porterà il 3 febbraio 1991 allo scioglimento del Partito.

[7] Giulio Quercini (Siena, 16 dicembre 1941), consigliere regionale dal 1980 al 1987, segretario federale toscano del Partito Comunista italiano e deputato alla X Legislatura.

[8] Matulli qui allude al cartello-manifesto che aprì il Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana del 18 aprile 1990 nel quale campeggiava accanto alla foto di De Gasperi e sopra lo scudo crociato la scritta: “18  APRILE 1948 18 APRILE 1990 DALLA PARTE GIUSTA”

[9] Matulli allude alla famosa frase pronunciata in occasione della riunificazione tedesca da Andreotti: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”

[10] Giuseppe Matulli, Alcide De Gasperi: quando la politica credeva nell’Europa e nella democrazia, Prefazione di Enrico Letta, Clichy, Firenze 2018.

[11] Georges Bidault, Presidente del Governo provvisorio della Repubblica francese dal giugno 1946 al dicembre 1946 e poi Presidente del Consiglio francese dall’ottobre 1949 al giugno 1950

[12] Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario nazionale della Democrazia Cristiana e promotore della fondazione, il 18 gennaio 1994, del nuovo Partito Popolare Italiano di cui divenne Segretario generale.

[13] Si allude al manifesto (L’Appello ai liberi e forti) redatto nel 1919 dalla Commissione provvisoria guidata da Don Luigi Sturzo al momento della fondazione del Partito Popolare Italiano

[14] Tra il 19 e il 24 marzo 1989, Matulli, assieme ai colleghi parlamentari Luigi Castagnetti e Michelangelo Agrusti, compì un viaggio oltrecortina a Praga, dove ebbe la possibilità di entrare in contatto con alcuni dei principali dissidenti storici del regime comunista cecoslovacco, tra i quali Alexander Dubček, Václav Havel e Jiří Hájek. Successivamente, compì un secondo viaggio a Praga tra il 2 e il 5 gennaio 1990, dopo cioè la caduta del Muro di Berlino, incontrando nuovamente i dissidenti, protagonisti nel frattempo della “Rivoluzione di velluto” che tra il novembre e il dicembre 1989 aveva portato alla dissoluzione del regime comunista cecoslovacco. Di entrambi questi viaggi, Matulli pubblicò un breve diario, cfr. G. Matulli, Praga prima e dopo. Diario di un viaggio in due stagioni, Centro Toscano di Documentazione Politica, supplemento gratuito, A. IV, n. 3, marzo 1990.

[15] Michelangelo Agrusti, politico e parlamentare DC

[16] XVIII Congresso nazionale del PCI che si svolse a Roma tra il 12 e il 22 marzo 1989.

[17] Václav Havel, politico e drammaturgo ceco, dissidente e perseguitato politico sotto il governo comunista della Cecoslovacchia. Dopo la “Rivoluzione di velluto” fu tra il 1989 e il 1992 l’ultimo Presidente della Cecoslovacchia e nel 1993 primo Presidente della neocostituita Repubblica Ceca.

[18] Movimento di dissenso  costituito in Cecoslovacchia nel 1977 da alcuni eminenti esponenti dell’intellettualità e della cultura, tra cui lo stesso Václav Havel, il diplomatico Jiří Hájek, il filosofo Jan Patočka, il drammaturgo e poeta Pavel Kohout

[19] Jiří Pelikán attivista cecoslovacco, tra i sostenitori e promotori della “Primavera di Praga”, dopo la repressione sovietica del governo di Dubček trovò riparo in Italia.

[20] Gilberto Bonalumi, giornalista e parlamentare DC

[21] Jiří Hájek, diplomatico ceco e ministro degli Esteri di Dubček durante la Primavera di Praga, denuciò all’ONU l’invasione sovietica del paese e per questo fu arrestato e incarcerato. Tra i fondatori del movimento di dissenso “Charta 77”, Hájek nel marzo 1989 ricevette la delegazione italiana di cui faceva parte Matulli, facendo loro da interprete. Come appuntò nel suo diario lo stesso Matulli, Hájek, professore di storia contemporanea e di diritto internazionale “parla correttamente russo, francese, inglese, tedesco, italiano, spagnolo”, cfr. B. Matulli, Praga prima e dopo, cit., p. 7.

[22] Alexander Dubček, segretario del Partito Comunista cecoslovacco e artefice all’inizio del 1968 del tentativo di riforma e di liberalizzazione del sistema politico cecoslovacco (“Primavera di Praga”) poi brutalmente represso nell’agosto successivo dall’intervento delle forze armate sovietiche.

[23] Ma già nel suo diario Matulli aveva però annotato la delusione del dissidente Voclav Benda, raggiunto nel suo piccolo appartamento praghese, che gli aveva confessato: “sentiamo l’Italia lontana, la più lontana fra tutti i paesi europei. Vi siamo grati per questa visita ma l’incontro sarebbe stato più significativo se si fosse svolto nella ufficialità dell’ambasciata (come ha fatto Mitterand)”, cfr. G. Matulli, Praga prima e dopo, cit., p. 20.

[24] “Attorno alla stessa caldaia eravamo tre ed avevamo cinque lauree”, si può leggere in effetti nel diario di Matulli, cfr. Id., Praga prima e dopo, cit., p. 20. Rafforza il concetto anche un’ulteriore annotazione dell’incontro col dissidente Benda al quale – ricorda Matulli – “attualmente gli è impedito anche il lavoro manuale, per cui dice, sorridente e ironico, che la sua attuale professione è quella di “donna di casa”, ibidem.

[25] (1912-1999) Giornalista cattolico polacco, editore di numerose testate polacche, in particolare diresse dal 1945 sino alla sua morte nel 1999 il settimanale di cultura cattolica Tygodnika Powszechnego. Il periodico era stato sospeso nel 1953 per non aver voluto pubblicare il necrologio di Stalin, riprendendo le pubblicazioni a partire dal 1956.

[26] Matulli allude al primo viaggio in Polonia compiuto nel giugno 1979 da Giovanni Paolo II, il cui successo parve assestare un colpo durissimo al governo comunista polacco.

[27] Il sindacato autonomo nato nel settembre 1980 in seguito agli scioperi dei lavoratori dei cantieri navali di Danzica e guidato dal futuro Premio Nobel per la Pace Lech Wałsa, artefice del processo di dissoluzione del regime comunista in Polonia.




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.




Sui luoghi della memoria o la memoria dei luoghi

L’espressione ripresa da Pierre Nora, e subito fraintesa, come ebbe a scrivere lo stesso autore, doveva facilitare un approccio critico al problema dei luoghi, ma si trasformò da subito in una espressione autocelebrativa.

A distanza di molti anni dall’opera di Nora, la situazione non è migliorata, anzi è profondamente peggiorata. Prima però di fare alcune riflessioni legate soprattutto, come mi pare corretto, all’esperienza maturata all’interno delle attività dell’Istoreco di Livorno e del territorio della sua provincia e, in parte, della provincia di Pisa, vorrei fissare l’attenzione sul titolo che dichiara da subito come si debba dividere la problematica in due diverse concettualizzazioni. Un conto è ragionare sui “luoghi della memoria” e un conto è ragionare sulla “memoria dei luoghi”. Mentre i secondi, a mio parere sono quelli che, con maggiore spontaneità, attraverso gli anni, sono diventati dei veri e propri topos che condensano alcuni significati importanti per gli abitanti che vivono su quello spazio o nei suoi pressi, o, forse è più corretto ipotizzare, per una parte dei suoi abitanti. Faccio un esempio chiaro per la consapevolezza di un italiano medio, perlomeno lo spero. Il luogo dell’attentato a Falcone, alla moglie e alla scorta sulla strada che dall’aeroporto di Palermo arriva nel capoluogo siciliano.

Ci passai molti anni fa, perlomeno 18-20 anni fa (era quindi l’anno 2001 o 1999). A ricordare cosa era accaduto lì, il 23 maggio 1992, c’era solo la vernice rossa che una qualche mano pietosa ed onesta (penso qualcuno dei lavoratori che rifecero il guard rail) aveva steso per attirare l’attenzione degli autisti che si trovavano a passare di lì. Lì era accaduto qualcosa di grosso, di veramente esorbitante, cosa nostra aveva fatto saltare uno dei simboli alla lotta alla mafia, e l’aveva fatto provocando un cratere degno di una guerra. Erano passati già diversi anni da quell’attentato ma l’erezione di un cippo commemorativo avvenne solo nel 2004. Dodici anni dopo la strage! Siamo sempre stati un Paese lento nel prendere coscienza, e qualche volta manco la prendiamo.

Ma dal punto di vista del significato, quella semplice rudimentale mano di vernice, suscitava un grande impatto e segnalava l’accaduto e nello stesso tempo denunciava la negligenza dello Stato. Quella poca vernice aveva assunto il valore di prendere su di sé la responsabilità e la scelta di dichiarare quel luogo, un luogo della memoria civile e democratica del nostro paese. La politica e lo Stato arrivarono dopo, molto dopo. Quel segno costituiva come un codice per la comprensione e la lettura, era un invito a schierarsi contro i mafiosi e chi li proteggeva. Un invito che non portava firma, anonimo. Occorre però aggiungere che nessuno aveva osato cancellare quella vernice. Quindi per genesi spontanea la coscienza di una parte degli italiani aveva decretato che quel punto dell’autostrada doveva essere sottolineato a ricordo del sacrificio di Falcone, della moglie e della scorta, trucidati da una quantità di tritolo spaventosa.

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La lapide che ricorda la nascita del PCI a Livorno

Qualcosa di simile è accaduto ed accade per altri luoghi della nostra storia democratica. Altre volte si sviluppano dei percorsi più tortuosi come quello che ha riguardato la città labronica. A Livorno, c’è un luogo, in via Borra, dove prima si ergeva il teatro San Marco, il teatro dove si riunirono gli scissionisti del Congresso del Psi nel 1921 per fondare il Partito comunista, e a ricordarlo era stata collocata nel dopoguerra una lapide. Con gli anni sia il luogo che la lapide avevano perso parte del loro smalto, del resto la lapide è posta in alto e occorre alzare gli occhi per vederla e il testo appare oggi per i giovani praticamente incomprensibile. Il profilo dell’edificio dell’ex teatro, oggi sede di un asilo, è profondamente cambiato e al di là di pochi fiori collocati da mani sconosciute per gli anniversari della nascita del Pci, mani forse cariche di nostalgia e di mitologia, pareva un luogo dimenticato. Ma quella lapide subì spontaneamente una nuova semantizzazione quando la ministra Gelmini dell’allora governo Berlusconi, dopo le proteste per il simbolo della Lega in una scuola del nord del paese, inviò un ispettore ministeriale per verificare se i bambini dell’asilo erano sottoposti alla fascinazione della falce e martello.

L’ispezione ci fu e non poté scattare nessuna reprimenda per il Comune di Livorno perché quel luogo storico, che tale è, e come tale va preservato, non esercitava nessuna persuasione occulta nei confronti dell’infanzia, anche perché, semplicemente, i bambini dell’asilo entrano dalla parte opposta. Una parte degli abitanti di città però non gradì questa minaccia e, immediatamente, la lapide che ricorda la nascita del Partito comunista, beneficiò per un periodo, anche abbastanza lungo, di attenzioni particolari: fiori freschi, scritte di solidarietà. Così la lapide e quello che vi è inciso ripresero vivacità e attenzione, e molti di quelli che si trovavano a passare da quelle parti, alzarono gli occhi alla segnalazione marmorea. L’Istoreco di Livorno l’ha sempre inserita nel percorso del trekking urbano che rivolge alle scolaresche sul Novecento, e alla spiegazione del significato del testo e della sua comprensione storica, adesso aggiunge la nuova vita che quella lapide ha assunto nello scontro politico attuale. Come si comprende bene due episodi molto diversi nelle dinamiche e nel significato ma che vedono entrambi scattare una specie di presa in carico da parte di cittadini sconosciuti di un luogo che viene letto come luogo deputato a rappresentare qualcosa che ci appartiene, che in qualche modo sta dentro la costruzione della nostra identità.

Ma la risemantizzazione di un luogo indica che si è potuto ricostruire la condivisione di un’emozione e questo ha permesso di rivitalizzarlo attraverso una ri-narrazione. Come scrive Antonella Tarpino la memoria come traccia “non è più un atto diretto, come nel caso del testimone, ma un atto vicario: un osservare davvero, si potrebbe dire, per conto terzi.“

L'ossario di S. Anna di Stazzema

L’ossario di S. Anna di Stazzema

E quando soggetti come gli Istituti storici accompagnati e sostenuti in questa operazione dalle amministrazioni pubbliche anche perché l’intervento è quasi sempre sopra uno spazio pubblico, decidono di segnare uno spazio, di riperimetrarlo, decidono cioè di proporre per quello spazio una narrazione che lo indichi come luogo, luogo di memoria fanno su una base solida di conoscenze, una operazione di narrazione, che è anche una ri-narrazione, una aggiunta, un addendum segnalato con una qualche modalità visiva. Ma affinché l’operazione funzioni occorre che ci sia qualcuno pronta ad accoglierla. Ed è qui che si rivelano spesso le fragilità. Mentre tutti i segni che contraddistinguono un luogo come Monte Sole così come Sant’Anna di Stazzema, sono quasi immediatamente percepiti e compresi perché luoghi di pellegrinaggi, perché luoghi diventati mete scolastiche, altre emergenze pur raffinate e pur dense di significato, non riescono a condensare senso e memoria condivisa, o se lo fanno, ciò accade in modo diverso e spesso opposto a quello auspicato.

Rinvio ad esempio all’esperienza del progetto Luoghi della memoria del mio istituto che, a pochi anni dalla sua realizzazione, risulta molto meno efficace e meno ricco di quella che i suoi ideatori ed io stessa auspicavamo. La novità del QRcode quando fu adottata sembrò ricca di potenzialità ma poiché adesso il rinvio ad altro, di solito un approfondimento, tramite il QRcode è anche sulle confezioni dei fazzoletti, la forza comunicativa si è persa. Non solo. Il sito ha bisogno di manutenzione mentre il pannello in materiale non biodegradabile alle intemperie ha retto negli anni. Questo alla fine è quello che è rimasto. Una tappa in un trekking urbano sulla memoria del Novecento. Un appiglio visivo per un passante poco distratto, una percezione momentanea e forse stimolante. Credo niente di più. Può darsi comunque che non sia poco.

Ma c’è un altro problema con i luoghi della memoria, specialmente quelli più affardellati dagli anni e dai trascorsi. Proviamo a ragionare sul campo-monumento di Fossoli. Fossoli è un luogo simbolico assai importante nella nostra storia di italiani e di democratici. Immediatamente il campo ci fa scattare la memoria Primo Levi e, subito dopo, specialmente se abitiamo un luogo sede di comunità ebraica, altri nomi di ebrei passati di lì (per Livorno sicuramente Frida Misul della quale ricorre l’anniversario della nascita), ma anche il nome di molti politici. Eppure quel campo, campo di concentramento a pochi chilometri da Carpi, è stato campo di concentramento non solo nel senso legato agli eventi della seconda guerra mondiale. É stato anche molto altro. É un luogo della memoria nel quale è possibile leggere, anche grazie alla cura che ne ha la Fondazione Fossoli, una stratigrafia semantica di significati. Campo per prigionieri di guerra dal 1942 all’ 8 settembre 1943, campo per profughi stranieri, campo della Repubblica sociale italiana per ebrei e politici destinati all’azione di persecuzione delle truppe nazifasciste, campo di prigionia di manodopera coatta per la Germania, centro di raccolta profughi stranieri, campo per i i bambini di don Zeno Saltini fino a quando lui con i suoi ragazzi furono allontanati da Fossoli e don Zeno fu accusato di praticare quello che si chiamava “comunismo evangelico” dal ministro degli Interni Scelba. La sua comunità divenne famosa come la comunità di Nomadelfia. Non furono però gli ultimi ospiti del campo, che si aprì di nuovo per i profughi giuliano-dalmati con il cosiddetto Villaggio San Marco.  Dopo quella data, il campo fu abbandonato all’incuria fino a quando finalmente arrivò una legge ad hoc nel 1984 che solo dopo un periodo lunghissimo di passaggi burocratici portò alla costruzione di Fossoli come luogo di memoria pubblica. Ci sono stata poco tempo fa e ho visto grazie anche a Silvano, un volontario che la lavora con la Fondazione Fossoli che ha sede a Carpi, che ci ha fatto da guida fuori dall’orario di apertura. Insieme a lui abbiamo osservato due mazzolini di fiori collocati lì al cancello di ingresso e sopra un pannello da mani sconosciute, perlomeno per me. Silvano ci ha spiegato che sono alcune donne dell’est che si trovano in zona come badanti, ad aver messo quei mazzolini. Probabilmente qualche loro parente è passato di lì come prigioniero di guerra. E questa è l’ultima ri-semantizzazione di quel posto. Ed è una ri-semantizzazione che rende, a mio parere, quel luogo anche un po’ più europeo di prima, serve ad avvicinare e non a costruire barriere, a rafforzare l’idea di un’Europa unita come unica cornice di pace.

Ma i luoghi, tutti, questo come il mausoleo di Sant’Anna di Stazzema o il monumento su Monte Sole, godono oggi di molta più attenzione rispetto anche ad un passato abbastanza recente perché il “guardare” è diventato preponderante rispetto all’”ascoltare”. Anche per questo credo che occorra da parte nostra manipolare con molta cura questa situazione per non avallare conoscenze frettolose, superficiali, da turismo dell’horror. Per avvicinarsi a questi deposi memoriali occorre sempre utilizzare una guida preparata, fare delle soste lontano dagli stessi prima di entrare dentro a spazi che, nel bene e nel male, risultano comunque monumentalizzati. Proporre per le scolaresche percorsi che abbiano solo come ultima tappa la visita. Quello che si fa ad esempio con il viaggio ad Auschwitz, o nei luoghi del “confine orientale”, con la Regione Toscana.

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Altrettanta attenzione e sensibilità occorre nell’affrontare i luoghi della memoria della destra. O i luoghi a doppia lettura. Uno per tutti: Piazzale Loreto. Luogo dell’uccisione di 15 partigiani, con un’esecuzione fra le più feroci della guerra. Poco meno di un anno dopo, il 29 aprile 1945 nella stessa piazza forno esposti i corpi di Mussolini, Claretta Petacci, Pavolini ed altri.

Questo luogo è come comprendiamo facilmente, un luogo a doppia valenza. Le nostre ricerche sulle dinamiche di entrambi gli episodi possono essere utilizzati a seconda del vento che tira. E di questo occorre essere consapevoli.

O pensiamo a luoghi come il cimitero di Predappio invaso sempre più spudoratamente da folle inneggianti al Duce. In questo caso forse occorrerebbe domandarsi cosa è stato fatto dalla Repubblica perché questo, nei decenni passati, prima che il partito della Lega di Salvini prendesse il potere in quel municipio, per impedire questa manifestazione di ossequio e riverenza ad un passato tragico e colpevole, quello del ventennio fascista.

Esistono risposte di fronte a queste difficoltà, alla impossibilità di costruire una grammatica narrativa non penso condivisa, ma rispettosa, credo di sì, ma non dentro questo presente dove sempre il sindaco di Predappio ha negato per la prima volta un contributo per il viaggio ad Auschwitz degli studenti affermando che questi viaggi sono sempre a senso unico. Dove pensa che vada costruita la coscienza europea, nei Gulag? O che la storia del “confine orientale” comprensiva della tragedia delle foibe, possa pareggiare con quella dei campi di sterminio e di concentramento? Certo quello che domina è l’ignoranza che insieme alla tracotanza, diventa una miscela molto esplosiva. Proviamo a resistere a questa deriva che ci può far naufragare in un mare molto scuro.




La Guerra Partigiana

A Pistoia, ormai da anni, le storie dei combattenti partigiani entrano, a buon diritto, nelle aule delle scuole elementari e medie della città: questo risultato è reso possibile dal progetto “La guerra partigiana”, promosso da Spi Cgil-Lega “Ugo Schiano” e Fondazione Valore Lavoro. Grazie alla collaborazione di Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPt), ANPI sezione “P. Gherardini”, Croce Verde, Sezione Soci Coop, Circoli Arci di Bonelle e “L. Bugiani” e Comune di Pistoia questo progetto ha coinvolto, nell’anno scolastico 2018/2019, un totale di 391 bambini e ragazzi, confermandosi una realtà consolidata al servizio delle scuole pistoiesi.
Scopo del progetto è quello di attivare una vera e propria didattica della storia della Resistenza pistoiese, rivolta agli insegnanti e agli studenti, per intensificare il dialogo con le nuove generazioni e far loro conoscere un passato che, purtroppo, lo scorrere del tempo rischia di rendere sempre più sfumato agli occhi degli alunni di oggi. È Spi-Cgil ad occuparsi degli aspetti organizzativi riguardanti il coinvolgimento delle scuole; la docenza è invece svolta dai ricercatori ISRPt, che diventano per l’occasione “insegnanti per un giorno” allo scopo di rendere partecipi i piccoli studenti della storia della nostra Resistenza. In particolare, per quanto riguarda i bambini della scuola primaria, ognuno dei ricercatori ISRPt “prende in consegna” una classe terza e la accompagna nel suo percorso scolastico fino alla classe quinta: così facendo, oltre a crearsi una benefica continuità nella pratica didattica, si consolida il rapporto del ricercatore con la classe da lui seguita, stimolando un clima reciproco di conoscenza e fiducia fra gli alunni e il ricercatore. Ma come rendere accessibile a bambini e ragazzi un argomento tanto complesso come quello della Resistenza? Grazie alla preziosa collaborazione degli insegnati delle diverse scuole, il tema della Resistenza è introdotto in anticipo nelle classi, in modo tale che gli alunni abbiano un primo approccio alla tematica in oggetto; solo in seguito a questa premessa, i ricercatori ISRPt possono recarsi nelle aule e tenere la loro lezione. Ma, più che delle lezioni, questi incontri diventano dei veri e propri dibattiti: la curiosità degli studenti riguardo alla Resistenza è molta, e i ragazzi non mancano mai, infatti, di porre numerose e molteplici domande di vario genere, alle quali i ricercatori si impegnano a rispondere per soddisfare l’interesse dei giovani studiosi. Le lezioni giungono a parlare ai ragazzi della “guerra partigiana” dopo aver introdotto quegli avvenimenti fondamentali che ne furono i precedenti: questo perché gli studenti possano comprendere il più autonomamente possibile quando e perché essa ebbe luogo. I temi trattati preliminarmente sono quindi la presa del potere da parte di Mussolini e il fascismo, la politica espansionista della Germania hitleriana e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, per poi arrivare, infine, alla “guerra partigiana” e ai suoi protagonisti nella zona del pistoiese.
Grazie al supporto di fotografie d’epoca, selezionate dai ricercatori ISRPt, gli alunni entrano in contatto, spesso per la prima volta, con la Resistenza pistoiese e le sue figure (ad esempio il giovane partigiano Silvano Fedi, morto in uno scontro a fuoco con i tedeschi, la cui memoria è ancora ben viva nella città di Pistoia) e con la vita delle popolazioni dell’epoca. La lezione in classe costituisce solo la prima parte del progetto didattico della “guerra partigiana”: a essa fa infatti seguito una vera e propria esplorazione sul campo dei luoghi della memoria pistoiese. In questa esplorazione i ragazzi sono accompagnati dai loro insegnanti e dai ricercatori ISRPt che, novelli ciceroni, conducono gli studenti a vedere con i loro occhi i siti più significativi della Resistenza cittadina. Una delle mete di queste “gite partigiane” è il centro di Pistoia: durante questo tour vengono illustrati agli alunni le lapidi e i cippi commemorativi di cui il centro è punteggiato, e vengono loro spiegate le storie e le vicende che tali monumenti ricordano. Un’altra meta particolarmente evocativa è il Monumento votivo militare brasiliano, sito alla periferia della città: un vero memoriale all’aria aperta (dotato anche di un suo piccolo ma significativo museo) che ricorda le vicende della Força Expedicionária Brasileira, attiva sull’Appennino tosco-emiliano nella primavera 1945 e che si trovò a passare anche da Pistoia. Molto significativa è anche la visita al Passo della Collina sopra Pistoia, dove, nella località del Signorino, si snodava la Linea Gotica: ancora oggi, vi si ritrovano alcune fortificazioni in cemento armato ben conservate, parte del sistema difensivo tedesco a protezione delle vie di accesso al valico.

La terza e ultima parte del progetto della “guerra partigiana” è quella della restituzione: in questa fase conclusiva i ragazzi, assistiti dai loro insegnanti, producono i loro personali elaborati, illustrando nel modo che preferiscono (disegni, interviste, articoli, presentazioni multimediali) ciò che più li ha colpiti ed interessati durante questo “viaggio nella storia”. Questi elaborati diventano poi il centro di una mostra aperta al pubblico cittadino, dove a ognuno degli studenti viene consegnato un attestato di partecipazione: un piccolo omaggio dedicato ai ragazzi per ringraziarli della loro partecipazione attiva a questo progetto didattico sulle tracce della nostra Resistenza. Perché, adoperando le parole di Gabriella Valdesi, curatrice del progetto per Spi-Cgil Lega “Ugo Schiano”, lo scopo finale è quello di ricordare: «Bisogna ricordare e avere rispetto per i sacrifici compiuti da tante persone giovani e non, che hanno dato la vita per un ideale, intensificando il dialogo con le giovani generazioni, per conoscere il passato per costruire il futuro e guardare avanti».