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Il Conservatorio di San Giovanni Battista

La storia del Conservatorio di San Giovanni Battista si sviluppa dagli inizi del secolo XIV fino ai giorni nostri con una particolare continuità all’interno della vita religiosa, artistica e sociale della città di Pistoia e può essere suddivisa in due distinte fasi.

 La fase della vita religiosa

È costituita dall’aggregazione di tre monasteri femminili.

 Il Monastero di San Giovanni

Costituisce il nucleo iniziale del complesso e viene edificato al di fuori della seconda cerchia di mura cittadina secondo il lascito testamentario del 1287 di Giovanni Ammannati che aveva stabilito che se il figlio Gherardo fosse morto senza successori fosse edificato un convento femminile nell’area di un palazzo di sua proprietà.

Gherardo morì nel 1321 e, assecondando la volontà del testatore, il palazzo fu trasformato in monastero femminile dedicato a San Giovanni Battista.

Venne quindi ampliato tra il 1469 e il 1531 quando fu completata la chiesa ad opera di Ventura Vitoni e nel 1783 inglobò il contiguo monastero di S. Lucia ed ospitò anche le suore di S. Chiara.

 Monastero di S. Lucia

Fu fondato nel 1328 su testamento di Iacopo Bellebuoni nei pressi dell’attuale fortezza di Santa Barbara ma venne demolito nel 1539 per consentire l’ampliamento della fortezza e le monache furono trasferite nell’area dello spedale di S. Gregorio confinante con il monastero di S. Giovanni mentre lo spedale fu trasferito in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il monastero fu soppresso e unificato con quello di San Giovanni.

 Monastero di S. Chiara

Viene fondato nel 1310 da Piccina di Bonaventura in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il Vescovo Ricci soppresse il monastero per realizzarvi il nuovo edificio del Seminario e le monache furono trasferite nel monastero di San Giovanni.

La fase dell’educazione e dell’istruzione.

Nel 1785 all’interno dell’opera riformatrice del Granduca Pietro Leopoldo fu chiesto alle monache di San Giovanni di scegliere tra la vita monastica o la trasformazione del complesso in Conservatorio per l’educazione delle fanciulle.

Le suore optarono per il Conservatorio e iniziò così un periodo completamente nuovo in cui sotto la guida di suore e oblate venivano accolte e istruite le fanciulle pistoiesi.

Dopo l’unità d’Italia con la legge del 1867 i conservatori passarono sotto il controllo del Ministero dell’Istruzione e quello di san Giovanni si aprì progressivamente alla città divenendo una delle principali istituzioni educative pistoiesi. Accoglieva fanciulle tra i 7 e i 12 anni e a partire dal 1872 ospitò la scuola elementare femminile cittadina pubblica e privata.

Nel 1883 ne fu dichiarato lo stato laicale e il Conservatorio divenne un istituto pubblico educativo con amministratori nominati dal Ministero.

Nel 1898 il Conservatorio divenne sede dei corsi della Scuola normale femminile trasferita da Sambuca Pistoiese comprendente il corso complementare, la scuola di tirocinio e l’asilo infantile a sistema froebeliano.

Divenne così il principale polo educativo femminile pistoiese e attraeva alunne a convitto da tutta Italia. Il complesso fu ristrutturato nel 1877 e continuamente ammodernato nel corso del Novecento. Nel 1901 vi operavano la direttrice, tre istitutrici, una guardarobiera, una dispensiera-economa, una cuoca, due aiutanti di cucina, un giardiniere, un portiere, due inservienti, un medico, un ragioniere, un cassiere, il direttore spirituale, un chierico, un agente di campagna e quattro maestre e nel 1910 contava oltre 400 alunne.

Dal 1915 al 1919 una parte dei suoi locali fu destinato a ospedale militare di riserva e dal 1924 accolse la sede dell’Istituto commerciale “F. Pacini” e dell’Istituto magistrale.

Alla fine degli anni trenta si verificò un momento traumatico all’interno della struttura educativa con il licenziamento nel 1939 della direttrice Alba Mantovani perché di “razza ebraica” che venne riassunta solo nel dopoguerra.

Il complesso subì gravi danni con l’incursione aerea alleata del 18 gennaio 1944, quando fu distrutta completamente la chiesa e la maggior parte dei locali dove avevano sede gli istituti superiori.

Le attività vennero sospese e solo nel gennaio 1945, a liberazione di Pistoia avvenuta, si iniziò a rimuovere le macerie e si riaprì l’Istituto magistrale mentre nel 1947 ripresero a funzionare il convitto, l’Istituto tecnico e la scuola materna.

La ricostruzione integrale fu compiuta tra il 1951 e il 1957 con fondi del Ministero dei Lavori pubblici per oltre 205 milioni di lire e la direzione dell’ingegnere Adalberto Del Chicca. A partire dagli anni settanta le alunne ospitate diminuirono progressivamente e nel 1982 il convitto fu chiuso e il complesso ospitò solo le scuole pubbliche mentre nel 1983 il giardino è stato affittato al Comune e aperto al pubblico e la Chiesa è stata allestita a spazio espositivo.

Dal 2006 il Conservatorio è stato trasformato in “Fondazione Conservatorio San Giovanni Battista” e oggi è agenzia formativa accreditata presso la Regione Toscana, inoltre nei suoi spazi ha sede la Fondazione Luigi Tronci con la collezione di strumenti musicali.

Nel 2016 si sono conclusi due importanti operazioni di recupero e salvaguardia del suo patrimonio storico e architettonico. Si è concluso il restauro delle coperture e della facciata della Chiesa di San Giovanni con la direzione dell’architetto Gianluca Giovannelli, e, ad opera dello scrivente, è stato concluso il riordino e l’inventario dell’Archivio storico ed è stata allestita una mostra permanente sulla storia del Conservatorio.

Andrea Ottanelli, docente di lettere, dottore di ricerca in storia contemporanea, compie studi e ricerche sulla storia contemporanea di Pistoia, ha curato mostre e iniziative e pubblicato articoli e volumi sulla storia delle industrie e delle infrastrutture pistoiesi tra cui: La città e la sua fabbrica in La San Giorgio. Gli albori della grande industria a Pistoia, a cura di Piero Roggi, Pistoia, Gli Ori 2015; La Ferrovia Porrettana. Progettazione e costruzione (1845-1864), Pistoia, Settegiorni editore 2014. Economia e società a Pistoia dalle riforme leopoldine alla Restaurazione. Le arti e le manifatture; Gli anni del cambiamento (1878-1914) in Storia di Pistoia IV, a cura di Giorgio Petracchi, Firenze, Le Monnier 2000. Ha curato il riordino e l’Inventario di numerosi archivi storici pistoiesi tra cui quello del Conservatorio di San Giovanni Battista. È direttore della rivista “Storia Locale”.




Squadrismo toscano in Dalmazia

Se solo negli ultimi anni il mito del “bono ‘taliano” ha iniziato lentamente ad essere scalfito da una storiografia sempre più attenta allo scacchiere balcanico, molto resta ancora da fare per conoscere e comprendere appieno la particolare «guerra ai civili» condotta dalle truppe italiane nei territori orientali, occupati all’indomani dello smembramento della Jugoslavia nel 1941.
Da queste pagine di storia per troppo tempo rimosse emergono anche vicende locali che possono aiutarci a far luce su un’occupazione ben presto contraddistinta da una tenace resistenza armata affrontata con forme repressive sempre più estreme.
L’eruzione di un fenomeno partigiano dalla chiara matrice comunista fu infatti occasione, per le autorità fasciste nazionali e locali, per spingere verso la formazione di veri e propri reparti organici di squadristi, nella convinzione che l’esperienza maturata negli anni delle “squadre” potesse ora rivelarsi preziosa per affrontare il fenomeno comunista riaffacciatosi nei territori annessi al di là dell’Adriatico.

Tra il 1941 e il 1942 vedevano quindi la luce 6 battaglioni squadristi organizzati dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, uno dei quali sorto proprio nella «fascistissima» Toscana; il 20 gennaio 1942 veniva infatti mobilitato il 1° (68°) battaglione squadristi “Toscano”, interamente costituito da volontari accorsi da tutta la regione in numero perfino superiore alle aspettative; allo zoccolo duro dei fascisti della prima ora (stime non verificabili indicavano in circa il 50% i partecipanti alla marcia su Roma), si affiancavano i numerosi reduci delle campagne africane o spagnola, al comando del forlivese, ma fiorentino d’adozione, 1° seniore (tenente colonnello) Pietro Montesi Righetti.
Con un’età media di circa 40 anni, il reparto si componeva di oltre 600 camicie nere, organizzate su 4 compagnie più il comando; accasermata a Montecatini Terme, l’unità completava nei 3 mesi successivi il proprio organico e l’addestramento, lasciando la Toscana il 15 aprile.
Dietro interessamento del Governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini, massima autorità civile nel territorio annesso delle provincie di Zara, Spalato e Cattaro, il “Toscano” raggiungeva il litorale dalmato il 26 aprile, scaglionandosi lungo il settore costiero tra Traù (sede del comando) e Spalato e ponendosi alle dirette dipendenze operative di Bastianini.

"In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943".

“In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943”.

Parallelamente all’ordinaria attività di presidio ed ordine pubblico, si scatenava fin dai primi giorni una vera e propria attività squadrista fatta di bastonature, sevizie e perfino omicidi di sospetti fiancheggiatori dei partigiani, condotta con il supporto dei fascisti locali e l’acquiescenza delle autorità civili.
L’incontrollabile violenza di una truppa di per sé particolarmente indisciplinata (e politicizzata) trovava però il suo apice il 12 giugno 1942, assumendo un virulento carattere antisemita: prendendo a pretesto una presunta provocazione da parte di alcuni ebrei, diverse decine di militi del “Toscano” e fascisti della locale Federazione assaltavano la storica sinagoga di Spalato, malmenando i presenti e devastandone locali ed arredi, mentre altre camicie nere saccheggiavano alcuni vicini negozi di proprietari ebrei. Il pogrom spalatino e successivi episodi di minacce verso militari e carabinieri scatenavano infine la dura reazione delle locali autorità militari, già in cattivi rapporti col Governatore Bastianini, costringendo quest’ultimo a ritirare gli squadristi in servizio a Spalato.
Particolarmente cruenta si sarebbe rivelata anche l’attività “ordinaria” del battaglione, spesso affiancata da elementi del Regio Esercito: oltre a fornire elementi per il plotone di esecuzione del Tribunale Speciale della Dalmazia (nella sola giornata del 22 maggio venivano fucilati 26 condannati a morte), il “Toscano” avrebbe condotto nei mesi a seguire numerosi rastrellamenti dell’immediato entroterra spalatino, sempre più minacciato dalla montante attività partigiana: negli scontri verificatisi nel corso dell’estate e la prima metà dell’autunno trovavano la morte alcune decine di partigiani o presunti tali (in un’azione del 28 giugno ne rimanevano 14 sul terreno), in un crescendo di violenze favorito dall’opacizzarsi della distinzione tra partigiani e popolazione civile.
Nella prima metà di novembre iniziava il trasferimento verso Vodice, nella parte meridionale della limitrofa provincia di Zara, area già sconvolta dalle durissime operazioni di rastrellamenti dei mesi precedenti.
Parallelamente alla continua opera di rastrellamento, nel corso delle prime settimane del 1943 lo stesso centro di Vodice veniva trasformato in una sorta di campo di concentramento a cielo aperto, con l’inasprimento di un coprifuoco duramente imposto: numerosi sarebbero stati i civili, tra cui molte donne, sorpresi fuori dal centro abitato e fucilati sul posto dagli squadristi del “Toscano” impegnati nella sorveglianza della zona.
Il 16 maggio il reparto abbandonava definitivamente la Dalmazia, a stretto giro seguito dagli altri battaglioni squadristi a loro volta schierati lungo il litorale dalmato: seppur ridotti in organico ed efficienza, non è da escludere che il rimpatrio fosse in parte dettato dai concomitanti (eppur infruttuosi) tentativi di puntellamento del regime condotti da parte del partito e, soprattutto, della milizia stessa. Truppa certamente fidata e pur sempre dotata di una certa “massa critica”, i 6 battaglioni squadristi trovavano accantonamento in varie sedi dell’Emilia Romagna, col “Toscano” riunito a Vergato, sull’Appennino bolognese.
La defenestrazione di Mussolini coglieva però impreparati i vertici della milizia e l’opera dello stesso Capo di Stato Maggiore Galbiati facilitava un pressoché indolore passaggio di consegne nelle mani di Armellini, generale fedele a Badoglio. Anche i reparti squadristi non opponevano particolare resistenza al cambiamento di regime, avviandosi, in un’atmosfera di smarrimento e rassegnazione, verso la fine della propria esperienza. Nell’impossibilità di disarmare o comunque ridimensionare la milizia, ancora presente in forze in praticamente tutti i teatri bellici, i vertici militari procedettero però a disinnescarne le maggiori criticità: tra i provvedimenti adottati rientrava anche il definitivo scioglimento dei battaglioni «già squadristi», posto in essere attraverso il congedo o il trasferimento dei militi verso altri reparti. Se a fine agosto il “Toscano” cessava di esistere, molte delle sue camicie nere avrebbero dimostrato la propria “coerenza” continuando, nei mesi a seguire, la guerra sotto le insegne della R.S.I.

Lorenzo Pera, laureato in “Storia e Civiltà” presso l’Università di Pisa, si interessa di storia militare della seconda guerra mondiale, con particolare riguardo vero i crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane.




Contestazione cattolica: Pistoia 1968

Dopo il Concilio Vaticano II, dal 1965, nacquero in molte città, soprattutto del centro Italia, numerosi gruppi di giovani cattolici che legarono la propria fede ad un impegno attivo nella società e che si trasformarono progressivamente in quello che sarebbe stato il dissenso cattolico. Così avvenne anche a Pistoia.
La contestazione cattolica a Pistoia crebbe all’interno della Gioventù dell’Azione cattolica, con il gruppo del Cineforum, e all’interno delle Acli, con il gruppo del Ventiquattro. Due casi non isolati nella città, ma certamente emblematici di una parabola del dissenso cattolico italiano.
I due gruppi infatti, sebbene diversi per provenienza ed età, condivisero analoghi temi di impegno: la non violenza e l’obiezione di coscienza al servizio militare, la volontà di informarsi ed informare sui problemi dei paesi in via di sviluppo e dei poveri di tutto il mondo. E furono proprio l’attenzione alla povertà, condivisa con una cospicua parte della Chiesa cattolica di quegli anni, e ai paesi del Sud del mondo a spingere molti cattolici su riflessioni vicine a quelle della sinistra. Una parte del mondo cattolico giunse perciò alle contestazioni dell’autunno del ’68 con posizioni molto vicine a quelle della sinistra e dei movimenti studenteschi. Il ’68 tuttavia segnò, se non la fine del dissenso cattolico, sicuramente un anno di svolta.
A Pistoia il 4 ottobre del 1968 alcuni giovani pistoiesi cercarono con la forza di impedire la proiezione del film Berretti verdi, diretto e interpretato da John Wayne, considerato un’apologia del militarismo americano in quegli anni di fortissima opposizione alla guerra degli Stati Uniti nel Vietnam. Un gruppo di ragazzi cercò di impedire l’ingresso del pubblico una prima volta per lo spettacolo pomeridiano; l’impresa riuscì al secondo tentativo, per quello serale. Ai primi sforzi pacifici di boicottare la proiezione, con la diffusione di volantini anti americani e un sit-in di fronte all’ingresso della sala, seguirono atti di violenza contro l’edificio del cinema Lux: furono spaccati alcuni vetri e fu divelta una saracinesca. Fu necessario l’intervento delle forze dell’ordine e il sindaco comunista Corrado Gelli decise di sospendere la proiezione serale. Il quotidiano «La Nazione» riportò ampiamente la notizia titolando: Per i «Berretti verdi» tafferugli al cinema Lux. Gremita la sala alla proiezione pomeridiana i «contestatori» sono tornati all’attacco la sera – Vetri rotti ed un’inferriata divelta – Fortunatamente nessun ferito. Venne aperta un’inchiesta che si concluse con la denuncia di alcuni con l’accusa di adunata sediziosa, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, violenza privata e danneggiamento doloso.
EPSON scanner ImageFu un’agitazione a cui parteciparono un migliaio di manifestanti e, sebbene di per sé non troppo originale, può essere assunta come spartiacque nella storia del dissenso cattolico pistoiese. Se infatti fino ad allora tutti i gruppi riconducibili alla contestazione cattolica si erano mantenuti su posizioni analoghe, di fronte ai tafferugli le posizioni si divaricarono irrimediabilmente.

Il gruppo del Ventiquattro partecipò al boicottaggio del film, e insieme a personaggi della sinistra pistoiese non si tirò più indietro negli anni a venire di fronte alle lotte sul territorio, a fianco degli studenti come degli operai. Abbandonò la Chiesa e assunse una nuova fisionomia per poi fondare insieme ad altri, nel ‘69, il gruppo di Lotta Continua a Pistoia.
Il gruppo del Cineforum, forse anche per l’età più adulta, assunse invece un atteggiamento critico di fronte alla contestazione. Avanzò le proprie valutazioni negative sia nei confronti della strumentalizzazione politica da parte di rappresentanti della Dc; sia contro le modalità di manifestazione di fronte al cinema. I dirigenti democristiani che gridarono alla violazione della libertà furono ironicamente invitati a scrivere una lettera agli organi di censura che, senza rompere vetri, impedivano al cittadino di vedere altri film come Teorema di Pasolini o Galileo di Liliana Cavani, entrambi censurati dal governo democristiano in Italia. Mentre agli organizzatori di quella “fetta di rivoluzione” fu contestata la sterilità dei metodi adottati. Secondo il Cineforum quella contro i Berretti verdi era stata infatti: «una rivoluzione anche un po’ comoda perché a “dialogare” con il padrone stavolta c’erano anche alti esponenti del PCI e in fondo una masturbazione collettiva dal godimento fine a se stesso perché, nella ricerca del fine immediato, è stato dimenticato proprio colui che avrebbe dovuto essere stato il beneficiario della dimostrazione; lo spettatore medio […] che avrebbe avuto per una volta l’occasione di guardare il film con occhio critico, se solo una volta la rivoluzione gli avesse offerto uno spunto per una riflessione». Il gruppo del Cineforum dopo il ’68 abbandonò le posizioni contestative per inserirsi nella dialettica istituzionale della città.
Così entrambi i gruppi con il ’68 conclusero la comune esperienza del dissenso cattolico, ma il Cineforum rimase cattolico e moderato, mentre il Ventiquattro abbandonò la Chiesa ed entrò a pieno titolo nella sinistra extraparlamentare pistoiese.

Francesca Perugi ha conseguito la laurea in storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze con la prof.ssa Bocchini Camaiani e ad oggi conduce un dottorato di ricerca all’Università Cattolica di Milano nell’ambito della storia del cristianesimo contemporaneo.
Collabora assiduamente con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e coltiva un vivo interesse per la storia orale. Tra le sue pubblicazioni citiamo:
“Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «Quaderni di Farestoria», dicembre 2014 .




Fernando Melani, un “incantatore di atomi”

Fernando Melani (1907-1985) fu artista pistoiese e ricercatore scientifico cosmopolita. Partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo portò avanti una ricerca creativa vicina a correnti come l’Arte Povera, l’Arte Concettuale e la Minimal Art, anticipandone in alcuni casi gli esiti. Molte sue opere oggi trovano sistemazione presso la casa-studio Fernando Melani a Pistoia.
Donatella Giuntoli, amica e studiosa di Fernando Melani, affermò che “Melani si poteva configurare nell’immaginario pistoiese come un manipolatore di particelle o un incantatore di atomi”. In questa frase è racchiusa l’essenza profonda di un uomo del Novecento che ha votato la sua vita alla sperimentazione sulla materia.

Melani passò gran parte della sua esistenza a Pistoia. Nacque a San Piero Agliana (PT), secondogenito di una famiglia borghese, il 25 marzo 1907 e morì a Pistoia nel marzo 1985. Nel 1937, di rientro da un’esperienza lavorativa a Novara, entrò in possesso dell’abitazione familiare in Corso Gramsci a Pistoia, dove abitò per tutta la vita con un’unica parentesi legata allo sfollamento per i bombardamenti del 1943/44.
Lo spartiacque del secondo conflitto mondiale cambiò drasticamente il modo di pensare di Fernando portandolo a una completa rielaborazione delle sue priorità, si dedicò all’arte e sposò un’assoluta essenzialità, sostituendo ogni suo abito con una tuta blu (accompagnata da una sciarpa gialla) ed eliminando ogni accessorio domestico dall’abitazione, compresi cucina e termosifoni. La casa di Corso Gramsci divenne così il luogo della creatività, lo studio, dove gli ‘atomi potessero essere liberi di vagare per le stanze’, mentre l’esterno acquisì una funzione legata alle necessità fisiche, gestite attraverso una rigorosa routine. Melani, infatti, mangiava sempre nel medesimo ristorante e frequentava regolarmente i soliti centri d’aggregazione.
Nell’“immaginario pistoiese”, un tessuto culturale ampio e variegato, Melani era inserito per analogia o contrasto, la sua era una socialità fatta di provocatorie discussioni e biunivoci rapporti di crescita. Lo si poteva incontrare al Cafè du Globe, al bar Piemontese o al bar Valiani, a pranzo e a cena alla trattoria Autotreni in Porta al Borgo, oppure a discutere animatamente presso la Libreria dello Studente di Giovanni Tellini. In questi ambienti era entrato in contatto con molte personalità (come Luigi Bruno Bartolini, Alfiero Cappellini, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Remo Gordigiani, Giulio Innocenti, Lando Landini, Antonio Nespoli, Renato Ranaldi, Giovanni Tellini); ma manteneva sempre un occhio vigile nei confronti di un macrocontesto, non strettamente locale, stringendo rapporti con figure importanti come Luigi Ardemagni, Ettore Bonessio di Terzet, Silvio Ceccato, Luciano Fabro, Ernesto Galeffi (in arte Chiò), Rosy Novella, Fiamma Vigo, Marisa Volpi.
Il suo essere Fernando, assieme al modo di esplicarsi verso l’esterno, è una diretta emanazione dei suoi valori scientifico-razionali, in questo le definizioni di “manipolatore di particelle” e “incantatore di atomi” tentano di inquadrare, a loro volta, il processo intellettuale melaniano in un sistema razionale. La sua attività non è semplicemente definibile in categorie standardizzate e univoche, infatti, se da un lato si può identificare come artista astratto, dall’altro vanno ricordati i suoi slanci di ricercatore scientifico, di scrittore, di teorizzatore, di fotografo e altri aspetti che il recente lavoro di sistemazione dell’archivio ha approfondito. Possiamo, quindi, concepire il suo lavoro come se fosse accomunato dall’unico obiettivo di analizzare la verità dell’universo, in altre parole l’atomo; il suo lavoro diviene così uno strumento e non il fine ultimo della ricerca. Solo in quest’ottica possiamo comprendere opere come le ‘macchine semplici’, meccanismi funzionali e funzionanti finalizzati alla sperimentazione sonora o fisica; oppure le riflessioni spaziali legate alle opere ‘bucato’ e ‘bandiera’; o ancora lo studio della casualità, opere nate dalla sedimentazione di materiale nel corso del tempo.
In questo rapporto tra materia, esistente e teoria risiede la ricerca artistico-scientifica di Fernando Melani. Dal 1950 comincia a esporre le prime opere già definibili ‘astratte’ e per più di quarant’anni continua la sua attività collaborando con vari centri d’arte pistoiesi come la Galleria Studio La Torre o la Galleria Vannucci; arriva anche a Firenze e a Milano grazie alla fruttuosa collaborazione con Fiamma Vigo; nel 1972 partecipa assieme a Luciano Fabro a ‘Documenta 5’ presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: Davanti alla pittura (1953), Addio Giulio! (1955), Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa (1956), Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester (1960), Astratto vecchio nuovo ed oltre (1963-64), Universo Evoluzione Arte (1979).
Oggi la sua eredità intellettuale e culturale è portata avanti dalla Casa-studio Fernando Melani, sita in Corso Gramsci 159, di proprietà del Comune di Pistoia e gestita dall’ U.O. Musei e Beni Culturali dello stesso comune. Nella casa-studio, accessibile su prenotazione, è possibile immergersi completamente all’interno di un ambiente creativo unico nel panorama culturale pistoiese e toscano.

Lorenzo Sergi ha conseguito la laurea magistrale in Archivistica con la prof.ssa Laura Giambastiani svolgendo una guida dell’Archivio di Fernando Melani. Collaboratore esterno per istituti di ricerca, ha svolto e svolge attività di valorizzazione culturale, per bambini e adulti, in enti e associazioni del territorio. Tra le sue pubblicazioni: SERGI L. (a cura di), Catalogo di mostra I 7 Antichi, le carte dell’Archivio Storico comunale di Monsummano Terme, in «Caffè Storico. Rivista di studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 2, Monsummano Terme, Istituto Storico Lucchese, 2016; Ricerca fotografica e fotografie in LOMBARDI M., PALANDRI A., SERGI L., Jorio raccontato ai bambini, Buggiano, Edizioni Vannini, 2013.




Terra e Lavoro

La nascita della prima organizzazione sindacale dei lavoratori della terra d’ispirazione socialista fu di difficile gestazione. Il periodico locale del partito, L’Avvenire, che fiancheggiava anche l’attività della neonata Camera del lavoro, fin dal 1902 tenne un’intensa campagna rivolta in particolare ai contadini mezzadri e fittavoli, ma senza risultati. Un’azione che nell’estate del 1906 si andò intensificando ed entrò in polemica con il giornale dei cattolici, La difesa religiosa e sociale, impegnati a loro volta nella costituzione delle leghe “bianche”. Tuttavia i tempi stavano maturando e verso la fine dell’autunno del 1906 nel paese di Ramini i contadini si resero disponibili a costituire una Lega. Nel gennaio del 1907 era già ben avviata ed alle riunioni partecipavano anche lavoratori di altre zone come Collina, Casale (o Casalguidi), Sant’Alessio. Nel giro di pochi mesi erano già costitute leghe anche nei paesi limitrofi di Casale, Cantagrillo, Masiano, ed in quelli sul lato opposto della piana di Sant’Alessio e  Valdibrana. A Vinacciano la lega nacque al termine di un comizio – secondo un tipico modus operandi – durante il quale si era verificato un contraddittorio tra i sindacalisti e il sindaco di Serravalle Pistoiese, che tentò di far interrompere l’adunata.

unspecified2Nel 1907 batteva le campagne Giovanni Martini, sempre presente come oratore in tutti i paesi in cui si costituirono le leghe ed anche in quelli dove l’organizzazione non riuscì a radicarsi, come Montale, in mano ai cattolici. Il suo Vademecum del contadino toscano si apriva con l’affermazione: «la scintilla della ribellione è finalmente penetrata». L’opuscolo conteneva le norme interne del sindacato ed elencava gli obiettivi rivendicativi, in primis il miglioramento dei contratti di mezzadria e affitto e la difesa  dei braccianti, che dovevano essere pagati in denaro e non in natura, ma anche l’istituzione di un ufficio di consulenza, di magazzini sociali dove comperare semi, attrezzi, concimi, solfato di rame ecc… e magazzini di deposito per i prodotti di parte contadina. Del sindacato potevano far parte i braccianti, i mezzadri, gli affittuari e come soci aggregati anche i coltivatori diretti. Il risultato di questo movimento, che più che in scioperi si risolse nella nascita e organizzazione delle leghe, fu un’immediata risposta padronale. Nel marzo 1907 questi costituirono una propria associazione con l’obbiettivo di riaffermare il patto mezzadrile, introducendo alcuni cambiamenti per sottrarre terreno ai socialisti attraverso un cauto riformismo.
Si assistette così nella primavera ad un confronto a distanza tra le proposte dei proprietari e quelle delle leghe, che non sfociò mai in un tavolo di trattativa. La prima mossa la fece il fronte padronale, appoggiato dalla Lega democratico nazionale – d’ispirazione cattolica –presentando nel maggio le norme per un nuovo patto colonico per fittavoli e mezzadri. La CdL le respinse, irridendone i contenuti limitati mentre lasciavano inalterati altri aspetti palesemente sproporzionati a favore del padrone, negando che si trattasse di una reale riforma. Soprattutto l’attacco investì il metodo, rendendo evidente che in gioco c’era anche il futuro delle relazioni sindacali e più in generale della democrazia. L’Avvenire commentava infatti la “comunicazione” del patto senza mezzi termini: «Non avendo poi interpellato la Camera del Lavoro e le leghe dei contadini,[l’associazione dei proprietari] ha voluto escludere ogni diritto di ingerenza nelle loro vedute e di discussione dei loro deliberati alla classe dei contadini: ha voluto sottrarsi al controllo dell’organizzazione lasciando arbitri i proprietari di fare ciò che desiderano». Al progetto dei proprietari le leghe risposero con una mobilitazione e con una propria proposta, entrambe fatte partire da Ramini.

Il 12 maggio nel paese si tenne un comizio, con la partecipazione delle leghe dei paesi vicini di Vinacciano, Masiano, Cantagrillo e Casale, al termine del quale fu approvata una piattaforma con una serie di richieste di cambiamento del patto colonico, che rientrava nel solco delle tipiche rivendicazioni mezzadrili d’inizio ‘900, senza discostarsi dall’approccio riformistico mirante ad ottenere miglioramenti immediatamente godibili e verificabili. Che in quel momento la dirigenza del movimento sindacale socialista dei contadini a Pistoia fosse in mano ai riformisti è testimoniato anche da un altro fatto. Nelle zone di Gabbiano, Vinacciano e Collina alcuni contadini avrebbero voluto dare un colpo di acceleratore alla protesta, abbandonando le necessarie operazioni di ramatura delle piante e alzando il livello delle richieste, ma vennero convinti a desistere, a non precipitare gli eventi e ad attendere con pazienza gli sviluppi della situazione. La linea era quella della trattativa, dura ma proiettata verso un esito che si riteneva fattibile, come nel caso della mobilitazione – portata ad esempio – di una quarantina di braccianti che, entrati in sciopero, riuscirono a chiuderlo positivamente. Probabilmente i dirigenti erano anche dell’idea che il movimento mezzadrile non fosse ancora abbastanza forte da sostenere l’organizzazione di uno sciopero e il suo impatto, e scelsero una linea mobilitativa basata su manifestazioni meno impegnative, ma capaci di essere portate a termine da un’organizzazione giovane e debole.
unspecified3Non a caso il passo successivo non fu il lancio di uno sciopero per ottenere l’accettazione del memoriale di Ramini, ma l’organizzazione di una manifestazione nella forma del comizio. Si tenne il 30 maggio al Politeama Mabellini di Pistoia, con l’intervento di tutte le leghe contadine e l’invito a partecipare anche ai contadini non organizzati. Per L’Avvenire alla manifestazione parteciparono circa 1.000 persone. Alla fine fu approvato un OdG che dava mandato ai Consigli delle leghe di eleggere una Commissione che insieme alla Commissione esecutiva della CdL predisponesse una piattaforma da discutere poi con i singoli proprietari. Questo primo confronto tra le organizzazioni padronali e le neonate strutture sindacali contadine dei socialisti restò confinato al dibattito pubblico, non verificandosi atti di scontro più rilevanti da ambo le parti, e cioè senza disdette ai contadini da parte dei concedenti e senza scioperi. Non ci furono nemmeno risultati apprezzabili, rimanendo di fatto lettera morta i due progetti di riforma, senza nessun confronto o accordo tra le parti, che continuavano a confrontarsi a distanza. Anche gli organi dello Stato restarono a guardare, mentre le amministrazioni locali, guidate da ceti legati alla proprietà agricola, non intervennero nel merito. In pratica l’applicazione dell’uno o dell’altro progetto di riforma veniva lasciata al confronto diretto tra singoli proprietari e contadini, e non ci fu nemmeno per questa via nessun accordo di rilievo. La questione però era posta, e continuò a tener vivo il dibattito e una certa agitazione tra i contadini anche negli anni immediatamente successivi.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione.




La seconda guerra mondiale a Lamporecchio

Nessun paese toscano rimase intatto dall’orda nazifascista scatenata in Italia dopo la pubblicazione dell’Armistizio, l’8 settembre 1943. L’esercito tedesco occupò gran parte della penisola e vi stabilì le basi per imporre la propria volontà; la piana pistoiese fu coinvolta nel conflitto per circa un anno, fino ai primi giorni del settembre 1944, quando i partigiani occuparono i paesi abbandonati dai tedeschi prima dell’arrivo delle forze angloamericane.
In quei giorni, nel caos generale, furono molti i soldati alleati che scapparono e trovarono rifugio presso famiglie italiane, aiutati dai cosiddetti “helpers” che dettero loro protezione assicurando vitto e vestiti, alloggio in casa o nei fienili. Nel pistoiese le zone interessate da questi eventi furono principalmente quelle pedemontane; tuttavia a Porciano quattro ex-prigionieri inglesi furono catturati il 22 ottobre 1944, dopo che avevano ricevuto aiuto a Cantagrillo.
Il ruolo di commissario prefettizio, responsabile della gestione dell’intero comune, fu ricoperto da Afrisio Vannacci fino al 2 novembre 1943, quando venne sostituito dal geometra Bindo Martelli, coadiuvato dal sub-commissario Cesare Benelli.
Uno dei fatti più gravi verificatosi nella cittadina fu l’arresto di quattro uomini di origine ebraica portato a termine da fascisti italiani: Enrico Menasci, Ildebrando Trevi, Aldo Moscati, Giorgio Moscati. I primi due vennero detenuti a Firenze, internati nel campo di Fossoli in Emilia Romagna e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz dove morirono il giorno dell’arrivo, il 26 febbraio 1944.
I fratelli Aldo e Giorgio Moscati, sfollati in paese con la famiglia, furono condotti nel carcere di Pistoia. In seguito vennero trasferiti alle “Murate” di Firenze e internati a Fossoli. Il 22 febbraio 1944 furono deportati ad Auschwitz. Arrivati in Polonia, i due furono separati con la forza al momento delle selezioni: fu quella l’ultima volta che si videro. Giorgio perse la vita appena arrivato, probabilmente nelle camere a gas appena arrivato. Aldo invece lavorò per circa un anno nel comando trasporti e cavi, poi fu assunto come aiuto-infermiere nell’ospedale. Durante gli incontri serali, a lavoro finito, Fu là che nacque l’amicizia, mantenuta anche nel dopoguerra, con alcuni italiani deportati e con Primo Levi, durante gli incontri serali a lavoro finito. Aldo Moscati negli anni ’70 raccontò:

Un rancore contro chi a suo tempo mi aveva denunciato, non ce l’ho. All’inizio ho avuto anch’io sentimenti di vendetta, ma li ho subito respinti: la vendetta non ha senso. D’altronde con chi avrei potuto prendermela, col marescialletto che mi ha arrestato?

Con l’arrivo dell’estate 1944 la situazione si fece sempre più difficile a causa dell’avanzata alleata e della ritirata tedesca verso la linea gotica. In molti comuni della zona, intorno ai primi di luglio, le autorità e i dipendenti comunali fascisti lasciarono il posto di lavoro, cercando un luogo sicuro o scappando a nord insieme ai tedeschi per paura di ritorsioni in prospettiva della liberazione.
Un’esperienza unica avvenne a Lamporecchio dopo la partenza del commissario prefettizio repubblichino. Il 2 luglio 1944, in piena occupazione nazista, 42 persone in rappresentanza di tutte le categorie sociali si radunarono nella sede comunale con lo scopo “di dare al comune un’amministrazione che provveda alla continuità dei servizi”. Ogni categoria elesse i propri rappresentanti e il comune fu così gestito per due mesi, fino alla liberazione, da un Comitato di Assistenza Pubblica (foto 1) che non aveva funzioni politiche, ma operava per il reperimento dei generi alimentari e sanitari. Gli eletti furono: Corrado Ancillotti, Sergio Tarabusi e Giovanni Meozzi per gli esercenti industriali; Giulio Minghetti, Pierantonio Cosci e Guido Catolfi per i proprietari terrieri; Mario Pancani, Giuseppe Fanti e Guido Ferradini per i conduttori diretti; Eugenio Ciattini, Primo Trinci, Giulio Bettarini e Pietro Morosi per gli operai artigiani; Giuseppe Desideri, Guido Fagni e Quintilio Postorri per i coloni mezzadri.
I rappresentanti deliberarono l’elezione come presidente di Luigi Giampalma, una scelta lungimirante poiché si trattava di un uomo non compromesso col regime fascista. Nato a Campli (vicino TeramoTE), lavorava come impiegato e sottufficiale della pubblica sicurezza. Nel post-liberazione fu un esponente di rilievo della Democrazia Cristiana e rilasciò questa breve dichiarazione scritta:

Sono sempre stato antifascista e per tale ragione non ebbi fortuna nella carriera. Dovetti aderire nell’agosto 1932 ed iscrivermi nel Partito fascista per non essere mandato via dall’Amministrazione. Dopo il 15 giugno 1944, avvenuta la fuga dei dirigenti fascisti del Comune di Lamporecchio, presi la direzione della cosa pubblica del Comune, come capo del Comitato della salute pubblica e come Commissario prefettizio.

Durante la stagione estiva diversi lamporecchiani persero la vita a causa delle violenze tedesche, dello scoppio di mine, delle cannonate e delle bombe alleate. Ricordiamo il caso di Maria Assunta Pierattoni, assassinata dopo numerose peripezie nel novembre 1944 ad Arni (Stazzema) e del ventenne Foscarino Spinelli impiccato a Montecatini insieme a Bruno Baronti con l’accusa di essere partigiano.

riconoscimento-qualifica-partigiano-fredianiNell’ambito della lotta partigiana, la formazione di Lamporecchio fu la comunista “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), guidata da Giovanni Calugi. Aveva sede presso la Cisterna di Montefiori e, oltre agli scontri a fuoco, si occupò di raccolta armi, di servizio informazioni, di sabotaggi, di aiuto nei confronti di fuggiaschi e della popolazione.

Il paese fu liberato il 2 settembre 1944. Il giorno dopo, sciolto il precedente Comitato di Assistenza Pubblica, il CLN locale si riunì nell’ufficio comunale del paese e i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre 1944 fu eletto sindaco Foscolo Maccioni e fu nominata la giunta comunale: Luigi Morelli, Reuccio Torrigiani, Paolo Ancillotti, Vannozzo Biondi, Raffaello Morelli e Francesco Fanti.

I problemi principali dopo la liberazione riguardavano l’approvvigionamento e l’alimentazione: furono effettuati accordi con i maggiori produttori agricoli e con gli altri comuni della zona. Furono utilizzati anche gli strumenti abbandonati dai tedeschi, come, ad esempio, due baracche in legno recuperate a Spicchio.
La giunta comunale dispose la revisione della toponomastica cittadina al fine di cancellare ogni riferimento al passato regime e con l’intenzione di ricordare le vittime della violenza nazifascista: viale Balbo divenne viale Antonio Gramsci, via Roma divenne via Giacomo Matteotti e via Rospigliosi divenne via Martiri del Padule. Nel dicembre 1944 furono fondate le Case del Popolo di Lamporecchio, Porciano-Fornello, San Baronto, Papone, Cerbaia.

Dopo anni di dittatura, finalmente gli italiani poterono esprimere la propria opinione attraverso libere elezioni.
Il 2 giugno 1946, per la votazione sull’assemblea costituente, con una partecipazione del 95,54%, il PCI ottenne la maggioranza assoluta e il comune fu inserito tra i più comunisti d’Italia, andamento confermato anche nei decenni successivi. Nel referendum vinse nettamente il fronte repubblicano con l’82,3%, la percentuale più alta di tutta la provincia.
In seguito, il 6 ottobre 1946, alle elezioni amministrative s’imposero i Socialcomunisti e il ventinovenne Gettulio Cenci, proprietario di una ferramenta, fu eletto sindaco, carica ricoperta per tre legislature.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), di cui è il Direttore dal giugno del 2016, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt.




“Sognavo una vita romantica e felice”

Quale effetto un conflitto esercita sulla psiche infantile? Quali le conseguenze, i traumi, le ricadute successive?
Queste domande, così frequenti nei reportage che di recente si sono soffermati sulle “infanzie rubate” dalle guerre, sono poco presenti nei saggi di storia sociale sulla seconda guerra mondiale. Ma uno studio sull’argomento, oltre ad aiutare a comprendere le sofferenze dell’oggi, servirebbe anche a cogliere i nessi tra quel vissuto e i successivi eventi della Prima Repubblica. Lungi dal colmare questa lacuna, questo contributo vuole gettare una luce su un argomento – la memoria infantile della Resistenza – tanto più importante quanto necessario da ricordare in una regione – la Toscana – dove il numero di vittime è stato inferiore alla sola Emilia.

Innanzitutto: quali fonti usare? La più parte delle testimonianze è stata raccolta anni dopo la guerra, quando non solo il tempo trascorso aveva affievolito il ricordo, ma quando i bambini di allora si erano ormai trasformati in adulti con il proprio vissuto e con altre esperienze alle spalle. Mediata già in tempo di pace dagli adulti, la voce infantile diventa perciò più flebile nei tempi convulsi di guerra. Gli appunti che il quattordicenne aretino Almo Fanciullini raccoglie sistematicamente tra l’8 settembre e la liberazione di Arezzo appaiono quindi come una particolare eccezione.

Tracciare alcune linee comuni nelle esperienze belliche di bambini e adolescenti toscani è però possibile. La prima è l’avvento della precarietà, di luoghi e di persone. Il conflitto, prima colto vagamente dalle conversazioni degli adulti, irrompe con il primo bombardamento o la carestia. «Anche se si sentiva parlare di guerra» ricorda Feralda Giovannetti di San Martino ad Empoli, dove nel ’43 frequentava la seconda elementare «per la giovane età, non ci rendevamo conto di quello che poteva essere. Cominciammo ad accorgercene quando iniziò la carestia dei viveri». «Sognavo una vita romantica e felice: gli orrori della guerra mondiale mi distolsero da questi sogni» scrive ad esempio Anna Taiuti, che dopo il bombardamento di Milano sfollò dai nonni in Toscana.
Alla devastazione dei luoghi familiari succede spesso lo sfollamento in campagna per i cittadini o, per chi vi abitava, l’arrivo di nuove persone – spesso più colte, più ricche o semplicemente più informate sugli ultimi avvenimenti – rivoluzionava la routine quotidiana, apriva nuovi orizzonti. La novità è ad esempio sottolineata da Luciana Franceschini, nata nel 1935 nelle campagne del pistoiese: «ricordo molto bene gli sfollati perché … vedevo gente nuova … per me era tutto una sorpresa e anche un divertimento quando mi invitavano a giocare».

La crescita precoce che la guerra induce nei bambini e negli adolescenti è però il tratto che maggiormente accomuna queste testimonianze. Il processo è però difforme, e varia a seconda della classe sociale di provenienza. È la fine precoce dell’infanzia per i bambini delle classi popolari, che, mentre gli adulti si asserragliano in casa per sfuggire ai rastrellamenti, lavorano nei campi e nelle officine, svolgono commissioni, girano armati. «[Noi ragazzini] andavamo a prendere il grano perché i contadini avevano paura dei tedeschi… Noi eravamo piccoli e avevamo più possibilità di stare allo scoperto» riporta Sergio Capecchi, nato a Cantagrillo (Serravalle P.se) nel 1930. Ed è invece una scoperta della libertà per i giovani delle classi sociali superiori, che, grazie alle preoccupazioni di genitori altrimenti indotti a una stretta sorveglianza, si scoprono liberi di gestire il proprio tempo. «Eppure» riassume infatti Isabella Dauphinè, sfollata da Firenze, «ricordo quel lontano 1943 come un anno veramente straordinario. Là in campagna eravamo molti ragazzi:… e ci sentivamo veramente liberi, perché le donne adulte presenti… piene di ansie e preoccupazioni, avevano ben altro da fare che occuparsi di noi».




Contro la guerra e la povertà

Nel pistoiese l’opposizione popolare alla guerra prima del maggio 1915 fu forte, anche qui più nelle aree rurali che nel centro urbano. L’onda della protesta sociale era iniziata a montare già nella primavera del 1914, con due manifestazioni in occasione del 1° maggio promosse rispettivamente dai socialisti e dai sindacalisti anarchici dell’USI (i secondi subirono anche alcuni arresti) fino alla Settimana rossa, nel giugno del ’14, con uno sciopero generale cittadino, lievi scontri intorno alla stazione – con il danneggiamento dei binari nella zona della Vergine – e parecchi arresti. Durante lo sciopero si tenne un comizio dove intervennero i socialisti Taddeoli e Cipulat, gli anarchici Eschini e Lombardelli e Agostini per i repubblicani. I manifestanti si recarono anche in corteo alla Sottoprefettura dove chiesero il rilascio di alcuni arrestati nei giorni precedenti per la diffusione di materiali antimilitaristi.

Come nel resto d’Italia quindi, lo scoppio della prima guerra mondiale andò a inserirsi all’interno di uno scenario già teso, caratterizzato da un inasprirsi della protesta popolare contro le cattive condizioni di vita. Queste circostanze contribuirono a radicalizzare il locale partito socialista, nel quale alcune componenti progressivamente si spostarono su motivazioni sempre più classiste e su argomentazioni di “guerra alla guerra” molto vicine a quelle sostenute in quel momento dai sindacalisti rivoluzionari e dagli anarchici. L’area di Lamporecchio, in particolare, era divenuta la prima zona “rossa” del circondario, con l’elezione a sindaco di Idalberto Targioni nel 1914, come risultato della sua intensa attività di propagandista e organizzatore degli anni precedenti, e il Consiglio comunale si era pronunciato per la neutralità assoluta già nell’agosto.

Dal gennaio del 1915 la corrente di opposizione intransigente alla guerra divenne maggioritaria nel socialismo pistoiese, e le manifestazioni andarono intensificandosi. A Candeglia fu indetta un’assemblea per illustrare i disagi che la guerra avrebbe provocato, a cui partecipò numerosa la popolazione delle campagne circostanti, mentre a Lamporecchio circa 300 disoccupati scendevano in piazza al grido di “pane e lavoro”. Con l’avvicinarsi dell’ingresso nel conflitto, la situazione non si normalizzò. Tra aprile e maggio furono indetti comizi e manifestazioni a Casalguidi, Spazzavento, Candeglia e ancora a Lamporecchio, con la partecipazione di centinaia di persone. Il 1° maggio nel capoluogo si teneva un comizio, seguito da iniziative dello stesso tenore a Bonelle, Spazzavento e nel quartiere di Porta Lucchese. Nei giorni immediatamente a ridosso della dichiarazione di guerra, il livello della conflittualità si innalzò. A Pistoia ci furono scontri alla stazione ferroviaria contro la partenza dei richiamati alle armi, a cui non furono estranei alcuni dei soldati dei reggimenti che dovevano partire. La tensione e l’opposizione popolare rimasero forti nei mesi successivi, nonostante il bavaglio imposto alla stampa di opposizione e l’ambigua posizione ufficiale dei socialisti, attestatisi intorno al “né aderire né sabotare”, che frenò le componenti più radicali del socialismo pistoiese. Sempre nella zona di Lamporecchio una manifestazione si trasformò in rivolta con l’occupazione del paese per alcune ore, durante le quali avvenerò atti di ostilità verso i facoltosi del luogo. Furono arrestate 5 persone, condannate poi a pene severe. In diverse circostanze il movimento popolare superò e radicalizzò le parole d’ordine iniziali degli organizzatori delle proteste, soprattutto nel mondo rurale, che vedeva come una vera e propria sciagura il conflitto, e che si caratterizzò per una massiccia partecipazione della componente femminile.
Furono infatti sempre le donne a riaccendere il fuoco della protesta nelle campagne.

Fino al 1916-’17 nel pistoiese regnò la calma, ma i giovani socialisti, radicalizzati rispetto al loro stesso partito, ed un innovativo movimento di socialiste, ripresero la propaganda contro la guerra e le pessime condizioni di vita, aggravatesi durante il conflitto. Fu lanciata la parola d’ordine del rifiuto del sussidio per protestare contro l’assenza degli uomini e dei figli. L’attività di propaganda funzionò a tal punto da riuscire a penetrare anche nelle zone tradizionalmente cattoliche, dove probabilmente l’ostilità popolare all’inutile strage, come l’aveva definita lo stesso Papa, non doveva essere minore. Nel gennaio 1917 la protesta, a guida femminile, esplose. A Larciano le donne rifiutarono il sussidio e dettero vita a una manifestazione antimilitarista, seguita da altre due manifestazioni analoghe a Quarrata. Anche in occasione della giornata internazionale dell’8 marzo, si tenne una manifestazione nel capoluogo, legata più a motivi economici. Nella piana cominciarono a svolgersi delle “marce della pace”. Da Tobbiana il 26 giugno 400 donne partirono verso Pistoia per chiedere la pace e rifiutare il sussidio (5 arrestate e 5 denunciate). A Montale il 5 luglio, in 300 cercarono di bloccare il servizio ferroviario e chiesero la fine della guerra, mentre il giorno dopo un’altra manifestazione per la pace, 300 le partecipanti, assumeva toni più minacciosi, con le dimostranti armate di bastoni (18 arrestati, 14 donne e 4 uomini). Sempre il 6 luglio donne di Agliana, Pistoia e frazioni dei due comuni si riunirono insieme e in circa 300 tentarono di arrivare a Pistoia, bloccate dai Carabinieri. A Gello si svolse una manifestazione di circa 400 donne, a Ramini un centinaio di donne costrinsero la maestra a sospendere le lezioni (18 denunciate) ed a Casalguidi avvenne un’altra manifestazione in favore della pace. Le aree erano quelle a diffusa presenza mezzadrile, con centri all’epoca piccolissimi, dove il movimento sindacale dei lavoratori della terra aveva iniziato ad apparire negli anni precedenti. La provenienza sociale legata al lavoro agricolo è testimoniata in un caso dal comportamento delle donne di Vinacciano. Una cinquantina di loro si recò da un proprietario terriero, evidentemente identificato tout court come parte di quello Stato così lontano e opprimente, chiedendo di far cessare il lavoro nei campi dei prigionieri di guerra (alla solidarietà internazionale qui forse si unì il problema pratico che questa era manodopera non pagata che toglieva lavoro ai braccianti) e di adoperarsi per far ritornare gli uomini dal fronte (7 denunciate).

Queste pratiche di opposizione e di conflittualità politico-sociale, difficili da seguire ma nondimeno concrete, lungi dall’essere episodi isolati, si inseriscono dunque all’interno di un malessere di lungo periodo, acuito dalla guerra, che avrebbe poi fornito le basi all’ondata di agitazioni del biennio rosso, con i moti del caroviveri, l’occupazione delle fabbriche e le agitazioni nelle campagne, sconfitto soltanto dalla reazione armata guidata dallo squadrismo fascista tra il 1921 e il ’22.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione.