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Fernando Melani, un “incantatore di atomi”

Fernando Melani (1907-1985) fu artista pistoiese e ricercatore scientifico cosmopolita. Partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo portò avanti una ricerca creativa vicina a correnti come l’Arte Povera, l’Arte Concettuale e la Minimal Art, anticipandone in alcuni casi gli esiti. Molte sue opere oggi trovano sistemazione presso la casa-studio Fernando Melani a Pistoia.
Donatella Giuntoli, amica e studiosa di Fernando Melani, affermò che “Melani si poteva configurare nell’immaginario pistoiese come un manipolatore di particelle o un incantatore di atomi”. In questa frase è racchiusa l’essenza profonda di un uomo del Novecento che ha votato la sua vita alla sperimentazione sulla materia.

Melani passò gran parte della sua esistenza a Pistoia. Nacque a San Piero Agliana (PT), secondogenito di una famiglia borghese, il 25 marzo 1907 e morì a Pistoia nel marzo 1985. Nel 1937, di rientro da un’esperienza lavorativa a Novara, entrò in possesso dell’abitazione familiare in Corso Gramsci a Pistoia, dove abitò per tutta la vita con un’unica parentesi legata allo sfollamento per i bombardamenti del 1943/44.
Lo spartiacque del secondo conflitto mondiale cambiò drasticamente il modo di pensare di Fernando portandolo a una completa rielaborazione delle sue priorità, si dedicò all’arte e sposò un’assoluta essenzialità, sostituendo ogni suo abito con una tuta blu (accompagnata da una sciarpa gialla) ed eliminando ogni accessorio domestico dall’abitazione, compresi cucina e termosifoni. La casa di Corso Gramsci divenne così il luogo della creatività, lo studio, dove gli ‘atomi potessero essere liberi di vagare per le stanze’, mentre l’esterno acquisì una funzione legata alle necessità fisiche, gestite attraverso una rigorosa routine. Melani, infatti, mangiava sempre nel medesimo ristorante e frequentava regolarmente i soliti centri d’aggregazione.
Nell’“immaginario pistoiese”, un tessuto culturale ampio e variegato, Melani era inserito per analogia o contrasto, la sua era una socialità fatta di provocatorie discussioni e biunivoci rapporti di crescita. Lo si poteva incontrare al Cafè du Globe, al bar Piemontese o al bar Valiani, a pranzo e a cena alla trattoria Autotreni in Porta al Borgo, oppure a discutere animatamente presso la Libreria dello Studente di Giovanni Tellini. In questi ambienti era entrato in contatto con molte personalità (come Luigi Bruno Bartolini, Alfiero Cappellini, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Remo Gordigiani, Giulio Innocenti, Lando Landini, Antonio Nespoli, Renato Ranaldi, Giovanni Tellini); ma manteneva sempre un occhio vigile nei confronti di un macrocontesto, non strettamente locale, stringendo rapporti con figure importanti come Luigi Ardemagni, Ettore Bonessio di Terzet, Silvio Ceccato, Luciano Fabro, Ernesto Galeffi (in arte Chiò), Rosy Novella, Fiamma Vigo, Marisa Volpi.
Il suo essere Fernando, assieme al modo di esplicarsi verso l’esterno, è una diretta emanazione dei suoi valori scientifico-razionali, in questo le definizioni di “manipolatore di particelle” e “incantatore di atomi” tentano di inquadrare, a loro volta, il processo intellettuale melaniano in un sistema razionale. La sua attività non è semplicemente definibile in categorie standardizzate e univoche, infatti, se da un lato si può identificare come artista astratto, dall’altro vanno ricordati i suoi slanci di ricercatore scientifico, di scrittore, di teorizzatore, di fotografo e altri aspetti che il recente lavoro di sistemazione dell’archivio ha approfondito. Possiamo, quindi, concepire il suo lavoro come se fosse accomunato dall’unico obiettivo di analizzare la verità dell’universo, in altre parole l’atomo; il suo lavoro diviene così uno strumento e non il fine ultimo della ricerca. Solo in quest’ottica possiamo comprendere opere come le ‘macchine semplici’, meccanismi funzionali e funzionanti finalizzati alla sperimentazione sonora o fisica; oppure le riflessioni spaziali legate alle opere ‘bucato’ e ‘bandiera’; o ancora lo studio della casualità, opere nate dalla sedimentazione di materiale nel corso del tempo.
In questo rapporto tra materia, esistente e teoria risiede la ricerca artistico-scientifica di Fernando Melani. Dal 1950 comincia a esporre le prime opere già definibili ‘astratte’ e per più di quarant’anni continua la sua attività collaborando con vari centri d’arte pistoiesi come la Galleria Studio La Torre o la Galleria Vannucci; arriva anche a Firenze e a Milano grazie alla fruttuosa collaborazione con Fiamma Vigo; nel 1972 partecipa assieme a Luciano Fabro a ‘Documenta 5’ presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: Davanti alla pittura (1953), Addio Giulio! (1955), Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa (1956), Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester (1960), Astratto vecchio nuovo ed oltre (1963-64), Universo Evoluzione Arte (1979).
Oggi la sua eredità intellettuale e culturale è portata avanti dalla Casa-studio Fernando Melani, sita in Corso Gramsci 159, di proprietà del Comune di Pistoia e gestita dall’ U.O. Musei e Beni Culturali dello stesso comune. Nella casa-studio, accessibile su prenotazione, è possibile immergersi completamente all’interno di un ambiente creativo unico nel panorama culturale pistoiese e toscano.

Lorenzo Sergi ha conseguito la laurea magistrale in Archivistica con la prof.ssa Laura Giambastiani svolgendo una guida dell’Archivio di Fernando Melani. Collaboratore esterno per istituti di ricerca, ha svolto e svolge attività di valorizzazione culturale, per bambini e adulti, in enti e associazioni del territorio. Tra le sue pubblicazioni: SERGI L. (a cura di), Catalogo di mostra I 7 Antichi, le carte dell’Archivio Storico comunale di Monsummano Terme, in «Caffè Storico. Rivista di studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 2, Monsummano Terme, Istituto Storico Lucchese, 2016; Ricerca fotografica e fotografie in LOMBARDI M., PALANDRI A., SERGI L., Jorio raccontato ai bambini, Buggiano, Edizioni Vannini, 2013.




Mirella Scriboni

Mirella Scriboni ci ha lasciato l’8 gennaio 2017, un male incurabile se l’è portata via nell’arco di pochi mesi.

Nata a Viterbo nel 1950, si è laureata in Lettere all’Università di Pisa con una tesi discussa con il professore Silvio Guarnieri su Rocco Scotellaro. Negli anni giovanili degli studi universitari Mirella vive intensamente tutto il lungo periodo delle vicende della contestazione giovanile e studentesca e, tra gli anni 1969 e 1973, partecipa all’esperienza del Centro K. Marx di Pisa e poi quella dei collettivi femministi. Successivamente, per motivi di lavoro, inizia a viaggiare e a insegnare italiano all’estero in scuole e università (Limerick, Sydney, New York, Alessandria d’Egitto, Addis Abeba e infine, come a chiudere il cerchio, di nuovo in Irlanda a Galway). Lettrice e cinefila appassionata, durante gli anni di insegnamento inizia a interessarsi allo studio delle lotte di emancipazione femminile e delle donne scrittrici dell’Ottocento.
È a questo periodo che risalgono le ricerche che poi hanno dato vita ai suoi primi saggi pubblicati su riviste specialistiche tra i quali si ricordano: Dorothy Sayers: un centenario (1994), Cristina di Belgioioso (1994), «Se vi avessi avuto per compagna…». Incontri tra donne nelle lettere e negli scritti dall’Oriente di Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808-1871) (1994), Le rivali di Sherlock Holmes: donne e letteratura poliziesca nell’età vittoriana (1995), Da eroina a protagonista: l’affermazione del desiderio femminile nei racconti gotici di Luisa Saredo (1995), Il viaggio al femminile in Oriente nell’Ottocento: la Principessa di Belgioioso, Amalia Nizzoli e Carla Serena (1996), Immagini dell’harem nell’Ottocento (1998).
Sempre in quel decennio escono i volumi da lei curati per le edizioni Tufani: Un mestiere da donne. Racconti gialli di scrittrici dell’800 (1996); l’edizione italiana delle opere di Cristina Trivulzio di Belgiojoso: Emina (1997), Un principe curdo (1998), Le due mogli di Ismail Bey (2008); e Immagini-memoria di Alessandria d’Egitto in Ungaretti (e ‘dialogo’ con Kavafis) in L. Incalcaterra McLoughlin (a cura di), Spazio e spazialità poetica nella poesia italiana del Novecento, (2005).
Negli anni trascorsi all’estero Mirella, persona sensibile e attenta agli scenari geopolitici mondiali, di fronte all’esplodere dei conflitti e delle tragedie delle guerre matura una sua scelta “antimilitarista” e “nonviolenta”, che la porta a interessarsi delle tematiche pacifiste, sempre dal punto di vista della storia al femminile. In questi anni terribili Mirella – che da sempre sostenitrice della causa palestinese – non fa mancare il proprio appoggio a tutte quelle iniziative tese al dialogo e alla concordia tra i popoli.
Rientrata in Italia e stabilitasi definitivamente a Pisa, Mirella si occupa di storia delle donne in relazione alla guerra. Socia della Casa della donna di Pisa, sostenitrice del quotidiano «Il manifesto e dell’Assopace per la Palestina, diventa un’assidua lettrice e frequentatrice, nonché amica e generosa sostenitrice, della Biblioteca F. Serantini. Da questo rapporto nasce il progetto di un libro che esce nel 2008 edito dalla casa editrice della biblioteca. Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al primo conflitto mondiale (1896-1915) è un volume che attraverso un’antologia di testi dell’epoca, riporta alla luce l’opposizione delle donne italiane alla Grande guerra e alle guerre coloniali che la precedettero (la prima guerra d’Africa del 1896 e la guerra di Libia del 1911-’12). Un’opposizione che si espresse intensamente e con continuità sulla stampa emancipazionista, sui numerosi giornali redatti dalle donne socialiste e sui numerosi periodici socialisti e anarchici. Voci di donne che affiancavano, al ruolo di pubbliciste, la militanza nel movimento emancipazionista e pacifista, nel partito socialista e nel movimento anarchico. Dagli scritti emerge non solo il protagonismo delle donne nel più vasto arco di opinioni e pratiche che dichiararono “guerra al regno della guerra” nel corso di un periodo cruciale della storia italiana, ma anche la specificità, la ricchezza e la complessità di un “pensiero della differenza” ante litteram: il discorso femminile sul tema, allora più che mai tipicamente maschile, della guerra. Lei che anarchica non era, aveva sviluppato una forte sensibilità e approccio “libertario” alla ricerca e alla studio. Amante dei viaggi, che ha sempre effettuato fino a quando gli è stato possibile, ha continuato a lavorare fino all’ultimo, nel 2016 ha pubblicato Leda Rafanelli, libertaria e musulmana, giornalista e scrittrice, in «ToscanaNovecento» e partecipato con una relazione (Anarchiche e antimilitarismo in età giolittiana) al convegno Le donne nel movimento anarchico italiano tenutosi a Carrara il 27 febbraio 2016.




Ebrei in Toscana, XX-XXI secolo

Il 20 dicembre 2016, alle ore 13, si aprirà presso la Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi a Firenze la prima grande mostra sulla storia degli ebrei in Toscana nel XX e XXI secolo. Un arco di tempo a cavallo di due secoli, due guerre mondiali e migliaia di storie di vite che appartengono a questa regione e si legano al mondo intero.

La Mostra, aperta dal 20 dicembre 2016 al 26 febbraio 2017, promossa e coordinata dall’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (ISTORECO), realizzata col contributo determinante della Regione Toscana, racconta attraverso un percorso narrativo di immagini, documenti, testi e produzioni multimediali la vita delle comunità ebraiche toscane e i loro legami con la comunità ebraica italiana e internazionale.

L’importanza delle comunità ebraiche nella storia della Toscana è legata alla presenza di una rete diffusa e diversificata di gruppi, da quello di Livorno – sicuramente il più numeroso – alla comunità di Firenze, a quelle di Pisa, Siena, il piccolo nucleo di Pitigliano, e altri gruppi familiari sparsi sul territorio.

Ogni comunità, grazie ai suoi membri, ha legami con il resto del mondo. Alcune famiglie provengono dall’antica emigrazione iberica, altre dal bacino del Mediterraneo, altre ancora dall’Europa dell’Est. Ogni comunità ha poi relazioni con la tradizione sionista nazionale ed internazionale, con i fermenti culturali che attraversano il paese e con gli orientamenti più significativi che lo agitano.

Il racconto di questa storia permette di cogliere i rinvii ad una cornice che non è solo locale ma nazionale ed europea, con un allestimento espositivo rivolto anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani.

I testi, in italiano e inglese, si prestano ad una molteplicità di letture trasversali e di connessioni e sono arricchiti da riproduzioni di carte d’archivio, copertine di libri e disegni ma soprattutto da uno straordinario apparato di riproduzioni fotografiche generosamente messo a disposizione da archivi familiari privati e da fondazioni culturali. L’idea è rivolgersi a tutte le generazioni per rafforzare i fili della nostra memoria democratica e soprattutto costituire un antidoto alle pulsioni razziste e discriminatorie che attraversano la nostra realtà.

Il progetto scientifico è curato da un gruppo di studio e di lavoro costituito dalla Direttrice dell’ISTORECO Catia Sonetti e tre ricercatrici di storia ebraica contemporanea: Barbara Armani (Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici, Pisa), Elena Mazzini (Università di Firenze), Ilaria Pavan (Scuola Normale Superiore di Pisa). La traduzione dei testi è stata curata da Johanna Bishop.

L’allestimento è progettato da Frankenstein-Progetti di vita digitale di Firenze.

La mostra è organizzata con il supporto della Regione Toscana; il sostegno della Città Metropolitana di Firenze; col patrocinio della Scuola Normale Superiore, dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, dell’UnicoopFirenze.

NOTIZIE UTILI sulla MOSTRA

20 DIC | 26FEB

FIRENZE, Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi

Via Camillo Cavour, 5

ORARI DI APERTURA E VISITE GUIDATE

Dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 18.00, ingresso gratuito

Info: +39 0586 809219 | +39 055 284296 | +39 334 112 3981

istoreco.livorno@gmail.com | isrt@istoresistenzatoscana.it

Per prenotare visite guidate (massimo 25 persone), rivolgersi a:

Istituto Storico della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Livorno (ISTORECO)

Mail: istoreco.livorno@gmail.com

Per prenotare visite alle scuole (singole classi), rivolgersi a:

Istituto Storico della Resistenza in Toscana (ISRT), referenti: Paolo Mencarelli e Silvano Priori

Mail: isrt@istoresistenzatoscana.it

Tel: 055 284296 (lun-ven, ore 10-13)

Ufficio stampa e comunicazione

Frankenstein S.r.l.

055-06516906

info@frankenstein.sm

 




“L’Ombrone affitta ma non vende”: il patto antico tra Grosseto e le acque.

Le piene dell'Ombrone

Livello delle piene dell’Ombrone

In occasione delle celebrazioni legate al Cinquantenario della drammatica alluvione del 4 novembre del 1966, alluvione che non vide solo Firenze al centro della epocale vicenda, ma innumerevoli altre realtà tra le quali Grosseto e la sua Maremma, emerge con chiarezza la necessità di una riflessione storica di lungo periodo che ci consenta di cogliere le peculiarità di un complesso problema storico e geografico.

La realtà grossetana, infatti, presenta alcuni spunti per definire una prospettiva che nasce da incroci di punti di vista disciplinari e da sensibilità diverse giocate nell’intento di restituire l’organicità complessa del sistema uomo-ambiente nel tempo.

Grosseto non è solcata dal fiume, ma dal fiume è stata segnata per intero la sua esistenza, sin dalla sua origine. Dal legame stretto con l’acqua, buona o cattiva, sgorga la sua stessa essenza e la sua identità, che dà forma alle cose, disegna i contorni del paesaggio, forgia le vite delle generazioni che vi dimorano: un connubio da indagare nelle sue radici profonde e da insegnare a chi sta crescendo in questo luogo, perché impari a rispettare il patto della città con il suo ambiente, lo accolga e lo difenda.

Da questa riflessione nasce l’idea dell’urgenza e della necessità di un lavoro didattico organico e mirato per avvicinare i ragazzi alla storia dei luoghi, intesi come nodo problematico nato dall’ambiente e dall’uomo che vi si insedia nella prospettiva storica di lungo periodo. In questo contesto la caratteristica precipua della didattica proposta dagli istituti storici, che risiede nella impostazione del lavoro su base laboratoriale, consente di avvicinare i ragazzi al testo delle fonti storiche: siano quelle classiche o quelle archivistiche, archeologiche o iconografiche, non trascurando le fonti materiali ancora presenti sul territorio né un’organica e strutturata lettura del paesaggio urbano e fluviale, né la copiosa messe di studi editi sulla città e il territorio.

Ci viene incontro a questo proposito la mostra organizzata presso l’Archivio di Stato di Grosseto, “L’Ombrone ed altri fiumi. Breve storia delle alluvioni in Maremma” presentata il 24 settembre 2016, che ci restituisce il panorama storico documentario, offrendoci preziosi spunti per una ricostruzione degli eventi che caratterizzarono la complessa vicenda delle acque e la città, estratti dai documenti conservati nei fondi archivistici grossetani, quali l’Uffizio de’ Fossi e Coltivazioni, Il Genio Civile, l’Ingegnere Ispettore del Compartimento, il Commissario della Provincia Inferiore, La Sottoprefettiura di Grosseto, L’Uffizio di Buonificamento delle Maremme, Il Catasto, la Prefettura Granducale, la Provincia di Grosseto, il Comune di Grosseto.

Ilario Casolani (Siena 1588 - 1661) Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  Olio su tela cm.274x160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d'Arte della Maremma e Museo Diocesano d'Arte Sacra.

Ilario Casolani (Siena 1588 – 1661)
Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  |   Olio su tela cm.274×160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d’Arte della Maremma e Museo Diocesano d’Arte Sacra.

A sintetizzare mirabilmente le vicende che legano la città all’ambiente fluviale e palustre in cui è immersa, l’antica immagine iconografica forse più suggestiva della città di Grosseto. Si tratta del particolare tratto dalla pala d’altare conservata presso il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Madonna con Bambino e i Santi Rocco, Lorenzo, Sebastiano e Cipriano di Ilario Casolani del 1630, immagine cara agli storici della città, che l’hanno indagata più è più volte per poter immaginare un ambiente storico lontano nel tempo, ormai totalmente modificato, tanto da risultare irriconoscibile. È la vista a volo d’uccello di una piccola città chiusa nelle sue mura stellate, ancora circondate da un fossato, immersa nella luce dorata riflessa da un paesaggio di terra e d’acqua che si perde in lontananza e sfuma i contorni di una natura che si intuisce ostile indomita e selvaggia, sublimata in una struggente bellezza.

Questa bellezza aspra, che riesce a commuovere chi vive e ama la Maremma, e ne vuole indagarne il segreto, percepirne le forza e la sostanza, costituisce la radice identitaria di un territorio che va capita e fatta capire anche a chi è giunto da poco, a chi è giovane oppure che l’ha dimenticata, perché è qualcosa di delicato e fragile, un equilibrio secolare che ogni tanto si infrange e chiede quindi attenzione, cure, nuove fatiche e ancora riflessione.

Sin dall’antichità le fonti più importanti sono quelle di Tito Livio, (Ab urbe condĭta libri, XXVIII, 45, 18) che parla di contributi in legno d’abete e grano destinate a Scipione che raggiungono Roma forse per vie d’acqua (fluitazione), di Plinio, (Naturalis Historia, III 51 ) che definisce l’Ombrone “Navigiorum capax” o del citatissimo Rutilio Namaziano, (De Reditu suo) che nel 417 ripara la notte presso la foce dell’Ombrone, “Non ignobile flumen” definendo la foce un attracco sicuro ed esprimendo il desiderio impossibile di potervi rimanere più a lungo.

Ma forse l’indizio che ci fa maggiormente intuire il legame d’affetti tra gli antichi abitatori della Maremma con le acque del suo fiume è il frammento con iscrizione ritrovato presso lo Scoglietto (all’interno del Parco della Maremma non distante dalla foce dell’Ombrone) con dedica a Diana Umbronensis e restituitoci dagli studi di Studi di Sebastiani e Cygielman.

Molte questioni rimangono aperte, come la presunta navigabilità dell’Ombrone: per molti studiosi certa per l’ultimo tratto, discussa a fondo con posizioni diverse e contrastanti riguardo al tratto nei pressi di Grosseto.

Certo è che in epoca altomedievale il fiume scorreva vicino alla città: esiste un legame imprescindibile tra l’Ombrone e l’origine della città. Essa infatti compare verso la fine del VI secolo, dopo la decadenza della villa di San Martino accanto al tracciato della Via Emilia Scauri (II sec. a.c.) che aveva percorso più interno rispetto alla vecchia Aurelia (III sec. A .c) e guadava il fiume nei pressi di Grancia. Vi era forse un approdo fluviale: nella direttrice fiume – saline – mare- è da rinvenire la cifra dell’esistenza di questo minuscolo centro abitato nascente sulle rovine di un’antichità che aveva visto fiorire città importanti e potenti come Roselle e Vetulonia. Così il piccolo centro prende vita su piccole alture o su un pianoro sommitale nell’area dell’ attuale Piazza della Palma e via Garibaldi -come ci restituiscono recenti scavi urbani- forse per scongiurare il pericolo delle piene dell’imminente fiume.

Ma Grosseto è città fluviale? Non certo in senso classico, come le grandi città italiane, Roma Firenze o Pisa: non è attraversata dal fiume. Ma in forma simile a Grosseto altre città sono lambite da fiumi, basti pensare ai casi di Casale Monferrato sorta accanto al Po, a Cuneo nata vicino ai fiumi Stura e sul Gesso, a Vicenza, lambita dal Bacchiglione, al caso toscano di Prato sorta a sfiorare il Bisenzio. Una possibile pista di analisi conoscitiva potrebbe nascere dalla comparazione delle realtà storico- geografiche simili, valutando analogie e differenze per meglio comprenderne gli equilibri passati e le prospettive future.

Uno spunto importante, poi, su cui concertare una riflessione è la storia delle alluvioni in Maremma nella documentazione e nella letteratura: se poco si sa delle alluvioni in età altomedievale è facile intuirne la presenza nelle caratteristiche legate alla struttura urbana di Grosseto, come si è detto sviluppatasi su piccole alture nei pressi del corso del fiume, ma anche nella mancanza di locali ipogei e di cantine. Documentate sono invece le alluvioni nel basso Medioevo soprattutto nel 1318 (G. Venerosi Pesciolini, Mura e casseri di Grosseto nell’Evo Medio, Siena 1925) e la grande alluvione del 1333 descritta nella Cronica di Giovanni Villani, libro undecimo:

“negli anni di Cristo 1333, il dì di calen novembre, […] onde quel dì della Tussanti cominciò a piovere diversamente in Firenze ed intorno al paese e nell’Alpi e montagne, e così seguì al continuo quattro dì e quattro notti […] dovunque ha fiumi o fossati in Toscana e in Romagna crebbero in modo che tutti i loro fiumi ne menaro e usciro di loro termini, e massimamente il fiume Tevero e copersono le loro pianure d’intorno con grandissimo dammaggio del contado del Borgo a San Sepolcro e di Castello, di Perugia, di Todi d’Orbivieto e di Roma; e ‘l contado di Siena e d’Arezzo e la Maremma gravò molto.”

Alluvioni imponenti, quasi un flagello divino, un preludio dell’apocalisse tanto che il fiume Ombrone cambiò il suo corso e si allontanò dalla città di oltre un chilometro e mezzo: il toponimo Fiume morto a designare un ampio territorio che va dalla Porta Vecchia della città di Grosseto all’attuale argine in fondo a Via de’ Barberi, ne è la testimonianza più evidente. Il toponimo è altresì attestato sin dal 1258 nei pressi di Istia-San Martino, segno evidente che il fiume tendeva a variare il suo corso con andamento progressivo (G Prisco, Atlante storico topografico)

In Età moderna si segnalano man mano che ci avviciniamo al presente, moltissime alluvioni: la documentazione si fa più ricca e più indagata risulta la storia più vicina a noi. Ci basti ricordare le disastrose alluvioni del 1557 del 1758 e del 1813. Epoche difficili segnate da guerre, crisi, carestie. La prima ha una probabile connessione con il conflitto Franco-Spagnolo in cui è inserita la guerra di Siena, che tanto coinvolse da vicino le sorti della Maremma, consegnata, con tutta la Repubblica di Siena, come premio al nascente stato regionale dei Medici; la seconda è al culmine di quello stato di prostrazione demografica ed economica che ispirò a Sallustio Bandini il Discorso su la Maremma di Siena (scritto probabilmente nel 1737); la terza da mettere probabilmente in relazione con le guerre napoleoniche che avevano insanguinato tutta l’Europa. Epoche in cui, dunque, il patto col fiume viene meno? Difficile dimostrarlo con certezza. Sappiamo solo che alla fine dell’età moderna si inizia veramente in maniera seria e strutturata a pensare di intervenire per mettere finalmente a regime le acque maremmane: è del 1815 un bellissimo progetto di sistemazione dell’argine mediceo dell’Ombrone onde scongiurare il pericolo dell’alluvione per la città (Archivio di Stato di Grosseto, Uffizio de’Fossi 609). Di lì a poco iniziarono i grandi lavori che trasformarono in maniera radicale e irreversibile in senso moderno l’ambiente intorno alla città, con il Motuproprio di Leopoldo II di Lorena del 27 novembre 1828, che dispose l’inizio della bonifica e l’avvio dell’opera di colmata prospettata da Vittorio Fossombroni, deviando all’altezza dell’attuale Steccaia il corso del fiume e dirottando le sue acque torbide all’interno della piana di Grosseto e del Padule di Castiglione.

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Purtroppo, però, malgrado le maggiori attenzioni e l’immane lavoro svolto, i documenti ci parlano di continue tracimazioni delle acque dell’Ombrone: il 28 dicembre del 1821, nel settembre del 1848, il 30 novembre 1864, il 4 e 5 ottobre 1868, nel novembre e dicembre del 1869, nel 1874, il 7 agosto del 1880, il 7 novembre 1896. Si moltiplicano documenti e notizie, le stime dei danni, le parole delle popolazioni colpite soprattutto nelle abitazioni, nei lavori agricoli, nella morte del bestiame.

Singolare è poi un progetto di una chiusa mobile a Porta Vecchia di ferro fuso per contenere le piene del 1868 (Archivio di Stato di Grosseto, Comune X 98) di cui ancora leggiamo all’interno dell’arco di Porta Vecchia la scanalatura in cui era inserito il meccanismo, proprio accanto al bastione che riporta le iscrizioni lapidee dei livelli delle piene: un vero e proprio luogo della memoria delle ultime alluvioni storiche della città.

Tra queste, l’alluvione del 2 novembre del 1944 è ancora tutta da studiare e da riscoprire. La città liberata da pochi mesi dall’Esercito alleato, ancora dolente per le profonde ferite inferte al tessuto urbano e sociale dai bombardamenti e dalla guerra, stava lottando per tornare ad una difficile e precaria normalità, quando, secondo le testimonianze dei vecchi grossetani, le sirene d’allarme antiaereo suonarono di nuovo, stavolta annunciando un flagello diverso più antico e familiare, ma non meno inquietante. Scarseggiano i documenti e le immagini, si tratta di una storia tutta da ricostruire. Ci vengono in aiuto importanti testimonianze documentarie conservate nell’archivio dell’Isgrec nel fondo del CPLN di Grosseto. A ridosso dell’alluvione, il 9 novembre, si riunisce il Comitato provinciale di Liberazione nazionale per discutere i numerosi problemi di una città che sta ancora in bilico tra la guerra e la pace, tra istanze di democrazia, di ritorno ad un’agognata normalità, e il desiderio di giustizia per le violenze subite. Trova spazio al n.5 dell’ordine del giorno, la voce “aiuti pro sinistrati dell’inondazione del 2 corrente mese” che sviluppa l’idea di creare una commissione formata dai rappresentanti dei sei partiti che formano il CLN unitamente al tenente Rush per la distribuzione degli aiuti. Viene poi stesa una circolare da inviare ai maggiori proprietari della zona per sollecitare donazioni di danaro per i sinistrati.

Fa seguito un nutrito fascicolo di documenti, costituito, tra le altre cose, da una lista di proprietari e persone abbienti di Grosseto, dalle lettere di risposta di alcuni di questi con la comunicazione della cifra donata. Si tratta di uno spiraglio per restituire alla città una memoria che rischia di andare perduta, imprescindibile anello di una catena che ci conduce al presente dando un senso diverso anche all’alluvione di cinquant’anni fa.

In ultima analisi, ciò che ci suggerisce questo breve excursus è l’impellente necessità di conoscere, di studiare il passato per mantenere in futuro un sano equilibrio tra gli uomini ed il loro ambiente che può trasformarsi in qualcosa di temibile e minaccioso se l’avidità, l’immediato interesse la sconsiderata ricerca di profitto prevarranno a oscurare la natura insieme difficile e gentile della Maremma: “L’ Ombrone affitta ma non vende”, dicevano un tempo i vecchi grossetani, gli stessi che per San Lorenzo, patrono della città, giocavano la Giostra del Saracino in via dei Barberi fino ai primi del Novecento. (La Nazione, 10 agosto 1980, Roberto Ferretti). Era una gara tra la città degli uomini e la natura che la accoglieva, sotto gli occhi benevolmente ironici del Santo con la graticola.




Bisenzio

Fino a quando, a seguito della smobilitazione dei Lanifici negli anni Cinquanta, l’arrivo dei carbonizzi e delle tintorie non iniziò a inquinare le acque limpide del fiume, il Bisenzio non era solo un corso d’acqua sulle cui sponde erano nate le principali industrie del pratese.

Era il palcoscenico dei divertimenti estivi di tutti i ragazzi che trascorrevano ore nelle pozze d’acqua create dalle pescaie o nei canali delle gore; era una fonte di alimento e guadagno, attraverso la pesca e il duro lavoro dei renaioli; era il luogo dove le donne, chine sui sassi, lavavano panni e indumenti.

Proprio le testimonianze dei ragazzi d’allora, raccolte con cura dal Centro di Documentazione Storica della val di Bisenzio negli ultimi trent’anni, permettono di rievocare con vivacità i mille legami intessuti tra la gente del posto e un corso d’acqua: uno scambio continuo e infinito, dove ogni singola risorsa offerta dal fiume era sfruttata o piegata ai bisogni primari e secondari della comunità.

E sicuramente l’aspetto ludico era tra i bisogni secondari pienamente soddisfatti dal fiume: tutti i ragazzi, dal più piccolo al più grande, sapevano nuotare con sicurezza: prima nelle piccole pozze confortati dagli alti massi che fuoriuscivano dall’acqua, per poi affrontare le varie pescaie che accompagnavano il corso del Bisenzio, mentre nelle gore si facevano gare di nuoto per varie categorie d’età, a eliminazione, perché più che due per volta non si poteva gareggiare per lo stretto margine delle due sponde.

Nella vita sociale prima della Seconda guerra mondiale il Bisenzio era ancora l’ambiente deputato al benessere e alle attività fisiche dei bambini: in epoca fascista, infatti, le principali colonie elioterapiche erano dislocate lungo il fiume, e l’aria fresca del Bisenzio accompagnava i disciplinati bagni di sole e di fiume, i saggi ginnici e i giochi.

Tra fabbrica e fabbrica, tra pescaia e pescaia, il fiume era pulito, trasparente. La buona qualità delle acque permetteva anche la presenza di pesci delle più varie specie -broccioli, lasche, codinelle, barbi, boghe, anguille- da catturare con peculiari specializzazioni: con le mani e le forchette; in apnea frugando tra gli scogli; con l’amo e il tramaglio (una rete alta e lunga); “a rintrono”, facendo uscire storditi i pesci da un anfratto dove era stato scagliato un sasso sopra l’altro; a “frugnolo”, dove, nelle ore notturne, a lume di carburo con un retino piccolo si illuminavano i pesci che rimanevano fermi, o ancora “a corda”, con cordicelle che facevano girare i fusi delle filande presi in filatura. Molti di questi sistemi erano proibiti dalla legge e non passava settimana, nel periodo dalla fine di marzo a ottobre, che non ci fosse qualche inseguimento da parte della Guardia Forestale e dei Carabinieri. Pochissimi avevano la licenza di pesca e quasi tutti rischiavano: alcuni lo vendevano, arrotondando la paga della fabbrica, ma per la maggior parte dei pescatori di frodo il pesce era una delle basi dell’alimentazione. Il ristorante “Il Bongino” presso La Tignamica (Vaiano) si era specializzato nella frittura di pesciolini di Bisenzio e il lunedì -quando a Prato chiudevano i negozi e le attività- molti cittadini si riversavano sulle sponde del fiume a pescare per poi pranzare alla celebre locanda.

4-giovani-donne-a-lavare-panni-e-indumenti-nel-bisenzioAltra fonte di guadagno era costituita dalla rena, creatasi dall’arrotatura della pietra arenaria prodottasi nel fiume durante le piene, scavata e raccolta con fatica dai renaioli nei vari posti di prelievo autorizzati. Nella maggior parte dei casi i renaioli erano anziani che conoscevano bene il fiume e sapevano dove scavare il greto; per arnesi avevano un picco, un badile e una rete metallica inchiodata ad un telaio in legno rettangolare” strumentale alla divisione tra ghiaia e rena, venduta poi ai muratori come collante per la calce e il cemento.

Le rischiose inondazioni del Bisenzio, che più di una volta avevano travolto uomini e animali (come il direttore dello stabilimento Sbraci Godi Noris nel 1932) ed erano state indagate dai più illustri fisici e ingegneri (come Galileo Galilei nel 1631) erano ancora una volta sfruttate a fini economici: oltre alla rena, la piena era attesa per i pezzi di indumenti (rivenduti agli stracciaioli) e le tavole di legno (utilizzate per scaldarsi) che la furia delle acque portava a valle, ripescate con rudimentali ganci attaccati ad aste lunghe anche dieci metri.

Ad utilizzare il fiume principalmente per lavare erano ovviamente le donne, e per alcune “fare la lavandaia in Bisenzio” era un’occupazione professionale. Il lavoro era particolarmente duro: nella Val di Bisenzio quasi tutte le donne erano operaie nelle numerose fabbriche e, uscite dal turno, ad ogni stagione si dirigevano con i panni sporchi sugli argini del fiume, in ginocchio sui sassi. Ambiti ma rari erano i pozzi o le gore che talvolta si trovano lungo i fossi dei vari paesi.

Come un piccolo mare, il Bisenzio tra le due guerre era l’elemento principe nella vita delle varie comunità dislocate lungo il fiume: un ecosistema di relazioni e affetti, di svaghi e preoccupazioni, di lavoro e sostentamento.




A fronte alta davanti al padrone.

Il 7 novembre 2016 abbiamo avuto un interessante colloquio con Gennaro Meli, responsabile della Federterra di Carmignano negli anni Cinquanta-Sessanta. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

Quando e dove sei nato? Che ricordi conservi della tua infanzia?
Sono nato a Carmignano il 31 gennaio 1922, in una famiglia di mezzadri. I miei genitori lavoravano in un podere che era di proprietà di diversi padroni. La Carmignano di quand’ero ragazzo era un paese che si reggeva sull’agricoltura, dove i rapporti interpersonali erano diversi, molto diversi, da come sono oggi. Rammento ancora quando ci si riuniva, per esempio in occasione della vendemmia: c’era quello che cantava di poesia, quello che suonava, ed il clima era festoso, riuscivamo a scordare, per un momento, le difficoltà della vita. Non c’era, allora, l’individualismo che c’è oggi, la solidarietà, anche quella di classe, non era una parola vuota e questo rappresentava un punto di forza per gli organizzatori, per il movimento contadino.

Come ti sei avvicinato al sindacato e quali cariche hai coperto al suo interno?
Tornato dal servizio militare, fui colpito dall’impegno che, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, i dirigenti del Partito comunista e della CGIL mettevano per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Fu così che decisi di impegnarmi a mia volta, di cercare di dare il mio contributo. Si trattò di una scelta non facile e non priva di conseguenze perché, allora, chi militava attivamente nel sindacato veniva boicottato dai padroni e spesso non riusciva a trovare lavoro: io ho provato questo sulla mia pelle. In seguito sono diventato responsabile della Federmezzadri di Carmignano che, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, gravitava su Firenze più che su Prato. Io avevo rapporti diretti con Vittorio Magni, segretario della Federmezzadri provinciale, e spesso mi recavo in via dei Servi, dove avevano sede il partito e la Camera del lavoro. Ho pubblicato anche diversi articoli sui problemi dei contadini della mia zona sull’Unità e su Toscana nuova.

Puoi dirci qualcosa sulle condizioni dei contadini del Carmignanese negli anni Cinquanta-Sessanta?
Molto dipendeva dal tipo di podere che il mezzadro coltivava: se il podere dava olio, vino, frutta il contadino stava meglio, ma, in generale, si può parlare di condizioni di vita difficili: in tanti dovevano tirare la cinghia. I carichi di lavoro erano pesantissimi, la meccanizzazione insufficiente, le condizioni delle abitazioni pessime. In molte case i servizi igienici mancavano od erano cattivi, non c’era la corrente elettrica, non c’era l’acqua. Dove abitavo io, ad esempio, per procurarsi l’acqua bisognava fare un chilometro a piedi per arrivare ad una sorgente, portandosi dietro le mezzine. Nella fattoria di proprietà della contessa Lepri, nella zona di Artimino, le case dei contadini erano dei veri tuguri. Ricordo che quando andai a parlare con la contessa per chiederle di far eseguire dei lavori di miglioramento, mi voleva denunciare. “Non vedo l’ora – le dissi –, mi denunci, così poi ci facciamo due risate insieme”.

Quali erano le principali rivendicazioni dei mezzadri di Carmignano?
Oltre al miglioramento delle coloniche, le richieste più importanti riguardavano, come altrove, i contributi unificati, l’imponibile di manodopera, la meccanizzazione ed una modifica del riparto dei prodotti che, tenendo conto degli apporti reali, assegnasse al mezzadro una quota superiore al 50%.
Io avevo organizzato in modo capillare la Federterra, creando più gruppi di dieci-quindici contadini, ognuno con un suo capogruppo, per un totale di circa cinquecento mezzadri. Quando si trattava di fare una riunione, portavo l’avviso ai capigruppo e nelle case di campagna. Per parlare con la controparte, si formava una delegazione. I proprietari, spesso, non si presentavano e le trattative si svolgevano coi fattori, che adottavano una tattica dilatoria, sostenendo di dover riferire al padrone perché non potevano prendere determinate decisioni e così via. Con alcuni proprietari ci furono scontri molto duri, in specie col conte Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, la più grande della zona. Il conte aveva incaricato il fattore, un certo Del Giallo, di discutere con noi la questione dell’addebito ai mezzadri dei contributi unificati. I contadini erano stati costretti a firmare un documento in cui accettavano di pagare i contributi. Io però riuscii a convincerli a ritirare la firma. Si costituì poi una delegazione composta di una ventina di mezzadri e si andò da Del Giallo che, con fare altezzoso, rifiutò di riceverci. Io gli risposi a tono ed alla fine la battaglia fu vinta.

Il sindacato cattolico era forte tra i contadini della zona?
La CISL era forte dove c’erano molti coltivatori diretti, ma fra i mezzadri la sua presenza era una presenza minoritaria. Nel Carmignanese il sindacato cattolico era radicato in certe zone di tradizione bianca, moderata, Era questo il caso di Artimino: rammento che una volta io e Vieri Bongini, responsabile del movimento contadino pratese, giunti ad Artimino per un comizio, ci trovammo di fronte alla piazza completamente vuota. Il comizio però andava fatto perché i contadini conoscessero le nostre idee, le nostre proposte: “Non ti preoccupare – dissi a Vieri –, tanto nelle case ci sentono”. E parlammo lo stesso.

Che giudizio dai oggi della mezzadria e come hai vissuto la sua crisi?
L’istituto mezzadrile era un istituto superato perché non riusciva a soddisfare i bisogni della famiglia colonica, perché non garantiva un reddito soddisfacente ai contadini. Questo è sicuro. Però alla fine della mezzadria non è seguito qualcosa di meglio, è seguito il nulla. Occorreva una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla. Ma questo non è mai avvenuto a causa delle resistenze dei proprietari. Come risultato abbiamo avuto lo spopolamento delle campagne, e questo, certamente, è stato un male.




Casa Giubileo sul Montemaggio

Sulla traversa Monteriggioni-Casole d’Elsa, in direzione di quest’ultima, all’altezza di Abbadia Isola, si apre una strada bianca che si inerpica tra le pendici boscose del Montemaggio lambendo di quando in quando dei casolari. Soltanto di recente è stata apposta una segnaletica a ricodare che quel tracciato conduce ad uno dei luoghi simbolo della Seconda Guerra Mondiale sul territorio senese, ossia Casa Giubileo.

Presso questo casolare, il 28 marzo 1944, un contingente di oltre trecento militari fascisti repubblicani ingaggiò battaglia contro un gruppo di combattenti per la libertà, che avevano con loro dei prigionieri, un capitano della forestale e un tenente tedesco. Alcuni partigiani riuscirono a darsi alla fuga durante le concitate fasi dello scontro a fuoco, uno rimase ucciso quasi subito, un altro rimasto a terra, dopo che gli assediati si furono arresi, venne trascinato dietro un muretto e finito a colpi di pistola.

Rimasero nelle mani dei fascisti diciotto ragazzi, tutti di età intorno ai vent’anni, e qui avvenne l’eccidio più famigerato che i militi della Guardia Repubblicana di Mussolini abbiano perpetrato sul territorio senese. In un primo momento i superstiti vennero portati presso un altro podere, Campo ai Meli, distante circa un chilometro dal luogo dello scontro. Le intenzioni dei fascisti furono immediatamente chiare ad una vecchia contadina del posto, Maria Barbato, che con il proprio energico e coraggioso intervento (Son mamma anch’io! Andate a farli da un’altra parte queste lavori! Le parole pronunciate dalla donna) convinse i militi a ripartire per un’altra destinazione.

img_1260aIl luogo prescelto, questa volta, fu la Porcareccia, uno spiazzo posto esattamente a metà tra Abbadia Isola e Casa Giubileo. Qui i partigiani vennero fatti schierare contro un muretto ed iniziò il triste rituale dei preparativi per l’esecuzione. Uno dei prigionieri, Vittorio Meoni (oggi Presidente dell’Istituto Storico della resistenza Senese e dell’età Contemporanea) con la forza della disperazione, riuscì a slanciarsi in un sentiero nella boscaglia, venne gravemente ferito ma riuscì a trascinarsi per un chilometro fino ad una casa di contadini che gli salvarono la vita. Per i suoi diciassette compagni non ci fu scampo. Vennero massacrati e abbandonati sul posto dell’esecuzione. Soltanto molte ore più tardi i corpi vennero raccolti, riconosciuti dai familiari e inumati provvisoriamente nel piccolo camposanto di Abbadia Isola.

Nel dopoguerra i comuni di provenienza dei caduti traslarono le salme nei loro cimiteri, tuttavia la Porcareccia, dov’era avvenuto l’eccidio, divenne un luogo di ricordo e commemorazione, dove venne apposta un’epigrafe con i nomi dei caduti ed un monumento realizzato dallo scultore Nelson Salvestrini.

A tutt’oggi, Il 28 marzo, anniversario dell’eccidio, i rappresentanti delle Amministrazioni Comunali della Valdelsa e non solo, insieme a centinaia di semplici cittadini, salgono a piedi alla Porcareccia ed a Casa Giubileo per ricordare chi morì combattendo per la Libertà e la Democrazia. Da alcuni anni la stessa Casa Giubileo è stata trasformata in centro didattico e documentaristico gestito dall’A.N.P.I. Valdelsa, dall’U.I.S.P. E dall’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea.




Leonetto Amadei, uno spirito gentile

Figura di primissimo piano del panorama giuridico italiano del secondo dopoguerra, l’avvocato versiliese Leonetto Amadei, in ogni frangente della sua vita intensa, seppe conciliare competenza professionale e sensibilità d’animo, ardente passione politica ed integerrima coerenza morale.

Nato a Seravezza (Lucca) il 7 agosto 1911, figlio di uno scultore e di una maestra elementare, il giovane Amadei rivelò fin da ragazzo una mente acuta e brillante negli studi, arricchita da un temperamento comprensivo e generoso. Diplomatosi al Liceo classico “Pellegrino Rossi” di Massa, si iscrisse quindi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa: bruciando le tappe, nel 1931 risultò a soli venti anni il più giovane laureato d’Italia nella sua sessione accademica.

Mentre cominciava la propria carriera di penalista frequentando come tirocinante lo studio dell’avvocato seravezzino Luigi Salvatori (1881-1946), già deputato socialista per la Versilia negli anni 1919-1920 e figura di elevatissimo spessore morale, aveva inizio per Leonetto un altro importantissimo capitolo della vita: quello del servizio militare, che avrebbe contribuito in maniera decisiva alla formazione del suo carattere carismatico e coscienzioso, coraggioso e leale, tenendolo impegnato, alla fine, per quasi quindici anni.

Richiamato una prima volta nel 1931, come allievo ufficiale ed ufficiale di prima nomina dovette in seguito affrontare numerosi periodi lontano da casa, sperimentando in prima persona gli effetti della politica estera aggressiva che il regime fascista veniva sempre più affilando: fra una pausa e l’altra, Leonetto faceva ritorno in Versilia e tirava avanti la formazione giuridica. Proprio nei mesi in cui studiava per diventare procuratore, conobbe Nora Cancogni, cugina del celebre scrittore e giornalista Manlio (1916-2015): i due si sposarono nel 1938.

1931: Leonetto Amadei, fresco di laurea in giurisprudenza all'Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva.

1931: Leonetto Amadei,  secondo in piedi da sinistra, fresco di laurea in giurisprudenza all’Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Mentre sviluppava una crescente sensibilità professionale in difesa degli umili e degli oppressi, Amadei dovette partire per la guerra: in un primo tempo, come capitano di artiglieria, fu destinato al comando di alcune batterie costiere del distretto militare della Spezia, dapprima sull’isola Palmaria, quindi a Lerici. Nell’aprile 1943, tuttavia, fu trasferito a Lero, nell’Egeo meridionale.

Al sopraggiungere dell’8 settembre, assieme a tutti gli altri militari italiani presenti sull’isola greca, Leonetto scelse di rispondere armi in pugno alle pressioni dei nazisti che intimavano la resa: nonostante i volantini tedeschi minacciassero di scatenare contro i ribelli una seconda Cefalonia, pur scontando una gravissima inferiorità di mezzi e materiali, Lero resistette per più di due mesi, fino al 18 novembre 1943. Alla fine, tuttavia, giunse la capitolazione, e, assieme ad essa, per Leonetto come per le migliaia di suoi commilitoni, la prigionia: per il coraggio e lo spirito combattivo dimostrato in battaglia, il giovane seravezzino fu comunque decorato di Medaglia d’Argento e di Bronzo al Valor Militare sul campo e ricevette un encomio solenne.

Arrestato dai tedeschi, condotto sulla terra ferma, Amadei fu caricato su un carro-bestiame diretto verso nord, che, dopo un trasferimento lungo e sfibrante attraverso i Balcani, lo portò allo Stammlager 328 di Siedlce, in Polonia. Anche nei mesi della prigionia, Leonetto avrebbe mantenuto un comportamento esemplare, pronto ad animare i compagni e a sostenerli nelle difficoltà, in attesa di tempi migliori. Di fronte alle continue lusinghe dei carcerieri, poi, disposti a liberarlo in cambio della sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, non esitò mai, confermando sempre con fierezza ed orgoglio il valore della propria scelta, compiuta nel nome della dignità umana e dell’onore nazionale. Ecco come avrebbe ricordato quei giorni, mettendo in relazione il sacrificio degli internati militari italiani e i contenuti della futura carta costituzionale democratica, nello scritto Internati e Costituzione del 1996:

«L’internamento ha infatti significato, traendo dalla miseria che lo accompagnava, la volontà di riscossa del nostro Paese, ricca di valori morali e politici, da ritrovarsi nel persistente rifiuto ad ogni collaborazione e nella tenacia nel sopportare ristrettezze di ogni genere, che si sarebbero fatte più opprimenti giorno per giorno. È così che la nostra Costituzione è una conquista di grande valore democratico, favorita dal coraggio degli italiani dei campi di concentra-mento.»

Dopo un altro, estenuante spostamento su treno, il 17 marzo 1944 Amadei fu tradotto nel campo di concentramento per ufficiali Oflag XB di Sandbostel, in Bassa Sassonia, dove ebbe modo d’incontrare personaggi eccellenti, oltre a numerosi compaesani. Nonostante il rigore della sorveglianza tedesca e le terribili condizioni ambientali in cui erano costretti a vivere, i prigionieri italiani non si dettero affatto per vinti, promuovendo numerose iniziative culturali clandestine. Adibita una baracca a cappella, infatti, dedicata a Maria Mater Captivorum (“Maria Madre dei Prigionieri”), vi tennero incontri e piccole esposizioni d’arte: addirittura, gli internati furono in grado di costruire una radio portatile e facilmente smontabile in caso di perquisizioni, la cosiddetta “Caterina”, con cui captare Radio Londra e sentirsi un po’ meno fuori dal mondo. Oltre a periodici incontri con ufficiali informati dei fatti per illustrare ai compagni la situazione politico-militare, come riferisce anche il giornalista ed umorista Giovannino Guerreschi (1908-1968), altro “prigioniero d’eccellenza” del lager, nel suo Diario clandestino, i deportati organizzarono la “Regia Università di Sandbostel”, in cui docenti di valore tenevano lezioni delle materie più diverse, per mantenere alto il morale dei compagni, superare lo sconforto e conservare un certo grado di dignità personale ed autostima: dietro la “Baracca Y”, l’onegliese Alessandro Natta (1918-2001) parlava di letteratura, mentre poco lontano il bresciano Guido Carli (1914-1993) disquisiva di economia e commercio. Incessante animatore della resistenza interiore contro i carcerieri, Leonetto intratteneva invece i compatrioti dietro la “Baracca X”, discutendo dei principi fondamentali della giurisprudenza e di diritto penale. Nel gennaio 1945, l’avvocato seravezzino dovette subire l’ennesimo trasferimento, stavolta nel vicino campo per ufficiali Oflag 83 di Wietzendorf, dove, nonostante gli espliciti divieti in tal senso della Convenzione di Ginevra, i prigionieri italiani furono obbligati a lavorare per conto del Reich: Leonetto, in particolare, fu spedito nei campi, sfruttato come manodopera gratuita presso alcune fattorie della zona.

Fu proprio nei mesi della prigionia che Amadei decise che, a Liberazione avvenuta e guerra finita, sarebbe entrato in politica, anche se non aveva ancora ben chiaro in quale partito. E la Liberazione arrivò, il 16 aprile 1945, per mano del XXX Corpo britannico del generale Brian Horrocks: prima di rivedere casa, ad ogni modo, il giurista versiliese dovette attendere fino all’agosto successivo.

Rientrato in Italia, Leonetto cominciò subito a muoversi per contribuire attivamente alla costruzione dell’Italia nuova, che voleva repubblicana, libera e democratica, generosa e pacifista, rinsaldata nei valori umanitari della Resistenza per i quali aveva tanto combattuto e sofferto nei mesi della prigionia. Considerandosi a tutti gli effetti un membro del movimento di Liberazione nazionale, entrò nell’ANPI ed in altre associazioni reducistiche dello stesso genere, sostenendone con passione le attività fino al resto dei suoi giorni. Iscrittosi al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, forte di un’altissima reputazione popolare e di una notevole capacità oratoria, venne ripetutamente eletto consigliere comunale a Seravezza e Pietrasanta nelle prime amministrazioni postbelliche, divenendo perfino consigliere provinciale a Lucca.

L'avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’onore più grande, tuttavia, giunse per Amadei con le elezioni del 2 giugno 1946, quando, contestualmente al referendum istituzionale, si tenne il voto per l’Assemblea Costituente: con sua immensa gioia, Leonetto venne infatti eletto deputato socialista per la circoscrizione di Pisa, che, all’epoca, riuniva le province di Pisa, Livorno, Lucca e Massa-Carrara. Giunto a Roma, per via della sua specifica preparazione giuridica fu chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione, nota anche come “Commissione dei Settantacinque”, ovvero dell’organo che, all’interno della Costituente, aveva il particolare compito di redigere la nuova carta costituzionale: più nel dettaglio, Amadei partecipò attivamente ai lavori della Prima Sottocommissione, che, presieduta dall’avvocato democristiano Umberto Tupini (1889-1973), ebbe l’incarico di stendere la Parte prima del documento, riguardante i Diritti e Doveri dei cittadini. Per Leonetto, reduce dalla guerra e dalla prigionia, fu l’occasione per contribuire, con il proprio ingegno e le proprie energie, a condensare in articoli ampi ed autorevoli i principi che erano sempre stati alla guida della sua esistenza di avvocato, militare ed uomo civile, principi che da quel momento in avanti avrebbero dovuto ispirare ed innervare la quotidianità della comunità nazionale, valorizzandone le ricchezze fisiche e spirituali, armonizzandone le diversità e temperandone gli inevitabili conflitti: libertà personale, inviolabilità del domicilio e della corrispondenza, libertà di appartenenza religiosa e di manifestazione del pensiero, parità dei diritti nell’accesso alle cariche, libertà d’iniziativa economica, pur nel rispetto del bene comune, e carattere personale della responsabilità. Per Amadei, in altre parole, la Costituzione della Repubblica fu il risultato più alto di un’opera di ricostruzione morale del Paese, un’opera, con le sue parole, tratte ancora da Internati e Costituzione del 1996, di

«restituzione alla persona umana della dignità toltale dal nazifascismo: non dover essere un semplice numero, una cavia da esperimenti, ma l’uomo libero che opera, agisce con impegno di fedeltà alla coscienza della nostra gente che vuole non armi per avventure ma la serenità della pace.»

Cessato l’impegno alla Costituente, Leonetto, stimato per la cortesia personale e l’altissimo senso di responsabilità della propria funzione pubblica, circondato dall’affetto dei propri elettori, ebbe modo di proseguire la propria carriera politica entrando in Parlamento. Scelto come deputato socialista alle elezioni del 18 aprile 1948, già nel corso della prima legislatura (1948-1953) dette prova di una straordinaria sensibilità nel dar voce ai bisogni locali della propria circoscrizione, senza tuttavia dimenticare le proprie aspirazioni ad un’ampia ed equilibrata legislazione nazionale: spesso relatore di importanti richieste di autorizzazione a procedere e membro di numerose commissioni speciali, si batté per ottenere aiuti d’emergenza per alcuni comuni della Versilia e della Lunigiana devastati dalla guerra, si pronunciò sul disegno di legge sulla protezione della popolazione civile in caso di calamità ed intervenne di frequente sul tema dell’amministrazione della giustizia, presentando anche numerose mozioni su casi di denunciato arbitrio della polizia giudiziaria in indagini su gravi delitti.

Apprezzato anche dalle formazioni politiche avversarie per l’equilibrio e la fermezza morale con cui svolgeva il proprio dovere, Amadei venne riconfermato nel suo seggio alle elezioni del 1953: nel corso della seconda legislatura (1953-1958), intervenne spesso in materia di lavoro e svecchiamento del codice di procedura penale, al tempo ancora contenente larghe sezioni di eredità fascista. Rieletto nel 1958, durante la terza legislatura (1958-1963), oltre a proseguire il proprio impegno in campo giudiziario, operò soprattutto in merito alla riforma della circolazione stradale e alla revisione delle regole dei concorsi per l’accesso alle cariche pubbliche. Parallelamente, proseguiva la sua attività professionale, proteggendo i soggetti più deboli e difendendo la causa della Resistenza in occasione dei numerosi processi che furono intentati contro i partigiani in vari parti d’Italia a partire dai primi anni ’50.

Il deputato socialista Leonetto Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all'Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968)  e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968).

Il deputato socialista Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all’Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968) e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968). (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Nel corso della quarta legislatura (1963-1968), l’attività parlamentare di Leonetto fu caratterizzata dalla presenza nella Commissione Affari costituzionali, nella Commissione Interni e nella Commissione giustizia, di cui, per breve tempo, fu anche presidente: fatto di particolare rilevanza, Amadei venne nominato sottosegretario di Stato all’Interno nei primi tre governi di Aldo Moro. Caratterizzato da una grande presenza di spirito e da un’oratoria efficace e convincente, l’avvocato versiliese, europeista convinto, fu protagonista di una carriera politica straordinariamente lunga e feconda: eletto ancora una volta nel turbolento 1968, nel corso della quinta legislatura (1968-1972) fu dapprima sottosegretario alla Giustizia del governo Rumor, quindi ancora deputato socialista – prima per il gruppo unificato PSI-PSDI, poi, dopo la nuova scissione del luglio 1969, di nuovo per il PSI – autorevole ed attivissimo, soprattutto in merito all’ordinamento della giustizia.

Riconfermato deputato con moltissimi voti anche alle consultazioni politiche del 1972, a poche settimane dall’inizio delle attività della sesta legislatura (1972-1976), grazie al suo eccellente curriculum di giurista e rappresentante popolare di specchiata onestà, fu candidato dal Parlamento a giudice della Corte Costituzionale: accettata la candidatura, Leonetto venne eletto il 27 giugno 1972 a Camere riunite, con ben 733 voti su 833 votanti. Nei successivi nove anni di durata del mandato (1972-1981), Amadei avrebbe partecipato a tutte le attività del prestigioso organo dello Stato, dapprima come giudice, quindi come vicepresidente, infine, negli ultimi due anni della carica, come presidente (1979-1981) della Corte: per Leonetto, si trattò dell’incarico più autorevole della vita, del coronamento più alto cui potesse aspirare per concludere la propria carriera di uomo politico al servizio del diritto e dell’umanità. Fu estensore di molte sentenze di rilevanza storica, fra cui la n. 204 del 1974, con cui il potere di concedere la liberazione condizionale ai condannati fu sottratto al ministro della giustizia ed affidato alla magistratura, e la n. 290 dello stesso anno, che, annullando l’art. 503 del codice penale Rocco, dichiarava la legittimità anche dello sciopero politico, purché non diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale o ad ostacolare il libero esercizio dei poteri in cui si esprime la sovranità popolare.

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L'esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Raggiunti i limiti di legge, nel 1981 Amadei lasciò la Corte Costituzionale e si ritirò a vita privata nella sua amata Versilia, anche se continuò a partecipare alle attività delle associazioni di cui era membro e a tenere appassionati interventi pubblici, in cui spronava i giovani ad assolvere con onestà le proprie funzioni nella società e a credere fermamente nei valori sanciti e protetti dalla Costituzione democratica. Rattristato osservatore degli scandali di Tangentopoli, non smise di credere nelle grandi potenzialità della politica vera, conservando fino all’ultimo quell’ottimismo autorevole e composto che l’aveva sempre contraddistinto, fin dagli anni della vita militare e della prigionia. Mirabile esempio di trasparenza solidale e coerenza morale, dapprima resistente nei lager nazisti in nome della libertà, della giustizia sociale e della dignità umana che già ne avevano ispirato la vocazione di avvocato, quindi estensore di tali diritti in Assemblea Costituente e infine vigile custode di quelle stesse conquiste in Corte Costituzionale, Leonetto Amadei si spense a Marina di Pietrasanta (Lucca) il 10 novembre 1997.

A due anni dalla sua morte, i familiari vollero omaggiarne la memoria istituendo, di comune accordo con l’amministrazione comunale di Seravezza e l’Università di Pisa, la Fondazione “Leonetto Amadei”, ente culturale «che ha come scopo principale la promozione dello studio, della ricerca e della conoscenza del diritto costituzionale»: oltre a progettare ed organizzare mostre e convegni, la Fondazione assegna borse di studio e contribuisce al finanziamento di corsi di dottorato di ricerca in diritto costituzionale.