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Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.

 




Le “marce” prima della Marcia.

Il convegno organizzato dall’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea per riflettere sul centenario dell’ascesa al governo nazionale del fascismo ha come titolo 1922. La provincia in marcia: attori, percorsi, narrazioni. Come sappiamo, la Marcia su Roma fu l’evento culminante di un processo per l’acquisizione del potere da parte di Benito Mussolini che non fu solo formale, emulando quanto era successo nei mesi e nelle settimane precedenti in tante realtà provinciali. La Toscana in questo, con le numerose “marce” che subirono i capoluoghi di provincia e i comuni più riottosi all’affermazione del fascismo, fu uno dei principali laboratori della violenza squadrista che rese possibile la conquista armata della Capitale [1] .

Secondo le notizie sulla consistenza del Partito nazionale fascista (Pnf) elaborate dal Ministero dell’Interno, esso contava in Toscana, nel maggio 1922, ben 411 dei 2.129 fasci presenti in tutto il Paese, con 51.372 aderenti su 322.310, e cioè rispettivamente 1/5 e 1/6 del totale. Con questa forza d’urto “squadrista” (tutti i fascisti, in teoria, dovevano esserlo dopo l’iscrizione al partito) era consequenziale un impegno massiccio nel conflitto civile attivo nella regione. La guerra di movimento dei fascisti foraggiata da numerosi gruppi economici solidali fu letale per i nemici, sia per la connivenza di una buona parte dello Stato, sia per il grado di organizzazione che affinarono con le “spedizioni punitive”. Tutto questo favorì l’occupazione di cittadine e capoluoghi fin dall’estate 1921, annullando qualsiasi regola del gioco democratico [2] .

Il primo passo per le “marce” fu compiuto all’indomani delle elezioni amministrative del novembre 1920, in corrispondenza all’ascesa socialista al vertice di molti comuni toscani. Non a caso si iniziò dalla provincia il cui capoluogo aveva resistito alla “marea rossa”, quella di Firenze. A Montespertoli, tra l’11 e il 12 ottobre 1920, un nucleo di fascisti andò all’assalto del comune. L’obbiettivo era far cadere la neoeletta giunta, ma l’impreparazione degli squadristi e la loro esiguità – 4 uomini capeggiati da Amerigo Dumini – contro la quale, è importante ricordarlo, fu decisiva la reazione popolare, fecero naufragare il tentativo [3].

Questo genere di resistenza fu breve. Già al termine della cosiddetta “battaglia di Firenze” combattuta tra il 27 febbraio e il 1° marzo 1921 i fascisti ebbero la meglio sui loro avversari, coadiuvati dalle forze dell’ordine e maggiormente compatti, almeno all’apparenza, all’interno [4] . Da qui, gradualmente e rispettando una gerarchia fatta di ordini e comandi militari, uomini e mezzi del cuore politico e geografico della regione si mossero per colpire tutti i principali centri “eversivi” delle province toscane [5].

Banco di prova fu la cittadina di Empoli, dove il 1° marzo 1921 un gruppo di macchinisti e fuochisti della Regia marina in borghese e scortati da carabinieri, in viaggio verso Firenze per sostituirsi ai tramvieri in sciopero, fu colpito da una pioggia di proiettili. I morti furono 9, i feriti 11. La reazione fascista fu immediata: nella notte tra il 2 e il 3 marzo la città fu occupata dai militari del Regio esercito e la Camera del lavoro distrutta. Lo stesso accadde poche ore dopo a Fucecchio, in risposta all’uccisione di uno squadrista di ritorno dalla spedizione empolese, con l’occupazione del municipio e l’assalto alla Casa del popolo. Nel giro di poche ore vennero sciolte tutte le giunte “rosse” della zona tranne quelle di San Miniato e Castelfranco, giudicate meno sovversive, e sostituite da funzionari di prefettura, di polizia o militari [6] .

Nell’arco di alcune settimane le spedizione punitive, chiamate dalla memorialistica del regime “gite di propaganda”, si fecero sempre più diffuse e in grande stile. Il fascio di Siena, particolarmente attivo per via dell’estrazione universitaria di buona parte dei suoi componenti e la fornitura di mezzi da parte del locale distretto militare, aiutò quello di Firenze nelle azioni in provincia di Arezzo e verso il confine umbro. Alla fine di aprile le amministrazioni comunali di Castiglion Fiorentino, Marciano della Chiana, Monte S. Savino e Foiano della Chiana, sottoposte a continue violenze e devastazioni nel loro territorio, furono costrette alle dimissioni [7] .

I fascisti fiorentini, guidati dal ras toscano Dino Perrone Compagni, dopo aver preso parte alla spedizione contro Sarzana [8], si occuparono anche della provincia di Grosseto. La violenza fascista, dopo un mese di pressioni su alcuni comuni periferici, si scatenò sul capoluogo fra il 27 e il 30 giugno 1921, su Orbetello il 10 luglio e su Roccastrada il 24 successivo. La città di Grosseto fu letteralmente invasa da squadristi provenienti da ogni provincia limitrofa, raggiungendo il culmine quando, per far cessare le violenze, fu ordinata l’esposizione del tricolore dalle finestre e la partecipazione di tutta la popolazione ad una sorta di cerimonia laica nel pieno centro storico. A quei fatti seguì qualche giorno dopo l’analoga “conquista” di Orbetello, sebbene l’episodio centrale fu quello che interessò il comune di Roccastrada. Il bersaglio diretto era l’amministrazione socialista, la quale aveva resistito ad una serie di intimidazione rivoltegli proprio da Perrone Compagni nei mesi precedenti. Il 24 luglio, all’alba, circa 60 squadristi arrivarono in camion in paese e devastarono sistematicamente le case del sindaco, degli assessori e del presidente della Cooperativa di consumo. Si scagliarono poi contro una serie di attività private i cui proprietari erano stati bollati come “sovversivi”, quindi contro di loro e le relative famiglie. Quattro ore e mezzo dopo, ubriachi, i fascisti ripartirono alla volta delle frazioni di Sassofortino, Roccatederighi e Montemassi per continuare la cosiddetta “gita di propaganda”. All’uscita del paese una fucilata uccise uno dei fascisti, che per rappresaglia misero a ferro e fuoco Roccastrada [9].

L’apice delle marce “fasciste” in Toscana fu raggiunto un anno dopo, in occasione di quello che venne definito lo “sciopero legalitario” dell’agosto 1922, indetto dalle principali sigle sindacali contro le violenze fasciste. Perrone Compagni, in veste di ispettore regionale dei fasci, ordinò la concentrazione di centinaia di squadristi nella città di Livorno, la “piccola Russia” in terra toscana. La mattina del 2 agosto due squadre di fascisti erano state inviate nei vari stabilimenti e alla stazione dei tramvai, mentre i loro camerati pattugliavano la città. L’ordine era di far appendere le bandiere nazionali alle finestre delle case, per dimostrare il proprio patriottismo, e il tricolore venne issato anche sul Duomo. In quelle stesse ore il ferimento di due militi fu usato per motivare le violenze che seguirono. Il fatto più sanguinoso della giornata fu l’uccisione dei fratelli Gigli, Pilade e Pietro, quest’ultimo consigliere comunale comunista, e della loro madre. Messo alle corde dalle notizie di spargimenti di sangue e dalla scarsa collaborazione delle altre autorità pubbliche il sindaco Uberto Mondolfi, nella prima parte della giornata del 3 si dimise con tutta la giunta. La vittoria però non placò i fascisti a causa del ferimento, probabilmente accidentale, del segretario politico del fascio labronico. Gli squadristi attaccarono e devastarono la Camera del lavoro e le abitazioni di vari esponenti socialisti, portando il bilancio degli scontri a 18 feriti e 7 morti. Le spedizioni terminano in città solo il 4 agosto, con un’imponente manifestazione patriottica che suggellò, anche simbolicamente, l’unione tra le forze industriali, patriottiche, ex combattenti e fasciste che avevano concorso all’abbattimento giunta socialista, mentre il generale Ibba Piras, comandante della Divisione militare, assunse la gestione dell’amministrazione cittadina come commissario straordinario fino all’11 agosto [10].

Alla “Marcia su Roma”, quindi, gli squadristi toscani giunsero preparati da un anno di azioni illegali e organizzate. Per questo non deve stupire la presenza numerosa di corregionali che raggiunsero la capitale, né la presenza tra i comandanti delle colonne armate di Dino Perrone Compagni [11]. Allo stesso tempo il sostanziale clima di “calma” e “ordine” che si visse nelle provincie toscane tra il 27 ottobre e il 1° novembre 1922 perché, come sostiene Emilio Gentile, la «marcia su Roma doveva avere successo [prima] in altre parti d’Italia, per poter aprire al fascismo le porte della capitale» [12].

Nota:

1. Ricordo alcuni dei numerosi studi sul tema:G. Santomassimo, La marcia su Roma, Giunti, Firenze, 2000; G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari, 2006; E. Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari, 2014. Tra le più recenti pubblicazioni con intento divulgativo ci sono: M. Franzinelli, L’insurrezione fascista. Storia e mito della marcia su Roma, Mondadori, Milano, 2022; M. Canali e C. Volpini, Gli uomini della marcia su Roma. Mussolini ed i quadrumviri, Mondadori, Milano, 2022.
2. I dati sono quelli citati in E. Ragionieri, Il partito fascista (appunti per una ricerca), in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), Olschki, Firenze, 1971, p. 59.
3. Cfr. F. Catastini, P. Gennai, A. Pestelli, Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. Concentrazione di potere, gruppi familiari e politica (1919-1921), Pisa, Pacini, 2021.
4. Cfr. R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze, Vallecchi Editore, 1972; Andrea Mazzoni, Spartaco il ferroviere. Vita morte e memoria del ragionier Lavagnini antifascista, Pentalinea, Prato, 2021.
5. Marco Palla, I fascisti toscani, in Storia d’Italia. La Toscana, Einaudi, Torino, 1986, pp. 469-470.
6. Cfr. P. Pezzino (a cura di) Empoli antifascista. I fatti del 1º marzo 1921, la clandestinità e la Resistenza, Pacini, Pisa, 2007; R. Bianchi Due eccidi politici: Sarzana ed Empoli in Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, vol. IV, Il Ventennio fascista, Utet, Torino, 2009, pp. 325-331.
7. Fu dato ampio risalto nella stampa nazionale coeva, soprattutto per i tratti macabri dell’episodio, a quanto successo nella frazione “Renzino” di Foiano. Cfr. G. Sacchetti, L’imboscata. Foiano della Chiana, 1921: un episodio di guerriglia sociale, Arti tipografiche toscane, Cortona, 2000.
8. L’episodio dell’assalto fascista alle carceri di Sarzana e della reazione inconsueta delle forze dell’ordine è stato attentamente ricostruito in A. Ventura, I primi antifascisti. Sarzana, 1921. Politica e violenza tra storia e storiografia, Gammarò, Sestri Levante, 2010.
9. Cfr. I. Cansella, Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco in ToscanaNovecento. Portale di Storia Contemporanea https://www.toscananovecento.it/custom_type/roccastrada-1921-un-paese-a-ferro-e-fuoco/ (visualizzato il 23 agosto 2022). Il documentario sulla strage realizzato in occasione del centesimo anniversario è visibile sul sito dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea https://www.isgrec.it/on-line-in-hd-il-documentario-roccastrada-1921-un-paese-a-ferro-e-fuoco/ (visualizzato il 23 agosto 2022).
10. M. Mazzoni, Livorno all’ombra del fascio, Olschki, Firenze, 2009, pp. 3-24. Cfr. T. Abse, ‘Sovversivi’ e fascisti a Livorno (1918-1922). La lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Quaderni della Labronica, Livorno, 1990
11. A. Giaconi, La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla marcia alla notte di San Bartolomeo, il formichiere, Foligno, 2019, pp. 22-46.
12) E. Gentile, E fu subito regime, cit., p. 159.




I fascisti senesi alla marcia su Roma

Quando scattò la fase operativa del disegno eversivo della marcia su Roma, il fascismo senese aveva assunto da vari mesi il controllo quasi completo della provincia di Siena. Basta dire che delle  amministrazioni comunali a guida socialista, elette nel 1920, ne sopravvivevano solo tre. Le altre ventisei erano cadute, una dopo l’altra, sotto le bastonature e le minacce dello squadrismo. I sindaci e le giunte erano state sostituite da commissari prefettizi. Tutte le Case del Popolo avevano subito assalti, danneggiamenti, incendi.  Ampio era il consenso di cui i fascisti godevano nelle istituzioni e nei corpi separati dello Stato.

Nel racconto costruito in seguito alla conquista del potere, il fascismo senese si fregiò di un articolo de “Il Popolo d’Italia” che lo indicava come il primo ad insorgere in Italia. In realtà in più di un capoluogo di provincia – da Cremona a Pisa, per limitarsi a due soli esempi – si verificò una sorta di corsa ad anticipare l’inizio del moto eversivo previsto per il 28 ottobre.

Prime o no che siamo state, le centinaia di camicie nere concentratesi a Siena di fronte alla sede provinciale del PNF in piazza del Carmine, si mossero nel tardo pomeriggio del 27 ottobre dirigendosi alla Fortezza di S. Barbara e poi al Distretto militare di S. Chiara dove si impadronirono di trecento fucili, di quattro mitragliatrici e di munizionamento.

La complicità neppure mascherata del tenente colonnello Enrico Nadalini, comandante dei fanti dell’87°, la conseguente “neutralità” arrendevole di quasi un migliaio di soldati e di una settantina di ufficiali presenti nelle caserme, l’inerzia benevola dei 250 carabinieri del maggiore Vittorio Calcaterra dislocati sul territorio provinciale, la resa del prefetto Mauro Michele Bertone, motivata con la “scarsità” (?) di forze a sua disposizione e con l’intento di non creare “gravi incidenti”, furono determinanti per la riuscita di un’insurrezione che in tutta evidenza non fu tale, bensì un colpo di mano agevolato da chi avrebbe dovuto contrastarlo.

Nella notte la stazione ferroviaria si riempì di squadristi che salirono su un treno – molti altri montarono alle stazioni lungo il percorso per Chiusi, a completare quella che fu chiamata la legione senese – e partirono alla volta di Monterotondo, nei pressi di Mentana, punto di aggregazione della colonna affidata al comando di Ulisse Igliori. Superato lo  sbarramento di Orte viaggiando sul binario dispari – l’altro era stato divelto dai soldati dell’esercito in allerta per lo stato di assedio dichiarato dal governo Facta e poi non firmato dal re –, il 28 arrivarono a destinazione precedendo i fiorenti e gli aretini a cui era stata assegnata la medesima destinazione.

Carenza di viveri, freddo e pioggia furono gli unici veri nemici. L’attesa di dirigersi a Roma durò fino al 30 e si sbloccò solo quando, con Mussolini incaricato di formare un nuovo governo, venne rimosso ogni sbarramento militare a difesa della capitale. In testa alla colonna Igliori, i fascisti senesi entrarono in città e parteciparono alla sfilata di fronte al Quirinale. Il 31 tornarono a Siena, sempre in treno.

I partecipanti all’impresa furono 1.032. Altre 899 camicie nere rimasero invece a presidiare i centri maggiori della provincia. Nell’insieme, numeri elevati rispetto ai 2.600 iscritti al PNF nella primavera del 1922.

In testa alla classifica della partecipazione, il capoluogo (167 partecipanti),  Montalcino (89), Montepulciano (85), Sovicille (79), Sinalunga (67), Poggibonsi (61), S. Gimignano (42), Abbadia San Salvatore (32), Rapolano (30), Trequanda (30). I fasci di frazione garantirono un afflusso importante in ogni comune.

La presenza di leader fascisti autorevoli per influenza sociale – ad esempio esponenti della nobiltà capaci di portarsi dietro gregari armati in un rapporto che evoca suggestioni di tipo feudale – può essere assunta come causa di una maggiore o minore partecipazione dalle varie località. Più in generale si può richiamare la “mobilitazione secondaria” ovvero l’effetto di reazione: laddove il socialismo era stato più forte e agguerrito, da lì venne un numero maggiore di marcianti.  Anche se, va subito aggiunto, non mancano le eccezioni, come Colle Val d’Elsa, Monticiano e Chiusdino.

Per offrire una qualche cognizione su età e condizione sociale dei 1.032, si anticipa qui di seguito la  sintesi dei risultati di uno studio che sarà pubblicato sul numero CXXIX del “Bullettino senese di storia patria”. L’indagine, condotta su otto comuni, rappresentativi di varie zone della provincia, dal capoluogo, alla Val d’Elsa, alla Val di Chiana, si è fondata sui registri dell’anagrafe, intrecciati con altre fonti quali la memorialistica, la stampa, i registri di leva. 310 sono i marciati sui quali è stato possibile raccogliere le informazioni necessarie.

L’età media fu di 24 anni e mezzo: i  più numerosi, gli appartenenti alle classi richiamate sui fronti di guerra, ma molti (39%) anche i nati dal 1900 in poi.

Guardando alla condizione sociale, i ceti medi (impiegati, insegnanti, commercianti, coltivatori diretti, ma soprattutto artigiani) costituirono un’ampia maggioranza (48,8%), a conferma, anche per il  Senese, della politicizzazione, e del conseguente protagonismo in senso estremista, del mondo di mezzo avvenuta in seguito alla guerra.

Mentre i ceti inferiori (salariati, braccianti, mezzadri) totalizzarono il 27,4% di presenze, a colpire è il 23,8% dei ceti superiori (vi sono conteggiati professionisti, fattori e studenti universitari perché, nel contesto dei singoli comuni, appartenevano, a vari gradi, all’élite, e come tali venivano percepiti), fra i quali spicca il 12,2% di possidenti – prevalentemente di famiglia nobile –, di industriali e di impresari edili (per dare un termine di raffronto generale, secondo il censimento del 1921 i possidenti costituivano l’1,3% della popolazione attiva della provincia).

Se a queste percentuali, relative all’insieme dei marcianti, si affiancano quelle dei 30 quadri di comando della legione – comandante in capo, console, seniori, decurioni, centurioni – dalle quali risulta una presenza ampiamente maggioritaria di ceti superiori (20 persone) rispetto ai ceti medi (9) e inferiori (1), non è infondato pensare che, almeno in provincia di Siena, il movimento fascista, pur tra contraddizioni e lotte interne che non mancarono, fu nelle mani, e dunque sotto l’egemonia, delle tradizionali classi dominanti fin dalla partecipazione alla marcia che la storia ha segnato come l’evento fondativo del regime.

Bibliografia

Sullo svolgimento della marcia.

Giorgio Alberto Chiurco, Fascismo senese. Martirologio toscano dalla nascita alla gloria di Roma, Tipografia Combattenti, Siena 1923.

Alberto Tailetti, La Marcia su Roma vissuta nei ranghi, in “La Rivoluzione fascista”, 31 ottobre 1932.

Gabriele Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922, Il Leccio, Siena 2015.

Paolo Leoncini, Ottobre 1922: la “resistibile” marcia dei fascisti senesi, in “Maitardi”, periodico dell’Isrsec “Vittorio Meoni”, 2022, n. 2.

Sul ruolo dei ceti dominanti alle origini del fascismo senese.

Daniele Pasquinucci, Società e politica a Siena verso il fascismo (1918-1926), Quaderni dell’Asmos, n. 2, Nuova Immagine, Siena 1995.

Saverio Battente, Dalla periferia al centro: la classe dirigente a Siena fra nazionalismo e fascismo, in Paul Corner e Valeria Galimi (cura), Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del potere tra centro e periferia, Viella, Roma 2014.




Resistenza civile e movimento partigiano nelle zone minerarie della Maremma

La Resistenza civile dei minatori maremmani contro le truppe tedesche occupanti e i loro alleati italiani trasse origine da un sentimento di ostilità e di rabbia verso il fascismo, presente nelle zone minerarie prima che lo facesse proprio la gran parte del popolo italiano, quando si rese palese la possibilità della sconfitta militare e si moltiplicavano gli effetti disastrosi della guerra. I minatori invece avevano maturato da tempo quello stato d’animo; nello stesso modo l’avevano maturato i loro familiari e in generale gli abitanti dei paesi in cui abitavano, ad eccezione forse dei collaboratori stretti dei direttori di miniera con il loro contorno di guardie giurate. Non si può dire che fosse una convinzione politica strutturata, fondata su analisi del regime totalitario condivise e che lasciassero intravedere qualche obiettivo perseguibile: o fosse sostenuta, come ci si aspetterebbe, da nuclei antifascisti clandestini. Di questi anzi non c’era traccia nelle zone minerarie della Maremma. C’era stato, è vero, qualche timido tentativo sul Monte Amiata, a Abbadia San Salvatore, a opera di comunisti grossetani, ma non aveva avuto seguito e chi vi era stato implicato finì poi al confino. Piuttosto si verificavano qua e là manifestazioni di dissenso; il più delle volte frasi o imprecazioni imprudenti pronunciate all’osteria, magari un motivetto sovversivo che tornava in mente: niente che le autorità non potessero agevolmente derubricare a intemperanza di qualche originale, a maggior ragione se avvinazzato.  Eppure, come prova il numero di provvedimenti repressivi, il regime se ne preoccupava, avvertendo evidentemente anch’esso, sotto traccia, un’ostilità diffusa, difficile da contenere. In effetti, dopo aver condotto coscientemente al fallimento le velleità “sindacaliste” delle origini, il fascismo aveva finito per considerare i minatori come un’entità estranea, irrimediabilmente impermeabile alla sua propaganda, insensibile alla retorica delle sue ritualità e assolutamente non inquadrabile nelle sue organizzazioni. Tanto più insidiosa, quanto più concentrata attorno ai suoi luoghi di lavoro.

Come spiegare tale situazione? La ragione deve essere cercata nelle condizioni materiali di vita dei minatori: in particolare nelle tensioni che si producevano nel rapporto di lavoro, nel momento in cui proprio lì, nei cantieri della miniera, gli operai sperimentavano sulla propria pelle una contrapposizione irriducibile nei confronti del direttore, dei capi-servizio, delle guardie, talvolta dei sorveglianti. Era il classico conflitto di classe, tra lavoro e capitale, che l’ideologia corporativa, con i suoi espedienti giuridici e organizzativi, si illudeva di risolvere e non riusciva invece neppure a nascondere. Che si trattasse appunto solo odi ideologia lo aveva mostrato, tra il 1931 e il 1932, una serie di agitazioni spontanee verificatesi a Gavorrano e a Boccheggiano. Ci furono allora astensioni – illegali – dal lavoro e anche manifestazioni violente, dirette infine a contrastare il tentativo della Montecatini di introdurre in miniera il sistema di cottimo Bedaux: fu insomma una rivolta, che traeva motivo unicamente dalle condizioni di lavoro, senza mostrare alcun contenuto politico definito.

Le tensioni, originatesi nel fondo della miniera, si rispecchiavano all’esterno e inevitabilmente, una volta venute in superficie, coinvolgevano il regime e producevano avversione al fascismo. Accanto alle società minerarie, e perfettamente solidale con esse, si ergeva infatti appena fuori dai pozzi di estrazione l’apparato dello stato totalitario, che ne faceva propri gli interessi e, quando era il caso, anche le politiche paternalistiche. Non erano allora tanto i vecchi desideri di vendetta a tornare a galla, i conti in sospeso dai primi anni Venti, o almeno non erano solo quelli; nasceva piuttosto nella giovane generazione operaia una rabbia nuova rivolta contro il sistema di potere che si era costituito: quel perfetto connubio fascio-capitalista sancito, ai piani alti, dalla solida comunanza di interessi che le società minerarie, prima tra tutte la Montecatini, avevano stretto con il governo di Mussolini e saldato, ai piani bassi, dallo stesso intento di sfruttare e di opprimere quanti lavoravano per loro.

Venne dunque a crearsi progressivamente un antifascismo di massa, di carattere prettamente operaio e ancora privo in larga parte di consapevolezza politica. Esso costituì tuttavia, all’indomani dell’8 settembre, il più solido fondamento del movimento di Resistenza.

Già in agosto del resto i minatori avevano ritrovato un motivo politico di mobilitazione nella rivendicazione della pace. Ci fu anche uno sciopero verso la fine del mese e in quell’occasione, a Boccheggiano, un corteo di lavoratori e di popolo si mosse lungo i sentieri che conducevano alla miniera chiedendo di porre fine alla guerra. Ci fu qualche tafferuglio con le forze dell’ordine e qualche arresto, a dimostrazione di quanto il governo Badoglio non tollerasse le manifestazioni di protesta. La novità però fu la ripresa in quei giorni dei contatti con l’antifascismo politico e specificamente con l’organizzazione comunista, che aveva ripreso a operare a livello regionale e stava inviando ovunque i propri emissari. Fu così, ad esempio, che proprio a Boccheggiano un gruppetto di giovani che da qualche anno avevano preso a riunirsi di nascosto e che, per qualche reminiscenza familiare già si autodefinivano “comunisti”, divennero a tutti gli effetti una cellula del partito e iniziarono a porsi concretamente il problema della Resistenza armata.

L’obiettivo della pace, che dopo il 25 luglio sembrava dovesse consistere nella cessazione delle ostilità, per farla finita subito con le morti, le distruzioni e la miseria, dopo l’8 settembre e l’occupazione tedesca di gran parte dell’Italia, richiese modalità in apparenza opposte: fu chiaro a molti a quel punto che la pace si poteva ottenere solo con la sconfitta militare della Germania, ovvero imponendo ai nazisti una resa senza condizioni. Si trattava dunque di continuare la guerra e stavolta contro la Germania. Il Partito Comunista, che continuò a agire in clandestinità ma con contatti sempre più solidi e estesi tra i minatori, si mosse su questa linea, non esitando a recuperare motivazioni patriottiche mai del tutto estinte nelle zone minerarie.

I comprensori minerari furono il terreno ideale per la diffusione delle parole d’ordine comuniste e per la costituzione di cellule o sezioni di paese che a quell’organizzazione facevano riferimento. Il radicamento sociale fu il primo obiettivo del partito e la lotta armata rappresentò il compito più urgente da assolvere. Ben presto gran parte dei giovani affluiti nelle numerose bande che, tra l’autunno e la primavera, si formarono nelle macchie della Maremma, si proclamarono comunisti, anche quando, e furono la maggior parte dei casi, i loro comandanti erano ex-ufficiali monarchici e le loro formazioni facevano capo alla rete intessuta dagli emissari del governo del sud, piuttosto che a quella delle brigate garibaldine. La proposta comunista, che non si limitava a nuclei ristretti di rivoluzionari, ma riusciva ormai a raggiungere la grande massa dei lavoratori, rispondeva all’esigenza di rivolta dei giovani, al loro bisogno di abbattere il vecchio ordine e di aprire nuove e più libere prospettive di vita. La posizione dei comunisti riguardo alla Resistenza peraltro era molto chiara: no all’attesismo, che consisteva nel rinvio del confronto con il nemico; no alle trattative e agli accordi anche parziali; no a qualsiasi richiesta – e ce n’erano – di usare benevolenza con il nemico per il timore di rappresaglie e nell’illusione che così si giungesse prima alla fine della guerra. La disponibilità di armi era ovviamente la prima condizione perché le formazioni partigiane fossero operative; l’assalto alle caserme della GNR fu il modo principale per procurarsele, fino a quando gli alleati non provvidero a rifornimenti sistematici tramite i cosiddetti e tanto attesi aviolanci. Si comprende come entro questo quadro non trovasse spazio alcuna opzione pacifista.

Eppure la Resistenza dei minatori rimase essenzialmente una Resistenza civile, non armata. In molti casi ci fu da parte della popolazione un supporto materiale, politico e organizzativo alle formazioni partigiane, soprattutto tramite i CLN comunali di cui i minatori fecero parte in rappresentanza per lo più del Partito Comunista. Non ci fu però una partecipazione generalizzata di minatori alla Resistenza armata. Si deve considerare che i minatori, lavorando in aziende militarizzate, erano soggetti alla disciplina militare e proprio per questo erano esclusi dal reclutamento. Anche i tedeschi del resto, che nel periodo dell’occupazione assunsero il controllo delle miniere, avevano interesse che gli operai rimanessero al loro posto a garantire la produzione. Il fenomeno della renitenza al reclutamento della RSI toccò quindi solo marginalmente le famiglie dei minatori, mentre erano proprio i renitenti alla leva di Salò, contadini, studenti, artigiani, operai non militarizzati, a infoltire le formazioni partigiane. Non mancarono episodi di incomprensione tra minatori e partigiani, come nel caso del minamento  del pozzo Baciolo, che fu l’unico esempio di attacco diretto da parte dei partigiani a una struttura mineraria e, in generale, l’unico esempio di sabotaggio industriale vero e proprio nella provincia di Grosseto. I minatori, che pure dettero la loro collaborazione all’operazione, rimasero perplessi e sicuramente preoccupati per le conseguenze che ci sarebbero state sul loro lavoro, che infatti rimase sospeso per qualche settimana.

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Le vedove di Niccioleta, 1944

Il maggiore contributo che i minatori dettero alla lotta di Liberazione fu, com’è noto, il martiro di 83 di loro, abitanti di Niccioleta, fucilati dai tedeschi tra il 13 e il 14 giugno 1944. Si trattò anche in quel caso di Resistenza civile, visto che il rapporto di quel villaggio con la Resistenza armata, nelle settimane e nei mesi precedenti, era stato del tutto sporadico, essendosi limitato a qualche aiuto materiale e semmai a qualche scorribanda in paese da parte di uomini armati, accolti con entusiasmo – questo sì – dagli abitanti. Ci fu sicuramente, da parte degli abitanti di Niccioleta, il desiderio di contribuire in qualche modo alla cacciata dei tedeschi, che, data la vicinanza degli alleati, sembrava essere imminente. Fu forse la voglia di essere protagonisti, di non star solo a guardare, che suggerì l’idea di organizzare la cosiddetta “guardia armata” attorno al paese e alla miniera, che poi fu il pretesto della strage. Immagine 025Niente in realtà che potesse realmente impensierire i comandi tedeschi. Gli episodi che si susseguirono durante tutta l’estate in molte località della Toscana fanno pensare piuttosto a un piano stragista preordinato, del quale Niccioleta rappresentò nient’altro che una tappa, una delle prime. I motivi per i quali fu scelta Niccioleta per attuare il piano possono essere stati diversi: si è pensato alle vie di comunicazione da rendere sicure per la ritirata, a contatti particolari che il reparto responsabile della strage poteva avere nel paese, ma possono essercene stati altri. Si trattava comunque per i tedeschi di spezzare il legame tra la popolazione civile e le formazioni partigiane: legame che essi ritenevano essenziale – e lo era effettivamente – per l’operatività e la stessa sopravvivenza delle bande e che, senza bisogno di ulteriori prove, supponevano funzionasse ovunque queste operassero. E chi se non i minatori, concentrati per di più in un villaggio isolato e abitato solo da loro, com’era appunto Niccioleta, poteva offrire sostegno ai partigiani, anzi costituire il brodo di coltura stesso del partigianato? Ecco dunque emergere la colpa originale dei minatori: quell’antifascismo ostinato legato alla condizione di lavoratori salariati in lotta perenne con il loro datore di lavoro, per cui il fascismo li aveva sempre considerati una categoria litigiosa, infida, non riducibile ai propri canoni di ordine e disciplina. Non c’è bisogno di andare in cerca di altre motivazioni di ordine politico o militare: il solo fatto di essere minatori bastò a renderli colpevoli e segnò il loro destino.




Il “caso Raffo” e la sua cacciata violenta dalla Cooperativa di Consumo di Pietrasanta.

Giovan Battista Raffo primo direttore Cooperativa Consumo Pietrasanta

Il 7 aprile 1924 una spedizione punitiva, guidata dal sindaco e segretario politico del fascio di Pietrasanta, invase gli uffici della Cooperativa di Consumo cercando di raggiungere il suo direttore commerciale che, a stento e con uno stratagemma, riuscì a sottrarsi alla furia degli invasori. Una violenza certamente grave che, senza nulla aggiungere di significativo, potremmo ben ricomprendere nel novero dei tanti, analoghi episodi già accaduti in questa città. Aggressioni e devastazioni, compiute dai fascisti fin dalla loro costituzione in partito, qui avvenuta piuttosto tardivamente il 5 marzo 1921. Così, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, era toccato alla camera del lavoro a essere invasa e devastata mentre nel successivo mese di giugno sarà il presidente della stessa Cooperativa a venire malmenato. In seguito, subirono violenze anche due sindaci: quello di Pietrasanta e quello della vicina Massa casualmente di passaggio in città.
In realtà quanto avvenuto nei locali della Cooperativa nel pomeriggio del 7 aprile andava ben oltre una canagliesca azione fascista. Il tentativo, fallito, di far fuori fisicamente il direttore Giovan Battista Raffo si inquadrava in una più complessa vicenda che ebbe per protagonisti due acerrimi rivali: Renato Ricci, capo del fascismo apuano, e Carlo Scorza, suo omologo lucchese. Al centro dello scontro tra i due gerarchi e le rispettive fazioni era il controllo della Versilia, un territorio già a quel tempo appetibile e considerato strategico per gli assetti politici e di potere del nascente fascismo. Uno confronto durissimo che finì per coinvolgere lo stesso Mussolini, pronunciatosi in un primo momento a favore della tesi di Ricci per l’annessione della Versilia all’area apuana, quali zone contigue e omogenee, entrambe economicamente a prevalente vocazione marmifera. Un pronunciamento, quello del Duce, segnato dal rapporto di amicizia intrattenuto con Ricci. In seguito, su pressioni interne ed esterne al partito, a Mussolini non rimase che fare marcia indietro, dichiararsi contrario all’operazione e di fatto fermando-la. Scorza da una eventuale annessione dell’area versiliese a Carrara avrebbe avuto tutto da perdere, dato che la Versilia, come sappiamo, era parte integrante della provincia di Lucca.
In quel tempo a Pietrasanta, da una quindicina di anni, operava una delle più grandi e consolidate società cooperative d’Italia nel ramo del consumo. Una prestigiosa realtà commerciale e associativa con alle spalle un considerevole sviluppo produttivo, distributivo e organizzativo maturato durante e dopo il conflitto mondiale. Basti pensare ai risultati di un anno come il 1920 quando la giovane Cooperativa di Pietrasanta contava già 53 dipendenti, ai quali si dovevano aggiungere i fornai e i calzolai, una ventina di spacci e una base sociale che supera-va i 2.300 aderenti.
Una componente fondamentale, dunque, dell’economia locale, fortemente radicata nel tessuto sociale, fonte di consenso e di potere per chiunque ne controllasse le sorti. All’interno dell’antagonismo tra i due ras Scorza e Ricci si verranno definendo anche i destini della Cooperativa di Pietrasanta fino alla sua piena fascistizzazione.
Volantino 1912 Cooperativa MacelloMa per una completa comprensione del quadro ora descritto è necessario, almeno per cenni, andare alle origini della Cooperativa e ai suoi tratti distintivi che risulteranno decisivi a preservarla dall’assalto che il fascismo porterà alla cooperazione italiana.
La “Società Anonima per azioni Cooperativa” con sede in Pietrasanta nacque dopo lunga gestazione alla fine del 1907 dalla locale Società di mutuo soccorso “Giuseppe Garibaldi” e dalla sua base sociale marcatamente operaia. Oltre al perseguimento delle finalità statutarie (lotta al carovita, case operaie e così via) la Cooperativa avrebbe dovuto essere un prezioso ponte per mantenere saldo e sviluppare il legame con l’ambiente sociale e culturale della “mutuo soccorso”. L’ente cooperativo, al contrario, riverberò da subito tutt’altra luce mostrando natura e fini assai diversi da quelli di classe pur non potendosi neanche definire figlia o figliastra di quel cooperativismo “bianco”, di stampo clericale che, al di là dei confini versiliesi, aveva già attecchito a Lucca e nel resto della provincia.
La “Pietrasanta” nacque dalla secca quanto inattesa sconfitta della componente socialista in seno alla “Garibaldi”. Una sconfitta determinata in massima parte dalle abili e spregiudicate manovre del notaio Adriano Ricci, allora sindaco di Pietrasanta a capo di una giunta liberale, considerato dai socialisti la lunga mano della borghesia sulle organizzazioni operaie e del proletariato.
Della Cooperativa, nonostante la discutibile conduzione, Ricci ne sarà per sette anni il presidente. Un tempo sufficiente per imprimere all’Azienda caratteristiche sì di progresso ma con tratti moderati e borghesi, lasciandola scevra da quelle connotazioni classiste e, in certi casi, fortemente classiste che contraddistinsero tanta parte del movimento cooperativo in Toscana e nel resto dell’Italia. Questi connotati la Cooperativa di Consumo di Pietrasanta non li cambierà nel corso dei suoi sessant’anni di vita.
M - La costruzione dei magazzini generali (1927)A imprimere un indirizzo prevalentemente aziendalista alla neonata Cooperativa contribuì in misura decisiva il decisionismo di Giovan Battista Raffo, un giovane scultore di origini genovesi, che in città aveva aperto un laboratorio di scultura, di vaghe idee socialiste e noto per la sua intraprendenza e pragmaticità. Le indubbie capacità di Raffo, avvicinatosi alla Società cooperativa fin dalla sua costituzione, si manifestarono soprattutto all’indomani della disastrosa gestione del suo primo presidente. Saranno gli anni della guerra e quelli immediatamente successivi ad esaltare le doti e le capacità di Raffo. Egli, infatti, non solo contribuirà a risanare i conti e a consentire di chiudere i bilanci in attivo, con risultati davvero sorprendenti, ma sotto la sua direzione l’Azienda in poco tempo fece registrare una ulteriore espansione dei suoi commerci e dei suoi punti vendita.
Quando il fascismo, non ancora regime, iniziò un’implacabile opera di penetrazione delle istituzioni e delle più diverse realtà cittadine – da quelle associa-tive a quelle sindacali, imprenditoriali e così via – Raffo per i fascisti si presentò come l’unico vero ostacolo alla possibilità di mettere fino in fondo le mani sulla Cooperativa. Per qualche tempo essi mal sopportarono l’autonomo operare del direttore e, dopo non poche frizioni e qualche avvertimento, giunsero alla determinazione che non ci fosse altra soluzione che sbarazzarsi della sua persona.
L’appiglio fu banale. Lo ricorderà lo stesso Raffo in una “memoria” scritta molti anni dopo. “Col pretesto che il 6 aprile 1924 non avevo voluto votare nelle elezioni politiche” scrive Raffo “il giorno seguente un gruppo di facinorosi fascisti capeggiati dal segretario politico e sindaco di Pietrasanta, Andrea Ballerini invase la Cooperativa ed alcuni, anche con le armi in pugno, mi cercarono per punirmi. Riuscii ad evitare la furia degli invasori nascondendomi. Mi costrinsero però, fa-cendo sempre uso della violenza, ad abbandonare la Cooperativa con la sempre espressa minaccia che mi sarebbero derivate più serie conseguenze ove avessi osato ripresentarmi in Ufficio”.
La cacciata violenta dalla Cooperativa del suo direttore originò una lunga scia di atti persecutori nei confronti dello stesso Raffo, atti che lo costrinsero a lasciare la città per riparare a Pisa dove avviò una attività commerciale che in poco tempo fu costretto a chiudere sempre sotto la minaccia dei fascisti.
Cooperativa Magazzini. Anni TrentaIn un contesto così difficile la determinazione di Raffo fu tale da sfidare il regime ricorrendo alla magistratura e a Mussolini in persona per farsi vedere ri-conosciuto il diritto alla liquidazione, negatogli dai fascisti locali. Quella che passò come “la vertenza” trovò formale e giusta conclusione nel corso degli anni Trenta con una sentenza che riconobbe all’ex direttore i diritti economici acquisiti e ne dispose la liquidazione. Un riscatto tardivo per Raffo che non si piegò mai ai fascisti ma che non valse a evitargli un’ultima amara sorpresa. Convocato nella sede del fascio di Pietrasanta per ritirare la somma dovutagli, si sentì dire che per dimostrare fino in fondo il suo amore per la Cooperativa, tante volte da lui stesso rivendicato, ora per coerenza avrebbe dovuto elargire l’intero ammontare della liquidazione a favore della Cooperativa stessa. La lettera era già stata preparata e rimaneva solo da firmarla. Raffo la lesse e senza batter ciglio la firmò.
La storia di Raffo con la Cooperativa non finì lì. Quando la bandiera della libertà era da poco tornata a sventolare su Pietrasanta, il vecchio direttore della Cooperativa, tra la fine di settembre e l’ottobre del 1944, chiamato dal Governatore militare alleato, riprese le redini dell’Azienda in qualità di commissario straordinario. Negli stessi giorni, su designazione del Comitato di liberazione nazionale, il Governatore militare nominò a capo del Comune l’avvocato Giovan Battista Cancogni, dopo la rinuncia dell’avvocato Luigi Salvatori, e Raffo entrò a far parte dell’esecutivo come “esperto in alimentazione”.
Quei delicati e importanti incarichi rappresentarono per Giovan Battista Raffo il vero riscatto tanto a lungo atteso, salvo doversi dimettere dopo pochi mesi da entrambi gli impegni, già debilitato dalla malattia che nel marzo 1945 lo condurrà alla morte.




La Città Bianca in camicia nera: il decennio di Scorza

La repressione degli antifascisti sul territorio provinciale

La segreteria Scorza si distingue fin da subito per la violenta offensiva contro le amministrazioni locali guidate dalle sinistre e dai popolari: nel 1925 “cade” Borgo a Mozzano, ultimo comune antifascista [1], il cui commissariamento viene salutato sulle colonne de L’intrepido – il foglio del fascismo lucchese – come una “vittoria morale e reale dei Fasci” [2]. Ma la sola conquista del potere politico non è sufficiente: sono gli individui che debbono essere colpiti, perseguitati, schedati. Gli archivi del Casellario politico centrale – istituito per la prima volta nel 1894 sotto Francesco Crispi e adesso ufficio autonomo alle dipendenze della PS – si gonfiano letteralmente durante il fascismo; nel mirino non soltanto l’adesione a fedi politiche avverse al regime, ma anche la moralità stessa delle persone, soprattutto se donne: così l’anarchica Pia Bertini, residente in provincia di Pisa ma nata ad Altopascio, è sia una sovversiva che una “di facili costumi”[3]. Prostitute dunque, oppure pazze: come Clementina Masini di Monte San Quirico, arrestata nel 1929, le cui parole contro il duce sarebbero da attribuirsi ad un “momento di esaltazione mentale per disturbi psichici”[4].

Gli squadristi imperversano in tutta la provincia, non basta allontanarsi dalla città per essere al sicuro: il montecatinese Agenore Dolfi, già socialista e poi membro del PcdI, viene aggredito più volte tra il 1922 e il 1923 (in un’occasione la spedizione punitiva avviene addirittura all’esterno del tribunale di Lucca, dove assieme a Dolfi viene ferito anche il suo avvocato e compagno di militanza politica, Luigi Salvatori); trasferitosi infine a Viareggio, viene addirittura rapito dagli squadristi e riportato a Lucca, dove subisce l’ennesimo pestaggio. Dolfi sarà infine costretto a rifugiarsi in Argentina, dove continua a spendersi in favore del movimento antifascista: muore nel 1944 in Italia, dove era tornato per prendere parte alla Resistenza, in circostanze mai del tutto chiarite [5]. Come Dolfi, anche il socialista massarosese Giuseppe “Beppino” Cosci, nativo della frazione di Stiava, è costretto all’emigrazione in Francia per sfuggire alle persecuzioni. Verso Cosci, che in paese gode di stima e rispetto, i fascisti lasciano da parte il manganello per ricorrere a più subdole strategie, offrendogli dapprima un posto presso il locale oleificio in cambio dell’adesione al fascio, per poi impedirgli di trovare e mantenere un lavoro che gli consenta di sfamare la numerosa famiglia (arrivando a incendiare i locali della falegnameria aperta da Beppino a Viareggio)[6].

La ferita più grave all’antifascismo però Scorza l’ha già inflitta nell’estate 1925, quando i suoi uomini aggrediscono uno dei più importanti leader dello schieramento liberaldemocratico: il deputato Giovanni Amendola.

20 luglio 1925: il “Delitto Amendola”

Ostile sin dal principio al fascismo e ai suoi metodi illegali, pur partecipando nel 1922 in vesti ministeriali ai due Governi Facta (che includevano anche i fascisti), Amendola nel 1925 è ormai uno dei capi riconosciuti dell’opposizione costituzionale a Mussolini. Già a un anno dalla marcia su Roma il deputato è stato sottoposto a fermo presso la sua abitazione salernitana, per poi subire una prima aggressione nella capitale poche settimane dopo. L’azione contro Amendola viene pianificata dal segretario del PNF Farinacci d’intesa con Scorza, reputato l’uomo giusto per portare a segno il colpo senza lasciarsi dietro “pasticci” (U. Sereni) analoghi a quelli del Delitto Matteotti.

L’aggressione al rappresentante liberale avviene sulla strada tra Montecatini Terme e Pistoia la notte del 20 luglio: come ricorda il figlio Giorgio (poi deputato del PCI), che da Salerno si affretta a raggiungere il padre convalescente a Roma dove è stato trasportato, Amendola “era tutto piagato. Facevano impressione soprattutto le ferite alla testa, all’occhio e all’orecchio. Il corpo era pesto, ma allora non si sapeva che il colpo mortale era stato inflitto proprio ai polmoni” [7]. Amendola sarebbe morto nove mesi dopo in Francia a Cannes, il 7 aprile 1926, e le indagini, svogliatamente compiute dalla magistratura [8], portano a un nulla di fatto: l’aggressione viene fatta passare dal regime come genuina reazione popolare contro l’odiato antifascismo. I bastonatori di Scorza resteranno impuniti, così come il loro capo, che nel dopoguerra fugge in Argentina proprio per non affrontare la giustizia italiana e rispondere dei propri capi d’imputazione (il principale dei quali riguarda proprio i fatti di Montecatini). In suo favore intercedono le gerarchie ecclesiastiche pistoiesi, e fra tentativi di depistaggio e interventi della Cassazione, il processo si concluderà nel 1949 con la concessione dell’amnistia da parte della Corte d’assise di Perugia, scampando al gerarca la precedente condanna a trent’anni di reclusione [9].

Guerra a tutto campo dentro il Partito

Se è vero che i colpi più duri Scorza li riserva agli antifascisti, non più tenero il ras di Lucca si dimostra nei confronti delle opposizioni interne allo stesso PNF: i primi a farne le spese sono addirittura due dei principali rappresentanti del partito in città, Nino Malavasi e Anatolio Della Maggiora. Malavasi, romagnolo di formazione repubblicana e anticlericale [10], nonché tra i fondatori del fascio lucchese, viene allontanato nel marzo 1921 al termine di una campagna diffamatoria per il suo mancato allineamento alle direttive della dirigenza milanese; Della Maggiora, che ricopre il ruolo di segretario ed è inviso a Scorza per la sua alleanza con Augusto Mancini e altri esponenti democratico-borghesi e del combattentismo alla vigilia delle elezioni della primavera 1921, viene a sua volta epurato per la mancata candidatura di rappresentanti fascisti nelle liste del Blocco Nazionale, e la segreteria passa nelle mani dello stesso Scorza.

Per consolidare il proprio potere, il ras cosentano non esita a far scorrere del sangue: il 22 maggio 1921 il sangue è quello di due squadristi, Nello Degl’Innocenti e Gino Giannini, entrambi a bordo del camion partito da Borgo a Mozzano in direzione Valdottavo, colpito nel Morianese da alcuni massi caduti dal soprastante monte Elto. Immediatamente si parla di un attentato antifascista, il casellante di Saltocchio Esmeraldo Porciani – presunto testimone oculare dei preparativi dell’attentato – viene bastonato e preso a rivoltellate da un gruppo di fascisti in piena notte davanti alla propria abitazione, e muore poche ore dopo all’ospedale di Lucca. Scorza nega qualsiasi coinvolgimento fascista, e il processo-farsa contro i responsabili si conclude con l’assoluzione per tutti salvo Alfredo Menesini, datosi latitante (che rientra comunque in seguito ad amnistia e apre una ditta di costruzioni, ricevendo importanti commesse pubbliche). Ben più dura sarà la giustizia nei confronti dei tre “attentatori antifascisti” di Valdottavo (Giannarini, Della Nina e Ramacciotti), condannati su pressione di parte fascista a pene severissime che spaziano dall’ergastolo all’interdizione perpetua dai pubblici uffici [11].

Nel 1927 la fronda antiscorziana dentro il PNF prova a riorganizzarsi attorno al podestà di Lucca Mario Guidi e ai suoi alleati Oscar Galleni e Fedele Pennacchi, membri del direttorio provinciale che intendono screditare Scorza in sede congressuale portando alla luce alcune torbide faccende legate alla Banca di Lucca (disastrosamente gestita dal fratello del gerarca, Giuseppe) nelle quali era implicato anche l’ex deputato di Pescia Tullio De Benedetti [12]: il vicesegretario nazionale Renato Ricci però all’ultimo momento ritira il proprio sostegno ai tre dissidenti, che vengono costretti a dimettersi dalle rispettive cariche ed espulsi dal Partito.

1930 – 1932: Scorza dal trionfo alla caduta

Il regime scorziano a Lucca riceve la sua “consacrazione” ufficiale il 12 maggio 1930, in occasione della visita di Mussolini in città, in ricordo della quale viene aperto nel 1931 un nuovo varco nelle Mura alla presenza del segretario nazionale del PNF Giuriati, Porta della Vittoria (l’odierna Porta San Jacopo, familiarmente detta “il buco nuovo”)[13]. Pochi mesi prima lo stesso Giuriati ha chiamato al proprio fianco Scorza, nominandolo responsabile dei fasci giovanili.

Resta un solo, mal tollerato ostacolo, e proprio nel cuore del regno di Scorza: la potente famiglia Bertolli, ricca dinastia dai ramificati interessi economici, nei cui confronti il ras porta avanti una cauta “guerra fredda” (Umberto Sereni) e che intrattiene buoni rapporti con il neosegretario nazionale Starace, subentrato a Giuriati e ostile a sua volta a Scorza. Nel giro di poco tempo il gerarca di origini cosentane viene costretto a restituire i propri incarichi, e le missive inviate a Mussolini, che certo non ha digerito l’opposizione di Scorza alla sua linea di accordo con il Vaticano, restano lettera morta. La faccenda di Valdottavo viene rispolverata per l’occasione, i fedelissimi dell’autoproclamatosi “condottiero” ed erede di Castruccio Castracani vengono colpiti uno dopo l’altro [14], e il 10 dicembre 1932 viene sancita ufficialmente la decadenza di Scorza dalle pagine del Popolo Toscano [15]. Soltanto un decennio più tardi – in frangenti ben più drammatici per il regime e il paese – il fascismo avrebbe riabilitato Scorza.

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Mussolini in visita alla Manifattura Tabacchi durante il suo soggiorno a Lucca nel 1930 (foto di Ettore Cortopassi, 1930; Archivio Fotografico Lucchese, ECN 2329)

[1] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del saggio di Nicola Laganà Borgo a Mozzano: l’ultima amministrazione comunale antifascista della Lucchesia (1924-1925), secondo i documenti d’archivio e le cronache dei periodici locali, in “Documenti e Studi – Rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca” n. 27/28, dicembre 2006, pp. 17-143

[2] Ibidem, p. 19

[3] Teresa Catinella, Bertini, Pia, in Gianluca FULVETTI, Andrea VENTURA (a cura di), Antifascisti lucchesi nelle carte del Casellario politico centrale. Per un dizionario biografico della provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2018, pp. 54-55

[4] Marta Giusti, Masini, Clementina Maria Luisa, in Ibidem, pp. 138-139

[5] Andrea Ventura, Dolfi, Agenore, in Ibidem, pp. 91-93

[6] Andrea Ventura, Cosci, Giuseppe, in Ibidem, pp. 80-81; vedi anche Vanda Puccetti, Memorie su Beppino Cosci (a cura di Fabio Flego), Pezzini, Viareggio 2010

[7] Giorgio Amendola, Una scelta di vita, BUR, Milano 1979, pp. 126-127

[8] Umberto Sereni, Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in Paolo Giovannini, Marco Palla (a cura di), Il fascismo dalle mani sporche, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 190-217

[9] Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 166-167

[10] La convergenza tra settori del repubblicanesimo di matrice mazziniana e fascismo a Lucca porta anche alla nascita di un periodico di respiro nazionale, Retaggio”, pubblicato dall’agosto al dicembre del 1924. La sua breve ma significativa storia è stata ricostruita nel dettaglio da Nicola Del Chiaro nel saggio L’Edera con il littorio. “Retaggio”: un ambizioso periodico mazziniano fascista (Lucca, agosto-dicembre 1924), in “Documenti e Studi” 42/2017, pp. 41-63

[11] La vicenda è stata ricostruita approfonditamente da Nicola Laganà nel saggio L’eccidio di Valdottavo: domenica 22 maggio 1921. Un falso attentato antifascista, ordito dal fascista Carlo Scorza e realizzato dai suoi squadristi, in “Documenti e Studi” 32/2010, pp. 11-76

[12] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del già citato saggio di Umberto Sereni Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in particolare pp. 201-206

[13] Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, p. 129

[14] In particolare si vedano a titolo di esempio i casi di Luigi Stefanini (segretario del fascio di Altopascio) e Artidoro Nieri (subentrato a Scorza come segretario federale provinciale dopo che questi era stato eletto alla Camera dei deputati), entrambi approfonditi nel saggui di Moreno Bertolozzi Uomini e vicende del fascismo di Altopascio (1922-1932… e oltre, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 17-37

[15] Umberto Sereni, Op. cit., in particolare pp. 206-217




«L’officina dei partigiani».

La montagna – ha scritto Dante Livio Bianco – fu […] la culla del partigianato, come ne fu poi la base fondamentale e l’ambiente di sviluppo e di consolidamento. […] Le montagne furono davvero la casa dei partigiani.[1]

Le montagne a cui si riferiva nelle sue memorie partigiane il futuro comandante della 1° Divisione alpina Giustizia e Libertà erano quelle del Cuneese, una delle prime e più importanti culle della Resistenza armata italiana. E tuttavia, l’annotazione del Bianco assume certamente una valenza generale e può infatti estendersi tranquillamente alla totalità della storia della Resistenza partigiana tout court.

Ogni banda partigiana, ogni esperienza resistenziale extraurbana ha avuto infatti le proprie montagne e le proprie vallate di riferimento, nelle quali è nata – spesso stentatamente – ha attecchito, si è sviluppata, talvolta persino sensibilmente radicata, prima che eventi e difficoltà generali costringessero o consigliassero alle formazioni di spostarsi altrove, magari su altri e più impervi rilievi.

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Partigiani su Monte Morello (1944). Il secondo ed il terzo da sinistra sono rispettivamente: Gino Bartolini “Bachino” Fernando Bucelli “Grillo”. La ragazza è la Partigiana fiorentina Bruna Parri “Sonia” (Fonte: ANPI Firenze- sezione Oltrarno)

Così è, tra altre, anche per la Resistenza fiorentina, la quale lega la sua storia ad una manciata di rilievi e massicci montuosi attorno ai quali le sue bande armate si sono costituite nel tempo e hanno operato, talvolta prosperando, talaltra invece migrando altrove dietro l’impeto dei rastrellamenti nemici, in direzione di vette ritenute più inaccessibili e quindi più sicure. Da Monte Morello a Monte Senario, da Monte Giovi ai rilievi appenninici del Mugello, dai monti del Chianti al Pratomagno, sino al Casentino: tutte maglie della fitta e complicata trama in cui si è dispiegata la resistenza in armi delle formazioni fiorentine tra il settembre del 1943 e la fine dell’estate del 1944.

Tra i rilievi che più di altri hanno avuto un ruolo centrale per l’esperienza partigiana fiorentina, soprattutto per quanto riguarda le sue origini e le prime fasi di impianto, un posto di rilievo lo occupa senza dubbio Monte Morello. Qui, infatti, dopo l’armistizio, cominciarono a confluire i primi resistenti del fiorentino – ribelli e non ancora propriamente partigiani – i quali costituirono alcuni dei più precoci esperimenti di bande armate della Toscana, in alcuni casi destinati a divenire gli embrioni delle future brigate partigiane fiorentine. Le ragioni per cui quella che è solitamente indicata come la montagna dei fiorentini, da sempre meta delle loro passeggiate ed escursioni domenicali, può a ragione definirsi anche come la montagna dei partigiani fiorentini, sono piuttosto chiare e immediate e hanno a che fare anzitutto con la rilevanza strategica che la sua posizione geografica e la sua specifica conformazione fisica conferirono al massiccio nel quadro degli eventi storici successivi all’8 settembre 1943.

Monte Morello si erge infatti con le sue tre “vette” (Poggio all’Aia, 934 metri s.l.m.; Poggio Casaccia, 921 metri e Poggio Cornacchiaccia, 892 metri) a pochi chilometri a nord ovest del capoluogo toscano occupando una vasta area delimitata idrogeologicamente, a ovest, dal torrente Marina e dalle propaggini orientali dei monti della Calvana e, a est, dalla val di Mugnone e dal colle di Fiesole, e amministrativamente divisa tra i comuni di Firenze, Vaglia, Sesto Fiorentino e Calenzano. Di estremo interesse ambientale-paesaggistico, con ricchi terreni boschivi frutto si secolari rimboschimenti e risorse idriche diffuse, Morello oggi come allora era lambito altresì da importanti vie di comunicazione, stradali e ferrate, tra le quali: a ovest, la direttissima appenninica che attraverso la Calvana e la Val di Bisenzio collegava dal 1934 la piana fiorentina a Bologna e, a est, la strada carreggiabile bolognese e la linea ferrata faentina che da Firenze conducevano via Vaglia sino in Mugello e da lì in Romagna.

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Monte Morello (1944). Due partigiani russi non identificati. (Fonte: ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

Già da questi elementi si intuisce la rilevanza che Monte Morello assumerà nella lotta partigiana ai fini del controllo del territorio e delle comunicazioni nell’area. Di più, la vicinanza del rilievo alla città e ai principali centri abitati della piana fiorentina, unita alla presenza di una rete di piccoli nuclei rurali sparsi un po’ ovunque sulle sue pendici, creavano le condizioni ideali perché i gruppi di partigiani potessero assicurarsi nei mesi di attività rifornimenti, riparo e appoggio logistico. In definitiva, la vicinanza di Morello a Firenze e alla produttiva piana fiorentina è forse il primo e più importante aspetto che inizialmente ne garantì l’indiscussa importanza rispetto alla nascita delle bande, benché poi proprio questa stessa vicinanza sul lungo periodo avrebbe altresì costituito uno dei fattori di maggior pericolosità per la sopravvivenza del movimento armato.

L’essere di fatto la montagna dei fiorentini, ossia la zona impervia più vicina alla città e da essa facilmente raggiungibile, spiega come mai i primi resistenti confluissero su Morello. Bisogna a tal proposito ricordare che le prime bande che si formano in montagna dopo l’8 settembre non nascono tanto (o almeno non solo) con l’intento della lotta armata, quanto con l’obiettivo immediato della sopravvivenza. Tutta l’umana varietà di soggetti che anima le prime bande (ex soldati sbandati fuggiti dai presidi e dalle caserme, ex prigionieri di guerra alleati evasi dai campi di detenzione, renitenti, disertori, perseguitati politici scarcerati, operai e antifascisti compromessisi nei quarantacinque giorni badogliani, giovani studenti ecc.) prende infatti la strada dei monti anzitutto per sfuggire alla propria cattura. È questo un elemento trasversale dal quale non sono esenti neppure i “politici”, coloro cioè che, come quadri e aderenti alle strutture clandestine dell’antifascismo, hanno più chiare di altri le ragioni della necessità e dell’importanza di intraprendere la lotta armata. Non per nulla Gino Tagliaferri, tra gli organizzatori per il Partito comunista della lotta partigiana in provincia di Firenze, ricordando un incontro tenuto il 12 settembre 1943 con alcuni compagni di Campi Bisenzio, nel quale era stato deciso di mandare proprio su Monte Morello una prima squadra di uomini (il gruppo di Lanciotto Ballerini), avrebbe detto:

[…] chi dice (riferendosi al primo giorno o subito ai primi giorni dell’occupazione) che andava in montagna a fare il partigiano, non dice una cosa esatta. Perché ancora non si avevano idee chiare. Io non le avevo ma non le avevano neanche gli altri. Era in generale per tutti noi comunisti una ritirata prudenziale in attesa di vedere come si mettevano le cose e quindi agire di conseguenza. Volenti o nolenti bisognò prendere quella posizione; prima ci si ritirò per sottrarsi ad eventuali arresti, deportazioni, o uccisioni e rappresaglie.[2]

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Monte Morello (1944). partigiano a cavallo non identifiicato, assieme alla partigiana fiorentina Bruna Parri “Sonia” (ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

Per chi dopo l’8 settembre e a seguito dell’occupazione tedesca della città voleva sottrarsi a un eventuale arresto e scappare da Firenze in cerca di un rifugio, Monte Morello costituiva una delle mete più immediate e più facilmente raggiungibili in grado di assicurare lungo i suoi declivi boscosi una certa prospettiva di salvezza. E in effetti, sin dopo l’armistizio, esso si popola di militari sbandati, ex-prigionieri alleati e civili in fuga che inizialmente vagano in solitaria ma che finiscono poi in alcuni casi per unirsi in aggregati spuri, destinati a divenire le prime cellule delle successive bande. Alla Cappella di Ceppeto sulle pendici orientali del monte in prossimità del valico tra il torrente Terzolle e il Mugello, nei giorni seguenti all’8 settembre va formandosi ad esempio un primo grande assembramento di ex militari, cui si uniscono ex-prigionieri e anche giovani operai antifascisti.[3] La presenza tra loro di ex prigionieri alleati (angloamericani e slavi) si spiega in particolare con l’esistenza nelle vicinanze di campi di lavoro coatto dipendenti dalle strutture d’internamento militari italiane nei quali, prima dell’8 settembre, erano impiegati come forza lavoro i prigionieri di guerra. Nella provincia fiorentina ve ne erano diversi e uno di questi in particolare era situato sulle pendici settentrionali di Morello nell’azienda agraria degli eredi Corsini al Carlone, nel comune di Vaglia.[4] Fuggiti da questo e da altri luoghi di prigionia essi avevano trovato ospitalità da parte di molte famiglie contadine della zona di Morello, come quelle dei Sarti e dei Biancalani in località Cerreto Maggio e Morlione o come quella dei Venturi a Querceto. Secondo la stima di un ex prigioniero inglese nell’autunno del 1943 in tutta l’area di Morello si trovavano alla macchia sino a 150 ex prigionieri alleati[5], alcuni dei quali si sarebbero poi uniti alle locali bande armate. Il più famoso tra questi sarebbe stato certamente Stuart Hood, prigioniero scozzese evaso dal campo di prigionia di Fontanellato che nel dicembre 1943 proprio su Monte Morello si unì col nome di battaglia di “Carlino” ai partigiani del gruppo campigiano di Lanciotto Ballerini.[6]

La varietà umana che si incontra su Morello nel settembre del 1943 rende la scena delle prime bande assai varia e composita. Accomunate da una precarietà iniziale dettata dalla difficoltà di organizzarsi, nascono diverse formazioni, alcune destinate a durare, altre costrette a vita breve. Le più note sono naturalmente il gruppo del Bruschi e quello di Lanciotto.

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Lanciotto Ballerini (1911-1944): comandante di una delle prime formazioni di Monte Morello, caduto eroicamente a Valibona il 3 gennaio 1944 (Fonte: Wikipedia)

Il primo è guidato dal sestese Giulio Bruschi “Berto”, classe 1901, un militante comunista di lungo corso condannato nel gennaio 1935 a quattro anni di reclusione per attività clandestina e poi assegnato a cinque anni di confino a Ponza e a Ventotene. Il suo gruppo partigiano, che si installa alla metà di settembre sulle pendici di Morello presso un casotto in muratura in località Cipressa vicino alle Croci di Querceto, è sostenuto dall’organizzazione antifascista di Sesto ed è composto inizialmente da altri antifascisti perseguitati tra i quali spiccano Olinto Ceccuti “Cecco”, un artigiano nativo di Casellina e Torri coetaneo di Bruschi, e Rolando Gelli “Mangia”, falegname sestese classe 1911 già schedato dalla polizia fascista e sottoposto ad ammonizione dal Tribunale Speciale.

Anche il gruppo di giovani campigiani che alla guida di Lanciotto Ballerini la sera del 15 settembre 1943 lasciano la colonica di Serafino Colzi della fattoria di Fornello per avviarsi su Monte Morello si è formato a seguito di alcune riunioni tenutesi nei giorni antecedenti tra i principali esponenti dell’antifascismo campigiano nelle quali è stato deciso l’invio sui monti di alcuni uomini. A fianco dell’erculeo Lanciotto (classe 1911, promessa del pugilato locale e con alle spalle una lunga esperienza sui fronti di guerra del fascismo che gli ha lasciato in eredità una spiccata insofferenza per le gerarchie militari e l’autoritarismo fascista) vi è Ferdinando Puzzoli “Nandino”, detto anche “Novatore”, un vecchio militante anarchico e decano degli antifascisti campigiani, che della formazione di Lanciotto diviene commissario politico. Il gruppo, che assumerà il nome di “Lupi Neri”, giunto su Morello si sistema inizialmente alla Fonte del Vecciolino per portare poi il proprio comando al Chiesino di San Michele a Cupo, sul versante più a Nord di Morello, da dove la banda opererà nell’area compresa tra Collinella e Cerreto Maggio.

Alla Cappella di Ceppeto, altri due gruppi partigiani si costituiscono alla metà di settembre. Uno è quello formato inizialmente da circa venti individui che si riuniscono attorno all’ex paracadutista Bruno Bini “Folgore” (classe 1920) e che, oltre ad altri militari sbandati come Spartaco Capestri “Stanlio” o Florio Taccetti “Ivan”, accorpa anche giovani fiorentini come Leandro Agresti “Marco” (classe 1924) figlio di un calzolaio antifascista di Barberino di Mugello e tra i primi a salire a Ceppeto la mattina del 10 settembre. L’altro gruppo è quello guidato dai fratelli Morando e Marino Cosi e formato per lo più da giovani fiorentini delle classi 1923-1925 provenienti dai quartieri a ovest della città, tra Careggi e Castello: «banda delle Panche» infatti è il nome della piccola formazione, dall’odonimo della via di residenza di molti dei suoi componenti. Dalla Cappella di Ceppeto, il gruppo dei Cosi passerà in ottobre in località Case di Maiano, tra il paese di Vaglia e il borgo di Legri, sui contrafforti a nord di Monte Morello. Un terzo gruppo di resistenti, per lo più provenienti ancora dalla zona di Sesto e di Castello, è quello promosso dai tre fratelli Alfio, Renzo e Carlo Fondi che nel pomeriggio del 9 settembre, forte di undici uomini, da Leccio di Calenzano dove si è ritrovato prende la via di Monte Morello.[7]

Come molti altri esperimenti partigiani, questi gruppi che si costituiscono sui rilievi di Morello vivono le prime settimane di vita in uno stato di precarietà e debolezza dovuto all’incertezza del contesto nel quale si trovano a operare. La loro principale attività non è ancora la lotta ai nazifascisti – i quali prima della metà di ottobre non costituiranno una tangibile minaccia per le bande di Monte Morello – quanto tutto ciò che serve alla mera sopravvivenza e alla preparazione della lotta: il che significa soprattutto approvvigionarsi di alimenti e generi di prima necessità e quindi armarsi. Quanto la montagna può offrire di tutto ciò è limitato e a volte appena sufficiente: «si è patita molta fame», avrebbe ricordato più tardi un membro di quelle prime bande:

[…] Si è mangiato di tutto: vitalbe, luppoli, cicerbite, asparagi, radicchio. Tante volte non s’aveva nemmeno l’acqua per lavarli. A volte si trovava le ciliegie o le corbezzole. Quando si trovavano erano una manna […].[8]

Ma pur se parco, Morello, come si è detto, ha il grande vantaggio di consentire un rapido e sicuro contatto con gli abitati della piana e quindi con l’organizzazione clandestina cittadina. Lo stesso Bruschi, ricordando gli esordi incerti della propria formazione, avrebbe ammesso al riguardo:

[…] agivamo un po’ spontaneamente. […] Non avevamo cognizione di quello che vuol dire una lotta di popolo, ma ci accorgemmo subito che se non ci fosse stata la popolazione di Sesto, la quale ci mandava scarpe, calzini e viveri, non avremmo potuto resistere.[9]

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Giulio Bruschi, classe 1901, comunista sestese e perseguitato politico, dopo l’8 settembre comanderà uno dei primi gruppi militari che salgono su Monte Morello (Fonte: ACS, CCP)

Tra la popolazione della piana fiorentina e quella che abita le pendici di Morello si instaura un solidale impegno assistenziale all’indirizzo delle bande partigiane. Molte delle famiglie che vivono sulla montagna danno gratuito e spontaneo aiuto ai partigiani che operano nella zona. In località Lavacchio, sulle pendici meridionali di Morello, le famiglie di Giocondo e Giuseppe Ercoli, ad esempio, ospitano spesso i ribelli della zona, con le figlie Marisa e Graziella che si offrono come staffette, trasportando materiale e avvisando i partigiani in caso di pericolo imminente. La famiglia Scarlini, originaria di Campi Bisenzio, lungo l’alveo del torrente Zambra fa giungere in montagna armi, indumenti e viveri. Ancora assistenza e riparo offrono ai partigiani la famiglia Zetti al podere Solatio, nei pressi della Torre di Carmignanello, e quella dei Gigli a Rofoli. Ma tra i tanti il nucleo familiare più attivo è sicuramente quello dei Lastrucci, i contadini che coltivano il podere della Cipressa sopra Querceto, base di reclutamento e punto d’appoggio dei partigiani, nel quale viene garantito quotidianamente riparo e continuo ristoro tanto ai comandi che al gran numero di reclute che da Sesto si avviano sulla montagna. Un impegno intenso e decisivo, quello dei Lastrucci, che costerà a questi, nella figura di Angelo, anche l’arresto e l’uccisione da parte tedesca. Ma nel piccolo abitato di Querceto non c’è di fatto un solo nucleo familiare che non sia impegnato a dare assistenza ai partigiani. Una solida tradizione antifascista e un tessuto sociale solidale uniti alla stessa ubicazione del borgo che, arroccato com’è su Morello, ne rende disagevole l’accesso ai mezzi pesanti nemici, offrono le condizioni ideali per fare di Querceto un punto logistico fondamentale per l’organizzazione partigiana locale. Concorrono in questo anche i rappresentanti del clero locale nelle figure di don Severino e don Eligio Bortolotti, parroci della chiesa di Querceto, impegnati nell’assistenza e nel supporto ai partigiani, sforzo che al secondo costerà il 6 settembre del 1944 l’arresto e l’uccisione per mano dei tedeschi.

Così come dalla montagna, anche dalla piana fiorentina le prime bande di Morello ricevono assistenza fondamentale. Rifornimenti di generi alimentari da forni e cooperative di consumo, vestiario e scarpe da negozi e da singole famiglie, forniture d’ogni tipo da botteghe e officine affluiscono così a Querceto da tutta l’area sestese e anche al di fuori di essa, grazie alle ramificate trame dell’organizzazione antifascista locale. A mezzo dei contatti stabiliti con alcuni industriali tessili di Prato giungono ad esempio partite di coperte da inviare in montagna, mentre dalla Manifattura Tabacchi di Firenze operaie coraggiose come Corinna Pratesi si adoperano sottraendo dalla produzione piccoli quantitativi di sigarette che poi, tramite i compagni di Sesto, vengono fatte giungere ai partigiani di Monte Morello.

Ancora da Sesto e dalla piana affluiscono tramite Querceto ai partigiani di Morello anche armi e munizioni. A seguito di un accordo con un ufficiale dell’Autocentro dell’esercito, già dopo l’8 settembre giunge un primo carico di dotazioni militari che, scaricato tra Querceto e Settimello, è poi portato alla Cipressa. Altre armi vengono invece recuperate attraverso due militari in servizio al polverificio industriale dei fratelli Faini su Monte Morello, mentre le cave di pietra che si trovano a monte di Querceto vengono spesso usate dai partigiani per collaudare le armi, alcune delle quali sono mandate in riparazione a meccanici di fiducia di Sesto. Il resto che ancora necessita alle bande viene da queste sottratto nel corso dei primi assalti compiuti contro depositi e presidi militari, come avviene il 22 settembre 1943 a opera di uomini della formazione del Bini che dalla caserma di via S. Caterina da Siena a Sesto asportano, oltre a vestiario e materiale vario, 150 moschetti e un fucile mitragliatore.

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La targa posta nei pressi di Ceppeto che commemora la morte di Giovanni Checcucci, il primo partigiano caduto su Monte Morello (Fonte: resistenzatoscana.org)

Grazie alla rete di assistenza che garantisce loro la popolazione locale e ai proventi dei primi colpi, le bande di Morello a partire da ottobre possono così organizzare le prime azioni militari. Si tratta più che altro di sabotaggi alle linee telefoniche e alle vie di comunicazione, di interruzioni stradali e del disarmo di pattuglie tedesche e fasciste che transitano lungo le direttrici che lambiscono o si inerpicano sui rilievi di Morello. Seguono così i primi scontri a fuoco con il nemico, nei quali si registrano anche le prime perdite. Il 14 ottobre 1943, un reparto della GNR di Firenze in rastrellamento nell’area di Ceppeto impegna in un conflitto a fuoco un gruppo di partigiani. Al termine della sparatoria rimangono a terra sul campo un milite fascista e Giovanni Checcucci, un operaio comunista della fonderia del Pignone, classe 1906, che nell’aprile del 1939 era stato condannato dal Tribunale Speciale a sei anni di reclusione e che dopo l’8 settembre era stato tra i primi a salire su Monte Morello: di fatto è il primo caduto nelle file del partigianato fiorentino.  Il 21 novembre successivo, presso la Piazzola di Baroncoli, alle propaggini meridionali di Morello che degradano verso Calenzano, due partigiani armati di moschetto si imbattono e disarmano un tenente della milizia. Il miliziano, spogliato della propria pistola d’ordinanza, estrae però una seconda arma e apre il fuoco. Rimane così ucciso uno dei due partigiani, Sirio Romanelli, un giovane fiorentino classe 1924, mentre il giovane compagno, prima di darsi alla fuga, riesce a contrattaccare, ferendo gravemente il miliziano.

Azioni come queste che si protraggono ancora tra novembre e dicembre danno la sensazione che Monte Morello sia oramai base di un gran numero di partigiani; numero che, nelle voci che si propagano incontrollate di bocca in bocca, viene distorto sino ad assumere proporzioni spropositate: «Sono in mille, su Monte Morello», annoterà il partigiano Gianfranco Benvenuti nelle sue memorie riferendo tali sensazionalismi e aggiungendo come qualcuno fosse persino disposto a scommettere che fossero in realtà «diecimila».[10] Ciò, se da un lato contribuisce a corroborare la risonanza di cui la resistenza in armi gode nei settori dell’opinione pubblica popolare e antifascista fiorentina, finisce però per amplificare i timori degli avversari, attraendo così sui partigiani di Morello l’azione repressiva delle forze nazifasciste. Già il 9 novembre, in segno di rappresaglia per l’eliminazione a Sesto di una spia fascista e di un graduato repubblichino compiuta da alcuni partigiani scesi da Monte Morello, i militi fiorentini rastrellano la popolazione di Sesto, ricercando gli oppositori noti, ferendone alcuni e uccidendo un passante. La strategia repressiva delle forze di polizia, prima ancora di imbastire vere e proprie azioni di controguerriglia lungo tutto il massiccio montuoso, si affida soprattutto al lavoro di spie e delatori che cominciano a infiltrarsi nei gruppi partigiani di Morello. Ancora in novembre, a causa della delazione di una spia – il tenente Nino Foini – il gruppo partigiano dei fratelli Fondi viene di fatto scompaginato e tre suoi componenti (Aldo e Luigi Mordini, Luigi Latini) arrestati, incarcerati e torturati.

Esposte così alla minaccia di rastrellamenti e di infiltrazioni nemiche, con l’arrivo della stagione invernale 1943-44 le bande di Morello sono costrette a riconsiderare le condizioni che le avevano spinte ad aggregarsi sul rilievo. La vicinanza alla piana fiorentina, fondamentale per garantire rifornimenti continuativi soprattutto adesso che con l’inverno le scorte si riducono e la montagna ha sempre meno da offrire, diviene sempre più un fattore di rischio a fronte del consolidarsi dell’azione repressiva nazifascista. È così che alcune delle bande superstiti decidono di avviare degli spostamenti che, a tappe successive, le porteranno a sganciarsi da Monte Morello.

Monte Morello

Partigiani su Monte Morello (1944). Il secondo il terzo e il quarto da sinistra sono rispettivamente: Aldo Melani “Gimmi” Egizio Fiorelli “Baffo”, Silio Fiorelli “Saltamacchie” (Fonte: ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

La banda di Lanciotto, come noto, alla fine di dicembre del 1943, traversando la Val di Marina, passerà sui monti della Calvana seguendo un itinerario che l’avrebbe dovuta portare a congiungersi sull’Appennino pistoiese con le formazioni al comando di Manrico Ducceschi “Pippo”, se non fosse incappata il 3 gennaio del 1944, durante una sosta a Valibona, nell’accerchiamento dei militi repubblichini, lasciando caduti sul campo Lanciotto Ballerini e altri due componenti del gruppo. Sempre in dicembre, anche la formazione del Bruschi, assunta nel frattempo la denominazione di distaccamento Siro Romanelli in onore del giovane caduto a Baroncoli, inizierà lo spostamento nella zona di Bivigliano-Montescalari, pur lasciando su Morello una propria squadra per accogliere le nuove reclute che da Sesto e da altri comuni della piana continueranno a salire in montagna. Dopo l’esito infausto di Valibona, anche quel che rimane della formazione originaria di Lanciotto ritornerà su Monte Morello ricostituendosi in un gruppo al comando di Renzo Ballerini, fratello di Lanciotto, che manterrà come denominazione il nome di quest’ultimo. Rimangono invece nell’inverno 1943-44 su Morello i gruppi comandati da Marino Cosi e da Bruno Bini. A questi si dovranno tra gennaio e fine marzo del 1944 gli ulteriori colpi che la resistenza fiorentina riesce ancora ad assestare nell’area, non sempre per la verità con esito indolore, come in occasione dell’attacco alla stazione di Montorsoli del 4 aprile 1944 che registrerà la morte di tre componenti del gruppo del Cosi. Tuttavia, con l’avvio del grande ciclo di rastrellamenti antipartigiani dell’aprile 1944 l’organizzazione armata fiorentina riceverà un colpo durissimo proprio su rilievi di Morello dove gli uomini della Hermann Göring nel lunedì di Pasqua del 1944 si rendono protagonisti di rastrellamenti e uccisioni gratuite di civili a Cerreto Maggio, Cercina e Morlione. Anche i gruppi del Bini e del Cosi saranno così costretti a sganciarsi, prima seguendo le altre formazioni fiorentine nello spostamento verso il Falterona, poi attestandosi, il primo, sull’Appennino nei pressi di Firenzuola e, il secondo, su Monte Giovi. Faranno quindi ritorno su Morello per organizzare la fase offensiva finale della liberazione di Firenze e della piana, che affronteranno unendosi assieme e dando origine alla Brigata Garibaldi Bruno Fanciullacci.

Culla delle prime bande fiorentine, teatro di numerose  azioni e di diversi scontri tra partigiani e nazifascisti (con l’ultimo tra questi, in ordine di importanza, consumatosi il 14 luglio 1944 agli Scollini, presso la Fonte dei Seppi, dove 13 partigiani della Fanciullacci caddero combattendo con i tedeschi), Monte Morello reca ancora oggi visibili le tracce storiche della sua centralità nella storia della resistenza fiorentina, a partire dai circa 30 tra cippi e monumenti che costellano a futura memoria il suo territorio.[11] Montagna dei fiorentini per antonomasia, Morello è stata anche la montagna dei primi partigiani fiorentini ma anche – per usare l’espressione di uno di essi – «l’officina dei partigiani toscani».[12] Dalle prime bande che qui si costituirono all’indomani dell’8 settembre del 1943, sarebbero infatti nate attraverso successive dispersioni e riaggregazioni dei loro organici alcune delle principali Brigate che, come la 22° Lanciotto Ballerini, la 10° Caiani o la stessa Bruno Fanciullacci, avrebbero operato nei mesi centrali del 1944 sui monti del fiorentino e dell’Appennino toscano, rendendosi poi protagoniste in agosto della liberazione di Firenze.

[1] D. Livio Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino, 1973, pp. 9-10.

[2] AISRT, Fondo Interviste e trascrizioni, b. 1, fasc. 11 Tagliaferri Gino, II Parte della testimonianza di Gino Tagliaferri, s.d., p. 5.

[3] Giuseppe Tarchiani, La scelta di Beppe. Diario di un partigiano delle brigate Lanciotto e Caiani, Sarnus, Firenze, 2012, pp. 22-23.

[4] AUSSME, Fondo Diari Storici, b. 1243, Distaccamenti di lavoro pg. nella provincia di Firenze, l’Ufficio Prigionieri di Guerra dello Stato Maggiore dell’Esercito al Comando difesa territoriale di Firenze, 12 marzo 1943 (documento consultabile su: www.campifascisti.it)

[5] D’Arcy Mander, Mander’s March on Rome, Gloucester, Alan Sutton Publishing, 1987, p. 72.

[6] Stuart Hood, Pebbles from my skull, London, Quartet Books, 1973, poi riedito col titolo di Carlino, Manchester, Carcanet, 1985.

[7] Il gruppo costituirà poi la Compagnia “F” della 1° Divisione Giustizia e Libertà, cfr. AISRT, Fondo Resistenza armata, b. 2, Fasc. “Divisione GL, Cp. F – Sesto F.no”, relazione sull’attività svolta dalla compagnia F, 9 settembre 1944.

[8] Testimonianza di Leandro Agresti in Avevamo vent’anni, forse meno. Provavo una gioia immensa perché nello stesso momento in cui io davo la libertà agli altri la davo anche a me stesso, a cura di Riccardo Bussi, Silvia Cappelli, Francesco Fortunato, ANPI Sezioni di Brozzi, E. Rigacci e Peretola, s.d., p. 27.

[9] Testimonianza di Giulio Bruschi in Più in là, p. 99.

[10] Gianfranco Benvenuti, Ghibellina 24. Cronaca di fatti memorabili per la storia della Resistenza fiorentina, Carlo Zella Editori, Firenze, 2015, p. 35.

[11] David Irdani, Monte Morello: la cima dei partigiani di Firenze, in «Patria indipendente», n. 4, ottobre 2012, p. 24-26.

[12] Testimonianza di Leandro Agresti in Avevamo vent’anni, forse meno, cit. p. 28.




INFAUSTA COINCIDENZA

E pensare che un anno prima, nello stesso giorno, Maria Bergamas era stata chiamata a scegliere tra undici bare quella del Milite Ignoto. Una scelta, passata alla storia come “Rito di Aquileia”, che dette inizio al viaggio verso Roma – cinque giorni e 800 chilometri in treno percorsi in più tappe – per la sua traslazione al Vittoriano, dove venerdì 4 novembre 1921 fu solennemente tumulata nell’Altare della Patria.
L’anonimato di quella salma riuscì a trasformare la disperazione del singolo in lutto collettivo e da subito il Milite Ignoto assurse a simbolo dell’identità nazionale, a luogo della Memoria di un popolo, fatto di gente comune, unito nel desiderio di dimenticare la Grande Guerra e le sue tra-gedie.
Una memoria tuttavia assai labile, che vide la sospirata identità nazionale ispiratrice di un nuovo “viaggio”. Quella Marcia su Roma cui dette un fondamentale contributo lo squadrismo toscano. Una regione, la nostra, ormai “fascistissima” dove in men che non si dica, superato il “Biennio rosso”, quel “colore più cupo” era “virato al nero”. I fascisti toscani mobilitatisi per Roma furono circa 14.000, equivalenti a oltre l’85% del totale (16.500 unità): 2.200 proveniva-no dalla provincia di Firenze, 1.100 da Arezzo, 1.500 dalla Lucchesia, 1.600 dal Grossetano, 3.000 dalla sola città di Livorno, 2.450 dal Pisano, 1.500 dal Senese e 700 dall’attuale territorio di Massa-Carrara. (da Andrea GIACONI, La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla Marcia su Roma alla notte di San Bartolomeo, Foligno, Il Formichiere, 2019)
Anche la Val di Cecina, dove l’influente Piero Ginori Conti, a tutela dei suoi interessi, fin dall’ottobre 1920 aveva costituito il “Fascio X” (poi Fascio di Larderello), avvalendosi delle “prestazioni” di squadristi fiorentini capeggiati da Giuseppe Fanciulli, uomo di fiducia di Dino Perrone Compagni, plenipotenziario del fascio toscano, non mancò di offrire il proprio contributo.
Montecatini, paese dalle tradizioni rosse ma ormai fascistizzato grazie anche alle scorribande squadristiche, nonostante fosse retto ancora da una Amministrazione socialcomunista, sembra-va intuire l’avvicinarsi dell’ora della “rivoluzione” e si preparava così.

FESTA FASCISTA, 17 ottobre (ritardata)
Domenica (15 ottobre) furono inaugurati il Gagliardetto di questa Sezione Fascista e la Fiamma della squadra «Guido Mori». Il paese era tutto imbandierato di tricolore e adorno di festoni (con) scritte patriottiche ed inneg-gianti al fascismo.
Alle ore 9 incominciarono a giungere i primi camion di camicie nere e azzurre dai paesi vicini, ricevute dalla locale squadra fascista e dal Corpo musicale paesano.
Alle ore 10,30 agli squilli di tromba tutte le squadre, musiche ed associazioni si raccolsero in Piazza Vittorio Emanuele per avviarsi in corteo al luogo dell’inaugurazione,
Il Segretario Politico del Fascio locale sig. Mazzolli-Manzi David presentò l’oratore Tenente De Franceschini il quale pronunciò un vibrante discorso ripetutamente applaudito; lo seguì la madrina del Gagliardetto, la leggiadra signorina Mori Lorenza, che tra vivi applausi fece la consegna all’alfiere Martini Ernesto il bellissimo e ricco ga-gliardetto.
Indi parlò la signorina Borghi Fernanda madrina della Fiamma di squadra, «La Guido Mori», la quale ha pronun-ciato il suo discorso con disinvoltura, anche essa applauditissima; appena ebbe consegnata all’alfiere Ivo Lenci la «Fiamma» prende la parola il capitano Bruno Santini della Federazione Fascista provinciale e il poderoso avvin-cente discorso (fu) interrotto spesso da approvazioni e da nutriti applausi.
Terminata la cerimonia, il lunghissimo corteo fece il giro di tutto il paese al canto di «Giovinezza».
Abbiamo notato nel corteo il Fascio locale, Avanguardia e Fascio di Volterra, Fascio Femminile di Volterra e Avanguardia, Fascio e Musica di Laiatico, Nazionalisti di Saline, Fascio e Musica di Orciatico, Fascio di Saline, Fa-scio di Villamagna, Nazionalisti di Sassa, Sezione Combattenti, Società Filarmonica e Corpo Musicale locali, So-cietà Artigiana e Sindacato politico locali.
Alle ore 12 ebbe luogo un banchetto a tutte le rappresentane convenute.
Nessun incidente, il più schietto entusiasmo (da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 44, 29 ottobre 1922).

Inquadrati nella III Legione Maremmana, I Coorte, I Centuri, I Manipolo, III e IV Squadra comandate da Gherardo Maffei e Guido Dell’Aiuto, i marciatori volterrani furono 70. Nel II Manipolo, I Squadra comandata da Sisto Giannelli, erano iscritti 19 marciatori di Villamagna; nella II Squadra comandata da Cesare Becorpi, 29 salinesi, e nella III Squadra comandata da Rodolfo Bianchi, 20 montecatinesi.
– La squadra dei “marciatori” montecatinesi, appartenenti alla III Squadra del II Manipolo (de-curione, Baroncini Livio) della I Centuria (centurione, Ambrosino Magdalo) della I Coorte (se-niore, Paolo Pedani) della III Legione Maremmana (console, Piero Pelamatti), era composta da Bianchi Rodolfo, Bartolini Rodolfo, Bartolini Verdi, Berti Giuseppe, Cavicchioli Francesco, Ceppatelli Giuseppe Pietro, Colò Mario, Demi Alfredo, Francalacci Guido, Giaganini Raffaello, Giuntini Primo, Lenci Francesco, Lenci Ivo, Magozzi Secondo, Marsili Furio, Martini Ernesto, Mori Francesco, Rossi Narciso, Sarperi Ferdinando, Staccioli Tranquillo.
– Sempre nel II Manipolo, la I Squadra comprendeva 19 uomini di Villamagna: Giannelli Sisto, Baldini Igino, Bernardeschi Dario, Busdraghi Alberto, Busdraghi Paolino, Gori Ugo, Gronchi Dante, Gronchi Nello, Mannucci Gualtiero, Mazzei Maurizio, Pasquinucci Giuseppino, Pedani Giuseppe, Pedani Mario, Pitti Guglielmo, Simoncini Ernesto, Simoncini Italo, Simoncini Pietro.
– La II Squadra, vedeva arruolati 29 salinesi: Becorpi Cesare, Bardi Dante, Barlettani Ezio, Bar-lettani Raffaello, Bartolini Guido, Bigazzi Angiolino, Boni Carlo, Cappellini Leo, Cardellini Re-nato, De Vespri Arturo, Donati Pilade, Gazzarri Garibaldi, Gazzarri Valfrido, Gori Vittorio, Gotti Carlo, Guerrieri Gino, Manzi Gino, Manzi Giovanni, Meucci Pietro, Morelli Mario, Pa-squaletti Alvaro, Pasqualetti Wladimiro, Pratelli Bruno, Ricca Francesco, Simi Liberato, Tani Giulio, Trovato Orazio, Vannini Natale, Volterrani Guido.
– I volterrani facevano parte invece della III e IV Squadra del I Manipolo (decurione, Cini Gio-vanni). Erano 70: Maffei Gherardo, Dell’Aiuto Guido, Alboni Bruno, Baccerini Libero, Benas-sai Pilade, Berti Argante, Bessi Donatello, Bimbi Bruno, Brogi Esamillo, Cancelli Mario, Canti-ni Guido, Caporioni Dino, Cheli Luigi, Conte Leo, Corrieri Ubaldo, Del Rosso Giuseppe, Del Secco Egidio, Del Testa Secondo, Dello Sbarba Emilio, Duccini Faustino, Fiumi Pietro, Galga-ni Settimo, Gazzanelli Dino, Ghilli Olinto, Ghilli Silla, Ghionzoli Valente, Grossi Dino, Grossi Claudio, Guelfi Guelfo, Guerrieri Gino, Guerrieri Guido, Guidi Guido, Guidi Marcovaldo, Im-morali Giuseppe, Incontri Mario, Inghirami Ennio, Inglesi Umberto, Isolani Emilio, Landucci Lando, Leduc Alberto, Lupetti Antonio, Lupetti Giulio, Lupetti Roberto, Maffei Ascanio, Maf-fei Mario, Maffei Niccolò, Maffei Salinuccio, Maggiorelli Umberto, Mancini Doddo, Mannucci Manfredo, Mannucci Umberto, Mariani Mario, Mechini Federigo, Nerei Guido, Ormanni Or-manno, Pagnini Gino, Pagnini Iacopo, Paolini Renato, Papalini Pietro, Parenti Mentore, Pesa-galli Tersilio, Pini Giuseppe, Piras Giovanni, Raffaelli Guido, Santi Libero, Taddeini Carlo, Tamburini Primo, Tommasini Giulio, Trafeli Giulio.
A questi dobbiamo aggiungere i 20 marciatori di Lustignano (capo squadra, Musi Vincenzo) e 7 di Larderello (capo squadra, Gallori Aldo), appartenenti alla I e II Squadra del III Manipolo (decurione, Bulichelli Enrico).
– Il Fascio di Lustignano era composto da Musi Vincenzo, Baldassarri Fabrizio, Bianchi Ermin-do, Bianchi Ghino, Bianchi Severino, Bocci Boccino, Bulichelli Pietro, Gherardi Dionisio, Ghe-rardi Gherardo, Musi Guglielmo, Musi Licurgo, Musi Spinello, Nasti Gennaro, Nati Raffaello, Pineschi Ugo, Rossi Iroldo, Socci Dante, Spinetti Augusto, Spinetti Guido, Tassi Emilio.
– Mentre il Fascio di Larderello annoverava Gallori Aldo, Alocci Ettore, Chiti Amerigo, Gui-ducci Ugo, Maccanti Pietro, Matteucci Ugo, Rosselli Rodolfo.
Infine la I, II, e III Squadra del IV Manipolo (decurione, De Franceschi Umberto) comprende-vano 23 volontari di Pomarance (capo squadra, Pollina Bartolomeo), 7 di Castelnuovo V.C. (capo squadra, Antonelli Gino) e 10 di Sasso Pisano (capo squadra, Trenti Edoardo).
– Nel Fascio di Pomarance erano schierati Pollina Bartolomeo, Bacci Angiolo, Baldini Giovan-ni, Cappellini Gino, Cavatorta Pietro, Dal Canto Giuseppe, Falcini Cesare, Fignani Giuseppe, Fontanelli Fontanello, Galgani Albano, Galletti Celso, Gazzarri Cesare, Ghilli Leone, Giudici Giordano, Landi Elio, Nichesola Galesio, Pasquinucci Luigi, Pini Enrico, Ristori Pompilio, Ta-ni Ascanio, Taviani Enrico, Zani Antonio, Zoccolini Giulio.
– Il Fascio di Castelnuovo Val di Cecina poteva contare su Antonelli Gino, Menichelli Alfìero, Nardi Ofaleno, Ovidi Piramo, Pierattini Francesco, Talanti Giuseppe, Togoli Domenico.
– Mentre Trenti Edoardo, Aldrovandi Etimio, Battieri Pietro, Baroncini Giulio, Bertini Mode-sto, Casalini Antonio, Chiti Pietro, Fillini Osvaldo, Fillini Remo, Pineschi Tertulliano, Trenti Iacopo costituivano il Fascio del Sasso Pisano. (Da Renzo CASTELLI, Fascisti a Pisa, Pisa, Edi-zioni Ets, 2006)
Alla III Legione Maremmana, erano affiancate la I Legione Pisana e la II Legione “Zoccoli Ser-lupi”: tutte appartenenti alla Colonna Lamarmora.

E qui una piccola postilla per rilevare che la marcia della Legione Maremmana ebbe anche un risvolto un po’ grottesco.
Bloccati per contrattempi diversi a Civitavecchia prima e poi a Santa Marinella, i nostri, così come avvenne per le altre legioni della Colonna Lamarmora, furono in effetti gli ultimi a giungere a Roma il 31 ottobre, quando Mussolini – ricevuto il giorno prima dal re l’incarico di formare un nuovo governo – si era già insediato al potere e la città era ormai invasa dalle altre squadre fasciste.
Non solo, furono anche tra i primi a ripartire, la notte stessa del loro arrivo nella capitale, su ordine perentorio di smobilitare da parte del Duce stesso.
Fra la delusione e l’irritazione per il mancato protagonismo, la Marcia si ridusse quindi a poco più di una scampagnata, che al ritorno in alcune località – e mi si dice anche a Montecatini – fu oggetto di scherno, prontamente rintuzzato dalla retorica fascista.
Mal di poco, i nostri marciatori di quell’impresa poterono parlare con orgoglio per tutto il Ven-tennio (dopo, un po’ meno). Così come fece la Redazione de “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 45. Del 5 novembre 1921:

VITTORIA FASCISTA
Il nostro giornale che ha seguito con simpatia, con fiducia, con ammirazione fervida e sincera, il fascismo, fino dal suo sorgere, ne celebra oggi la piena e assoluta vittoria con la più grande letizia e con la ferma sicurezza che esso saprà ottimamente ricostruire come efficacemente ha saputo compiere l’opera di santa demolizione.
Alle Camicie nere, al genio di Benito Mussolini – duce romanamente grande – l’Italia deve la sua salvezza e dovrà la sua rinascita e il definitivo trionfo.
I primi atti del nuovo Governo infondono un ritmo nuovo alla vita nazionale: il ritmo dei forti.
Finalmente – dopo l’avvicendarsi di governi abulici, inerti, tentennanti, deboli – L’Italia – per merito di Vittorio Emanuele III – ha oggi alla sua testa un Uomo dal pugno di ferro e dalla mente superiore, un Uomo che è espres-sione pura e genuina della nostra razza imperiale!
Salutiamo in Benito Mussolini il continuatore dell’Italia di Vittorio Veneto; diamo a Benito Mussolini adesione piena, completa, entusiastica, incondizionata; stringiamoci concordi intorno al Fascismo trionfante: questo è il dovere di quanti hanno amore e rispetto per la Patria, affetto e devozione per il Sovrano: chi non sente questo dovere è un traditore.
Il Corazziere

Della grande festa riservata a Volterra ai reduci della Marcia e degli entusiastici interventi del commissario prefettizio Filippo Cardelli, del segretario del fascio Gherardo Maffei, del commissario di zona Paolo Pedani e di altri “notabili” ne dà ampia cronaca ancora “IL CORAZZIERE” nelle pagine interne dello stesso numero.
Più modestamente Montecatini, nel suo piccolo – allora non proprio piccolo come adesso – non mancò di acclamare i suoi venti eroici marciatori e la vittoria fascista

Da Montecatini, 7 novembre 1922
FESTE PATRIOTTICHE
Questa popolazione dopo avere con entusiasmo patriottico, con esposizione del tricolore a tutte le abitazioni e cortei salutato la vittoria del Duce Mussolini, accolse e portò in trionfo ricoprendoli di fiori la squadra dei baldi fascisti al suo ritorno da Roma.
Il 4 poi ricorrenza della vittoria fu questa solennemente festeggiata […]. [da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 47 del 17 novembre 1922)

Il giorno della Marcia su Roma segnava l’avvio del Ventennio.
Sarebbero trascorsi solo pochi giorni prima che anche a Montecatini gli Amministratori socialisti si mettessero da parte.
In effetti, dopo il “Biennio rosso”, che aveva provocato reprimende e manifestazioni anche violente contro lo spettro del bolscevismo, nonché il discredito del sindaco “bolscevico” Luigi Lazzerini (con il Congresso di Livorno del 15-21 gennaio 1921 aveva aderito all’opzione comunista) e le sue conseguenti forzate dimissioni nell’aprile 1921, suggestionata dal perdurare delle accuse di antinazionalismo rivolte ai socialisti da coloro che avevano saputo farsi interpreti del-la memoria dei Caduti e del cordoglio dei familiari, la gente non trovava più punti di riferimento nella Giunta guidata da Giuseppe Rotondo. Sindaco facente funzione, che proprio nel novembre 1922 vide venir meno le condizioni per rimanere alla guida del Comune. A seguito delle dimissioni dell’intero Consiglio socialista, il Comune fu guidato per circa due mesi da Giulio Malmusi, commissario prefettizio, e nelle elezioni del gennaio successivo, a compimento della fascistizzazione del potere locale, la lista fascista e nazionalista avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta. In pratica con la Marcia su Roma vide la fine quel dominio socialista che dal 1895 aveva caratterizzato quasi ininterrottamente la guida del Comune.
Infine una curiosità.
Su “IL CORAZZIERE”, sempre nel numero del 17 novembre 1922, nella medesima pagina dell’articolo montecatinese “Feste Patriottiche”, non può non venire all’occhio una “dichiara-zione spontanea” di certo Baroni Bramato.

[…] Trascinato dalla corrente impetuosa, per qualche mese fui semplicemente ascritto nei socialisti unitari; riconosciuto pienamente il mio errore, dichiaro pubblicamente che fin da gennaio 1921 non appartengo più ad alcun partito politico sovversivo, ma che con piacere e volontariamente tengo a far sapere ai lettori del «Corazziere» che mi sento di voler bene alla Patria e pronto a sacrificare me stesso per la salvezza e la gloria d’Italia.

Uno dei tanti ravvedimenti pubblici (ne troveremo altri sia su “Il Corazziere” sia su altri giornali dell’epoca) che caratterizzarono quel non breve periodo di transizione e che avrebbero ripreso campo in occasione del percorso inverso, ossia nel trapasso dalla dittatura fascista alla democrazia, allorché per molti fu ancor più grande la necessità di redimersi.
Ricordar quindi non nuoce. Perché non sempre, anzi raramente, le persone sono come suol dirsi tutte d’un pezzo. Interessi particolari – materiali e talvolta anche affettivi – accentuano la debolezza di noi umani, inducendo spesso all’ambiguità, all’ipocrisia, alla perdita di dignità.

Articolo edito su “La Spalletta”, a. XXXVIII, 20 novembre 2021.