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Le Ville Sbertoli: un manicomio durante l’occupazione nazifascista

Quando si parla delle Ville Sbertoli, si fa riferimento al manicomio della città di Pistoia. Nate come Casa di Salute nel 1864 per volontà di Agostino Sbertoli e divenute poi Ospedale Neuropsichiatrico Provinciale nel 1951, le Ville Sbertoli si ergono come monumenti del passato sull’amena collina di Collegigliato, pochi chilometri a nord della città di Pistoia.

Chiuse definitivamente nel 2011 dopo numerosi cambi d’uso, dalla loro fondazione agli anni Quaranta del Novecento, hanno rappresentato un centro di ricovero estremamente raffinato e rivolto ad una clientela internazionale, cosmopolita, aristocratica e alto borghese proveniente dalle principali città italiane e dall’estero. Ancora oggi, nonostante le varie ristrutturazioni operate a partire dagli anni Cinquanta del Novecento e l’abbandono, colpisce la bellezza architettonica del complesso sviluppatosi secondo i desideri dello Sbertoli in una serie di padiglioni disseminati con uno stile liberty ed eclettico.

Malgrado i cambi di gestione, l’andamento della Casa di Salute prosegue senza discontinuità fino all’avvento del secondo conflitto mondiale, in particolar modo fino all’occupazione tedesca di Pistoia iniziata l’11 settembre del 1943 e conclusasi l’8 settembre del 1944.

Così come altre realtà, Pistoia subisce due drammatiche conseguenze derivanti dall’occupazione: i bombardamenti alleati e le persecuzioni contro nemici politici e persone di stirpe ebraica. Entrambe le vicende influiscono direttamente sull’andamento della Casa di Salute. I tre bombardamenti della città, avvenuti tra fine ottobre 1943 ed inizio gennaio 1944, inducono le autorità della Repubblica Sociale Italiana a trasferire i detenuti del carcere cittadino nei Villini della Casa di Salute. Numerosi furono i prigionieri politici, fra cui alcuni ebrei, che furono reclusi dai nazifascisti all’interno del complesso. Tra questi, vi furono anche i giovani renitenti alla leva della Repubblica Sociale Italiana che il 31 marzo del 1944, condotti alla Fortezza Santa Barbara, subirono la fucilazione.

Le notizie più significative riguardo le vicende all’interno delle Ville Sbertoli, emergono direttamente dall’Archivio dell’Ospedale Neuropsichiatrico di Pistoia, in particolar modo dalla consultazione delle Cartelle Cliniche e dei Registri dei Morti. Nel Registro numero cinque si scopre che il giorno 22 giugno 1944 muoiono cinque uomini originari di Santonuovo per «fucilazione» e che il giorno 16 settembre 1944 viene ucciso, sempre per fucilazione ma con la specifica di «az. guerra», un giovane ragazzo di diciassette anni. Oltre a questi, emergono i casi di T. U., ventinove anni, bracciante, che il giorno 29 luglio 1944, viene «fucilato dai tedeschi» a Tizzana, e di N. E., ventiquattro anni, che il giorno 30 luglio 1944, viene «mitragliato dai tedeschi» nella località di Ponte del Gatto, S. Baronto, Lamporecchio, perendo per «ferite a. d. f. alla testa» (armi da fuoco).

Dalla consultazione delle cartelle cliniche emerge, poi, il fatto che durante il periodo bellico i ricoveri crescono progressivamente e che oltre alle degenze annoverabili pienamente alla malattia mentale, vi sono due ulteriori profili ascrivibili uno alla categoria dei ricoveri derivanti dalla guerra e dai bombardamenti, l’altro a quella dei ricoveri artefatti.

Riguardo i primi, le cartelle ci riportano la vicenda di tre ex combattenti sconvolti psicologicamente dal servizio militare.

Il giovane ventisettenne B. E., fu chiamato il 1° settembre 1938 «sotto le armi e inviato in Libia ove incominciò a soffrire disturbi nervosi tanto gravi che per un mese e mezzo venne ricoverato nell’Ospedale di Bengasi». D. A., ventitré anni, soldato ferito con pensione di guerra «nel 1940 combatté in Russia dove diceva talvolta di sentire delle forze telepatiche. Tornato in Italia rimase per un certo periodo in casa, ma avendo commesso delle stranezze fu internato nell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano (Lucca)». C. G., avendo militato in Montenegro, «ebbe un forte esaurimento in seguito al quale cadde in stato di depressione. Fu rimpatriato con diagnosi di “sindrome depressiva”».

Dall’analisi delle cartelle emergono, poi, numerosissimi casi di ricoveri ascrivibili agli shock da esplosione che testimoniano chiaramente la diretta conseguenza dei tre bombardamenti della città. Le degenze spesso si svolgono nell’arco di pochi mesi e dall’assenza di quasi la totalità della documentazione medica, si comprende come l’allontanamento dalla città in una zona separata dal teatro di guerra, bastasse a lenire la psiche dei ricoverati. Sono persone definite sane la cui condizione di «agitazione» si verifica a seguito dei bombardamenti «vedendo cadere le bombe a poca distanza». Come il caso del commerciante ventunenne T. R., di cui si dice che «a seguito di trauma psichico dovuto allo scoppio di una bomba si cambiò improvvisamente in uno stato di particolare fatuità»; o il caso più dettagliato di P. G., venti anni, che «in uno dei bombardamenti su Pistoia rimase per circa un’ora sotto le macerie dove perirono la madre e i cinque fratellini. Ebbe per questo un forte shock, ma seguitò a lavorare nelle ferrovie. In altro bombardamento fu nuovamente ferito. Da allora egli rimase nel terrore di non poter sfuggire alle incursioni. Durante gli allarmi egli è incapace di qualsiasi iniziativa anche se si tratta di mettersi al sicuro».

Nella categoria dei ricoveri causati dalla guerra sono degni di nota anche due casi di delirio paranoico a sfondo politico e persecutorio, nei quali, a detta dei ricoverati, la persecuzione era messa in atto dai fascisti o dai nazisti.

Come P. M., che «a seguito degli avvenimenti del 25 luglio scorso cominciò ad avere preoccupazione prima, poi addirittura mania di essere arrestato e fucilato. Susseguentemente subentrò autoaccusa, mania persecutiva»; o di B. O. che «subitò un trauma psichico il 2 giugno 1944, per una perquisizione avvenuta in casa sua, cominciò ad avere degli accentramenti ideologici. Poco tempo dopo a causa della morte di un tedesco, profondi rimorsi cominciarono a dar noia al soggetto e dopo, grado a grado, si sviluppò la mania di persecuzione. Dice che è stato condannato a morte e che da un momento all’altro devono venire a prenderlo e giustiziarlo».

Per quanto riguarda i ricoveri artefatti, la figura principale attorno a cui le varie vicende si dipanano è quella del direttore sanitario Marcello Silvestrini. Poche le informazioni che si riescono a ricavare su di lui, ma, grazie al suo silenzioso lavoro di assistenza e solidarietà, firmando ricoveri, tenendo i contatti con le famiglie e allontanando i controlli dei militari dai reparti, permise a molti di eludere l’arruolamento forzato o la deportazione.

Numerose sono le cartelle che al loro interno non presentano alcuna documentazione medica se non i decreti di ammissione e dimissione del tribunale. Ricorre spesso, negli atti del Silvestrini, specie in quelli indirizzati alle famiglie del ricoverato, la formula «al giorno della dimissione Vi terrò informato», o nella cartella clinica, nella sezione destinata ai motivi della dimissione, l’espressione «rilasciato/a per insufficienza titolo». Non è poi casuale il fatto che dei centoundici ricoveri avvenuti durante il periodo d’occupazione nazifascista, ventitré vengano dimessi nei due mesi successivi la liberazione della città, quasi tutti per «insufficienza titolo». Tra questi troviamo il caso di un giovane di ventiquattro anni, R. R, ricoverato con un generico certificato del medico di famiglia, Dott. Aldo Benelli, con l’avallo del comando tedesco datato 1° agosto 1944. Troviamo poi anche alcuni ebrei. Visto l’intento, le cartelle non solo sono prive di qualsiasi documentazione, ma non presentano neppure riferimenti dell’estrazione ebraica degli ospiti; ma, dall’analisi dei cognomi, compare distintamente l’origine ebraica dei ricoverati.

In un caso, quello del paziente D. V., la cartella ci riporta interessantissime e toccanti informazioni. D. V. nato a Charkow, in Ucraina si legge che:

                 Essendo di origine ebraica, le nuove disposizioni di Legge l’hanno obbligato a dimettersi dal posto di Imp. alla Banca e ciò ha influito fortemente sulla sua costituzione nervosa, che non ha mai dato l’impressione di energia. Essendo fortemente esaurito con mania persecutiva, in seguito allo scoppio della guerra (1939-40) viene arrestato come straniero, e le sue condizioni fisiche e psicofisiche ne richiesero il ricovero alla Villa Aprica in Como per circa 2 anni.

 Trasferito alle Sbertoli, gli viene redatta la diagnosi di neuropsicastenia, malattia caratterizzata da stanchezza, malinconia e depressione. Viene rilasciato per impossibilità di sostenere la retta. Una toccante lettera del 1958 da lui scritta indirizzata direttamente al Silvestrini – segno evidente di quanto il suo operato significò per la sua vita – riporta:

                 Io lasciai le Ville Sbertoli nel Luglio 1946 […] in attesa e nella speranza di poter ritrovare la mia famiglia, dalla quale ero stato separato dagli eventi della guerra. Purtroppo però, ciò non è avvenuto, in quanto riuscii a sapere poi che mia madre e mia sorella, deportate dai nazifascisti in Germania ed ivi rinchiuse in un campo di concentramento e sterminio, vi trovarono la morte, dopo infinite sofferenze […]. Recentemente è stata emanata in Italia una legge che concede un sussidio di benevolenza (una specie di pensione) da parte dello stato, a favore di coloro che sono stati vittime di persecuzioni politiche e razziali in regime fascista e a causa di tali persecuzioni hanno contratto malattie, per effetto delle quali hanno perduto o visto menomata la loro capacità lavorativa. Ho presentato la relativa Domanda ed ora mi è stato richiesto di corredarla con un Certificato Medico, della Casa di Cura, dove sono stato ricoverato.

 Nonostante il Silvestrini non fosse più direttore delle Ville Sbertoli, dal manicomio di Perugia, dove si era trasferito, si adopera, ancora una volta, per la situazione di uno dei suoi ex pazienti, facendo richiesta al nuovo direttore. Non rimase inascoltato: dagli incartamenti risulta che il nuovo direttore si adoperò per la produzione del certificato «per uso pensione» riportando fedelmente tutti i dati del paziente. Se, infine, D. V. abbia ottenuto effettivamente il sussidio, questo, purtroppo, non emerge.

Mattia Eleni ha conseguito il Diploma di Liceo Classico presso il Liceo Statale Niccolò Forteguerri di Pistoia, quindi la Laurea Triennale in Storia presso Università degli Studi di Firenze, attualmente è studente di magistrale di storia all’Università di Pisa. 




La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento

A distanza di 72 anni dal 10 febbraio 1947, trattato di pace (1) scelto quale data simbolo per ricordare le tragedie del “confine difficile”, a 15 dalla legge che ha inserito nel nostro calendario civile il “giorno del ricordo”, torna la denuncia di un silenzio troppo lungo. Eppure, scriveva un decennio fa Enzo Collotti, la storiografia italiana avrebbe potuto raccogliere stimoli importanti da studi rimasti circoscritti all’ambito locale, ma che già negli anni Sessanta avevano cominciato ad inscrivere «con rigore […] il problema della Venezia Giulia nell’orizzonte europeo e nella proiezione balcanica della politica italiana»(2). Rimane il vulnus di un ritardo, da cui ereditiamo ancora le tracce di un grumo di rimpianti e amarezze, malgrado l’ultimo ventennio ci consegni una fioritura di opere importanti, e la possibilità di un approccio capace di impedire alle memorie di coltivare rancori.

Le voci raccolte nel documentario appena prodotto La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento (3) ne danno testimonianza. È l’ultimo esito di un progetto che ha avuto come momento-chiave un viaggio sui luoghi, ma raccoglie l’eredità di un lavoro lungo un quindicennio, passato attraverso l’esplorazione di fonti documentarie, testimonianze ed esperienza diretta dei segni di memoria o di oblio, rimasti tra Istria e Venezia Giulia (4). A questa intersezione di storie diverse e di lungo periodo è universalmente attribuito il carattere di “complessità”, proprio di ogni segmento di storia, ma qui con qualche ragione in più. In un breve arco cronologico, in uno spazio limitato, si sono addensati gli esiti di fenomeni spiegabili solo recuperandone le radici plurisecolari e con il filtro di uno sguardo sullo scenario del Novecento europeo.

Con la conoscenza storica, si ripete con insistenza, è possibile dare una spiegazione alle ragioni di una geografia politica, che registra le infinite variazioni del “confine mobile”. Se ne può raccontare la storia con i documenti della diplomazia che stabilisce chi sta di qua e chi di là del confine, verificando su carte storico-geografiche le linee che separano, comparandole ai mutamenti di altre frontiere fra Stati dell’Europa del Novecento. Sulle carte i nomi sono un altro indizio: nell’Istria ora italiana ora jugoslava, oggi italiana, croata e slovena, una città è Albona o Labin, Pisino o Pazin, Parenzo o Porec. Si fa storia anche con opere della grande letteratura di confine, che dà voce con un altro linguaggio al vissuto delle popolazioni, al sostrato di sofferenze che le verità della diplomazia e della geografia non registrano. È particolarmente attuale un libricino di Guido Crainz, storico, precoce contributo all’iniziale lavoro di uscita dalla stagione delle rimozioni. Nel 2005 mise Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa nelle mani di lettori comuni e di insegnanti, dal 2005 chiamati per legge a introdurre nei curricoli il “laboratorio della storia del Novecento”, violenze di guerra fra Stati e guerra civile, un sistema concentrazionario plurale, le foibe e l’esodo, non come “libro di storia, [ma] quaderno di suggerimenti, di consigli di lettura”. Crainz proponeva testi della letteratura europea che spezzava “vecchie incrostazioni”, rischiando di generare la “insicurezza che può nascere quando si devono abbattere i muri di dentro”, scommettendo sul superamento della “paura della storia” (5).

Tante di queste fonti sono state un viatico al lavoro nella scuola, per incoraggiare la conoscenza e la coscienza di una storia indispensabile a formare cittadini italiani ed europei. Nel corso del tempo, si è aggiunta l’esperienza dei luoghi, tentativo di arricchire una pedagogia della memoria attraverso l’abbondanza o l’assenza di segni rimasti. Nelle città della Venezia Giulia e dell’Istria, gli studenti hanno scoperto monumenti e lapidi, segni della memoria collettiva, nel tempo mutevoli. Gonars, in Friuli Venezia Giulia, campo di concentramento per slavi, rastrellati a partire dal 1942 nella Slovenia, occupata dal regime fascista, è un ologramma della storia della memoria: un vuoto nella memoria dell’Italia, responsabile non come popolo ma come Stato invasore, riempito da pochissimi anni da una monumentalizzazione dell’area del campo; poco distanti, nel cimitero, tre memoriali: jugoslavo il primo, seguito, dopo l’esplosione delle nazioni, dal tributo sloveno e croato alle vittime. Questi campi sono solo un episodio delle violenze italiane nei Balcani, da tempo uscite anch’esse dall’elenco delle storie rimosse (6).

A Goli Otok, l’Isola calva, né Jugoslavia né Croazia hanno ancora riconosciuto il dovere della memoria per le violenze subite dai prigionieri, in maggioranza italiani, di un campo, voluto per isolare e punire la dissidenza dalla Repubblica jugoslava di Tito (7). A Basovizza, è in memoria delle foibe il monumento, grandioso nelle dimensioni e nella forma – un enorme patibolo –, destinato ad evocare simbolicamente il riconoscimento tardivo delle violenze subite da italiani (8).

Le pietre monumentali di Redipuglia, rappresentando generali e soldati dell’esercito italiano, schierati come sul campo di battaglia, sono la tappa che può iniziare o concludere il viaggio sui luoghi. A guidare visitatori abbagliati dalla spettacolarità, è uno storico, Franco Cecotti. Racconta di due monumenti: il primo, più sobrio ricordo consegnato alle famiglie dei soldati morti, il secondo, retorica esaltazione del morire in guerra, per offuscare i lutti privati con l’orgoglio delle morti eroiche. Tappa indispensabile, dice l’taliano d’Istria Livio Dorigo, per capire (e sentire) l’inutile strage: «per andare un po’ avanti e un po’ indietro nella linea del confine […] quanti uomini morti per niente» (9).

Dorigo nel 2009, anno del primo viaggio di studio per insegnanti, a Padriciano offrì una prova involontaria di quanto possano essere diverse e conflittuali le stesse memorie delle vittime. Due opposte narrazioni della profuganza non impedirono ai visitatori di percepire l’offesa subita dai profughi, privati di case e mobili, oggetti e spazi, per una promiscuità imposta dall’affollamento di tante famiglie. Vi aggiunsero una riflessione sulla memoria, trattata quasi sempre come grimaldello per forzare l’ingresso nel passato, come se bastasse ricordare per fare i conti con la storia (10).

Padriciano (foto di L. Zannetti)

Campo profughi di Padriciano (foto di L. Zannetti)

Lo abbiamo incontrato di nuovo, a Trieste, quando ha cominciato a prendere forma l’idea di un documentario diverso dal primo (La nostra storia e la storia degli altri. Il confine orientale nel Novecento), in cui il nostro testimone privilegiato racconta il tempo lungo della sua vita. Profugo nel 1947 da Pola, parla del viaggio della sua famiglia verso il Villaggio giuliano di Roma, fino al ritorno, a Trieste. Ma il tempo del racconto va oltre il suo vissuto sul confine: inizia dal Risorgimento, dal bisnonno democratico, volontario nel 1848 per la Repubblica di Venezia, e arriva alla descrizione di un’associazione istriana, dal logo che ha colori dell’arcobaleno. L’adolescenza nella Pola fascista, la rivelazione della vera natura del fascismo l’8 settembre, il battesimo dell’orrore della guerra con l’impiccagione di un italiano (la eseguono giovanissimi soldati tedeschi), lo spaesamento della famiglia, sbattuta fra le violenze nazifasciste e la prepotenza di capi partigiani slavi. Alle foibe, il suo discorso arriva con fatica: un tutt’uno con la profuganza, scelta dolorosa come può esserlo l’abbandono di tutto, compresa l’identità. Sono sue le parole scelte per il titolo del documentario. Livio Dorigo le ha pronunciate a margine della sua idea dell’Istria omogenea per cultura, oltre l’artificio di frontiere, e dell’immagine del Mediterraneo, “mare che unisce”, mentre spiega le ragioni di un rigoroso antinazionalismo. Di famiglia italianissima da quasi due secoli nell’area, lui stesso si dichiara fino in fondo italiano, per tradizione, lingua e scelte culturali. Ma il dolore dell’esilio, forte nel ricordo e mai scomparso, ha un suo stile, diverso da quello che affiora in altre testimonianze raccolte nel viaggio, distinguendosi soprattutto perché esprime con una convinzione contagiosa la speranza nel futuro di un’Europa solidale. Stessa proiezione su un futuro di dialogo fra culture scopre chi cerchi a Fiume i segni delle relazioni tra la minoranza italiana e maggioranza croata.

Quella di Dorigo è come altre una memoria individuale. Quella collettiva si è espressa quest’anno con rituali identici, ma accenti nuovi, rimodellata dall’attualità, carica di pericolose tensioni. Sono tornate memorie rancorose, fratture che sembrano voler riportare indietro, all’epoca dello scontro, e “mettere in secondo piano” gli storici. Un commento sulla stampa dello storico Giovanni De Luna conclude amaramente la ricostruzione delle tappe che hanno condotto all’istituzione e alla celebrazione del Giorno del Ricordo fino a quest’anno:

Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così ora: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti (11).

Colpisce il dualismo fra la dimensione culturale di questo appuntamento civile e la liturgia celebrativa, quasi che la lunga strada percorsa dal gran lavoro sulla storia del confine difficile – scientifico, divulgativo, di pedagogia della memoria – non sia stata capace di incidere abbastanza da impedire un ritorno alla pericolosa semplificazione dello scontro su carnefici e vittime di foibe ed esodo.

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Ha stupito gli storici l’uso della categoria di “pulizia etnica” (12), come spiegazione delle violenze e degli infoibamenti senza distinguo o sfumature, in discorsi istituzionali di alto livello. Alcuni toni hanno quasi raggiunto lo stadio dell’incidente diplomatico con gli Stati balcanici, mentre alcune istituzioni locali in qualche caso si sono lasciate andare ad una politicizzazione esplicita. Sarebbe interessante oltrepassare la citazione di episodi e raccogliere dati, utili a capire il tempo presente, se e come stanno cambiando culture della memoria e strategie, quanto fecondo o più complicato è diventato il rapporto storia-memoria, se le attuali politiche memoriali hanno una reale funzione civile…

Guardando le cronache toscane, si trova grande varietà di forme nelle celebrazioni istituzionali. Ha prevalso l’invito a testimoni, nelle sale consiliari; è fatto normale, comune alla Giornata della Memoria, la presenza – residuale oggi, per la scomparsa dei testimoni – di ex deportati, politici o razziali. Per il Giorno del Ricordo, non sempre le istituzioni hanno badato a scegliere in modo da garantire rispetto per la solennità implicita nei luoghi delle cerimonie. A Pistoia, un’esperienza positiva: è stato l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea a proporre ed avere accolta dall’Ente locale una targa in ricordo dell’esodo. Il Comune di Siena ha fatto una scelta inedita e funzionale ad accrescere l’inquinamento delle ricostruzioni storiche, facendo prevalere altre, diverse ragioni: volendo unire memoria e ricordo, si sono mescolati deportazione ed esodo, Shoah e foibe, affidando per il 10 febbraio una lectio magistralis a Franco Cardini, storico noto per altri studi, non specialista dell’uno o dell’altro argomento. I consiglieri hanno ascoltato, dentro la lunga lezione, una (forse inattesa) severa contestazione verso chi ha usato la categoria di pulizia etnica.

Anche la Toscana ha accolto profughi (13), conserva segni di questo e di altri fatti, noti e studiati o da approfondire. La memoria dei luoghi è come altrove specchio di un complicato intreccio. Meno fitta che altrove è la mappa dei campi di internamento per slavi, allestiti dall’Italia durante la guerra fascista; più tardi, furono i campi di raccolta ad ospitare esuli giuliani e istriano-dalmati, talvolta in spazi già utilizzati come campi di prigionia, talvolta nel centro delle città, come a Lucca.

Si è molto arricchita la bibliografia sulla Toscana negli anni. La disseminazione degli esiti dei progetti rivolti alla scuola ha dimensioni importanti. Il documentario, ultimo strumento per la didattica, ha già avviato il suo cammino.

NOTE
1 Firmato a Parigi, conclude la seconda guerra mondiale ridisegnando il confine orientale. Sarà definitivo l’abbandono di terre istriane e dalmate, provvisoria l’istituzione del territorio libero di Trieste, zona A con amministrazione anglo-americana, zona B jugoslava. Definitivo nel 1975, con gli accordi di Osimo, il passaggio della zona B alla Repubblica di Jugoslavia.
2 E. Collotti, Introduzione, in T. Sala, Il fascismo italiano e gli slavi del sud, Tipografia Adriatica, Trieste 2008, p.11.
3 Regia di L. Zannetti, consulenza storica di L. Bravi e L. Rocchi, produzione Regione Toscana, ISGREC e ISRT, 2019.
4 Dal progetto Per la storia di un confine difficile: l’alto Adriatico nel Novecento (Regione Toscana-rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea) sono nate la summer school per insegnanti nel 2017, altre iniziative sul territorio e, nel febbraio 2018, il viaggio di studio per 50 studenti e 25 insegnanti toscani.
5 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, pp. 3-5.
6 Cfr. C. Di Sante, Italiani senza onore, Ombre corte, Verona 2005; E: Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Carocci, Roma 2007.
7 Cfr. C. Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra in Jugoslavia, Ombre corte, Verona 2007.
8 Troppo ampia la bibliografia sulle foibe per una scelta. Si rinvia al documentatissimo sito dell’Istituto storico del Friuli-Venezia Giulia https://www.irsml.eu.
9 Intervista a Livio Dorigo di Luca Bravi e Luigi Zannetti, Trieste, 9 febbraio 2018.
10 C’è una letteratura ricca di riflessioni su memoria individuale-collettiva e su costi e benefici delle politiche della memoria della Repubblica italiana, prodiga negli ultimi decenni di date per un calendario civile giudicato utile, ma troppo fitto. Non pochi storici si sono cimentati su questi argomenti tirandone conclusioni diverse. Non è il più recente, ma quello che appare a chi scrive più interessato a scavare sulla data di cui si tratta qui è G. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011.
11 G. De Luna, La storia utilizzata come un randello nel confronto politico, “La Stampa”, 10 febbraio 2019.
12 Nel sito web dell’Istituto regionale del Friuli-Venezia Giulia associato al Parri nazionale una sintetica spiegazione delle ragioni per cui sarebbe errato parlare di pulizia etnica. In Istria fu la categoria di “nemico del popolo” a guidare le violenze ordinate dai comandi delle brigate titine, mentre per le foibe giuliane “… l’obiettivo del governo jugoslavo non era quello di cacciare gli italiani dalla Venezia Giulia, ma di mobilitarli a forza nella lotta per l’annessione della regione alla Jugoslavia. Questo perché Stalin aveva esplicitamente chiesto ai rappresentati jugoslavi di corroborare le loro rivendicazioni territoriali con il consenso della popolazione, anche italiana. Naturalmente, non occorreva che tale consenso fosse spontaneo. Le stragi quindi, oltre all’intento punitivo, ne avevano altri due: decapitare la società della sua classe dirigente, fedele all’Italia, ed intimidire la popolazione italiana, affinché non si opponesse all’annessione”.
13 C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i “centri di raccolta profughi in Italia (1945-1970), Ombre corte, Verona 2011.



I profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto

Il progetto “Per la storia di un confine difficile. L’alto Adriatico nel Novecento” della Regione Toscana (2017-2018)

Dalla prima applicazione della legge istitutiva del Giorno del Ricordo, avvenuta nel 2004, la Regione Toscana fu tra le prime in Italia a prendere a cuore il diritto a una cultura storica per la scuola su temi che entrarono da allora nel calendario civile nazionale. Così hanno cominciato ad entrare in classe le storie e le memorie dolorose del confine più difficile del Novecento italiano, a lungo rimaste patrimonio quasi esclusivamente locale. Gli insegnanti e gli studenti delle nostre scuole hanno insegnato gli uni, imparato gli altri la complessa storia del confine orientale “laboratorio della storia del Novecento”; si sono avviati verso la conoscenza dei luoghi delle foibe istriane e giuliane, di un sistema concentcover_summerrazionario ologramma delle violenze del Novecento, del lungo esodo delle popolazioni istriano-dalmate. Hanno intravisto gli spostamenti di un “confine mobile” e il lungo periodo di gestazione delle violenze, partorite da nazionalismi, guerre, forme di razzismo.

Nel 2017 un progetto sperimentale, frutto della collaborazione tra Regione Toscana, rete degli istituti storici toscani della Resistenza e dell’età contemporanea e Ufficio scolastico regionale, ha promosso un intervento sistematico: Summer school per insegnanti di scuola superiore, selezionati tramite bando, in preparazione del viaggio di un piccolo gruppo di studenti nei luoghi di memoria dell’area giuliana e istriana, preceduto e seguito da altre iniziative di formazione. La conoscenza storica ha un duplice valore, quando si trattano temi di tale delicatezza: è sapere ed educazione alla cittadinanza. Il programma della Summer school ha posto al centro eventi solo in apparenza racchiusi in un tempo breve e in un territorio limitato, ma appartenenti a una storia europea di lungo periodo. Un sovrappiù di valore è dato a questa iniziativa dal rilievo che hanno assunto, tra la fine del secolo scorso e il tempo presente, la riproposizione di violenze nell’area balcanica e, più recente, la questione dei confini tra popoli, Stati, culture.

Un ulteriore seminario formativo si è avuto a Siena (novembre 2017), nel corso del quale sono intervenuti il Presidente Antonio Ballarin ed esponenti della Federazione italiana degli esuli istriano-fiumano-dalmati. fra cui Marino Micich, Direttore dell’Archivio museo storico di Fiume. Altri ne seguiranno nei prossimi mesi.cover viaggio

Dal 12 al 16 febbraio 25 insegnanti e 52 studenti, accompagnati da rappresentanti della regione Toscana e della rete degli istituti storici toscani della resistenza, saranno sui luoghi del Confine. Redipuglia, Trieste, Gonars, Basovizza, Padriciano, Fiume, Albona e Fossoli saranno le importanti tappe di un viaggio durante il quale studenti e docenti avranno modo di incontrare studiosi e testimoni e di confrontarsi con studenti italo sloveni.

L’Istituto storico di Grosseto lavora sul Confine orientale da 14 anni. A una prima pubblicazione di materiali didattici sono seguiti convegni, eventi, ricerca. Ha organizzato, sempre per conto della Regione Toscana, un primo viaggio per un piccolo gruppo di insegnanti toscani nel 2009, narrato nel documentario “La nostra storia e la storia degli altri. Viaggio intorno al confine orientale“, e una mostra con lo stesso titolo che è stata esposta in tutta Italia (a Grosseto per ben due volte nei locali della Prefettura) e che si avvale dal febbraio 2017 di un catalogo bilingue, curato da Luciana Rocchi. Ultima pubblicazione, l’ebook del 2017 liberamente consultabile con gli esiti della ricerca pluriennale di Laura Benedettelli sui profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto.

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L’esodo dalle terre di confine.

L’esodo dei giuliani, istriani, fiumani e dalmati, a differenza di quanto accadde per altre popolazioni di confine al termine del secondo conflitto mondiale, non fu la conseguenza di formali provvedimenti di espulsione, ma il frutto di una scelta, talvolta compiuta in forma ufficiale ricorrendo all’esercizio del diritto di opzione, previsto prima dal Trattato di Pace del 1947 e poi dal Memorandum di Londra del 1954, tal altra sul piano di fatto mediante il ricorso all’espatrio clandestino. Quello che avvenne nell’area dell’alto Adriatico fu comunque un fenomeno di espulsione di massa dovuto non a precise leggi, ma a forti pressioni ambientali che si erano venute a creare verso gli italiani e che ebbero di fatto la stessa efficacia di un decreto di espulsione.images

Le partenze dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia iniziarono prima della fine del II conflitto mondiale e della firma del Trattato di pace: da Zara avvennero quando la guerra era ancora in corso, sotto la spinta dei bombardamenti alleati; da Albona, Cherso, Veglia, Lussino e, in genere, dalle località dell’Istria meridionale, dove l’annessione alla Jugoslavia apparve più probabile, i profughi partirono con mezzi di fortuna sin dall’estate 1945. Fu però proprio in seguito alla firma del Trattato di pace che il fenomeno assunse carattere di massa.

fdr12gL’abbandono di questi territori, inoltre, non avvenne in un periodo di tempo limitato, ma si presentò come un fenomeno di portata temporale abbastanza lunga, superiore ai dieci anni, che ha portato a parlare di un “lungo esodo” e, secondo alcuni storici, di “esodi”, per distinguere le diverse fasi di uno stesso fenomeno migratorio, le cui varie ondate sono riconducibili a eventi precisi.

Un primo spostamento di popolazione si ebbe infatti a partire dal 1943, cioè nel momento in cui si verificò la prima ondata di infoibamenti nel centro dell’Istria, per poi riprendere nel 1945, quando, dopo che la IV Armata jugoslava nel mese di maggio aveva occupato Trieste, Gorizia e Fiume, si verificò una seconda ondata di infoibamenti, che spinse molte altre persone ad abbandonare le città.

La firma dell’accordo di Belgrado, che stabilì la linea Morgan fu un ulteriore momento in cui molti italiani decisero di abbandonare le località temporaneamente assegnate alla Jugoslavia, che in pratica considerava tali territori come annessi di fatto. Vi era comunque chi nutriva ancora la speranza che, con la definizione del Trattato di pace, queste terre tornassero a tutti gli effetti sotto l’Italia, ma quando tali speranze vennero definitivamente annientate si verificò una ripresa dell’esodo che si protrasse per più anni.image_gallery

L’esodo, come spiega anche Guido Crainz, fu dunque in stretto rapporto con questo alternarsi di speranze e delusioni che accompagnarono gli anni in cui le potenze definirono a tavolino i confini e quando i confini furono definitivamente decisi e impressi sulla carta, nero su bianco, l’esodo non ebbe più freni.

Furono migliaia i profughi che, partiti dalle tante località poste al di là del confine, vennero ospitati nei Centri di Smistamento, per poi approdare, per uno o più anni, nei Centri di Raccolta Profughi, prima di trovare una sistemazione definitiva.

Un problema con il quale dovettero confrontarsi i profughi a fine guerra fu quello molto complesso del riconoscimento delle cittadinanze, per cui si rese necessario inserire nel testo del Trattato di pace delle norme che riguardavano proprio la “gestione delle cittadinanze”.

0007179L’Articolo 19 del Trattato riguardava espressamente i cittadini italiani e prevedeva che sarebbero diventati automaticamente cittadini jugoslavi tutti coloro che, al 10 giugno 1940, fossero stati domiciliati nel territorio ceduto dall’Italia alla Jugoslavia, clausola che valeva anche per i figli nati dopo quella data. Essi avrebbero pertanto perso la cittadinanza italiana e sarebbero diventati a tutti gli effetti cittadini dello Stato subentrante, cioè della Jugoslavia. La cosa interessò le migliaia di italiani che erano nati e che vivevano da sempre in queste zone o che vi si erano recati per motivi di lavoro.

Proprio per ovviare a questo problema e concedere una libertà di scelta, il Trattato prevedeva che lo Stato al quale il territorio era stato trasferito, la Jugoslavia, avrebbe dovuto predisporre, entro tre mesi dall’entrata in vigore del Trattato stesso, perché tutte le persone di età superiore ai diciotto anni (e tutte le persone coniugate, sia al disotto od al disopra di tale età) la cui lingua d’uso fosse l’italiano, avessero la facoltà di optare per la cittadinanza italiana, entro il termine di un anno dall’entrata in vigore del Trattato stesso. Le persone che avessero optato in tal senso avrebb2h3v5hvero potuto così conservare la cittadinanza italiana. La Jugoslavia, alla quale il territorio era stato ceduto, poteva esigere, come di fatto avvenne, che coloro che si avvalevano del diritto di opzione si trasferissero in Italia entro un anno dalla data in cui questo era stato esercitato.

Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva dunque il diritto di opzione: optare significava scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significava di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significava in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo.

L’arrivo dei profughi a Grosseto.

Come riportato da Amedeo Colella in L’esodo dalle terre adriatiche. Rilevazioni statistiche, in Toscana, dove erano stati organizzati 10 tra campi profughi e Centri di accoglienza, arrivarono 6.074 profughi, di questi 252 giunsero nella provincia di Grosseto.

Qui, dove non era stata allestita nessuna struttura, l‘arrivo dei profughi avvenne nel corso di un periodo abbastanza lungo che andò dal 1943 al 1975, due gli anni che registrarono la maggiore affluenza: il 1946, con 41 arrivi, e il 1955 quando si registrarono 57 arrivi. Molti di loro erano transitati dal Centro Smistamento di Udine e dai Centri di Raccolta di Servigliano (allora in provincia di Ascoli Piceno, oggi di Fermo) e di Laterina, in provincia di Arezzo.

Centro Raccolta Profughi di PadricianoDei profughi arrivati nella nostra provincia 110 abitarono, per periodi più o meno lunghi, a Grosseto, dove molti profughi di seconda generazione risiedono ancora, a cui andarono ad aggiungersi altri 14 che, inizialmente residenti in altri comuni della provincia, dopo pochi anni si trasferirono nel capoluogo. Contemporaneamente avvennero anche alcuni trasferimenti in senso inverso, cioè dal capoluogo verso le varie località della provincia. Dopo Grosseto, le località verso le quali si indirizzarono in misura maggiore furono Massa Marittima, Ribolla, Follonica, Orbetello e Roccastrada.

Lo Stato si preoccupò abbastanza presto di precisare chi dovesse essere definito “profugo”.

Una delle prime circolari che vennero inviate ai Sindaci dei vari Comuni fu la n.892 del 28 novembre 1944 che riassumeva le disposizioni che erano state emanate dall’Alto Commissariato per i Profughi di Guerra e che erano state indirizzate ai Prefetti delle varie Province. In essa si faceva espresso riferimento alla qualifica di profugo di guerra che al momento doveva essere attribuita solamente a coloro che in seguito ad orrendi eventi bellici si sono trovati nella necessità di doversi trasferire in luoghi diversi dalla loro abituale residenza o che per ragioni contingenti non possono farvi ritorno. A questa data pertanto ricevettero la qualifica di profugo di guerra tanto gli italiani che iniziarono ad abbandonare le zone del Confine orientale, sottoposte in questo momento alla pressione tedesca, quanto gli italiani costretti ad abbandonare le zone che dopo l’8 settembre 1943 e dopo gli sbarchi alleati nel sud Italia diventarono zone di operazioni di guerra.

Per quanto riguardava l’Assistenza a favore dei profughi, tra le varie disposizioni in materia, il 4 marzo 1952 venne promulgata la Legge n.137, che prevedeva, tra le altre cose, la riserva del 15% degli appartamenti costruiti dagli IACP ai profughi, dando la precedenza a quelli ricoverati nei Centri di Raccolta dipendenti dal Ministero dell’Interno e, successivamente, agli assistiti fuori Campo. In base a tale legge, a Grosseto vennero costruiti vari alloggi, tra questi il lavoro più significativo riguardò l’edificazione, in quella che oggi è Piazza Albegna, di un palazzo ancora presente nella piazza.1441878909-esulegiuliana

Il 22 luglio 1952, e quindi a quattro mesi dalla emanazione della Legge n.137, il Sindaco della città Renato Pollini (1951-1970) venne informato dal Prefetto che il Ministero dell’Interno aveva disposto la costruzione a Grosseto di un gruppo di abitazioni per la sistemazione dei profughi, per un totale di 100 appartamenti di varia ampiezza, pregava quindi di sottoporre al successivo Consiglio comunale la possibilità di cedere gratuitamente l’area necessaria. Non disponendo il Comune di terreni propri, questi dovevano essere necessariamente acquistati mentre, per quanto riguardava i servizi pubblici, il Comune poteva e doveva impegnarsi ad assicurarli. Venne costituito un Comitato cittadino che dette vita ad una sottoscrizione per raccogliere la somma occorrente per l’acquisto del terreno e il 12 ottobre il “Comitato cittadino pro-case profughi giuliani” fece pubblicare sulla Cronaca locale del “Tirreno” un primo elenco di sottoscrittori con le cifre donate, per un totale che al momento ammontava a £. 268.400. Venne individuato il terreno per la costruzione del palazzo in una zona allora lontana dal centro, posta tra la Chiesa di San Giuseppe Cottolengo e il Villaggio Curiel, sul prolungamento di Via della Pace, quella che in seguito avrebbe preso il nome di Piazza Albegna. La zona, allora del tutto incolta e caratterizzata da campi, era di proprietà dell’Ingegner Benedetto Pallini, che al tempo era consigliere comunale.

Il Ministero dei Lavori Pubblici inviò direttamente all’IACP di Grosseto una Circolare riguardante la costruzione degli alloggi che definiva anche la somma preventivata per la loro realizzazione: £ 48.000.000. Fu affidato all’IACP l’incarico di progettazione, esecuzione e contabilizzazione dei lavori occorrenti per la realizzazione del programma e vennero comunicate alcune “istruzioni” per dare uniforme e rapido corso all’attuazione del programma stesso.

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Pianta originale di una delle case del “Palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Il Progetto del fabbricato venne realizzato e firmato dall’Ingegner Gastone Saletti e porta la data del 28 febbraio 1953. Nel Fondo IACP sono conservati tutti i disegni del progetto, tra cui il prospetto principale e la pianta di un piano tipo. I 40 appartamenti, come si ricava dai disegni, erano formati dall’ingresso, il soggiorno con un terrazzino, una cucina ricavata in una rientranza del soggiorno (con lavello e cappa aspirante), una camera, un bagno (con lavandino, water e piccola vasca da bagno) ed erano di circa 60 – 65 metri quadrati.

I lavori principali per la realizzazone del fabbricato si svolsero dal novembre 1953 al novembre 1954 e la prima consegna degli alloggi avvenne il 24 maggio 1955.

Tali alloggi vennero destinati sia ai profughi che provenivano dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, ma anche a quelli arrivati dall’Albania e dalla Libia, tutti comunque assistiti nei Campi di Raccolta, ad eccezione di tre famiglie che arrivarono direttamente dalla zona B del territorio di Trieste.

Se quella di Piazza Albegna fu la costruzione che accolse contemporaneamente il numero maggiore di profughi, va ricordato che negli stessi anni vennero costruiti a Grosseto, dall’IACP e dall’INCIS, altri alloggi di edilizia popolare il cui 15%, in base alla Legge 137/1952, venne riservato ai profughi.

Il “palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Analogamente a quello che avveniva a Grosseto anche in altre località della provincia vennero realizzati degli appartamenti, in tutto 165, il cui 15% venne destinato ai profughi.

Queste le località interessate dagli interventi di edilizia popolare: Arcidosso, Casteldelpiano, Cinigiano, Follonica, Gavorrano, Manciano, Monterotondo Marittimo, Orbetello, Paganico, Pitigliano, Porto S. Stefano, Potassa, Puntone, Roselle, Santa Fiora, Selvena, Sorano.

Complessivamente, nel periodo 1953 – 1964, a Grosseto e in provincia vennero assegnati ai profughi più di 140 alloggi.




Primo Levi e l’arte

La più importante opera di Primo Levi non è quella legata alla letteratura bensì quella legata all’arte” sostiene il professor Paolo Coen della Università di Teramo.

Comunque, si dice che non sono molte le citazioni di opere d’arte nelle opere di Levi, né che lo scrittore sembri troppo attratto dal mondo artistico; tuttavia due cose smentiscono tale affermazione: 1) a un certo punto, per passatempo – Levi ha sempre lavorato con le mani, aggiustando ad esempio i giocattoli dei figli – ha cominciato a costruire con i fili di rame ricoperti di vernice, provenienti dalla Siva, l’azienda chimica per cui lavorava, degli animali – una farfalla, un gufo, un coccodrillo – che poi regalava agli amici o teneva in casa. Questo passatempo, nella raffigurazione della farfalla, può presentare analogia con la raccolta L’angelica farfalla (1966) di straordinaria elevatezza e, al tempo stesso, profondità.

Il tema che sta alla base di questa raccolta è quello della «permutazione delle specie e delle forme» L’«angelica farfalla» è una citazione da Dante: «O superbi cristiani, miseri lassi, / che, della vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ ritrosi passi, / non v’accorgete che noi siam vermi, / usati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi?». Siamo in Purgatorio X, 121-26, nella cornice in cui i superbi purgano il loro peccato per ascendere al premio eterno. Ora su questa possibile duplicità si costruisce la raccolta di racconti di cui stiamo parlando: si può andare verso il basso o verso l’alto, a seconda della scelta che si è fatta. E l’umano e il bestiale, in questo accidentato percorso, si corrispondono e talvolta si fondono, creando ircocervi difficilmente distinguibili.

paolo-coen-arte-e-musei-della-shoah-per-imt-alti-studi-lucca-1-638il gufo è il mio autoritratto” diceva scherzosamente Levi. E in effetti con quegli occhiali enormi, i capelli un po’ a punta e la barbetta, nell’ultimo periodo della sua vita, Levi un po’ assomigliava a un gufo. Doveva trovarlo divertente, visto che i gufi ricorrono spesso nella sua opera. Andando a cercare immagini per il lavoro su Una stella tranquilla se ne trovano diversi, a partire da quelli che Levi disegnava al computer. Levi si paragona a un gufo anche quando racconta del periodo in cui scrisse Se questo è un uomo. Era il 1946 e Levi lavorava ad Avigliana, un po’ fuori Torino, in una fabbrica di vernici. Scrisse il libro in treno, nelle pause dal lavoro e soprattutto di notte, nella foresteria della fabbrica, dove il suo ticchettare alla macchina da scrivere veniva considerato parecchio strano dai colleghi. «Ero il gufo notturno che batteva alla macchina da scrivere», disse Levi. E per un bel po’ di tempo la sua scrittura sarebbe rimasta così, un’attività notturna (o almeno serale), a cui si dedicava dopo il lavoro, dopo che aveva “cambiato pelle”, passando da chimico a scrittore. Ma il gufo più importante e è un altro, è una specie di maschera.

Appartiene a una serie di “sculture” che Levi fabbricava con il filo di rame. Questo era la materia prima del suo lavoro di chimico: il filo di rame, infatti, è un conduttore elettrico, ma per essere usato deve prima essere trattato con una vernice isolante, quella che appunto si produceva alla Siva, la fabbrica in cui lavorava Levi. Più o meno come succede in molti suoi racconti, anche qui la materia prima è fornita dal lavoro di chimico e dalle esperienze vissute in quella veste per poi trasformarsi in arte, in libri o, in questo caso, in strani manufatti.

C’é una foto in cui Levi “indossa” la maschera da gufo che è diventata piuttosto simbolica. Così pare acquisire valore allegorico, un buon modo per rappresentare la complessità della figura di Primo Levi, e in particolare la differenza tra il Levi pubblico e il Levi privato, tra il Levi a cui abbiamo accesso noi tramite i suoi libri e quello che invece rimane intimo e nascosto. Nel 1986, Mario Monge, suo concittadino, l’ha fotografato mentre «indossa» una di questi animali di fronte all’obiettivo, proprio un anno prima della morte.

Una di queste foto è diventata la copertina del saggio, di ben 700 pagine, Primo Levi. Di fronte e di profilo (Guanda) di Marco Belpoliti. Il libro presenta un titolo suggestivo che richiama le foto segnaletiche e in copertina ha una foto di Levi che mostra una maschera in filo di rame a forma di gufo. Belpoliti non nasconde la struttura che sostiene la sua opera ma anzi la ostenta, come l’architettura del Centre Pompidou a Parigi.

 Ma l’opera d’ arte più famosa di Levi è il Memoriale italiano  del Blocco 21 di Auschwitz1,

Progettato dallo Studio architetti: BBPR (Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers) voluto dall’’A.N.E.D. del quale è tuttora proprietà. Inaugurato anni ’80 e arricchito di significato dagli affreschi di Mario Samonà, dai testi di Primo Levi, dalle musiche di Luigi Nono, con la regia di Nello Risi

Il gruppo degli architetti progettisti è lo stesso del Museo al Deportato  di Carpi, inaugurato nel 1973, una struttura frutto dell’impegno civile di artisti che furono anche testimoni degli avvenimenti che rappresentavano. Essi si sono avvalsi della collaborazione di  Renato Guttuso. Nel museo sono conservati suggestivi graffiti di alcuni grandi pittori come Picasso Longoni Léger, e ovviamente Guttuso che hanno commentato a loro modo la deportazione sulle pareti del museo.

 Il Memoriale 21, voluto realizzato all’interno della camerata in una baracca del campo, è dedicato ai deportati italiani nei Lager nazisti.

Originariamente il blocco 21 fu il reparto chirurgico, dove i deportati furono sottoposti a operazioni sommarie e raccapriccianti esperimenti. Poi quelle mura furono affidate all’Italia, perché vi allestisse il suo padiglione della memoria: Auschwitz, Blocco 21. Esso ha la forma di un tunnel di tela e armatura di metallo, sollevata da un impalcato e tesa attraverso i vuoti spazi della baracca.  Assume la forma di una ossessiva spirale a elica che avvolge il cammino del visitatore in un percorso unitario e ossessivo lungo ottanta metri che rappresenta e rievoca la spirale di violenza nella quale i deportati furono travolti. Attraversandola, come in un brutto sogno, si rivivono i momenti della disperazione, della presa di coscienza, della volontà di sopravvivenza e della vittoria sul male.

Mediante un’armatura lignea la spirale tende una banda continua di tela, sulla quale sono rappresentate le immagini del fascismo, dell’antifascismo, della Resistenza, della deportazione e dello sterminio, dipinte da Samonà e commentate dalle parole di Primo Levi.

Dilatata nelle tre dimensioni, scandita dalle viste alterne della baracca e dei dipinti, la spirale ricompone l’incubo doloroso, coniugando spazio architettonico e pittura per trovare una comunicazione immediata e universale.

Si tratta inoltre della prima opera d’arte vivente in cui i testimoni potevano mettersi a sedere.

E sono alcune di queste immagini, come ad esempio la falce e martello o il volto di Antonio Gramsci, elementi comunisti insopportabili nella Polonia post patto di Varsavia post Solidarnosc, tornata fortemente cattolica e nazionalista, che sono stata la prima fonte dello smantellamento del Blocco 21. A tanti anni di distanza, la vicenda ricorda Tilted Arc, il capolavoro di Richard Serra distrutto per ragioni politiche. Tilted Arc  era una controversa opera d’arte minimalista, creata sotto forma di istallazione pubblica da Richard Serra e collocata in Foley Federal Plaza in Manhattan dall’1981 al  1989. Essa era lunga 120 piedi e alta 12, con una superficie non finita ricoperta di acciaio COR-TEN. I critici ne contestarono la bruttezza, ritenendo che essa deturpasse quel sito della città. Dopo un acceso dibattito pubblico, la scultura fu rimossas per volere della corte federale e non è stata mai più esposta.

Distrutto, in qualche senso lo è anche il blocco 21, perché spostare un’opera d’arte dal suo contesto originale, dal contesto di Primo Levi, significa appunto sottrarne ogni alito di vita e, insieme, ogni possibilità di lettura.

Gli elementi rappresentati facevano parte di un tutt’uno storico dall’ omicidio Matteotti alla Shoah.

image003Il blocco 21 è un’opera site specific, che non potrebbe né dovrebbe avere una collocazione in un altro luogo. Invece è stata sbarrata. Dal 2011, una porta chiusa, anche nel giorno del settantesimo anniversario della Shoah, sbarrata anche per gli storici e gli studiosi, impedisce di vedere “il «Memoriale ai deportati caduti nei campi di sterminio nazisti”. La parte italiana è stata chiusa d’ imperio con una decisione unilaterale dalla direzione del museo, per divergenze, per così dire, di filosofia: ritengono che un’opera di quel tipo – artistica e figlia del tempo – gli anni Settanta – in cui è stata concepita, non sia compatibile con l’approccio didascalico che hanno inteso dare al museo. Dopo il crollo del Muro, infatti, alcuni dei padiglioni di Auschwitz, affidati alle varie nazioni, iniziano ad essere ripensati, anche in base a nuove prospettive storiografiche. In Italia, qualcosa si muove a fine 2007, quando il governo Prodi stanzia 900 mila euro per il restauro del Blocco 21 mentre gli intellettuali si interrogano se il Memoriale sia o non sia troppo figlio degli anni Settanta, se puntando di più sull’antifascismo non finisca per trascurare la Shoah. L’A.N.E.D. lo difende. Ma chiude il discorso il Museo di Auschwitz: l’arte non basta, serve un allestimento didattico. Un esempio, il padiglione francese, rinnovato nel 2005. Tra rinvii e ricorsi si arriva al 2011, quando il Museo chiude il Blocco dell’Italia, che rischia di essere sostituita da un altro Paese.

 «Davanti al pericolo di smantellamento, anche se non siamo d’accordo, abbiamo accettato di riportare il Memoriale in Italia», racconta Dario Venegoni, presidente dell’A.N.E.D. .

Fino all’annuncio che l’opera andrà a Firenze, in base alla Risposta all’interrogazione scritta presso il Senato n. 4-05184 Fascicolo n. 123.

Resta da capire cosa ne sarà del Blocco ancora chiuso. Firenze ha individuato la sede della sua nuova esposizione negli spazi di EX3, centro d’arte attualmente vuoto.

 Qui il Memoriale del blocco 31 troverà collocazione all’interno dell’EX3 proprio accanto a piazza Bartali, quasi a ricongiungere in questo progetto di memoria collettiva anche l’impegno del grande ciclista, riconosciuto “giusto tra le nazioni” da Yad Vashem. I

Il luogo non è di certo il massimo, perché a ricordare l’olocausto c’e’ solo il nome della Piazza. L’edificio, uno strano parallelepipedo grigio antracite, più adatto ad un hangar di aviazione che a un museo della memoria, è lo spazio Ex3 del quartiere Gavinana, area semiperiferica e non troppo valorizzata, piena di centri commerciali.

Non è dato sapersi come, nell’interno ancora vuoto, la spirale del fu Blocco 21 troverà collocazione, ma di certo la location è del tutto decontestualizzata e la migliore opera d’arte di Primo Levi non si meritava una fine così.

Contenti saranno forse gli studenti, costretti dai docenti a visitare questo luogo della memoria, che poi potranno pranzare al Mc Donald’s e fare un po’ di shopping, dimentichi di cultura, arte, passato e perciò anche del loro futuro. A meno che istituzioni ed enti culturali interessati riescano a costituire un ampio (lo spazio c’è) e strutturato centro di documentazione, didattica e ricerca, capace di dare contestualizzazione al nuovo museo del Blocco 21, restituendo, per quanto possibile fuori dal suo contesto, la forza del messaggio artistico e culturale di Levi, pur lontano dall’ambiente era stato pensato.




Conoscere, viaggiando: il Treno della Memoria 2019

Rivelando una grande ed organizzazione, che mostra chiaramente il grande dispendio di energie – morali, organizzative ed economiche – dedicate dalla Regione Toscana e dalla Fondazione Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, la mattina del 20 gennaio alle 12:30 circa, dalla stazione di Firenze, ha avuto inizio l’ XI edizione del Treno della Memoria, dedicato questo anno a Primo Levi, di cui ricorre il centenario della nascita (avvenuta il 31 Luglio 1919).

Il treno porta oltre 600 persone a visitare i campi di Auschwitz e di Birkenau (Auschwitz 2), di cui 555 studenti del triennio delle scuole superiori (ogni docente ne accompagna 8) e 3 del Parlamento Regionale che hanno l’occasione unica di fare questo percorso di formazione etica, ancor prima che storica, insieme a studiosi, rappresentanti delle associazioni (Aned, Anei, Anpi, Arcigay, Sinti e Rom) ed ex deportati. Infatti partecipano al viaggio Andra e Tatiana Bucci, deportate ancora bambine (a 4 e 6 anni); Silva Rusich, figlia di Sergio, deportato politico a Flossenbuerg ed esule istriano; a Cracovia ci raggiungerà Vera Vigevani Jarach, testimone di due storie: esule in Argentina per le leggi razziste del fascismo e madre di Franca, una desaparecida durante la dittatura di Videla.

Il lungo viaggio in treno, circa 22 ore, è stato esso stesso un’importante occasione di conoscenza, perché nel vagone ristorante si sono tenuti 5 workshop – organizzati in particolare dal dott. Luca Bravi del Museo della deportazione – con i portavoce delle varie comunità, nei quali i ragazzi hanno avuto occasione di incontrare, dialogare, ascoltare e porre domande alle varie categorie di vittime della Shoah. Stessa dinamica si svolgerà nel corso del viaggio di ritorno.

[In allegato sono riportate le sintesi dei 5 workshop]




Democrazia e Resistenza

Le elezioni amministrative del 1946.

La costruzione della democrazia nell’Italia del secondo dopoguerra[1] rappresentò un processo lungo e non lineare. Nel contesto delle distruzioni e degli sconvolgimenti causati da cinque anni di conflitto, culminati con la dura occupazione da parte delle truppe tedesche ed una terribile guerra civile,[2] le elezioni amministrative svoltesi nella primavera del 1946 costituirono il primo passo verso la rinascita politica e sociale del nostro Paese. Fin dal periodo immediatamente successivo alla Liberazione, il Partito Democratico Cristiano, il Partito Comunista e il Partito Socialista si presentarono come quelli dotati di una più ampia base popolare. Il Partito d’Azione aveva svolto un ruolo di grande rilievo nella Resistenza, ma non era riuscito a costruirsi un seguito nelle città e nelle campagne. Il Partito Liberale era andato configurandosi come un partito d’élite, composto prevalentemente da vecchie personalità del periodo prefascista.

Il Partito Comunista, in particolare, era riuscito non soltanto a sopravvivere al ventennio fascista ricorrendo alla clandestinità, ma era riemerso con forza fin dal 1943 nelle città industriali e nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale, arrivando a contare quattrocentomila iscritti già agli inizi del 1945.[3] La Toscana rappresenta una delle regioni in cui la capacità del Pci di mobilitare le masse – in tal caso soprattutto contadine – emerse in maniera più evidente. Già durante la lotta di liberazione, la partecipazione contadina alla Resistenza aveva raggiunto livelli più alti rispetto alla media nazionale, assumendo talvolta un marcato carattere di guerra di classe.[4] Proprio a seguito dell’esperienza della guerra, dell’occupazione nazifascista e della Resistenza emersero in Toscana una classe dirigente ed una consapevolezza politica più forti e rinnovate.[5]

Nonostante le differenze sociali ed economiche esistenti all’interno della regione tra la parte settentrionale, maggiormente urbanizzata e sviluppata dal punto di vista industriale, e quella meridionale ancora prevalentemente agricola, le elezioni svoltesi nel 1946 – tanto quelle amministrative che, successivamente, quelle politiche – videro le liste comuniste riportare un netto successo in vaste aree del territorio. Alla base di tale risultato si colloca il sostegno elettorale portato al Pci dai mezzadri toscani, i quali rappresentavano il 54,2% della popolazione rurale di tutta la regione e circa un quarto di quella totale.[6] Nella provincia di Siena i mezzadri costituivano addirittura il 68% dei rurali, mentre ben ventuno dei trentasei comuni del territorio provinciale erano classificati come esclusivamente rurali-mezzadrili.[7]

Le elezioni amministrative svoltesi nella provincia senese nei mesi di marzo e aprile e, successivamente, di ottobre e novembre del 1946, fecero registrare una vittoria netta da parte della lista socialcomunista, che ottenne il 75,9% delle preferenze nei comuni che votarono con il sistema maggioritario.[8] Persino i risultati delle ultime elezioni amministrative del prefascismo, che avevano visto i socialisti conquistare ben ventinove comuni,[9] furono ampiamente superati, in quanto stavolta le sinistre si imposero in trentacinque dei trentasei comuni della provincia.

In controtendenza con quanto avvenne a livello nazionale, ma in linea con quelli che furono i risultati in gran parte della Toscana, il Pci superò nel territorio senese il Psiup. Il Partito Comunista, partito tradizionalmente operaio, divenne quindi nella provincia di Siena il principale referente politico di una popolazione costituita in prevalenza da agricoltori.[10] Il fondamentale ruolo svolto dai comunisti nella lotta di liberazione dal nazifascismo, che vide la partecipazione di circa millecinquecento partigiani combattenti,[11] rappresenta senza dubbio una delle principali motivazioni che portarono la popolazione a vedere nel Pci il partito antifascista per eccellenza.[12]

Lo stretto rapporto tra Resistenza e mondo contadino nella provincia senese aveva peraltro radici estremamente profonde, risalenti a ben prima della Seconda Guerra Mondiale. Contadini e socialisti erano stati infatti i bersagli principali degli squadristi fascisti durante il cosiddetto biennio nero, quando i militi senesi comandati da Giorgio Alberto Chiurco avevano compiuto numerose spedizioni contro il tessuto politico, associativo e sindacale della sinistra nella provincia e nei territori limitrofi.[13] La politica agraria perseguita dal Regime, assieme alla restaurazione contrattuale imposta ai mezzadri, aveva inoltre prodotto un netto peggioramento delle condizioni di vita della classe agricola, che avrebbe raggiunto il proprio culmine attorno alla metà degli Trenta.[14] Come ha scritto Baccetti, «quando lo scontro diretto e quotidiano tra agrario e mezzadro divenne scontro quotidiano e diretto anche tra mezzadro e fascismo […], fu definitivamente chiaro, per i contadini, che per liberarsi dovevano prima uscire dal fascismo, e poi uscire dalla fattoria. La radice dell’antifascismo dei mezzadri, della loro partecipazione attiva alla lotta di liberazione, e poi del sostegno elettorale al PCI, sta in fondo tutta qui».[15]

 Sindaci e Resistenza

Lo spirito antifascista presente in larghi strati della popolazione si rifletté inevitabilmente nella composizione dei consigli comunali formatisi nel 1946 e nella scelta dei sindaci dei vari comuni della provincia.[16] Undici dei trentasei sindaci nominati a seguito delle elezioni comunali avevano infatti combattuto tra le fila della Resistenza durante la guerra. Altri cinque, pur non avendo aderito alle formazioni partigiane, erano stati iscritti al Casellario politico centrale[17] per aver manifestato idee  avverse a quelle fasciste o per aver svolto attività antifascista. Tra i sindaci che non avevano partecipato alla lotta armata vi erano comunque antifascisti di lunga data, membri del Cln, vecchi attivisti comunisti e socialisti. Persino Arturo Marucelli, primo cittadino di Gaiole in Chianti con la Democrazia Cristiana – l’unico in tutta la provincia che non proveniva dalla lista socialcomunista – era stato avverso al fascismo, tanto da abbandonare la vita politica nel 1926 a seguito dell’istituzione dei podestà, e farvi ritorno soltanto nell’aprile del 1945 su invito del locale Cln.[18]

Tra coloro che avevano preso parte alla resistenza armata vi erano figure piuttosto note, quale il sindaco di Siena Ilio Bocci, combattente della Brigata “Spartaco Lavagnini” con nome di battaglia “Sandro”, oppure quello di Sovicille Ruggero Petrini, prima “Tancredi” e poi “Silvio”, comandante del V° distaccamento “Giuggioli e Parri” della Brigata Lavagnini e successivamente volontario del gruppo di combattimento “Cremona”, con il quale combatté fino al giugno del 1945.[19]

Meno conosciuta, ma estremamente interessante, è la storia di un altro sindaco partigiano della provincia senese, Angelo Tacconi.

Nato a Monticiano nel 1883, il Tacconi spese gran parte della sua giovinezza viaggiando in cerca di lavoro. Lasciò per la prima volta il proprio comune nel 1902 e trovò un impiego come boscaiolo nei pressi di Porto Maurizio (Imperia); successivamente si trasferì prima a Ventimiglia, poi in Francia tra Marsiglia, Beausoleil e Nizza, lavorando come manovale. Fece ritorno a Monticiano nel 1905, ma appena un anno dopo partì per gli Stati Uniti, stabilendosi inizialmente a New York e spostandosi poi per un breve periodo a Monogahela, una piccola cittadina della Pennsylvania dove lavorò come minatore. Rientrato di nuovo a Monticiano, nel 1910, per sposarsi con la fidanzata Pia, ripartì subito dopo per la Francia, stabilendosi questa volta a Fontan, un piccolo paese vicino al confine italiano. L’esperienza maturata come minatore negli Stati Uniti e come costruttore di gallerie a Fontan permisero al Tacconi di arruolarsi nel VI° Reggimento italiano del genio durante la Prima guerra mondiale.[20] Congedato con il grado di caporale nel febbraio 1919, trascorse un breve periodo a Monticiano, durante il quale fu assessore comunale per il Partito Socialista e prese parte al Congresso di Livorno quale rappresentante della sezione monticianese di questo stesso partito.[21] Nel giugno del 1923 si recò nuovamente in Francia – stavolta con la famiglia – inizialmente a Cap-d’Ail e dal 1927 nel Principato di Monaco, dove assieme alla moglie ed alla figlia Ornella aprì un bar-ristorante, divenuto in breve tempo punto di ritrovo di molti fuoriusciti antifascisti.[22] Nel novembre del 1942 il Tacconi venne arrestato e ricondotto in Italia per essere imprigionato, assieme al figlio Ideale, nelle carceri di Siena. Confinato alle Tremiti (Foggia) nel maggio del 1943,[23] rientrò a Siena subito dopo la caduta del fascismo e si unì alla formazione Spartaco Lavagnini, con la quale combatté – con nome di battaglia “Pietro” – dal novembre 1943 al luglio 1944.[24] A seguito delle elezioni del 3 marzo 1946, Angelo Tacconi fu nominato sindaco di Monticiano per il Pci.[25]

Condivise con il Tacconi non soltanto l’esperienza della lotta partigiana, ma anche quella di emigrato in Francia – assieme a migliaia di altri antifascisti italiani[26] – una figura di grande rilievo dell’antifascismo senese e, soprattutto, veneto, ossia Nello Boscagli.  Nato a Sinalunga il 16 aprile 1905, quest’ultimo già nel 1925 si trasferì in Francia assieme ai genitori Angelo e Rosa.[27] Dopo un breve periodo a Mosca, prese parte alla guerra civile spagnola, restando a combattere in Catalogna anche dopo il ritiro delle Brigate internazionali.[28] Nel corso degli anni Trenta Boscagli risedette a Roquebrune-Cap Martin, nelle Alpi Marittime, e continuò a svolgere attività antifascista. Nel 1932 fu iscritto al Casellario politico centrale su segnalazione del Consolato italiano nelle Alpi Marittime, che lo indicava come un antifascista particolarmente attivo.[29] Durante la Seconda guerra mondiale, al Boscagli venne affidato il comando dei maquisards dell’intera costa mediterranea, incarico che mantenne fino al settembre 1943 nonostante gravasse su di lui una condanna a morte in contumacia.[30] Rientrato in Italia, il Partito Comunista lo inviò in Veneto a supervisionare prima l’organizzazione dei nascenti gruppi di azione patriottica[31] e, successivamente, quella delle formazioni partigiane. Commissario politico e poi comandante della Brigata Garibaldi “Ateo Garemi”, con nome di battaglia “Alberti”, il Corpo volontari della libertà gli affidò in seguito il comando di tutta la zona dell’Altopiano di Asiago.[32] Dopo la guerra fu ispettore del Pci a Caserta e Teramo, e nel 1946 venne nominato primo cittadino di Sinalunga. Nel luglio del 1948, in seguito all’attentato a Togliatti, fu denunciato per aver preso parte agli scioperi[33] ed aver organizzato posti di blocco nelle strade del comune. Recluso per diciotto mesi nel carcere di Firenze, il Boscagli venne assolto dalla Corte di Assise di Siena e reintegrato nel proprio incarico nel giugno 1950.[34] Negli anni Sessanta si trasferì a Padova, dove trascorse il resto della propria vita fino al 1976, anno della morte.[35]

Ancora molto limitate risultano purtroppo le informazioni biografiche relative ad altri protagonisti della lotta di liberazione nella provincia senese. Tra questi vi è Ezio Santoni, nato a Chianciano nel 1898, incarcerato per reati politici nel 1921 ed inserito tra i sovversivi del Casellario politico centrale a partire dal 1938.[36] Il Santoni combatté nel Raggruppamento “Monte Amiata” dal giugno al luglio 1944, per poi ricoprire la carica di sindaco di Chianciano per conto del Cln, dimostrando «buone doti di capacità, rettitudine e interessamento nell’amministrazione della cosa pubblica»,[37] tanto da essere confermato nel ruolo nell’ottobre del 1946.

Carlo Sorbellini, classe 1919, anche lui partigiano del Raggruppamento “Monte Amiata” fin dal settembre 1943, scelse di continuare a lottare contro i nazifascisti anche dopo la Liberazione della provincia senese, arruolandosi volontario nel gruppo di combattimento “Cremona”. Dopo la guerra divenne fotografo e sindaco del suo comune di origine, San Quirico d’Orcia.[38]

Militò invece tra le fila della 23° Brigata “Guido Boscaglia” il sindaco di Radicondoli Gino Gazzei. Già membro del Comitato di Concentrazione Antifascista di Piombino, costituitosi ancor prima del crollo del Regime fascista,[39] il Gazzei dovette sfollare a Radicondoli, suo paese natale, nell’ottobre del 1943. Intellettuale socialista, proprietario di una fabbrica di specchi a Piombino ed una vetreria a Colle Val d’Elsa, dopo la guerra divenne direttore de La Martinella, organo della Federazione socialista senese. Nel marzo del 1946 il neoeletto consiglio comunale lo riconfermò sindaco, carica che già ricopriva dal luglio del 1944.[40]

Quella di Gino Gazzei, imprenditore ed intellettuale, rappresenta tuttavia un’eccezione nel contesto degli amministratori senesi del 1946; la maggior parte di questi svolgeva infatti professioni umili e possedeva un livello di alfabetizzazione talvolta piuttosto basso – limitandoci alle figure qui descritte, erano manovali con la terza elementare il Tacconi ed il Santoni, muratore il Boscagli, un falegname con la licenza elementare il Petrini, un fotografo il Sorbellini – per cui i documenti prodotti e le testimonianze scritte pervenuteci sono estremamente pochi e non facili da reperire. Tale dato testimonia tuttavia la determinazione con cui queste persone dovettero disimpegnare i compiti previsti dalle proprie cariche, nel già di per sé critico contesto sociale e materiale del secondo dopoguerra, in territori spesso devastati dai bombardamenti aerei e dai combattimenti terrestri, riuscendo a far fronte alle difficoltà quotidiane ed avviando la ricostruzione.

 Note

[1]Per un quadro generale cfr. N. Kogan, Storia politica dell’Italia repubblicana. Laterza; Roma-Bari, 1990 (ediz. orig. 1966); P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, vol. I. Einaudi; Torino, 1989; G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi. Donzelli; Roma, 2016.
[2]Cfr. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Bollati Boringhieri; Torino, 1991.
[3]N. Kogan, Storia politica dell’Italia repubblicana…, p. 32.
[4]Sulle vicende e le peculiarità del fenomeno resistenziale in Toscana cfr. N. Labanca, Toscana, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I. Einaudi; Torino, 2000, pp. 455-464.
[5]Cfr. M. G. Rossi, Il secondo dopoguerra: verso un nuovo assetto politico-sociale, in G. Mori (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Toscana. Einaudi; Torino, 1986, pp. 675-708.
[6]C. Baccetti, Il triplice voto del 1946 in Toscana. La fondazione del predominio del PCI, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale, n. 20, 1988, pp. 10-13. Per maggiori informazioni sulle elezioni svoltesi in Toscana nel 1946 e nel 1948, le norme adottate ed i risultati cfr. M. Gabelli, Toscana elettorale 1946 e 1948. Estratti di legislazione, risultati ed eletti, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale, n. 20, 1988, pp. 199-309.
[7]M. Caciagli, L’apporto elettorale dei mezzadri, in Alle origini di una provincia “rossa”. Siena tra Ottocento e Novecento. Meiattini; Monteriggioni, 1991, p. 47.
[8]C. Baccetti, Il triplice voto del 1946…, p. 24.
[9]Per maggiori informazioni sull’argomento si rimanda a D. Pasquinucci, Siena fra suffragio universale e fascismo. Il voto politico e amministrativo dal 1913 al 1924, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale, n. 29, 1993, pp. 5-75; T. Detti, Ipotesi sulle origini di una provincia “rossa”: Siena tra Ottocento e Novecento, in Alle origini di una provincia “rossa”…, pp. 19-28.
[10]Sul tema cfr. A. Nuti, La provincia più rossa. La costruzione del partito nuovo a Siena (1945-1956). Protagon; Siena, 2003, pp. 23-34.
[11]Per maggiori informazioni si rimanda alla vasta bibliografia esistente sul tema. Cfr. soprattutto T. Gasparri, La Resistenza in provincia di Siena. 8 settembre 1943 – 3 luglio 1944. Olschki; Firenze, 1976; C. Biscarini, V. Meoni, P. Paoletti, 1943-1944. Vicende belliche e resistenza in terra di Siena…; P. Plantera, Brigata partigiana. Storia della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini” e riferimenti ad altre unità partigiane che operarono in provincia di Siena e in territori limitrofi. ANPI; Siena, 1961; V. Meoni, Ora e sempre resistenza. Scritti e testimonianze su Montemaggio, Monticchiello e la Resisenza in terra di Siena. Effigi; Arcidosso, 2014.
[12]A. Orlandini, Elettori ed eletti: le scelte di voto dal 1946 al 1963, in A. Orlandini (a cura di), La nascita della democrazia nel senese. Dalla Liberazione agli anni ’50. Atti del convegno, Colle Val d’Elsa, 9-10 febbraio 1996. Regione Toscana; Firenze, 1997, pp. 196-198.
[13]Cfr. sul tema D. Pasquinucci (a cura di), Società e politica a Siena nella transizione verso il fascismo, 1919-1926. Nuova Immagine; Siena, 1995; G. Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922. Il Leccio; Siena, 2015.
[14]D. Preti, Tra crisi e dirigismo: l’economia toscana nel periodo fascista, in G. Mori (a cura di), La Toscana…, pp. 625-630.
[15]C. Baccetti, Il triplice voto del 1946…, p. 15.
[16]I dati presentati costituiscono parte dei risultati di un progetto di ricerca promosso dall’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea e finalizzato alla creazione di una banca dati sui sindaci e gli amministratori comunali della provincia di Siena eletti nel 1946. Si tratta di uno studio non ancora concluso, per cui le informazioni riportate non devono essere intese come definitive. Elenco di seguito le collocazioni archivistiche del materiale raccolto fino a questo momento, sul quale si basano i dati numerici di seguito presentati. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Casellario politico centrale [d’ora in poi ACS, MI, DGPS, CPC]: Begni Vincenzo, b. 437; Boscagli Nello, b. 776; Gazzei Dino, b. 2321; Lucherini Ciro, b. 2866; Malacarne Guido, b. 2945; Roncucci Virgilio, b. 4404; Santoni Ezio, b. 4593, f. 135341; Severini Angelo, b. 478, f. 089910; Tacconi Angelo, b. 4998, f. 063653;Vegni Guido, b. 5340, f. 011506. Archivio di Stato di Siena, Prefettura. Ufficio di Gabinetto 1935-1957 [d’ora in poi ASSi, Pref. Uff. Gab.], b. 211 (f. 1-10), b. 212 (f. 11-14), b. 213 (f. 15-22), b. 214 (f. 23-30), b. 215 (f. 31-34).
[17]Sul tema in generale cfr. G. Tosatti, L’anagrafe dei sovversivi italiani: origini e storia del Casellario politico centrale, in Le carte e la storia n. 2, 1997, pp. 133-150.
[18]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 212, f. 13. 13 aprile 1946, lettera del comandante dei carabinieri di Siena al Prefetto di Siena, prot. 30/6 Ris. Pers.
[19]Per maggiori informazioni sulla figura di Ruggero Petrini cfr. T. Gasparri, La Resistenza in provincia di Siena…, passim; P. Plantera, Brigata partigiana…, pp. 202-204.
[20]ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. 9 gennaio 1943, verbale interrogatorio di Tacconi Angelo presso la Questura di Siena.
[21]ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. Scheda biografica.
[22]I documenti del Casellario Politico ne parlano come di «un covo di antifascisti e di denigratori dell’Italia». Cfr. ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. 25 gennaio 1943, nota dattiloscritta, prot. 1976/63653.
[23]ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. 1 maggio 1943, appunto per il CPC del Capo della sezione prima.
[24]http://www.istoresistenzatoscana.it/partigiano/Angelo/Tacconi/5221 [le fonti digitali citate nel presente saggio sono state consultate per l’ultima volta in data 20 dicembre 2018].
[25]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 213, f. 18. 12 aprile 1946, lettera del comandante della compagnia esterna dei carabinieri di Siena al Prefetto di Siena, prot. 35/II Div. Ris. Pers.
[26]Cfr. in generale S. Tombaccini, Storia dei fuoriusciti italiani in Francia. Mursia; Milano, 1988; L. Rapone, I fuoriusciti antifascisti, la Seconda guerra mondiale e la Francia, in Les Italiens en France de 1914 à 1940. Ècole Francaise de Rome; Roma, 1986, pp. 343-384.
[27]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 215, f. 31. Lista degli amministratori comunali di Sinalunga.
[28]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli.
[29]ACS, MI, DGPS, CPC, Boscagli Nello, b. 776. 18 novembre 1932, telespresso del Console generale di Nizza a Ministero dell’Interno, Ministero degli Esteri, Ambasciata italiana a Parigi, prot. 9211.
[30]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli
[31]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 215, f. 31. 23 ottobre 1946, dichiarazione di Boscagli Nello. I comunisti di vecchia data come il Boscagli, con una lunga esperienza di guerriglia maturata in Francia, furono coloro cui si affidò il Partito comunista per la creazione dei primi Gap a partire dal settembre 1943. Sull’argomento cfr. S. Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza. Einaudi; Torino, 2014.
[32]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli
[33]In generale sull’argomento cfr. A. Orlandini, Luglio 1948. L’insurrezione proletaria in provincia di Siena in risposta all’attentato a Togliatti. Cooperativa editrice universitaria; Firenze, 1976; G. Serafini, I ribelli della montagna. Amiata 1948: anatomia di una rivolta. Editori del Grifo; Montepulciano, 1981.
[34]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 215, f. 31. Lista dei procedimenti penali a carico dei sindaci.
[35]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli
[36]ACS, MI, DGPS, CPC, Santoni Ezio, b. 4593. 9 ottobre 1938, lettera del Prefetto di Siena al Ministero dell’Interno, prot. 018676 P.S.
[37]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 211, f. 9. 7 novembre 1946, lettera dalla tenenza dei carabinieri di Chiusi al Prefetto di Siena, prot. 1/34 Ris. Pers.
[38]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 214, f. 29. 5 maggio 1946, lettera del comandante della compagnia dei carabinieri di Montepulciano al Prefetto di Siena, prot. 8/78 Div. Ris. Pers.
[39]L. Pasquinucci, Piombino medaglia d’oro. Una battaglia di verità e giustizia. Pacini; Ospedaletto, 2008, p. 8.
[40]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 214, f. 24. 16 maggio 1946, lettera della tenenza dei carabinieri di Colle Val d’Elsa al Prefetto di Siena, prot. 107/4 Ris.




«…quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire»

Cingolani-Guidi

Angela Guidi Cingolani

Nella primavera del 1946 le italiane hanno votato nella prima tornata di consultazioni amministrative, ma sono le elezioni del 2 giugno del 1946 ad essersi impresse nella memoria collettiva come un evento storico: quasi 13 milioni di donne, ora pienamente cittadine, hanno votato per eleggere l’Assemblea costituente e hanno scelto tra Monarchia e Repubblica. Tredici donne hanno già partecipato a un altro importante organismo, la Consulta Nazionale, composta da 430 esponenti dell’antifascismo nominati dai partiti politici. Tra loro 5 future madri costituenti[1], tra cui Angela Guidi Cingolani, prima donna a parlare in un’Assemblea istituzionale – la Consulta, appunto – e a chiedere ai colleghi uomini di essere considerata

«come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale»

Filomena Delli Castelli

Filomena Delli Castelli

Alle elezioni del 2 giugno sono entrate in lista pochissime donne, poco meno del 7% di tutti i candidati. Sono state elette 21. Poche, quindi, si sono guadagnate l’onore e l’onere di partecipare attivamente al varo della nuova Costituzione. Ma chi sono? Quali esperienze hanno alle spalle? Cosa rappresenta e cosa potrà fare questo 3,7% su un totale di 556 deputati?

Delle 21 madri costituenti, nove sono del Partito Comunista[2], tra cui cinque fondatrici/attiviste dell’UDI; nove appartengono alla Democrazia Cristiana[3], tra cui 5 tra attiviste o dirigenti della FUCI, altre attiviste del CIF o dell’Azione cattolica; due sono socialiste[4]; una soltanto, Ottavia Penna Buscemi, è eletta nella lista ”Uomo Qualunque”. Impressionante il numero di preferenze che le elette hanno avuto, basti pensare che Bianca Bianchi nel collegio di Firenze ha preso il doppio delle preferenze di Sandro Pertini, il partigiano, l’eroe, il perseguitato dal regime, l’incarnazione di tutto ciò che è stata la vittoriosa lotta antifascista.

Bianca Bianchi

Bianca Bianchi

Rita Montagnana Togliatti

Rita Montagnana Togliatti

La più anziana è Lina Merlin, 59 anni; la più giovane è Teresa Mattei, 25 anni; entrambe parteciperanno ai lavori della “Commissione dei 75”, il ristretto gruppo che materialmente scriverà la Costituzione. Sette madri costituenti[5] sono nate tra il 1887 e il 1900; hanno esperienze politiche e sindacali alle spalle: Angela Merlin è stata una delle prime donne iscritte al Partito socialista, collaboratrice di Matteotti; Rita Montagnana, già iscritta al Partito socialista, è stata con Teresa Noce tra le fondatrici del PCI nel 1921; Angela Guidi è stata iscritta al Partito popolare di Don Sturzo. Molte di loro sono state costrette durante il fascismo a scappare all’estero; Montagnana e Noce, mogli rispettivamente di Togliatti e Longo, sono state esuli in tutta Europa, hanno partecipato alla guerra civile spagnola, in seguito hanno fatto parte dei movimenti resistenziali nei paesi di accoglienza, subendo anche il carcere e l’internamento.

Lina Merlin

Lina Merlin

Teresa Mattei

Teresa Mattei

La maggior parte delle donne che fa parte di questo “gruppo anagrafico” ha una cultura suffragista per via dei forti legami dei partiti clandestini con i movimenti europei. Anche le cattoliche, fortemente impegnate nell’associazionismo, sono state perseguitate o “attenzionate” dalla polizia politica; Maria Federici ha avuto un trascorso all’estero, al seguito del marito, militante antifascista; Elisabetta Conci, presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), di Roma, è conosciuta come la “pasionaria bianca” per la tempra con la quale porta avanti le proprie battaglie politiche e religiose.

Altre sette madri costituenti[6] sono nate tra il 1902 e il 1908, hanno quindi compiuto almeno gli studi superiori non universitari nel periodo liberale, trovandosi poi a dover fronteggiare le privazioni di libertà del periodo successivo. Alcune, soprattutto le comuniste, hanno condiviso la sorte dell’esilio: Adele Bei, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi. Le cattoliche Laura Bianchini, Maria De Unterrichter e Angela Gotelli hanno trovato nell’azionismo cattolico e nella FUCI, di cui sono diventate anche dirigenti, il terreno di formazione culturale e politica. Ottavia Penna, eletta con l’Uomo Qualunque ha assistito i siciliani poveri e i fanciulli abbandonati, ribellandosi alle dure regole del regime sull’ammasso di beni alimentari in periodo di guerra e al mercato nero.

Teresa Noce

Teresa Noce

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Maria Federici Agamben

Le 7 madri costituenti più giovani[7] sono nate tra il 1913 e il 1921, sono cresciute e hanno compiuto gli studi durante il regime, hanno respirato pienamente l’ideologia fascista. Non hanno avuto esperienza diretta di attività politica e sindacale, pur tuttavia al fascismo si sono ribellate; molte hanno tratto ispirazione dalle tragiche vicende dei familiari perseguitati o vittime del regime e dell’alleato occupante (lo sono, ad esempio, il padre e il fratello – poi morto suicida per non tradire i compagni partigiani – di Teresa Mattei e i fratelli e il marito di Nadia Gallico).

Il loro primo apprendistato politico, quindi, si è compiuto principalmente nell’ambiente privato per poi riversarsi, in maniera spesso dirompente, sulla scena pubblica. Eclatante, ad esempio, il gesto di una appena adolescente Teresa Mattei: la contestazione pubblica delle lezioni in difesa della razza le costa l’espulsione da tutte le scuole del Regno.

Ottavia Penna Buscemi

Ottavia Penna Buscemi

Elisabetta Conci

Elisabetta Conci

Quasi tutte, comuniste, socialiste e cattoliche, giovani e meno giovani, sono state protagoniste del movimento di Liberazione. Lina Merlin, Laura Bianchini e Angela Gotelli sono state membri del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia; Angela Minella ha fatto parte di una Brigata Garibaldi del savonese; Teresa Mattei è stata combattente di una formazione garibaldina a Firenze e organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna nell’alta Toscana, così come Nilde Iotti in Emilia Romagna e Lina Merlin in Lombardia. Filomena Delli Castelli, Maria Nicotra e Angela Gotelli sono state crocerossine, quest’ultima con compiti di grande responsabilità negli scambi tra ostaggi civili e prigionieri tedeschi; Bianca Bianchi ha fatto la staffetta in Toscana; Maria Federici e Angela Guidi hanno appoggiato in vari modi la lotta antifascista a Roma.

Nilde Iotti

Nilde Iotti

Resistenza civile e Resistenza militare: tutto si è intrecciato nella storia di queste donne. Compresa la Resistenza all’estero: quella di Nadia Gallico in Francia; di Elettra Pollastrini, Rita Montagnana e Teresa Noce prima in Spagna nelle Brigate Internazionali, poi durante la guerra nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Hanno subito il carcere e il confino anche Adele Bei (già attiva nel movimento di Liberazione in Belgio) e Maddalena Rossi, così come Angelina Merlin nei primissimi anni della dittatura.

Adele Bei

Adele Bei

Geograficamente le 21 elette rappresentano tutte le zone d’Italia: Trentino (2), Piemonte (3), Lombardia (2), Veneto (1), Liguria (1), Emilia Romagna (2), Toscana (2), Marche (1), Abruzzo (2), Lazio (1), Puglia (1), Sicilia (2). Nadia Gallico è nata a Tunisi ma ha forti legami con la Sardegna, terra d’origine del marito, Velio Spano, antifascista e perseguitato politico, anch’egli costituente.

angiola minella2Ben 14 delle elette hanno una laurea, le più in filosofia, lettere e pedagogia ma non mancano laureate in lingue e letterature straniere e in chimica.

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Maria Maddalena Rossi

Quattordici hanno lavorato come insegnanti/maestre; Lina Merlin è stata sospesa dall’insegnamento perché si è rifiutata di prestare giuramento al partito fascista, obbligatorio per i dipendenti pubblici; Bianca Bianchi perché insegnava cultura ebraica nelle sue ore di lezione. Le altre sono state operaie o artigiane (4), una ha lavorato come ispettrice del lavoro. Molte in alcuni passaggi della vita sono state redattrici/giornaliste, occupandosi principalmente della stampa e della propaganda rivolta alle donne. Alcune di loro proseguiranno questa attività anche durante o dopo l’attività parlamentare, la maggior parte di loro nella redazione di “Noi donne”, giornale dell’UDI.

Maria Nicotra

Maria Nicotra

Quattordici madri costituenti sono sposate al momento dell’elezione, molte di loro hanno figli. Lina Merlin è vedova da un decennio; Teresa Mattei, accompagnata ad un uomo sposato, rimarrà incinta durante i lavori dell’Assemblea costituente, la prima “ragazza madre” delle Istituzioni repubblicane. 5 le “coppie costituenti”: Teresa Noce e Luigi Longo; Rita Montagnana e Palmiro Togliatti, Nadia Gallico e Velio Spano; Maria de Unterrichter e Angelo Raffaele Jervolino; Angela Maria Guidi e Mario Cingolani.

Nadia Gallico Spano

Nadia Gallico Spano

Per alcune di loro la situazione familiare avrà ripercussioni sulla carriera politica: isolate progressivamente dal Partito dopo le separazioni da Togliatti e Longo, Rita Montagnana (che sarà abbandonata per un’altra costituente, Nilde Iotti) e Teresa Noce (che saprà dai giornali dell’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota richiesto e ottenuto dal marito) usciranno in breve tempo dall’arena politica; Teresa Mattei, la “maledetta anarchica” nella definizione di Togliatti, “scandalosamente” incinta, entrerà in forte dissidio con un Partito moralista e bigotto e deciderà di non ricandidarsi alle elezioni del 1948. Tre comuniste: per loro lo “scandalo”, subìto o provocato, segnerà la fine dell’esperienza politica.

Elettra Pollastrini

Elettra Pollastrini

Ad esclusione di Mattei, che concluderà l’esperienza politica con la Costituente, la maggioranza delle costituenti, ben 8 di loro, si fermerà dopo la prima legislatura (1948-1953); 3 dopo la seconda (1953-1958), 5 dopo la terza (1958-1963), 3 dopo la quarta (1963-1968). Nilde Iotti, che tra i tanti primati[8] potrà vantare anche quello di essere stata la prima Presidente della Camera nel 1979, sarà eletta ininterrottamente fino alla XIII legislatura nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Laura Bianchini

Laura Bianchini

Non tutte le madri costituenti prenderanno parte ai lavori della “Commissione dei 75”, composta da tre sottocommissioni. Della prima, che si occuperà dei diritti e dei doveri dei cittadini, farà parte Nilde Iotti; Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce saranno membri della terza, che si occuperà dei diritti economico-sociali. Nessuna donna farà parte della seconda, dedicata all’ordinamento costituzionale. Ottavia Penna si dimetterà dopo pochissimi giorni dalla Commissione dei 75, lasciando il posto all’on. Gennaro Patricolo. Angela Gotelli entrerà nella prima sottocommissione nel febbraio 1947 in sostituzione dell’on. Carmelo Caristia.

Angela Gotelli

Angela Gotelli

L’attività di queste 5 madri costituenti si concentrerà soprattutto sul ruolo delle donne nel nuovo assetto sociale, lavorativo e familiare, riuscendo a far inserire nella Carta articoli, commi e in alcuni casi poche ma significative parole (si pensi al “senza discriminazioni di sesso” dell’art. 3 Cost., che dobbiamo a Lina Merlin), che saranno alla base del successivo sviluppo della legislazione a garanzia dei diritti delle cittadine. Le altre 16 saranno molto attive in Assemblea generale con interrogazioni su vari argomenti, non solo concentrate su tematiche tradizionalmente femminili. Quello che colpisce, seguendo il filo delle attività che le lega l’una all’altra, è la consapevolezza che la partecipazione alla Costituente e il varo della Costituzione sono solo i primi passi di un più lungo e tormentato percorso che – sperano tutte, cattoliche, comuniste, socialiste – porterà all’uguaglianza sostanziale tra i due sessi. Per usare le parole di Teresa Mattei: «Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo». Parole profetiche in un’epoca come la nostra dove i diritti delle donne – e con essi la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica – sono rimessi costantemente in discussione.

Vittoria Titomanlio

Vittoria Titomanlio

NOTE:
[1] Elettra Pollastrini, Laura Bianchini, Teresa Noce, Adele Bei e Angela Guidi Cingolani.
[2] Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi
[3] Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio
Maria De Unterrichter Jervolino
Maria De Unterrichter Jervolino
[4] Angelina Merlin e Bianca Bianchi
[5] In ordine di anno di nascita: Angelina Merlin, Rita Montagnana, Elisabetta Conci, Angela Guidi Cingolani, Vittoria Titomanlio, Maria Federici, Teresa Noce
[6] Maria De Unterrichter Jervolino, Laura Bianchini, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Angela Gotelli, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini
[7] Maria Nicotra, Bianca Bianchi, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Leonilde Iotti, Teresa Mattei
[8] Nel 1987 è incaricata dal Presidente della Repubblica Cossiga di mandato esplorativo per la soluzione della crisi di governo, sfociata poi nelle elezioni anticipate; un doppio primato: fu la prima donna e la prima comunista a ricevere tale incarico.



Dal Serchio al Piva: i lucchesi della “Garibaldi”

Dal settembre 1943 al marzo 1945 nei Balcani migliaia di soldati italiani provenienti dal disciolto Regio esercito combattono contro i tedeschi nelle file di quegli stessi movimenti di resistenza sino ad allora ferocemente cacciati e repressi: brigate partigiane interamente composte da italiani si formano in tutti i paesi precedentemente occupati dalle nostre truppe e soprattutto in Jugoslavia, dove il fenomeno assume una particolare consistenza e si registra la presenza di numerosi combattenti toscani. Come il fiorentino Brunetto Parri, militante comunista e disertore in Croazia al fianco dei partigiani di Tito, nome di battaglia “Spartaco” (in memoria dell’omonimo ferroviere Lavagnini, ucciso dagli squadristi nel 1921); o il carabiniere massese Mazzino Ricci, il “Ridji” protagonista di una canzone popolare montenegrina che ne canta l’abilità con la mitragliatrice Breda.

È proprio in Montenegro che ci imbattiamo in numerosi soldati originari della provincia di Lucca, appartenenti ai reparti della divisione di fanteria da montagna “Venezia”: inviata nel paese nel luglio 1941 allo scopo di reprimere l’insurrezione che minaccia di compromettere il controllo italiano sulla regione, dopo l’otto settembre – con i suoi oltre 12mila effettivi – costituirà assieme ai reparti alpini della “Taurinense” il nucleo principale della divisione italiana partigiana “Garibaldi”, costituita ufficialmente il 2 dicembre 1943. Di alcuni di questi soldati perdiamo ogni traccia prima dell’armistizio: come i massarosesi Attilio Lipparelli di Quiesa (classe 1921) e Idilio Albiani di Pieve a Elici (1912), le cui ultime notizie risalgono rispettivamente al mese di agosto e al 3 settembre 1943 (sebbene per Albiani si parli di una sua presenza non confermata a Belgrado nel 1944). Più fortunati saranno i loro concittadini Francesco Coppedè e Angelo Cosci, rientrati in Italia nel giugno 1945 il primo e in aprile il secondo: quello di Cosci è un caso più unico che raro, essendo egli approdato alla “Garibaldi” dopo aver servito nel LXXXVI battaglione delle camice nere, rimaste alleate dei tedeschi. Restano ignoti i motivi dietro la sua scelta.

Al momento dell’armistizio la “Venezia” presidia l’area orientale del paese ai confini con il Kosovo, dove le truppe tedesche ancora non sono giunte: il comandante della divisione, generale Oxilia, si pronuncia fin da subito per la resistenza, ma è incerto rispetto alla condotta da adottare nei confronti dei partigiani così come dei reparti collaborazionisti cetnici, ferocemente anticomunisti. Mentre l’azione del generale è paralizzata dalla questione delle alleanze, i tedeschi cominciano a muoversi: uno dei primi tentativi di infiltrazione delle linee di difesa italiane è sventato dalla XI compagnia del capitano Paolo Bardini di Seravezza, che fa aprire il fuoco su una colonna di autocarri tedeschi che si erano messi in movimento col favore della notte.

Nel mese di novembre la “Venezia” è ormai convertita alla guerra partigiana, dopo gli accordi di Kolasin fra il capitano Mario Riva e il comandante partigiano Peko Dapcevich stipulati alla fine di settembre (e ratificati in ottobre dai comandi italiani). Non è una facile convivenza per soldati nati e cresciuti sotto il fascismo, nutriti da anni di propaganda anticomunista: come scriverà il reduce Enrico Bedini, di Gombitelli, “la parola comunista mi dava un senso di terrore. Avevo sentito parlare di loro come degli orchi delle fiabe e il mio animo era impressionabile come quello di un fanciulletto”. Numerosi soldati cadono in combattimento in quelle settimane: l’ufficiale Lando Mannucci, allora a capo del I battaglione che difende Kremna dall’assedio di reparti tedeschi e bulgari, ricorda la presenza di tre lucchesi fra i caduti (Guido Mencacci, Bruno Munari e Giovanni Salvietti, decorati alla memoria). Il 30 novembre, pochi giorni prima della fondazione della “Garibaldi”, cade invece durante l’assalto ad un caposaldo tedesco, colpito da una bomba nemica, Ottavio Cavalzani (nato a San Gennaro di Lucca nel 1914).

La neo-costituita divisione vive subito un duro battesimo del fuoco: il 5 dicembre i tedeschi scatenano quella che nella storiografia jugoslava viene ricordata come la “VI offensiva”, giunta tanto più inaspettata in quanto avviata alle soglie di quello che si preannuncia come un inverno particolarmente rigido; è probabilmente nelle primissime fasi di questa operazione che viene fatto prigioniero Luigi Gemignani – classe 1921, di Massarosa – per il quale si apre la dura stagione dell’internamento (dapprima per mano dei tedeschi, che lo deportano forse in Bielorussia, quindi nuovamente quando i sovietici liberano il campo dove era stato internato, reclamando gli italiani come prigionieri di guerra, prima di tornare in Italia nel novembre 1945).

Nelle settimane successive all’attacco tedesco le brigate sono divise, e devono combattere duramente contro il clima, la fame e i ripetuti agguati nemici: a tutto questo si aggiunge, nel gennaio 1944, un’epidemia di tifo. I comandi partigiani, a fronte della situazione sempre più drammatica, decidono in febbraio di inviare parte delle forze italiane in Bosnia, anche alla luce della carestia che ha colpito il Montenegro, la cui popolazione non può più sostentare i combattenti: è probabilmente durante una di queste marce interminabili attraverso il territorio bosniaco – vera e propria epopea del dolore che segna indelebilmente la memoria della “Garibaldi” – che il fante Giovanni Paladini, nato a Mutigliano nel 1921, subisce il congelamento di entrambe le gambe, fortunatamente non grave al punto da richiederne l’amputazione, ma che gli lascerà problemi di circolazione che lo tormenteranno tutta la vita. Sono mesi durissimi, durante i quali, ricorderà ancora Paladini in uno dei rari racconti che farà alla famiglia degli anni di guerra, il cibo scarseggia al punto che i soldati debbono nutrirsi di bucce di patate: la drammaticità di quei frangenti non incrina però l’affetto di Paladini per la popolazione locale, che raramente nega la propria solidarietà e assistenza agli italiani. Nello stesso anno sempre in Bosnia nel mese di maggio cade, dopo una strenua resistenza allo scopo di favorire l’arretramento dei propri uomini su posizioni più facilmente difendibili, Giovanni Giuliani, nato a Barga nel 1921, già caporale di reggimento nella “Venezia”. Solo poche settimane prima la Bosnia è stata il teatro della tragedia del capitano Pietro Marchisio, ucciso dal tifo e dalle marce estenuanti per riportare nel più sicuro Montenegro i propri uomini: è un lucchese, il sergente maggiore Emilio Boy, ad aiutare Marchisio ad attraversare la pericolante e malridotta passerella di assi e corda sul fiume Piva, trasportando il capitano e molti altri soldati ammalati sulle sue spalle.

Spostandoci dalla Bosnia alla Serbia troviamo Amadeo Paolettoni, lucchese, classe 1921, già della “Venezia” e poi attivo nella brigata “Italia” (l’altra grande formazione partigiana interamente italiana attiva in Jugoslavia), caduto a Belgrado nell’ottobre 1944 durante una missione di rifornimento munizioni. Poco più di due mesi dopo, il 1° gennaio 1945, il Montenegro è completamente liberato, e verso la metà di febbraio i reparti garibaldini – reduci dalla battaglia per la liberazione di Mostar in Erzegovina combattuta quello stesso mese – ricevono l’ordine di concentrarsi a Dubrovnik in vista del rimpatrio, che avviene a partire dall’otto marzo: non tutti i soldati però rientrano immediatamente. Numerosi sono i dispersi che per quasi un anno continueranno ad affluire alla base italiana di Dubrovnik, così come non mancano i casi nei quali gli stessi jugoslavi, ancora in guerra, trattengono gli italiani – soprattutto il personale sanitario – presso le proprie brigate: è quello che accade all’ufficiale medico Giuseppe Marchetti, nativo di Pescaglia, rimasto in servizio in qualità di direttore chirurgico dell’ospedale militare della XXIX divisione d’assalto Erzegovina fino al 24 maggio 1945.