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Le Chiese “degli ebrei”

Su impulso del cardinale di Firenze Elia Dalla Costa e grazie all’impegno del clero, varie chiesa della città divennero rifugio per gli ebrei braccati dai nazifascisti.

Chiesa di San Gaetano

Indirizzo: Piazza degli Antinori – via de’ Tornabuoni

Il parroco della chiesa di San Gaetano, monsignor Giuseppe Capretti, durante l’occupazione nazista prestò aiuto a numerose famiglie ebree perseguitate. La chiesa di San Gaetano era anche sede della comunità religiosa tedesca, il cui parroco era Theodor Bützler, il quale svolse funzioni di interprete e mediatore con il Consolato e i comandi germanici. Il parroco Bützler tentò inoltre di salvare degli ebrei tedeschi che si erano trasferiti a Firenze ed erano entrati a far parte di circoli di emigranti antinazisti.

Chiesa San Felice in Piazza

 Indirizzo: Piazza San Felice n°5

Durante la seconda guerra mondiale e l’occupazione tedesca, la Chiesa di San Felice in Piazza divenne uno dei luoghi più attivi della resistenza in Oltrarno e per la protezione degli ebrei perseguitati. Il parroco di San felice in Piazza, don Bruno Panerai, aprì le porte della sua parrocchia a partire dagli inizi di settembre del 1943. Tra le numerose azioni svolte offrì ospitalità al sottocomitato di liberazione d’Oltrarno, distribuì viveri e sussidi in denaro, allestì un ospedale nei giorni dell’emergenza. Inoltre nascose per circa sei mesi, in una stanza annessa all’archivio parrocchiale, un ebreo straniero di nome Habermann e fece ospitare altri ebrei da famiglie della parrocchia facendogli visita periodicamente. L’azione di Panerai non si rivolse solo agli ebrei ma anche ai soldati reduci o evasi, agli ufficiali e renitenti alla leva, ai ricercati dalle SS (Schutzstaffel o squadre di protezione), etc. La parrocchia quindi accolse, dette rifugio e aiuto a molti ebrei e perseguitati grazie al buon animo di Don Bruno Panerai, che rappresentò una delle figure di spicco della resistenza cattolica dell’Oltrarno.

 

Chiesa dei Santi Gervasio e Protasio

 Indirizzo: Piazza Ss.Gervasio e Protasio

Durante la seconda guerra mondiale e il periodo dell’occupazione tedesca, la Chiesa dei Santi Gervasio e Protasio divenne uno dei principali punti di riferimento dell’antifascismo fiorentino. Il parroco, don Pio Carlo Poggi, fu impegnato in un’intensa attività assistenziale. Si impegnò per l’allestimento di un rifugio antiaereo destinato agli abitanti del rione Oltrarno e di un ambulatorio, che trasformò durante il periodo dell’emergenza in un piccolo ospedale. Don Poggi nascose armi destinate alle formazioni partigiane e dette rifugio a numerosi ex-militari, giovani renitenti alla leva, ricercati politici ed ebrei. Con lui collaboravano Edoardo Da Fano, antifascista cattolico e numerosi medici. Per l’opera prestata durante l’occupazione, a don Poggi fu conferita nel 1947 la medaglia di bronzo al valor militare.

 




Palazzo dell’Arcivescovado di Firenze

Palazzo sede dell’Arcivescovo e luogo di attenuazione dei contrasti politici tra fascisti e antifascisti. L’archidiocesi fu retta dal cardinale Elia dalla Costa che fu apprezzato per l’aiuto prestato agli ebrei. Grazie al sostegno dei propri collaboratori, monsignor Meneghello e monsignor Tirapani, e di tutto il clero fiorentino, Dalla Costa realizzò una vera e propria rete di protezione a difesa degli ebrei perseguitati.

Dopo l’uccisione del colonnello Gobbi e la fucilazione di cinque antifascisti il presule con una notifica al clero (dicembre 1943) condanna la violenza e raccomanda “umanità e rispetto” suscitando perplessità. Inoltre la curia divenne luogo di collegamento fra notabili e diplomatici fiorentini impegnati nella attribuzione a Firenze città dello status di città aperta nell’estate del 1944. Nonostante questi tentativi la città di Firenze non fu risparmiata dalla guerra e dai suoi disastri.

Nel 1945 fu concessa la cittadinanza onoraria al cardinale Della Costa, riconoscimento per l’azione tendente a salvaguardare Firenze dalle offensive della guerra.

 




Le Fabbriche Lucchesi e Campolmi (Prato)

Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia proclamò per il 1° marzo 1944 lo sciopero generale in tutti i territori ancora occupati dai nazi fascisti: era un modo per consolidare i primi successi ottenuti dalla lotta per la Resistenza, per chiedere la fine della guerra e per reclamare migliori condizioni per i lavoratori; era insomma un segnale perentorio di lotta frontale al nazifascismo.

lucchesi pratoA Prato lo sciopero iniziò sabato 4 marzo e l’adesione fu totalitaria: ne rimasero sorprese non solo le autorità nazifasciste, sconvolte da quetso “affronto”, ma anche gli organizzatori e l’antifascismo locale. Le fasi di preparazione della mobilitazione avevano coinvolto tutto il territorio pratese, da Quarrata a Galciana, dal centro di Prato alla Val di Bisenzio. Proprio il lanificio Forti della Briglia fu la prima fabbrica ad aderire massicciamente allo sciopero, grazie anche a picchetti, posti di blocco e qualche colpo di arma da fuoco che convinse anche i più restii. Sul muro del lanificio nella notte erano comparse scritte inneggianti alla lotta e al comunismo e i volantini dello sciopero erano dappertutto. Da qui l’astensione dal lavoro dilagò per tutte le fabbriche di Prato.
L’adesione allo sciopero fu talmente massiccia che la notizia giunse anche all’orecchio di Hitler, che per rappresaglia impartì l’ordine di deportazione in Germania nei campi di sterminio del 20% della forza lavoro pratese, che in quei giorni avrebbe significato la cattura di almeno 1900 uomini; l’impresa era mastodontica e fortunatamente impossibile da realizzare per i fascisti pratesi, che si misero comunque subito a lavoro, chiamando rinforzi da Firenze e Lucca. I primi arresti in seguito allo sciopero generale del 4 Marzo avvennero il giorno stesso.
campolmi-lazzeriniLa prima azione fascista fu di andare a cercare nelle abitazioni dei sospetti antifascisti, poi fu organizzato un rastrellamento meticoloso, con un imponente schieramento di forze per lo sbarramento degli incroci principali della città: porta al Serraglio, piazza S.Agostino, piazza Mercatale, piazza S.Marco, piazza delle Carceri, furono luoghi utili alla cattura dei passanti.
Molte persone furono catturate il giorno 7 marzo in Piazza S.Agostino, sconvolta come se non bastasse da un bombardamento alleato che aveva colpito anche piazza Mercatale e distrutto il tabernacolo di Filippino Lippi; altri vennero catturati dalle ronde volanti che partendo dalla Fortezza, sorprendevano i malcapitati ovunque fosse possibile.
Le aziende furono obbligate a consegnare l’elenco dei dipendenti che avevano scioperato: il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Vivo si recò con i suoi militi allo stabilimento di Leopoldo Campolmi; la cimatoria Campolmi era forse la più grande rifinizione cittadina e si trovava proprio in centro, addossata a porta Frascati (oggi sede della biblioteca comunale A. Lazzerini). Il maresciallo chiamò gli operai che avevano scioperato e ne portò via 14.
Allo stabilimento di Vasco Sbraci di via Ferrucci i fascisti si recarono mentre i dipendenti erano alla mensa; li chiamarono nel piazzale e fecero due gruppi, poi quelli che avevano scioperato furono fatti salire sull’autobus che attendeva fuori e portati via, ma lo Sbraci, noto fascista che aveva fatto scrivere a lettere cubitali W IL DUCE sulla ciminiera del suo lanificio a dimostrazione della propria fedeltà al regime, preoccupato per il destino dei suoi operai e forse anche di più per il futuro della sua azienda, riuscì con le sue conoscenze a farli rilasciare.
Ultima incursione dei fascisti fu al lanificio Lucchesi, in zona Macelli: qui furono prelevati 18 operai che avevano scioperato. Dal Lucchesi lo sciopero era stato totale, ma molti riuscirono a scamparla fuggendo da una porta secondaria.
Molto si è dibattuto sul ruolo degli industriali pratesi durante la cattura delle loro maestranze: sembrò inizialmente che ci fosse stata collaborazione, ma i documenti e le testimonianze trovate in seguito smentiscono questa ipotesi. Gli stessi imprenditori furono presi alla sprovvista dal rastrellamento e se non fecero niente per evitarlo è perché non poterono o arrivarono troppo tardi.

pietre d'inciampo pratoTutti i fermati tra il 4 e l’8 marzo 1944 furono portati alle scuole Leopoldine a Firenze in Piazza S.Maria Novella; destinazione era la Germania nazista e i suoi campi di concentramento: Mauthausen, Ebensee, Linz, Gusen.
L’11 marzo il treno con il suo triste carico giunse alla stazione di Mauthausen in Austria. Dei 137 deportati pratesi soltanto 21 tornarono a casa, 18 dei quali erano operai arrestati in seguito allo sciopero, gli altri tre in momenti diversi.
Recentemente nei pressi della fabbrica Lucchesi e della cimatoria Campolmi sono state installate dall’artista tedesco Gunter Demnig alcune “pietre d’inciampo”, dei piccoli sanpietrini d’ottone inseriti nel tessuto urbano della città che colpiscono lo sguardo del passante, con l’intento di perpetuare la memoria dei cittadini pratesi deportati nel marzo 1944.

Scheda compilata a cura della Fondazione CDSE e delle classi III dell’istituto comprensivo F. Lippi di Prato, nell’ambito del progetto Mappe della Memoria, finanziato dalla Regione Toscana per il 70° della Resistenza.




I Faggi di Javello (Vaiano)

Sul versante destro del fiume Bisenzio, giusto di fronte ai monti della Calvana, si trovano i Faggi di Javello, una vasta area boschiva protagonista dal febbraio 1944 delle azioni dei partigiani della brigata Orlando Storai e in seguito base per la brigata Bogardo Buricchi. Schignano è il centro di questa vasta area, luogo di raccolta per tutti quei ragazzi che dopo l’8 settembre 1944 rifiutano di arruolarsi nel ricostituito esercito della RSI e scelgono, invece, “la via dei Faggi”. Da Schignano partono i rifornimenti alimentari per i partigiani e le staffette arrivano con messaggi e ordini; nei boschi sopra Vallupaia, in località Ebani, è nascosto, e controllato dai partigiani, il bestiame di vari contadini che tentano così di salvarlo dalle requisizioni tedesche.
Dalla primavera 1944 tutta quest’area, da Albiano, passando per Schignano fino a Migliana, ospita migliaia di sfollati dal fondovalle e tutti, salendo dalla Costa, vengono fermati e controllati da Menghino alla Casa Rossa, avamposto partigiano e centro di osservazione dei movimenti fascisti. Nonostante questo brulicare di vita, Schignano non viene risparmiata dalle azioni belliche, anzi, uno dei primi bombardamenti della Val di Bisenzio, il 21 gennaio 1944, cade proprio sul paese, in località il Poggio, dove alcuni ragazzi stanno giocando con delle capre: i 30 spezzoni caduti causano la morte di 6 persone.
partigiani javelloDal gelido inverno ’44, sotto la guida di Armando Bardazzi detto “Gianni”, è attiva sui Faggi la squadra partigiana Orlando Storai, di cui fanno parte anche molti ragazzi di Vaiano e Schignano. La prima vera azione armata avviene il 22 marzo, dopo una soffiata che annuncia un rastrellamento tedesco. I partigiani decidono di agire per primi e cogliere di sorpresa i nemici: dal Pian dei Massi percorrono il crinale e lungo lo stradello dei Tabernacoli raggiungono Poggio alla Vecchia, proprio sopra la chiesa di Migliana, nel cui piazzale bivaccano i nazi-fascisti. Colti di sorpresa i repubblichini si sparpagliano, incendiando il bosco, ma rinunciando al rastrellamento. Si tratta più che altro una dimostrazione di forza, ma i partigiani mostrano di non avere paura. Dopo questa azione, la Orlando Storai muove verso il Falterona e piano piano si disgrega.
Verso la fine del maggio 1944 il C.N.L. (Comitato di Liberazione Nazionale) approva la formazione di una nuova brigata guidata sempre da Armando Bardazzi e Carlo Ferri e l’invio di armamenti e rifornimenti ai partigiani. In pochi giorni si superano i 100 uomini, provenienti per lo più dalla Val di Bisenzio. La formazione prende il nome di Brigata Buricchi, in onore dei fratelli Buricchi che l’11 giugno avevano fatto saltare, a Comeana, vagoni carichi di tritolo destinati ai nazi-fascisti per la completa distruzione dell’industria pratese. L’accampamento partigiano viene costruito al Pian delle Vergini, sul crinale del Monte Javello.
Tra il luglio e l’agosto 1944 si hanno molti scontri tra partigiani e fascisti alle Cavallaie, alle Banditelle, presso Porciglia; spesso a pagarne le conseguenze sono i civili, i contadini come Leone Mengoni e Demizio Fuligni, che vengono uccisi dai tedeschi per rappresaglia nei confronti di azioni partigiane avventate o non andate a buon fine. La brigata Buricchi è protagonista anche della terribile battaglia di Pacciana, che porterà al tristemente famoso eccidio dei 29 Martiri di Figline.
Fatti ancora più cruenti avvengono in seguito al 6 settembre 1944: l’8 settembre, dopo l’impiccagione dei 29 partigiani, i tedeschi salgono a Schignano e compiono diverse rappresaglie. Presso Monte Casioli trovano i tre fratelli Favini della Tignamica e li freddano brutalmente; nel bosco sopra le Case Vecchie vengono fermati 6 uomini accusati di essere partigiani (solo 2 in realtà lo sono): 4 sono impiccati a Spirito e 2 uccisi mentre tentano la fuga. Solo due giorni dopo, il 10 settembre, gli abitanti di Schignano salutano l’arrivo della colonna alleata e possono dare degna sepoltura ai loro caduti.

Testimonianza di Renato Pozzi, partigiano della brigata Buricchi, conservata presso l’archivio CDSE:
Ai primi di giugno la formazione si riorganizzò e si ricostituì il campo base ai Faggi di Javello. Le baracche furono costruite in fila lungo il crinale, tutte verso le Banditelle, perché su quel lato c’era la macchia di faggio alta; salendo dalle Prata, appena il crinale spianeggia, c’era la cucina, poi l’infermeria, l’armeria e le baracche del dormitorio, che alla fine arrivarono a cinque per contenerci tutti e l’ultima addirittura a due piani, proprio di faccia al Faggio della Madonna.”

Scheda compilata a cura della Fondazione CDSE e della classe III A dell’istituto comprensivo L. Bartolini di Vaiano, nell’ambito del progetto Mappe della Memoria, finanziato dalla Regione Toscana per il 70° della Resistenza.




Torricella (Vernio)

La Val Bisenzio fu investita in pieno dal passaggio del fronte: i continui bombardamenti alleati che colpirono Vernio dalla primavera-estate del 1944 devastarono la linea ferroviaria Direttissima, la stazione e l’imbocco della Grande Galleria dell’Appennino tra Toscana e Emilia Romagna. Momenti altrettanto drammatici furono vissuti dagli abitanti di San Quirico, fatti evacuare dalle loro case dai soldati tedeschi in ritirata. Nella confusione del momento molti si rifugiarono nella valle del Rio Meo, sistemandosi alla meglio sotto la Crocetta: così facendo si ritrovarono sotto il tiro incrociato delle artiglierie proprio nei giorni più prossimi alla Liberazione.

Quando ormai Prato era liberata da giorni, il territorio di Vernio visse infatti il suo momento di maggiore emergenza, ritrovandosi tra l’avanzata degli Alleati e le postazioni fortificate della Linea Gotica. La Linea Gotica fu l’ultima linea difensiva e fortificata della campagna d’Italia: menzionata nei documenti tedeschi come ‘Linea Verde’ (e passata alla storia come ‘Linea Gotica’ perché ricalcava, seppur in parte, la linea difensiva bizantina durante la guerra contro i Goti nel VI secolo), collegava la pianura costiera di Massa ad Ovest con quella di Rimini ad Est, seguendo all’incirca il 44° parallelo. La realizzazione dei lavori della Linea Gotica fu affidata alla Todt, organizzazione militarizzata alle dipendenze della Wermacht, che in Italia appaltava i cantieri a ditte italiane utilizzando spesso manodopera locale. Il territorio di Vernio per tutto il 1944 fu interessato da un’intensa attività di costruzione di postazioni, avamposti, trincee: i boschi ancora conservano le ferite della guerra come piazzole, bunker, nidi di mitragliatrici.

red bull divisionIntorno al 10 settembre 1944, con l’avanzata sul crinale della Calvana, iniziò l’attacco alleato al crinale tra il Mugello e la Val Bisenzio; parallelamente i tedeschi si trincerarono tra la fattoria delle Soda fino al passo della Crocetta, dove sostavano alcuni carri armati tedeschi che sistematicamente apparivano allo scoperto, sparando una serie di colpi e ritornando subito dopo al riparo. Dal 14 al 22 settembre si intensificarono gli scontri e il Poggio della Torricella divenne il feroce campo di battaglia tra i fanti della 334ª Infanterie Division tedesca e quelli della 34ª ‘Red Bull’ Division americana. Finalmente, il 23 settembre, dopo aver espugnato il caposaldo di quota 810 alla Torricella ed essere entrati a Montepiano dal valico della Crocetta, gli Alleati raggiunsero San Quirico passando dal Gallo: trovarono il paese completamente vuoto.

Dal 2003 sul luogo della cruenta battaglia è stato istituito dal Comune di Vernio, dalla Provincia di Prato, dall’Unione dei Comuni della Val di Bisenzio e dall’UNUCI, il Parco Memoriale della Torricella, un museo all’aperto raggiungibile anche a piedi tramite un sentiero della memoria che permette di raggiungere i luoghi degli scontri del settembre 1944, con fortificazioni, postazioni belliche e trincee ancora visibili.

Testimonianza orale di Remo Fiesoli, conservata presso l’archivio CDSE: “Ci avevano ordinato di radunarci tutti nella piazza di San Quirico per andare a Montepiano, ma ci fu confusione e noi si risalì il rio Meo e il fosso del Casigno. C’era tanta gente, anziani, bambini, proprio sotto la casa di Castagnolo. La notte si scatenò l’inferno. Dai poggi di Mezzana ci sparavano i tedeschi, perché pensavano che fossimo americani, da Le Soda ci sparavano gli americani perché pensavano che fossimo tedeschi e tutti picchiavano. Morirono sotto le cannonate un uomo e due donne, che si videro morire. La mattina si prese la strada della Bandiera e nel punto più scoperto si fece una corsa e ci si buttò nel rifugio di Celle.”

Visite: Parco Memoriale della Torricella
Per info e prenotazioni: comune@comune.vernio.po.it e info@lineagoticavernio.it

Scheda compilata a cura della Fondazione CDSE e delle classi III A e III B dell’istituto comprensivo Pertini di Vernio, nell’ambito del progetto Mappe della Memoria, finanziato dalla Regione Toscana per il 70° della Resistenza.




Carbonale (Vernio)

All’inizio del giugno 1944, a seguito dell’intensificarsi dei bombardamenti alleati in Val di Bisenzio, le forze nazifasciste iniziarono a dislocare alcune batterie antiaeree, ispezionando varie località del colle di Sant’Ippolito e piazzando postazioni antiaeree a Stavolaccio e Toponi, poco sopra l’abitato di Vernio.
pilota aereo americanoIl 7 giugno 1944 una formazione di 18 B-25 (12ª Air Force americana), accompagnati da 8 Spitfire inglesi, sorvolò Vernio verso le 17: appena arrivati in Val di Bisenzio la contraerea tedesca, posizionata al Pianatino e a Spazzavento nei pressi di Sant’Ippolito, colpì alla coda uno degli aerei, che si spezzò in volo. L’aereo (matricola 43-4059) cadde nei pressi della località Carbonale, nei boschi di Poggiole: nello schianto morì tutto l’equipaggio del velivolo tranne un componente, che riuscì a paracadutarsi fuori prima dell’impatto.

A 70 anni dal tragico evento l’Associazione Linea Gotica Alta val Bisenzio ha ricostruito la storia di questo abbattimento, collocando nel luogo dello schianto un monumento a ricordo dell’equipaggio e contattando negli Stati Uniti i parenti dei soldati caduti.
Verso la fine di agosto, con l’avanzare del fronte e l’imperversare della battaglia a difesa della Linea Gotica, i tedeschi iniziarono a far saltare gli imbocchi delle gallerie e i viadotti sulla ferrovia; a Mercatale di Vernio furono distrutti alcuni edifici nel borgo e i due ponti sul Bisenzio. Poggiole divenne un’importante postazione difensiva con trincee e piazzole su entrambi i versanti, quello che guarda Mercatale e quello verso San Quirico. Proprio per la sua posizione strategica, la medievale chiesa di San Michele di Poggiole, che impediva la visuale dell’Osservatorio occupato dai tedeschi sul monte di Mezzana ed era un punto di riferimento per i bombardieri angloamericani, fu fatta saltare in aria dai tedeschi insieme alle case dell’intero paese. In luogo dell’antica chiesa, tra il 1964 e il 1965, è stato costruito un Santuario dedicato a Sant’Antonio Maria Pucci.
In quella stessa terribile estate del 1944 era già iniziato da tempo anche il fenomeno dello sfollamento, che divenne sempre più coatto dal luglio, quando i tedeschi iniziarono ad affiggere manifesti nei quali si ordinava l’abbandono forzato degli insediamenti: gli abitanti di Sant’Ippolito lasciarono il paese il 30 luglio, quelli di Cavarzano il 3 agosto. Molti si nascosero nei pressi dell’Alpe di Cavarzano, ovvero nella zona de Le ‘Rocche’, dove cigli, grotte e cavità naturali furono adattati a rifugi da decine e decine di persone.

monumento carbonaleProprio la piazza antistante il santuario di Poggiole è il punto di partenza per un itinerario guidato che, con opportuna segnaletica, conduce nei luoghi dove, nel giugno del 1944, fu abbattuto l’aereo americano B-25J Mitchell e dove, tra la primavera e l’estate dello stesso anno, l’esercito tedesco posizionò numerose postazioni difensive, minando edifici e obbligando la popolazione ad abbandonare le proprie case.

Testimonianza orale di Alfio Bessi, conservata presso l’archivio della Fondazione CDSE:
Ricordo che durante i primi bombardamenti un apparecchio americano venne abbattuto dalle batterie contraeree tedesche piazzate al Pianatino a Sant’Ippolito. Ero su un poggetto sopra San Quirico e l’aereo in fiamme veniva proprio verso di me. All’improvviso si staccò il motore e un pezzo d’ala, tanto da farlo deviare contro la montagna posta a trecento metri sulla mia destra. Dopo un po’ esplose, disintegrandosi. Nel frattempo gli occupanti si erano lanciati con il paracadute: uno fu ucciso da un tedesco appena toccata terra, altre tre perirono e uno riuscì a fuggire.

Visite: trekking della memoria lungo l’itinerario verso Carbonale (luogo dello schianto del B-25J) e visita alla mostra permanente dei reperti curata dall’Associazione Linea Gotica Alta val Bisenzio.
Per info e prenotazioni: info@lineagoticavernio.it

Scheda compilata a cura della Fondazione CDSE e delle classi III A e III B dell’istituto comprensivo Pertini di Vernio, nell’ambito del progetto Mappe della Memoria, finanziato dalla Regione Toscana per il 70° della Resistenza.




Istituto “Suore Serve di Maria SS. Addolorata”

Il Card. Elia Dalla Costa istituì in Firenze un comitato, di cui facevano parte don Leto Casini, padre Cipriano Ricotti, il rabbino Natan Cassuto ed altri, con il compito di accogliere e nascondere gli ebrei per salvarli dalla persecuzione nazista e fascista. Convennero perciò in Firenze, sapendo di potervi trovare aiuto, ebrei che fuggivano anche da altre nazioni.
Un delatore presente nel comitato svelò ai nazisti questo meccanismo, portando all’arresto di molti ebrei.
Fortunatamente non fu il caso del nostro convento che ospitava, nascoste fra le educande, 12 bambine ebree provenienti dalla Polonia, dal Belgio e dalla Francia. Probabilmente solo la Madre Maddalena Cei era al corrente della loro reale identità, benché suor Lodovica abbia poi ricordato il loro arrivo e di averle dovute provvedere, su ordine della Madre, di tutto, poiché arrivarono smagrite, spaventate e senza alcun corredo.
Le cronache riportano che ci fu una irruzione dei tedeschi, ma nessun arresto.
Le bambine arrivarono nell’autunno del 1943. Finita la guerra, nel dicembre ’44 le bambine furono recuperate dai loro genitori o tutori. I documenti in nostro possesso riportano solo il caso di due sorelline, Sara e Michal Nissenbaum che in convento presero il nome di Odette e Michelina Laurent: poiché avevano perso tutta la famiglia, il tribunale dei Minori ne affidò la patria potestà al Rabbino capo di Firenze, che così autorizzato venne a prenderle al convento per trovare loro una sistemazione definitiva. Tale carteggio è rimasto nella documentazione del convento.
Pensate che la delicatezza del Cardinale si spinse a specificare che se le suore ritenevano di dover essere rimborsate delle spese sostenute, non ne facessero parola al rabbino, ma facessero piuttosto avere a lui la nota. Naturalmente le suore non stilarono nessuna nota.
Le suore si scordarono semplicemente l’intera faccenda.
Non se ne dimenticarono però alcune delle bambine ebree. In particolare le due sorelline Nissenbaum ricordavano l’anno trascorso con le suore avvolto in una luce di pace e di affetto. Sapendole sole al mondo le suore, ed in particolare suor Giuseppa e suor Lodovica, le circondarono di particolare amorevolezza. L’affetto disinteressato che avevano ricevuto, l’assenza di qualsiasi pregiudizio nei loro confronti e la totale mancanza di pressioni per la loro conversione erano rimaste impresse nella memoria delle bambine.
Con grande sorpresa delle suore, che non ricordavano affatto questo episodio, anche perché circondato all’epoca di comprensibile riserbo, si presentarono nell’estate 1995 due signore, la figlia di Sara Nissenbaum e la sorella di altre due bambine, Malvina e Gisella Renveni, venute a vedere il luogo dove avevano trovato rifugio le loro congiunte. Nell’agosto 1996 fu Paulette Dresdner a voler rivedere le suore che l’avevano accolta e salvata. Nel marzo 1997 Sara Nissenbaum iniziò le pratiche perché il nostro Istituto vedesse pubblicamente riconosciuto il bene fatto, a memoria ed edificazione delle future generazioni. A giugno dello stesso anno anche Malvina e Gisella (per le suore, in realtà si chiamano Dalia e Zehava) vennero a riabbracciare le suore, in una allegra confusione di lingue poiché l’unica testimone dei fatti in vita, suor Lodovica, non sapeva l’inglese. Infine anche Sara (Odette) e Michelina (Michal) Nissenbaum riuscirono a rivedere il “loro” convento, nel 1998, in occasione del riconoscimento ufficiale di Madre Maddalena Cei come “Giusta fra le nazioni” il 28 ottobre, nell’ambito di una solenne cerimonia a Palazzo Vecchio, nel prestigioso Salone dei Cinquecento.
Una ex alunna scrittrice Giovanna Querci Favini ha inserito nel suo libro “Le dodici notti di Natale” un racconto liberamente ispirato a questo episodio, nel quale inserisce una drammatica incursione dei nazisti, che non riescono a trovare le bambine grazie alla prudenza della Madre Generale che ha voluto con forza che le bambine ebree partecipassero totalmente alla vita del convento, comprese preghiere e riti religiosi, contro i dubbi di una giovane suor Lodovica che già sembra vivere in una logica pienamente postconciliare. In realtà nel Natale 1943 i nazisti bussarono sì al convento, ma le suore finsero di non sentire, e i tedeschi, evidentemente non così determinati, se ne andarono via. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare i rischi che le suore, nella persona di Madre Maddalena Cei, si assunsero; e ci piace anche sottolineare che non lo fecero per una saggezza, un coraggio o uno slancio di eroismo proprio, ma semplicemente, in tutta umiltà, per un atto di obbedienza alla Chiesa, nella persona dei suoi pastori, il Cardinale Elia Dalla Costa e, sopra di lui, il Papa.

Nota storica predisposta dagli organizzatori in occasione della cerimonia di inaugurazione della targa in memoria delle suore di via Faentina, 13 gennaio 2016.




L’ospedale di via Giusti

Ferito nel corso della cattura, Bruno Fanciullacci, esponente di primo piano dei GAP fiorentini, è in cura dal professor Aldo Greco nell’Ospedale di via Giusti: le sue condizioni migliorano notevolmente, nonostante lui stesso si allarghi le ferite. I fascisti della banda Carità ne chiedono ogni giorno le condizioni, dichiarando di volersene occupare personalmente e di volerlo portare a Villa Triste.
I GAP decidono di liberarlo. Molte sono le motivazioni che potrebbero farli desistere dall’impresa: in primo luogo il compagno è ferito, costantemente sorvegliato, ed è necessaria una macchina per il trasporto; in secondo luogo il posto non si presta ad un’azione irruenta; in ultimo, ma non meno pericoloso, l’abitazione di Carità è situata proprio in via Giusti e sorvegliata giorno e notte da fascisti e militi in borghese.
Elio Chianesi, detto il Babbo, organizza la liberazione di Fanciullacci.

Il primo tentativo viene compiuto il 4 maggio. Luciano Suisola, detto Topino, Pilade Bani ed Umberto Mazzoli, detto Rigore, gironzolano nella zona. Topino, percorrendo in bici Borgo Pinti, viene fermato dagli uomini di Carità: la pistola non viene scoperta. I compagni, però, credendolo in pericolo, si avvicinano: cominciano a sparare, uccidendo uno dei fascisti, ma l’altro rimane ferito e riconosce il Bani. Pochi giorni dopo viene arrestato Rigore che ammette di conoscere il Bani, premurandosi di farlo avvertire perché scappasse dalla città. L’avvertimento però non giunge in tempo e il Bani viene arrestato dalla polizia fascista, condotto a Villa Triste e inviato in un campo di concentramento nazista, non facendone più ritorno.

Il secondo tentativo è dell’8 maggio. Giuliano Gattai presta la sua automobile, una Topolino, ai GAP e diventa loro compagno.
Alle sei di pomeriggio arrivano in via Giusti sulla Topilino Giuliano Gattai alla guida, Giuseppe Martini fasciato e macchiato di sangue di coniglio ed Elio Chianesi in funzione di aiuto del finto ferito. In bicicletta li seguono Luciano Suisola, Italo Menicalli e Aldo Fagioli. Chianesi e Martini salgono le scale del pronto soccorso, per le quali si accede anche alle corsie. Con l’aiuto di una crocerossina, mentre Topino e Menicalli bloccano ogni tentativo di fuga o di richiesta di aiuto dal centralino telefonico, Chianesi e Martini raggiungono la corsia di Fanciullacci e uccidono il milite posto alla sua guardia. Avvolgendo Fanciullacci in un impermeabile, lo portano giù per le scale e infine nella macchina che va via velocemente. Topino e Menicalli, subito dopo, lasciano la portineria, non sospettati dal piantone sul cancello.