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Monte Morello

Nel periodo della resistenza all’occupazione nazi-fascista, Monte Morello si rivelò essere il rifugio perfetto per le bande partigiane, dove molti partigiani impararono le tattiche della guerriglia e molti giovani alla macchia divennero partigiani.
Uno dei primi scontri che videro confrontarsi i fascisti e i partigiani ebbe luogo a Ceppeto il 15 ottobre 1943.
Due giorni prima dello scontro i nazifascisti avevano pubblicato sui giornali della città un avvertimento, firmato dal capo della provincia Manganiello, nei confronti delle bande armate: “Presi accordi con il comando militare germanico, rendo noto a tutti i soldati facenti parte di bande armate… che il termine di presentazione è stato prorogato al 20 c.m. A chi si presenterà entri tale data posso garantire che non sarà applicata sanzione alcuna… A decorrere da questa data, ufficiali e soldati verranno considerati franchi-tiratori e, come tali, passati per le armi…”
Il giorno dello scontro la Banda Carità, che era stata incaricata di scovare i partigiani che si erano nascosti nei boschi di Monte Morello, riuscì ad individuarne alcuni. Nello scontro persero la vita il fascista Gino Cavari e il capo dei partigiani Giovanni Checcucci, che viene tutt’oggi considerato il primo caduto della resistenza fiorentina.
La battaglia di Ceppeto per la banda Carità risultò essere una sconfitta perché nonostante fossero riusciti a prendere alla sprovvista il gruppo di partigiani, vennero disorientati da un attacco a sorpresa di Checcucci che si sacrificò per permettere ai compagni di scappare.

In ricordo del sacrificio di Checcucci, nel luogo in cui trovò la morte, è stato posto un monumento in sua memoria.




La casa della prof.sa Mary Cox

La sera del 19 giugno 1944 si svolge a casa della professoressa Mary Cox una riunione per stabilire come liberare alcuni patrioti dall’Ospedale militare e come reperire le armi. Con lei si trovano Rocco Caraviello, appartenente ai Gap, Edgardo Savioli, Vincenzo Vannini, sottotenente operante all’ospedale e il giovane ufficiale Franco Martelli. Uscendo dall’abitazione vengono fermati da alcuni uomini armati della Banda Carità, tra cui Antonio Corradeschi, Romolo Massai ed Elio Cecchi. Irrompono in casa, rubano 50.000 lire e malmenano e arrestano i presenti. Portano tutti prima all’albergo Savoia, poi a Villa Triste, dove vengono rinchiusi nelle cantine e torturati. Rocco Caraviello, invece, viene condotto vicino a Chiasso del Buco e ucciso con un colpo di pistola alla testa.
Nel frattempo altri della Banda vanno a casa Caraviello e maltrattano e arrestano Maria Penna e suo marito Rocco, cugino dell’altro.
All’alba del 21 giugno Mary, Maria e Vannini vengono trasportati su un camion, ma Vannini tenta e riesce nella fuga, nonostante una ferita. I fascisti allora riversano la propria rabbia sulle donne, uccidendole e infierendo sui cadaveri. I loro corpi saranno trovati da alcune lavoratrici.
Vannini riesce a rifugiarsi in una chiesa e viene portato all’Ospedale di Santa Maria Nuova: sarà l’unico a poter raccontare l’accaduto.
Martelli, Savioli e Caraviello saranno infatti trucidati a Campo di Marte.




Il seminario di Roccatederighi e la lapide che ricorda l’internamento degli ebrei

seminario-roccatederighiLa sede estiva del  seminario vescovile di Grosseto non è mai stato considerato luogo della memoria dell’ex campo di concentramento per ebrei di Roccatederighi. E’ una villa staccata dal paese, circondata da un parco, in mezzo al verde. Non è stato facile raccogliere qualche testimonianza tra i rocchigiani, che hanno nel tempo dimenticato (rimosso?) la vicenda degli ebrei. Qual che si sa del rapporto tra il paese e il campo è che gli ebrei talvolta accompagnavano i militi nelle loro uscite, che uno dei grossetani trovò una fidanzata, poi diventata sua moglie, proprio grazie alle uscite dal campo. Sappiamo anche che il parroco e altri, alla fine della vita del campo, custodirono bauli e oggetti ricevuti in deposito dagli internati, che le ricerche successive di parenti, attraverso le organizzazioni di aiuto, in particolare la DELASEM, consentirono di restituire. La fine del campo coincise con un momento difficile, di scontro finale tra fascisti e antifascisti. Ci fu l’uccisione di alcuni uomini, proprio nelle vicinanze del seminario, durante uno scontro armato; forse anche questo episodio a lungo controverso nella ricostruzione ha contribuito  mettere a tacere ricordi e narrazioni, che chiamano in causa il momento di apertura dei cancelli del campo e la fuga di perseguitati e persecutori.

Nel tempo il vecchio edificio è stato affiancato da una costruzione, voluta dal vescovo  Galeazzi (lo stesso dell’epoca del campo) per ospitare attività di formazione e soggiorni estivi. Tutto il complesso però era da tempo in stato di abbandono, quando sono iniziati lavori di ristrutturazione per la realizzazione di un progetto di carattere sociale. Non vi era dunque traccia della memoria del campo, fino a quando l’ISGREC ha proposto alla Curia e alle istituzioni (Provincia di Grosseto, Comune di Roccastrada) di porre lì una lapide. Questo è avvenuto nel 2010, con la partecipazione della Comunità ebraica di Livorno. Da allora le visite si sono di molto accresciute e si è moltiplicato l’interesse verso questa triste pagina della nostra storia.

 lapide_roccatederighi

Il testo della lapide:

IN QUESTO LUOGO, PARZIALMENTE TRASFORMATO IN CAMPO DI CONCENTRAMENTO, TRA IL 28 NOVEMBRE 1943 E IL 9 GIUGNO 1944 FURONO RINCHIUSI NUMEROSI EBREI, VITTIME DELLA PERSECUZIONE RAZZIALE VOLUTA DAL FASCISMO.

38 DI LORO –  UOMINI, DONNE E BAMBINI, 29 STRANIERI E 9 ITALIANI – FURONO DEPORTATI NEI CAMPI DI STERMINIO DEL III REICH, DA DOVE QUASI NESSUNO TORNÒ.

LA MEMORIA DI QUEL DOLORE NON PUÒ RISARCIRE, MA RIMANE COME DOVERE E ESPRESSIONE DI FERMA VOLONTÀ DI OPERARE PERCHÉ CIÒ CHE È ACCADUTO NON DEBBA MAI PIÙ RIPETERSI.

ISTITUTO STORICO GROSSETANO  DELLA RESISTENZA E DELL’ETA’ CONTEMPORANEA

DIOCESI DI GROSSETO

COMUNITÀ EBRAICA DI LIVORNO

COMUNE DI ROCCASTRADA

PROVINCIA DI GROSSETO

COMUNE DI GROSSETO

27 Gennaio 2008 – Giornata della memoria




Hotel Baglioni

Da fine luglio del 1944 il famosissimo Hotel Baglioni, a Firenze, si trova a dover accogliere centinaia di persone costrette ad abbandonare le abitazioni sui lungarni a seguito delle decisioni del Comando militare nazista sulla distruzione dei ponti sull’Arno.
Francesco Baglioni, che all’epoca era il proprietario dell’Hotel, all’interno delle sue memorie ha raccontato gli ultimi giorni dell’occupazione tedesca.
Baglioni ricorda che il 29 luglio in città vengono esposti i manifesti in cui i tedeschi ordinavano lo sgombero dei lungarni: «Con un manifesto affisso verso le 14, i tedeschi ordinano lo sgombero dei Lungarni e di tutte le vie adiacenti, per le ore 12 di domani. Gli ottimisti pensano che sia alla vigilia della fuga dei tedeschi[…]. Altri ne deducono che i ponti di Firenze saranno fatti saltare; io sono nettamente per questa seconda ipotesi».
Nel giro di poche ore molti fiorentini si recano all’hotel per avere un riparo, ma Francesco è costretto a far entrare solo poche persone perché i viveri di cui dispone l’hotel sono molto pochi.
È sempre Francesco che racconta la sera del 3 agosto, quando i tedeschi fanno saltare in aria i ponti fiorentini: «Sono circa le 22; improvvisamente siamo investiti dal primo terribile scoppio che fa sussultare l’intero edificio. Pare davvero la fine del mondo[…]. Un’ora dopo, e poi via via fino alle quattro e mezzo del mattino, in un’atmosfera di terrore che va diventando sempre più opprimente, gli scoppi si susseguono implacabilmente. Sono i ponti di Firenze che saltano uno dopo l’altro, vittime di una furia selvaggia di distruzione e di morte. […]. Prima ancora di saperlo, abbiamo ormai la tragica certezza che i ponti di Firenze hanno cessato di esistere».
Ma l’Hotel dopo la ritirata dei tedeschi passò da essere un semplice luogo di rifugio ad essere uno degli avamposti delle truppe della Resistenza, infatti i partigiani della Divisione “Arno”, circa un centinaio di uomini, posizionarono una serie di mitragliatrici pesanti sul tetto dell’Hotel.




Valibona

Località della Calvana, sul declivio del monte Maggiore, nel comune di Calenzano, fra Firenze e Prato, ormai abbandonata e difficilmente raggiungibile se non per sentieri sterrati, all’inizio del 1944 Valibona è stata il terreno del primo significativo scontro fra partigiani e repubblichini in questa area.

Fra i casolari di Case di Valibona si era, infatti, fermata la “banda” guidata da Lanciotto Ballerini nel corso di una marcia verso il pistoiese per raggiungere la formazione guidata da “Pippo”, Manrico Ducceschi, vicino al partito d’azione. I rastrellamenti sempre più frequenti avevano reso pericolosa la permanenza sul Monte Morello, in prossimità di Firenze, dove Ballerini, macellaio di Campi e sergente nella campagna d’Etiopia e poi di Grecia, si era trasferito dopo l’8 settembre del ’43, dando vita ad una formazione armata, e lo avevano spinto al trasferimento. Mentre molti partigiani comunisti si erano diretti dai propri compagni sul Monte Giovi, con Ballerini ne erano rimasti 17, prevalentemente sestesi e campigiani, fra cui anche due prigionieri russi, due slavi e un prigioniero inglese.

Giunto a Valibona, Lanciotto aveva deciso di sostare sia per far riposare gli uomini. Ma nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 1944, mentre riposavano in un fienile, sono circondati da elementi del 1° Battaglione volontari Bersaglieri “Muti”, una formazione della guardia repubblichina guidata da Duilio Sanesi, comandante del presidio di Prato, Carabinieri e fascisti dei Comuni limitrofi, reparti agguerriti, ben armati e equipaggiati, giunti sia da Vaiano che da Calenzano, che li avevano individuati grazie alla delazione di una spia.

Il soldato sovietico Mirko, svegliatosi per un bisogno, accortosi del nemico, avvisò Lanciotto. Rifiutata la resa combatterono intensamente. La battaglia divampò per circa tre ore e mezzo. Considerata la situazione Lanciotto comprese che l’unica via d’uscita era tentare una sortita per spezzare l’accerchiamento. E lanciò il contrattacco. L’iniziativa riuscì e, nonostante la disparità di numero e di mezzi, nove componenti del gruppo sfuggirono all’assedio.

Lanciotto cadde combattendo. Così ne rievoca l’eroica figura il rapporto presentato al comando militare del Partito d’Azione: “a testa alta, impavido, audace, temerario con una bomba per mano inseguiva i nemici mettendoli in fuga e terrorizzandoli […] come un leone eccitato dal combattimento trascinava gli altri – terminate le bombe, imbracciato il moschetto, si gettava verso la mitraglia fascista che lo fulminava“.
Morì in combattimento anche il sardo Luigi Giuseppe Ventroni, addetto al fucile mitragliatore “Breda”. Gli attaccanti contarono tre morti e una dozzina di feriti fra cui il capo della spedizione, Duilio Sanesi, che spirò in ospedale a Prato dopo alcuni giorni di agonia. Fra i caduti vi fu anche il Maresciallo dei Carabinieri di Calenzano Alfredo Pierantozzi che recenti ricerche hanno accreditato essere stato ucciso dagli stessi fascisti, riconciandone la memoria ufficiale con quella della comunità di Calenzano che ne ha sempre ricordato per la generosità e la protezione dei propri concittadini a partire dai giovani renitenti alla leva.

Loreno Barinci fu ferito gravemente, creduto morto venne catturato il giorno dopo, così come furono fatti prigionieri Andrey Vladimiro, tenente dei genieri dell’Armata Rossa, che venne giustiziato, forse perchè ritenuto il comandante o per odio verso i sovietici; Tommaso Bertovich cui spaccarono la testa; Mario Ori cui spararono a un braccio, Corrado Conti e Benito Guzzon che furono percossi selvaggiamente. Quindi li consegnarono ai tedeschi alla Fortezza da Basso. Intanto, per punire i contadini dell’ospitalità data ai partigiani, i fascisti bruciarono e saccheggiarono tutte le case di Valibona, catturarono e legarono i vecchi, le donne e i bambini, compresa una donna incinta.

I superstiti riformarono la brigata cui diedero il nome del proprio comandante e che nell’estate successiva contribuiva alla liberazione di Firenze. Nel 1946 Lanciotto Ballerini è stato decorato con la medaglia d’oro al Valor Militare.

Proprio per ricordare questi fatti e il valore della Resistenza, pietra angolare della Costituzione della Repubblica, il 25 aprile 2013 il Comune di Calenzano ha inaugurato, proprio nel luogo della battaglia, il Memoriale di Valibona, un percorso storico-didattico per trasmettere a tutti, ed in particolare ai giovani i valori della lotta di Liberazione e della democrazia.

 

 




4 luglio 1944: le stragi di Cavriglia

Strage CavrigliaNel territorio di Cavriglia, fortemente caratterizzato dall’attività mineraria, operano le compagnie “Chiatti” e “Castellani” entrambe inquadrate all’interno della 22a bis brigata Sinigaglia. Nel periodo fra maggio e giugno 1944 l’attività partigiana nella zona è particolarmente intensa. Nel complesso i soldati tedeschi scomparsi sono una ventina. Qui il 4 luglio 1944 a Castelnuovo dei Sabbioni, Meleto, e successivamente Le Matole, tutti nel comune di Cavriglia, ha luogo un’orrenda strage nazista in cui verranno uccisi 189 civili.

Sulla vicenda il maggiore Crawley, dello Special Investigation Branch dell’esercito inglese, stese a poche settimane di distanza una dettagliata indagine che però andrà dimenticata fino a fine anni ’90 in seguito alle tristemente note vicende dell’armadio della vergogna. Sappiamo oggi grazie al suo rapporto che responsabili del massacro furono truppe d’élite dell’aeronautica tedesca: i paracadutisti del 76. Panzerkorps, la cui compagnia principale è la Hermann Göring che è stata responsabile delle stragi di Civitella e San Pancrazio del 29 giugno. Sono comandati dai generali Foster e Heidrich e dai colonnelli Bornscheuer e Kluge. A loro si aggiungono gli uomini della Alarmkompanie Vesuv di Wolf, specializzata nella caccia alle bande partigiane.

La strage viene preparata nei giorni precedenti. Il 29 giugno 1944 un operaio della miniera viene sequestrato e torturato. Alla fine cede. Conferma la presenza di partigiani sul luogo e fornisce informazioni sui boschi in cui sono rifugiati. Per l’esercito tedesco le informazioni ricevute sono una molla ulteriore per far scattare l’operazione contro i civili. Il 3 luglio le truppe si accampano nei pressi di Santa Barbara. I soldati coinvolti sono probabilmente fra i 500 e gli 800. Il comando tedesco divide l’azione su tre fronti. Wolf, Groener ed i loro uomini verso Castelnuovo e Massa Sabbioni; Danisch, Casuski verso San Martino; infine gli uomini di Fraulein avrebbero colpito Meleto.

Al mattino del 4, intorno alle 6, Meleto viene accerchiata con un movimento a tenaglia. I soldati iniziano a rastrellare indiscriminatamente civili di sesso maschile. Li conducono al monumento ai caduti della prima guerra mondiale, uno slargo in viale barberino, nel centro del paese. Nessuno dei civili ha chiaro cosa stia per succedere, in molti sono convinti di essere stati radunati per un controllo di documenti o tutt’60 persone intorno al monumento e altri civili continuano ad arrivare. L’assembramento diventa troppo vasto e ingestibile per i soldati tedeschi. Alle 10:30 viene deciso di dividere i civili in 4 gruppi per condurli in 4 aie, 2 all’estremità ovest e 2 all’estremità est del paese. L’esecuzione è rapidissima. Dei colpi di mitragliatrice fendono l’aria. In pochi minuti, senza un processo, senza una spiegazione, 93 civili perdono la vita. I soldati tedeschi incendiano i luoghi del massacro e velocemente si allontanano.

Sempre il 4 luglio 1944 quasi contemporaneamente, a 4 km, a Castelnuovo dei Sabbioni si consuma un altro massacro. Gli abitanti di Castelnuovo a differenza che a Meleto vengono radunati tutti nello stesso luogo: piazza 4 novembre, ai piedi di un alta muraglia sopra a cui la strada porta alla chiesa nella parte alta del paese. A Meleto in 4 civili erano riusciti a salvarsi o per l’età avanzata e le condizioni fisiche o perché in possesso di documenti che li qualificavano come collaboratori dell’esercito tedesco. A Castelnuovo invece non viene fatta alcuna distinzione. Il parroco del paese, don Ferrante Bagiardi, è fra i rastrellati. Nonostante la disperazione riesce però a trovare la lucidità per somministrare la comunione ai fedeli prima di essere ucciso. Vengono sistemate 2 mitragliatrici a 18 metri dai civili in fila contro il muro. In quegli attimi concitati in 4 riescono a salvarsi gettandosi dallo strapiombo a lato della piazza. Il soldato tedesco dietro alla mitragliatrice si rifiuta di sparare. Viene giustiziato sul posto e sostituito. Le mitragliatrici lasciano a terra 68 cadaveri a terra a cui si aggiungono altri 8 civili uccisi per aver tentato la fuga durante il rastrellamento. Dalle case vicine vengono requisiti mobili e gettati sui corpi dei cadaveri accendendo un falò il cui fumo si intravede a chilometri di distanza.

Perché le formazioni partigiane non hanno tentato un’azione per salvare i civili? Era bastato infatti che un aereo poche ore dopo sorvolasse Massa dei sabbioni sganciando delle bombe perché i soldati tedeschi corressero ai ripari permettendo a 12 civili  di salvarsi. La risposta probabilmente è nel piccolo borgo di San Martino situato a 3 km da Castelnuovo. Qui vengono infatti catturati 50 cittadini. Dieci di questi vengono liberati perché possano raccontare che gli altri sono tenuti ostaggi contro eventuali attacchi partigiani nella zona. La strategia ha perfettamente successo: le truppe Castellani vengono fermate dai civili. La stessa richiesta di non agire arriva anche all’altra formazione partigiana la “Chiatti” il cui commissario politico è in quei giorni gravemente ammalato rendendo ancora più difficile una decisione così delicata.

L’emergere di nuova documentazione negli archivi militari tedeschi ha aperto nuove ipotesi sulle motivazioni di questa strage che sembrerebbe non sia stata compiuta direttamente come rappresaglia per le azioni partigiane dei mesi precedenti. Il territorio di Cavriglia rientrava infatti lungo la linea di ritirata della Wehrmacht. Per questo per l’esercito tedesco era assolutamente necessario rendere sicuri quelle zone infestate di ribelli con un’operazione dal nome in codice “Seidenraupe”, baco da seta.




Ponterosso: un bersaglio strategico per i bombardieri alleati

Proprio il giorno in cui riuscivano a spezzare la resistenza tedesca sulla Linea Gustav, il 18 maggio 1944, gli Alleati, in vista dell’imminente risalita dell’Italia centrale, decisero di scatenare una violenta offensiva aerea contro lo snodo stradale e ferroviario di Ponterosso, piccola frazione versiliese a metà strada fra Pietrasanta (Lu) e Querceta (Seravezza, Lu). In questo preciso punto, infatti, le principali vie di comunicazione della costa toscana settentrionale, la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa, attraversavano il fiume Versilia a pochi metri l’una dall’altra: considerate anche le scarse difese antiaeree della zona, per i comandi angloamericani si trattava dunque di un’occasione più che propizia per riuscire ad infliggere un duro colpo alla mobilità dei rifornimenti nazisti diretti a sud. Data la rilevanza strategica dell’obiettivo, nei mesi successivi gli aviatori alleati avrebbero tentato altre 14 volte di abbattere i due ponti, in un susseguirsi di massicce incursioni che si sarebbe protratto fino alla tarda estate del ’44, riportando sempre, tuttavia, inspiegabili insuccessi. La furia delle bombe, anzi, finì per accanirsi contro le popolose borgate vicine al bersaglio, distruggendo stalle, campi e canali d’irrigazione, devastando edifici pubblici, compresa la vecchia chiesa paesana di San Bartolomeo, e moltissime abitazioni civili, distanti anche diversi chilometri dall’obiettivo. Soprattutto, però, le incursioni alleate lasciarono sul campo numerosi morti e feriti versiliesi. La particolare posizione delle strutture da colpire, poste a ridosso delle ripide montagne retrostanti la piana, contribuì sicuramente al fallimento delle varie missioni. Ad inficiarne il risultato, tuttavia, furono anche le pressanti condizioni di stress psicologico in cui si ritrovarono a dover operare i piloti americani nell’ultima parte del conflitto, oltre, naturalmente, ai limiti oggettivi delle strumentazioni di tiro dell’epoca, che non permettevano certo di condurre operazioni di tipo “chirurgico”. A tal proposito, si pensi che i comandi alleati del tempo erano soliti considerare come “ottimo”, e dunque particolarmente riuscito, un bombardamento in cui il 50% degli ordigni fosse caduto entro un raggio di 1000 piedi (305 metri) dall’obiettivo designato. Per tutta la Versilia storica, il bombardamento di Ponterosso del 18 maggio 1944 rappresentò un vero e proprio shock, l’ingresso in una fase nuova del conflitto: dal 10 giugno 1940, infatti, era la prima volta che la guerra arrivava a coinvolgere direttamente e pesantemente il territorio, entrando letteralmente nelle case dei versiliesi. Nel giro di pochi minuti, i civili ebbero modo di realizzare non soltanto la totale vulnerabilità della zona agli attacchi aerei angloamericani, ma anche il preoccupante grado di pericolo cui la popolazione finiva per essere esposta in simili frangenti. Di fronte a minacce sempre più reali, che in un prossimo futuro si sarebbero certamente aggravate, alcune famiglie decisero di costruirsi un rifugio di fortuna nell’orto dietro casa, altre, al contrario, scelsero di raccogliere le cose più importanti e di abbandonare la propria casa, per cercare poi una sistemazione più sicura su per le montagne. Erano i primi sfollati versiliesi.




Pian d’Albero

Casolare Cavicchi Pian d'AlberoQuello di Pian d’Albero è un casolare su un altipiano isolato nei boschi fra il Valdarno e il Chianti. Qui dal 1939 viveva  la famiglia Cavicchi. La loro è una famiglia numerosa di mezzadri contadini come tante in Toscana. Ma dall’ottobre del 1943, caduto il fascismo, hanno fatto una scelta: appoggiare la resistenza che iniziava ad organizzarsi.  Prima ospitano un piccolo gruppo di 12 uomini comandante partigiano Gino Garavaglia. Poi, con i mesi, il loro impegno cresce e arrivano a dar rifugio fino a un centinaio di persone. Pian d’Albero diventa una delle basi della XXII bis Brigata Garibaldi “Sinigaglia”, una formazione di matrice comunista che prende il suo nome da Alessandro Sinigaglia, “Vittorio”, il gappista fiorentino ucciso a febbraio del 1944.

A Pian d’Albero stazionano partigiani effettivi, feriti, ma soprattuto nuove reclute della brigata appena arrivate o ancora inesperte. Il quindicenne Aronne Cavicchi gli fa da sentinella. È un pastore e ad ogni movimento sospetto manda in fuga le sue pecore come segnale di pericolo. Ma con il suo carattere sveglio e loquace è anche la mascotte della brigata. Il 79enne Giuseppe Cavicchi, carattere forte e austero, è invece il “capoccia”, il vecchio che tutti temono, ed ammirano.

Il 19 giugno 1944 in seguito ad uno scontro a fuoco nei pressi di San Martino un tedesco viene ucciso e un altro riesce a fuggire, la fiat Topolino su cui viaggiavano i soldati viene sequestrata e portata a sera a Pian d’Albero. All’alba del mattino successivo, il 20 giugno, un reparto di paracadutisti tedeschi  giunge sul luogo dello scontro seguendo le tracce lasciate dalla Topolino sul terreno bagnato per le piogge dei giorni precedenti. Gli abitanti del luogo vengono sequestrati e minacciati, uno viene ucciso. Un piccolo gruppo viene obbligato ad accompagnare i tedeschi sul luogo del nascondiglio partigiano. Complice anche la nebbia, che ne nascondeva i movimenti, i soldati tedeschi riescono a salire lungo Carpignano, dividersi in due reparti e sistemarsi nei ridossi di Pian d’Albero uno alla sinistra e uno alla destra del casolare.

Quel mattino nel casolare dei Cavicchi ci sono quasi cento partigiani, ma quasi tutti sono nuove reclute. Solo quattordici fra i partigiani sono armati, ma non possono niente contro i paracadutisti tedeschi che sono in numero nettamente superiore e vengono immediatamente uccisi. Viene ucciso anche il vecchio Giuseppe Cavicchi. Sorpresi durante il sonno in pochi fra i partigiani riescono a fuggire e sono catturati. Vengono presi prigionieri anche Aronne ed il padre Norberto.  Solo le donne della famiglia Cavicchi e la piccola Giuseppina riescono a salvarsi.

Cosa ne è stato di tutto il sistema difensivo partigiano acquartierato intorno a Pian d’Albero? Sicuramente tutti vennero colti di sorpresa. Il commissario politico della brigata Sirio Ungherelli racconta di come in molti temettero che quello fosse solo l’inizio di una più vasta operazione di rappresaglia. Alla sorpresa e alla paura si aggiunse quel mattino, fra le file dei partigiani, anche la mancanza di comunicazioni a far si che si tardasse ad organizzare una pronta risposta. Solo una piccola squadra riesce  ad arrivare in tempo a Pian d’Albero. Sono sovietici, ex prigionieri di guerra nazisti, che si sono uniti alla Resistenza toscana. Cercano di spezzare il cerchio nazista intorno ai prigionieri e farne fuggire il maggior numero possibile. Ma il loro tentativo non riesce. I tedeschi scendono a valle con i prigionieri. Hanno fretta, sanno che quello potrebbe essere solo il primo di altri attacchi. Infatti poco oltre vengono intercettati dalla compagnia “Faliero Pucci” detta “Stella Rossa”. Nello scontro alcuni fra i prigionieri riescono a fuggire. Altri restano immobili terrorizzati.  Gli attacchi e le imboscate da parte delle compagnie partigiane si susseguono nel tentativo di far fuggire il maggior numero di prigionieri. Alla fine in mano dei tedeschi restano diciotto uomini. Dopo un processo farsa vengono impiccati uno a uno sugli alberi all’incrocio delle strade a S. Andrea di Campiglia. Non viene risparmiato neanche Norberto Cavicchi, né il giovane Aronne che viene impiccato, sembra, di fronte agli occhi del padre.

Monumento Pian d'AlberoA testimonianza della tragedia rimane il monumento ai caduti di Pian d’Albero, lungo la strada odierna che porta a Ponte agli Stolli, ai piedi dei gelsi usati allora per l’impiccagione. Rimane il casolare di Pian d’Albero visitabile percorrendo un sentiero CAI che parte da S.Martino. Quel casolare, è stato deciso nel Marzo 2008 con una bella iniziativa della Regione Toscana, diventerà un parco della Resistenza sul modello del Museo Cervi di Reggio Emilia.