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La Fortezza da Basso

Il 7 settembre del 1944 per celebrare la liberazione e sciogliere ufficialmente le formazioni partigiane, nella Fortezza da Basso viene organizzata una cerimonia, presieduta dal generale Edgar Erskine Hume,capo del governo della V armata. Il luogo che nel settembre precedente era stato teatro di uno dei primi drammi dell’occupazione nazista, con l’intimazione di resa delle truppe italiane che vi erano alloggiate e la catturata dei militari destinati ai campi di concentramento come internati militari italiani, diviene sede della celebrazione della Resistenza.
Nel corso della commemorazione ai partigiani sono consegnati dei diplomi per l’opera svolta in favore della liberazione della città e degli attestati firmati dal generale H. R. Alexander.
I partigiani presenti hanno raccontato che gli Alleati vollero sciogliere le formazioni partigiane perché non si fidavano di loro in quanto venivano identificati come comunisti. Mario Baldassini, un partigiano che partecipò alla cerimonia, racconta: “Gli alleati non ci vedevano con simpatia perché eravamo in maggioranza comunisti, con i fazzoletti e le bandiere con la falce e il martello”. Anche Mario Spinella descrive l’atteggiamento degli americani: “All’uscita dalla caserma una jeep americana, ci passò accanto, i poliziotti ci urlarono qualcosa che non capimmo. Scesero con il bastone alzato, ci fecero cenno di toglierci i fazzoletti rossi. Dopo la prima reazione, ubbidimmo. Non vi era senso a non farlo”.
Dopo la celebrazione i partigiani si dirigono verso la Federazione comunista che aveva sede in via dell’Agnolo. Dalla finestra si affaccia Giuseppe Rossi, operaio manovale e anziano dirigente del partito. Rivolge alla folla parole piene di speranza: “Incomincia una nuova epoca, un compito nuovo per i partigiani e per i democratici: ricostruire la città, unire il popolo. Bisogna costruire una nuova Italia”.




Istituto chimico farmaceutico (Castello)

L’Istituto Chimico Farmaceutico Militare di Firenze è tristemente noto per i fatti che vi si sono svolti la notte del 5 agosto del 1944.
Pochi giorni prima della strage, precisamente il 3, i tedeschi ordinano ai cittadini della zona di Castello di lasciare le loro case. Per questa ragione circa 350 persone furono costrette a rifugiarsi all’interno dell’Istituto Chimico Farmaceutico Militare.
La sera del 5 agosto sette soldati tedeschi si presentarono alla porta di Anna Pieri Cammelli, che abitava in via Vittorio Locchi, poco distante dall’Istituto, chiedendole del vino. In casa erano presenti oltre alla signora Anna, i suoi figli, il fratello e sua la moglie e la cugina Maria Omaralgi. Dopo essere entrati con la forza nell’abitazione, i soldati rinchiudono ognuno in una stanza diversa e tentano di violentare la signora Anna e la cugina. Quest’ultima viene subito lasciata perchè non in buona salute. La signora Anna cerca di resistere alle pressioni dei soldati e nella colluttazione un proiettile della pistola estratta da uno dei soldati attraversa la manica del vestito della signora Anna e colpisce la spalla destra di un suo compagno. La signora Anna sviene.

Un soldato porta il compagno ferito al comando di Via Giuliano Ricci 10, riferendo di essere stati attaccati da un italiano. Da un comando ricevuto del telefono si ordina di uccidere 10 italiani.
Verso le 22 si avvertono spari ed esplosioni al cancello dell’Istituto Chimico Farmaceutico e dopo una colluttazione, dopo aver aperto la porta dell’edificio, i tedeschi sparano a Fiorini Silvano. Nel frattempo alcuni uomini vengono portati nel cortile e Beppino Mazzola, in un tentativo di fuga con Delfo Ignesti e Oreste Sarri, viene ucciso.
Nella rappresaglia tedesca vengono fucilati e uccisi Granili Francesco, Lepri Michele, Tiezzi Tullio, Lippi Mario, Bracciotti Ugo, Bartoli Aldo, Nardi Vittorio, Uvali Attilio, Iacomelli Francesco, Biondo Giorgio, oltre che precedentemente Fiorini Silvano e Mazzola Beppino, i cui corpi furono trovati ammucchiati in Via Reginaldo Giuliani, all’uscita dell’Istituto.
Nel 1945 in ricordo della strage venne affissa una lapide all’esterno dell’Istituto Chimico Farmaceutico.
Le informazioni riguardanti la strage sono reperibili grazie al rapporto del Sergente T.W. Smedley condotte nel marzo – aprile 1945 a seguito di una corrispondenza ricevuta il 28 febbraio 1945. Nel rapporto sono riportate circa 30 testimonianze e le relative prove di riconoscimento basate su due foto fatte scattare dai tedeschi da Armando Marchi l’8 agosto 1944. Le prove sono insufficienti e le testimonianze spesso non coincidono e il Sergente Smedley non riesce ad individuare i colpevoli.




L’Albergo Arno, residenza del colonnello Ingaramo

Il 28 aprile 1944 i fascisti fucilano tre ragazzi renitenti alla leva. Uno dei tre è Onorio Coletti Perruca, un giovane fiorentino figlio di un’americana e fratello di un ufficiale degradato. Onorio aveva vissuto in Svizzera fino al 25 aprile, poi aveva deciso di tornare a Firenze e di aiutare il Comitato di Liberazione.
La sua uccisione, voluta da Carità, fu vendicata dai gappisti due giorni dopo, il 30 aprile, quando fucilarono il Console fascista Ingaramo, comandante della 92ª Legione della milizia fascista che dopo l’8 settembre si era messo al totale servizio dei tedeschi collaborando con loro per reclutare giovani da inviare in Germania. I gappisti controllavano le abitudini del Console già da molto tempo prima che venisse dato il via alla sua esecuzione. A guidare l’attacco fu Antonio Ignesti insieme ad altri sette gappisti: il piano prevedeva di uccidere Ingaramo, che alloggiava all’interno dell’Albergo Arno, mentre stava salendo in macchina.
L’operazione fu fissata alle 10 del 30 aprile: due gappisti dovevano essere gli esecutori materiali dell’esecuzione mentre gli altri cinque, tra cui Elio Chianesi, dovevano restare di copertura. Come previsto l’auto del console si fermò davanti all’Albergo. Ingaramo però salì rapidamente in auto lasciando per un attimo spiazzati i gappisti che reagirono immediatamente. Un gappista giustiziò il milite fascista che fungeva da autista, mentre l’altro sparò alcuni colpi al finestrino posteriore e colpì il Console. Una volta portata a termine l’azione, Elio Chianesi, munito di una grossa bomba, la lancia verso alcuni militi che stavano sopraggiungendo; l’esplosione ferì tre innocenti, ai quali vennero poi porte delle scuse formali.
Quello che i gappisti non sanno è che Ingaramo non è morto, ma gravemente ferito e trasportato all’Ospedale di S. Giovanni di Dio. Si occupa di lui il Dott. Luigi Filippelli che ha lasciato questa testimonianza: “[…] fu ricoverato, in un periodo del ’44, il Colonnello Ingaramo ferito gravemente in un’azione partigiana[…]. Operato, aveva delle lesioni intestinali, morì dopo nove giorni nonostante le cure di tutti noi”.




Monte Morello

Nel periodo della resistenza all’occupazione nazi-fascista, Monte Morello si rivelò essere il rifugio perfetto per le bande partigiane, dove molti partigiani impararono le tattiche della guerriglia e molti giovani alla macchia divennero partigiani.
Uno dei primi scontri che videro confrontarsi i fascisti e i partigiani ebbe luogo a Ceppeto il 15 ottobre 1943.
Due giorni prima dello scontro i nazifascisti avevano pubblicato sui giornali della città un avvertimento, firmato dal capo della provincia Manganiello, nei confronti delle bande armate: “Presi accordi con il comando militare germanico, rendo noto a tutti i soldati facenti parte di bande armate… che il termine di presentazione è stato prorogato al 20 c.m. A chi si presenterà entri tale data posso garantire che non sarà applicata sanzione alcuna… A decorrere da questa data, ufficiali e soldati verranno considerati franchi-tiratori e, come tali, passati per le armi…”
Il giorno dello scontro la Banda Carità, che era stata incaricata di scovare i partigiani che si erano nascosti nei boschi di Monte Morello, riuscì ad individuarne alcuni. Nello scontro persero la vita il fascista Gino Cavari e il capo dei partigiani Giovanni Checcucci, che viene tutt’oggi considerato il primo caduto della resistenza fiorentina.
La battaglia di Ceppeto per la banda Carità risultò essere una sconfitta perché nonostante fossero riusciti a prendere alla sprovvista il gruppo di partigiani, vennero disorientati da un attacco a sorpresa di Checcucci che si sacrificò per permettere ai compagni di scappare.

In ricordo del sacrificio di Checcucci, nel luogo in cui trovò la morte, è stato posto un monumento in sua memoria.




La casa della prof.sa Mary Cox

La sera del 19 giugno 1944 si svolge a casa della professoressa Mary Cox una riunione per stabilire come liberare alcuni patrioti dall’Ospedale militare e come reperire le armi. Con lei si trovano Rocco Caraviello, appartenente ai Gap, Edgardo Savioli, Vincenzo Vannini, sottotenente operante all’ospedale e il giovane ufficiale Franco Martelli. Uscendo dall’abitazione vengono fermati da alcuni uomini armati della Banda Carità, tra cui Antonio Corradeschi, Romolo Massai ed Elio Cecchi. Irrompono in casa, rubano 50.000 lire e malmenano e arrestano i presenti. Portano tutti prima all’albergo Savoia, poi a Villa Triste, dove vengono rinchiusi nelle cantine e torturati. Rocco Caraviello, invece, viene condotto vicino a Chiasso del Buco e ucciso con un colpo di pistola alla testa.
Nel frattempo altri della Banda vanno a casa Caraviello e maltrattano e arrestano Maria Penna e suo marito Rocco, cugino dell’altro.
All’alba del 21 giugno Mary, Maria e Vannini vengono trasportati su un camion, ma Vannini tenta e riesce nella fuga, nonostante una ferita. I fascisti allora riversano la propria rabbia sulle donne, uccidendole e infierendo sui cadaveri. I loro corpi saranno trovati da alcune lavoratrici.
Vannini riesce a rifugiarsi in una chiesa e viene portato all’Ospedale di Santa Maria Nuova: sarà l’unico a poter raccontare l’accaduto.
Martelli, Savioli e Caraviello saranno infatti trucidati a Campo di Marte.




Il seminario di Roccatederighi e la lapide che ricorda l’internamento degli ebrei

seminario-roccatederighiLa sede estiva del  seminario vescovile di Grosseto non è mai stato considerato luogo della memoria dell’ex campo di concentramento per ebrei di Roccatederighi. E’ una villa staccata dal paese, circondata da un parco, in mezzo al verde. Non è stato facile raccogliere qualche testimonianza tra i rocchigiani, che hanno nel tempo dimenticato (rimosso?) la vicenda degli ebrei. Qual che si sa del rapporto tra il paese e il campo è che gli ebrei talvolta accompagnavano i militi nelle loro uscite, che uno dei grossetani trovò una fidanzata, poi diventata sua moglie, proprio grazie alle uscite dal campo. Sappiamo anche che il parroco e altri, alla fine della vita del campo, custodirono bauli e oggetti ricevuti in deposito dagli internati, che le ricerche successive di parenti, attraverso le organizzazioni di aiuto, in particolare la DELASEM, consentirono di restituire. La fine del campo coincise con un momento difficile, di scontro finale tra fascisti e antifascisti. Ci fu l’uccisione di alcuni uomini, proprio nelle vicinanze del seminario, durante uno scontro armato; forse anche questo episodio a lungo controverso nella ricostruzione ha contribuito  mettere a tacere ricordi e narrazioni, che chiamano in causa il momento di apertura dei cancelli del campo e la fuga di perseguitati e persecutori.

Nel tempo il vecchio edificio è stato affiancato da una costruzione, voluta dal vescovo  Galeazzi (lo stesso dell’epoca del campo) per ospitare attività di formazione e soggiorni estivi. Tutto il complesso però era da tempo in stato di abbandono, quando sono iniziati lavori di ristrutturazione per la realizzazione di un progetto di carattere sociale. Non vi era dunque traccia della memoria del campo, fino a quando l’ISGREC ha proposto alla Curia e alle istituzioni (Provincia di Grosseto, Comune di Roccastrada) di porre lì una lapide. Questo è avvenuto nel 2010, con la partecipazione della Comunità ebraica di Livorno. Da allora le visite si sono di molto accresciute e si è moltiplicato l’interesse verso questa triste pagina della nostra storia.

 lapide_roccatederighi

Il testo della lapide:

IN QUESTO LUOGO, PARZIALMENTE TRASFORMATO IN CAMPO DI CONCENTRAMENTO, TRA IL 28 NOVEMBRE 1943 E IL 9 GIUGNO 1944 FURONO RINCHIUSI NUMEROSI EBREI, VITTIME DELLA PERSECUZIONE RAZZIALE VOLUTA DAL FASCISMO.

38 DI LORO –  UOMINI, DONNE E BAMBINI, 29 STRANIERI E 9 ITALIANI – FURONO DEPORTATI NEI CAMPI DI STERMINIO DEL III REICH, DA DOVE QUASI NESSUNO TORNÒ.

LA MEMORIA DI QUEL DOLORE NON PUÒ RISARCIRE, MA RIMANE COME DOVERE E ESPRESSIONE DI FERMA VOLONTÀ DI OPERARE PERCHÉ CIÒ CHE È ACCADUTO NON DEBBA MAI PIÙ RIPETERSI.

ISTITUTO STORICO GROSSETANO  DELLA RESISTENZA E DELL’ETA’ CONTEMPORANEA

DIOCESI DI GROSSETO

COMUNITÀ EBRAICA DI LIVORNO

COMUNE DI ROCCASTRADA

PROVINCIA DI GROSSETO

COMUNE DI GROSSETO

27 Gennaio 2008 – Giornata della memoria




Hotel Baglioni

Da fine luglio del 1944 il famosissimo Hotel Baglioni, a Firenze, si trova a dover accogliere centinaia di persone costrette ad abbandonare le abitazioni sui lungarni a seguito delle decisioni del Comando militare nazista sulla distruzione dei ponti sull’Arno.
Francesco Baglioni, che all’epoca era il proprietario dell’Hotel, all’interno delle sue memorie ha raccontato gli ultimi giorni dell’occupazione tedesca.
Baglioni ricorda che il 29 luglio in città vengono esposti i manifesti in cui i tedeschi ordinavano lo sgombero dei lungarni: «Con un manifesto affisso verso le 14, i tedeschi ordinano lo sgombero dei Lungarni e di tutte le vie adiacenti, per le ore 12 di domani. Gli ottimisti pensano che sia alla vigilia della fuga dei tedeschi[…]. Altri ne deducono che i ponti di Firenze saranno fatti saltare; io sono nettamente per questa seconda ipotesi».
Nel giro di poche ore molti fiorentini si recano all’hotel per avere un riparo, ma Francesco è costretto a far entrare solo poche persone perché i viveri di cui dispone l’hotel sono molto pochi.
È sempre Francesco che racconta la sera del 3 agosto, quando i tedeschi fanno saltare in aria i ponti fiorentini: «Sono circa le 22; improvvisamente siamo investiti dal primo terribile scoppio che fa sussultare l’intero edificio. Pare davvero la fine del mondo[…]. Un’ora dopo, e poi via via fino alle quattro e mezzo del mattino, in un’atmosfera di terrore che va diventando sempre più opprimente, gli scoppi si susseguono implacabilmente. Sono i ponti di Firenze che saltano uno dopo l’altro, vittime di una furia selvaggia di distruzione e di morte. […]. Prima ancora di saperlo, abbiamo ormai la tragica certezza che i ponti di Firenze hanno cessato di esistere».
Ma l’Hotel dopo la ritirata dei tedeschi passò da essere un semplice luogo di rifugio ad essere uno degli avamposti delle truppe della Resistenza, infatti i partigiani della Divisione “Arno”, circa un centinaio di uomini, posizionarono una serie di mitragliatrici pesanti sul tetto dell’Hotel.




Valibona

Località della Calvana, sul declivio del monte Maggiore, nel comune di Calenzano, fra Firenze e Prato, ormai abbandonata e difficilmente raggiungibile se non per sentieri sterrati, all’inizio del 1944 Valibona è stata il terreno del primo significativo scontro fra partigiani e repubblichini in questa area.

Fra i casolari di Case di Valibona si era, infatti, fermata la “banda” guidata da Lanciotto Ballerini nel corso di una marcia verso il pistoiese per raggiungere la formazione guidata da “Pippo”, Manrico Ducceschi, vicino al partito d’azione. I rastrellamenti sempre più frequenti avevano reso pericolosa la permanenza sul Monte Morello, in prossimità di Firenze, dove Ballerini, macellaio di Campi e sergente nella campagna d’Etiopia e poi di Grecia, si era trasferito dopo l’8 settembre del ’43, dando vita ad una formazione armata, e lo avevano spinto al trasferimento. Mentre molti partigiani comunisti si erano diretti dai propri compagni sul Monte Giovi, con Ballerini ne erano rimasti 17, prevalentemente sestesi e campigiani, fra cui anche due prigionieri russi, due slavi e un prigioniero inglese.

Giunto a Valibona, Lanciotto aveva deciso di sostare sia per far riposare gli uomini. Ma nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 1944, mentre riposavano in un fienile, sono circondati da elementi del 1° Battaglione volontari Bersaglieri “Muti”, una formazione della guardia repubblichina guidata da Duilio Sanesi, comandante del presidio di Prato, Carabinieri e fascisti dei Comuni limitrofi, reparti agguerriti, ben armati e equipaggiati, giunti sia da Vaiano che da Calenzano, che li avevano individuati grazie alla delazione di una spia.

Il soldato sovietico Mirko, svegliatosi per un bisogno, accortosi del nemico, avvisò Lanciotto. Rifiutata la resa combatterono intensamente. La battaglia divampò per circa tre ore e mezzo. Considerata la situazione Lanciotto comprese che l’unica via d’uscita era tentare una sortita per spezzare l’accerchiamento. E lanciò il contrattacco. L’iniziativa riuscì e, nonostante la disparità di numero e di mezzi, nove componenti del gruppo sfuggirono all’assedio.

Lanciotto cadde combattendo. Così ne rievoca l’eroica figura il rapporto presentato al comando militare del Partito d’Azione: “a testa alta, impavido, audace, temerario con una bomba per mano inseguiva i nemici mettendoli in fuga e terrorizzandoli […] come un leone eccitato dal combattimento trascinava gli altri – terminate le bombe, imbracciato il moschetto, si gettava verso la mitraglia fascista che lo fulminava“.
Morì in combattimento anche il sardo Luigi Giuseppe Ventroni, addetto al fucile mitragliatore “Breda”. Gli attaccanti contarono tre morti e una dozzina di feriti fra cui il capo della spedizione, Duilio Sanesi, che spirò in ospedale a Prato dopo alcuni giorni di agonia. Fra i caduti vi fu anche il Maresciallo dei Carabinieri di Calenzano Alfredo Pierantozzi che recenti ricerche hanno accreditato essere stato ucciso dagli stessi fascisti, riconciandone la memoria ufficiale con quella della comunità di Calenzano che ne ha sempre ricordato per la generosità e la protezione dei propri concittadini a partire dai giovani renitenti alla leva.

Loreno Barinci fu ferito gravemente, creduto morto venne catturato il giorno dopo, così come furono fatti prigionieri Andrey Vladimiro, tenente dei genieri dell’Armata Rossa, che venne giustiziato, forse perchè ritenuto il comandante o per odio verso i sovietici; Tommaso Bertovich cui spaccarono la testa; Mario Ori cui spararono a un braccio, Corrado Conti e Benito Guzzon che furono percossi selvaggiamente. Quindi li consegnarono ai tedeschi alla Fortezza da Basso. Intanto, per punire i contadini dell’ospitalità data ai partigiani, i fascisti bruciarono e saccheggiarono tutte le case di Valibona, catturarono e legarono i vecchi, le donne e i bambini, compresa una donna incinta.

I superstiti riformarono la brigata cui diedero il nome del proprio comandante e che nell’estate successiva contribuiva alla liberazione di Firenze. Nel 1946 Lanciotto Ballerini è stato decorato con la medaglia d’oro al Valor Militare.

Proprio per ricordare questi fatti e il valore della Resistenza, pietra angolare della Costituzione della Repubblica, il 25 aprile 2013 il Comune di Calenzano ha inaugurato, proprio nel luogo della battaglia, il Memoriale di Valibona, un percorso storico-didattico per trasmettere a tutti, ed in particolare ai giovani i valori della lotta di Liberazione e della democrazia.