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CORSO ON LINE “Dalla celluloide al vinile: forme e contenuti della comunicazione di massa nel Novecento”

Corso di aggiornamento per insegnanti ma aperto anche ai non insegnanti

(codice corso sulla piattaforma Sofia del MIUR: 56654)

>> Volantino corso

Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa è un fenomeno imprescindibile per comprendere la storia contemporanea e in particolare quella del Novecento. Grazie a tecnologie come la stampa, il cinema, la radio e la televisione, gli esclusi dai circuiti della “cultura alta” poterono per la prima volta essere raggiunti da contenuti culturali di vario genere, prodotti da agenzie dello Stato, che specie nei regimi totalitari miravano alla costruzione del consenso, ma soprattutto da soggetti imprenditoriali privati, interessati a vendere i loro prodotti sul mercato e a colonizzare gli immaginari dei consumatori. Caratterizzate da un costo contenuto, da una semplificazione narrativa e argomentativa e da un altro grado di standardizzazione – necessario a permetterne la fruizione anche da parte di chi possedeva un’istruzione appena rudimentale -, queste produzioni culturali ebbero, a partire dai primi decenni del secolo, un impatto profondo nelle società occidentali, agendo sulla costruzione delle identità individuali e collettive.

A queste tematiche, spesso poste ai margini dei programmi scolastici e per lungo tempo scarsamente valorizzate dalla storiografia, l’Isgrec dedicherà un corso di approfondimento che si propone di analizzare alcuni esempi di comunicazione di massa del Novecento, ricostruendone i contesti e i contenuti in prospettiva diacronica e in relazione ai fenomeni di intermedialità.    

6 aprile 2021 | ore 18

Alberto Mario Banti (Università di Pisa)

Aspetti della cultura di massa mainstream

 

13 aprile 2021 | ore 17.30

Maurizio Zinni (Università La Sapienza)

Cinema, storia e memoria nell’Italia repubblicana

20 aprile 2021 | ore 17.30

Alessandro Portelli (Università La Sapienza)

Musica e comunicazione nel secondo dopoguerra

 

Iscrizione:

Il corso prevede una quota di partecipazione di € 30.

Gli insegnanti possono iscriversi:

  1. a) tramite la piattaforma SOFIA del MIUR  (codice corso: 56654) utilizzando la Carta del docente fino al 5 aprile
  2. b) presso l’Isgrec (uff. amministrativo: Viale Europa 11 B) in contanti o con buono creato con la Carta del docente                                            
  3. c) tramite bonifico c/c intestato a Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea IBAN: IT98W0885114301000000008002

I non insegnanti possono iscriversi: pagando in contanti presso l’ufficio amministrativo Isgrec o con bonifico.    

In tutti i casi è obbligatorio inviare una mail a segreteria@isgrec.it specificando l’indirizzo di posta elettronica dove si vuole ricevere le comunicazioni riguardo al corso e il link alla piattaforma on line che ospiterà le lezioni.

Riconoscimento dei crediti formativi pari a 6 ore

L’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea è parte della Rete degli istituti associati all’Istituto Nazionale Ferruccio Parri (ex Insmli)   riconosciuto agenzia di formazione accreditata presso il Miur (DM 25.05.2001, prot. n. 802 del 19.06.2001, rinnovato con decreto prot. 10962 del 08.06.2005, accreditamento portato a conformità della Direttiva 170/2016 con approvazione del 01.12.2016 della richiesta n. 872) ed incluso nell’elenco degli Enti accreditati 

INFO: Isgrec | 0564415219 | segreteria@isgrec.it | www.isgrec.it

 




Seminario di formazione USR Toscana sulla complessa vicenda del “confine orientale”

Mercoledì 24 febbraio si è tenuto sulla piattaforma zoom un seminario dal titolo “Il Giorno del Ricordo: la complessa vicenda del confine orientale”. L’iniziativa nasce dalla collaborazione dell’USR Toscana, rappresentato dalla Dottoressa Milva Segato -che ha introdotto l’argomento partendo dal testo di legge e citando due discorsi, quello del 2019 e quello del 2021 del Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella,- dall’Università di Firenze, ed in particolare il Dipartimento  di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia, rappresentato della Professoressa Silvia Guetta, Professore associato di Pedagogia generale e sociale, e dalla rete toscana degli Istituti Storici della Resistenza e dell’età contemporanea. Sono intervenuti la Professoressa Chiara Nencioni, il Direttore dell’Istituto della Resistenza Toscano Matteo Mazzoni e il Vivepresidente dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Lucca, Armando Sestani.

Si riporta di seguiti l’art. 1 della Legge 30 marzo 2004 n. 92, da cui il seminario ha preso titolo:

«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».

La prima relatrice ha tracciato la storia del nostro “confine orientale” dalla Terza Guerra di Indipendenza all’invasione dei Balcani da parte italiana.

Nel 1866 in seguito alla guerra che vide confrontarsi la Monarchia Asburgica con il Regno di Prussia e il Regno d’Italia, venne a configurarsi un nuovo confine tra Austria e Italia. Il confine tra Italia e Austria fu stabilito con la Pace di Vienna del 3 ottobre 1866.

Tale confine risultò dall’annessione all’Italia delle province del Veneto; in particolare la provincia italiana a ridosso della linea confinaria era quella di Udine, mentre il territorio austriaco immediatamente confinante comprendeva due Länder: la Carinzia a nord, con capoluogo Klagenfurt, e il Litorale ad est, con capoluogo Trieste.

Nell’impero austro-ungarico le varie etnie presenti sul territorio avevano mantenuto una certa autonomia: vi era libertà di associazione ed era possibile frequentare scuole in cui le lezioni erano impartite nella propria lingua, anche se esse non erano sempre ben distribuite sul territorio, mentre gli istituti con lingua di insegnamento tedesca erano presenti ovunque.

Come si evince dal censimento del 1910 nella Venezia Giulia vivevano allora circa 400.000 sloveni, 100.000 croati, poco meno di 500.000 italiani.

Nel 1915 con il Patto di Londra, accordo segreto d’alleanza fra Italia, Gran Bretagna, Francia, Russia, l’Italia aderiva all’Intesa e si impegnava a entrare in guerra contro gli imperi centrali.

Gli accordi prevedevano come compensi territoriali a favore dell’Italia il Trentino, il Tirolo del Sud (Alto Adige), Trieste, Gorizia, l’Istria e la Dalmazia, ma escludevano Fiume, non riuscendo a immaginare un disfacimento totale dell’Austria-Ungheria.

Il patto prevedeva inoltre una partecipazione italiana alla spartizione dell’Albania e all’eventuale spartizione della Turchia e delle colonie tedesche in Africa.

Nel novembre 1918, alla conclusione della prima guerra mondiale, la Monarchia Asburgica cessò di esistere e al suo posto si formarono nuovi Stati, tra cui l’Ungheria e la Jugoslavia (che allora assunse la denominazione di Regno dei Serbi, Croati e Sloveni).

La definizione dei nuovi confini tra Austria e Italia fu definita alla Conferenza della Pace di Parigi, con il trattato di St. Germain (10.9.1919).

Dopo la prima guerra mondiale con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 ci fu l’annessione al Regno d’Italia di territori ampiamente popolati da sloveni e croati. La vittoria del regno sabaudo nel conflitto del ‘15-‘18 non poté non portare nella Venezia Giulia “redenta” alla rottura dell’equilibrio tra le diverse etnie costruito nei secoli precedenti.

Le difficoltà derivavano dall’inconciliabilità delle richieste italiane, basate sul Patto di Londra  del 1915, con quelle del nuovo stato balcanico, fondate sulla presenza di popolazioni slovene e croate nell’ambito dei territori ex-asburgici rivendicati dall’Italia.

Le difficoltà non furono superate nemmeno dalla proposta del presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, di una linea di confine a carattere prevalentemente etnico.

Durante il dibattito parlamentare sul Trattato di Rapallo (24-27 novembre 1920) il governo italiano promise la tutela della minoranza slava ed il ministro degli Esteri, il conte Sforza, confermò tale intenzione, presentandola come una “questione d’onore e di ragionevolezza politica”. Di fatto, però, non si prese nessun impegno concreto nei confronti delle minoranze nazionali e anche per questo molti sloveni decisero di emigrare nel nascente regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (poi Jugoslavia), che era sorto oltre frontiera nei Balcani.

Una variazione rilevante nel tracciato dei confini nella zona dell’Alto Adriatico riguardò il territorio di Fiume, che fu annesso all’Italia, in base all’Accordo di Roma  del 27 gennaio 1924, tra Regno d’Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. In base ad esso, parte del territorio settentrionale dello Stato Libero di Fiume e Porto Baross vennero ceduti alla Jugoslavia, mentre la città e una ridotta striscia costiera passarono all’Italia. Venne così costituita nel 1924 la Provincia di Fiume, costituita dal territorio fiumano annesso e da alcuni comuni già appartenenti alla provincia di Pola.

L’avvento del fascismo in questi territori segnò un momento di ulteriore impoverimento dei diritti nazionali sloveni e croati. Fu messa in atto un’italianizzazione forzata, accompagnata da persecuzioni e umiliazioni, in vista dell’assimilazione. A Trieste il 13 luglio 1920, fu incendiato il Narodni dom (La casa nazionale), edificio simbolo della presenza slava a Trieste, centro polivalente dotato di albergo, ristorante, caffè, teatro, banca, uffici, appartamenti. Successivamente la catena di eventi persecutori da parte di squadre fasciste nei confronti della popolazione slovena e croata della Venezia Giulia si intensificò: dopo l’incendio del Narodni dom di Trieste fu la volta di quello di Pola e di altri 134 edifici dell’intera Venezia Giulia distrutti entro il 1920. Le aggressioni e le spedizioni squadristiche ripresero dopo le elezioni del 1921, che videro a Trieste e in Istria il successo del Blocco Nazionale capeggiato dai fascisti. Tali violenze furono l’inizio di una dura politica di oppressione etnica che il fascismo e nazionalismo triestini e giuliani perseguirono per tutto il ventennio nei confronti della minoranza slava. Fu messa in atto un’opera di snazionalizzazione violenta e capillare, di italianizzazione e fascistizzazione della Venezia Giulia. Nel giro di qualche anno l’italiano divenne l’unica lingua ufficiale in tutta la Venezia Giulia. Il divieto di comunicare in sloveno e croato si estese dai pubblici uffici ad altri luoghi di lavoro (fabbriche, ditte private, trattorie, negozi) pena il licenziamento, ammonimento o ritiro dell’autorizzazione all’esercizio. Si imposero il divieto di pubblicare testate periodiche e lo scioglimento di circoli sportivi e culturali, istituti bancari, casse di credito e cooperative. Le autorità fasciste cercarono di proibire scritte slovene e croate anche sulle pietre tombali e sui nastri delle corone di fiori che accompagnavano il feretro. Con il Regio Decreto n. 800 del 29 marzo 1923 venne dato compimento all’opera di italianizzazione dei toponimi iniziata dalle autorità militari italiane subito dopo la fine della guerra: i nomi di paesi, città, località geografiche vennero italianizzati arbitrariamente, senza alcun criterio scientifico. La Riforma Gentile (1923) prevedeva l’introduzione obbligatoria dell’italiano in tutte le scuole del Regno. Come conseguenza fu gradatamente imposta la chiusura coatta delle scuole di tutti i gradi con lingua d’insegnamento slovena o croata. La scuola, pertanto, da ambiente multiculturale quale era stato sotto l’impero austro-ungarico, divenne un luogo chiuso e selettivo. Di circa un migliaio di insegnanti slavi ne rimasero solo una cinquantina e di questi solamente cinque nella Venezia Giulia. La proibizione dell’uso delle lingue “locali” fu affiancata dall’italianizzazione forzata dei cognomi. Il R.D. del 7 aprile 1927, estendendo alla Venezia Giulia il decreto emanato per l’Alto Adige il 10 gennaio 1926, imponeva la “restituzione in forma italiana dei cognomi originariamente italiani snazionalizzati”. Gli elenchi dei cognomi da italianizzare vennero completati fra il 1928 e il 1931.

Anche preti sloveni e croati furono vittime di aggressioni e violenze da parte di squadre fasciste.

Degli atti repressivi perpetrati dal regime fascista negli anni venti e trenta manca una statistica precisa: non si conosce il numero esatto di insegnanti, impiegati statali, sacerdoti trasferiti d’ufficio dalla Venezia Giulia nelle diverse regioni della penisola, oppure costretti al prepensionamento o alla scelta dell’esilio nel vicino Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (poi Jugoslavia).

Saranno proprio l’élite slovena espulsa o emigrata nel Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni durante il ventennio, nonché gli strati più politicizzati della popolazione slovena rimasti nell’Italia fascista, a dare un ampio sostegno al movimento di liberazione e al progetto di annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito, in quanto spinti da sentimenti di rivalsa.

L’apice dell’attività terroristica della rete clandestina triestina, la Borba, ovvero “Lotta”, fu rappresentato dagli attentati al Faro della Vittoria e alla tipografia di “Il Popolo di Trieste”, l’organo del Pnf locale, avvenuti nel febbraio del 1930.

 Il 10 febbraio 1930 fu fatta esplodere una bomba alle 22.30, in un momento in cui si riteneva che la sede dovesse essere vuota. L’esplosione provocò una vittima, il redattore Guido Neri, che morì qualche giorno dopo, e tre feriti, membri del partito.

Nel settembre 1930 il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato si trasferì a Trieste, con lo scopo di giudicare in un maxiprocesso i responsabili degli attentati e di stroncare definitivamente il movimento ribellistico nel triestino.

Dopo un breve dibattimento, durato meno di una settimana dall’1 al 5 settembre, alle 5.44 del 6 settembre 1930, quattro giovani di età compresa tra i 24 ed i 34 anni, 2 sloveni, 1 croato e 1 di madre italiana e di padre sloveno, ritenuti i principali colpevoli delle attività della Borba, furono portati al poligono di tiro di Basovizza e fucilati alle spalle da un plotone di esecuzione della 58° Legione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Dopo la liberazione dal nazi-fascismo, il 9 settembre 1945 fu inaugurato un monumento in memoria dei quattro “eroi di Basovizza”, divenuti un simbolo di libertà e di lotta, non solo per gli sloveni, ma anche per l’antifascismo italiano. Il confine del 1924 durò invariato fino al 1941, ma gli stati confinari mutarono denominazione e anche caratterizzazione ideologica: il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni divenne tra il 1929 e il 1931 Regno di Jugoslavia e la Repubblica d’Austria nel 1938 venne annessa al Terzo Reich, con il nome di Ostmark.

 Riprende qui la complessa storia del confine orientale Matteo Mazzoni, che si concentra sull’argomento delle violenze nel periodo della seconda guerra, con un particolare approfondimento sulle foibe.

L’aggressione al Regno di Jugoslavia, iniziata il 6 aprile 1941 da parte dell’Italia, assieme alla Germania, all’Ungheria e alla Bulgaria segnò il legame più stretto delle responsabilità italiane con quelle del nazismo hitleriano. L’occupazione militare italiana di territori jugoslavi segnò la massima espansione del Regno d’Italia verso oriente; in particolare venne unito all’Italia un ampio territorio della Slovenia e della Dalmazia.

Le città di Lubiana, Novo Mesto e Kocevje, e il loro territorio, vennero a costituire la Provincia “italiana” di Lubiana. Anche la Provincia di Fiume venne ampliata con il territorio; più a sud lungo la costa Dalmata vennero annesse all’Italia con le stesse modalità le città di Spalato, di Cattaro e un’ampia porzione attorno alla città italiana di Zara; tale territorio venne denominato Governatorato di Dalmazia (comprendente tre province). Altre occupazioni italiane interessarono la parte più meridionale della Dalmazia, con l’ampliamento dell’Albania e con l’invasione del Montenegro.

Il Terzo Reich e l’Ungheria occuparono nel 1941 la parte settentrionale della Slovenia e altre regioni jugoslave. Nella parte centrale dei Balcani (Croazia e Bosnia) venne costituito un vasto stato collaborazionista, denominato Stato Indipendente Croato, affidato al capo ustaša Ante Pavelić.

Nelle zone occupate in cui era attivo il movimento partigiano, gli Italiani adottarono pratiche repressive estreme, compiendo crimini di guerra. Gli ordini impartiti, fra cui la circolare 3C del generale Roatta del marzo 1942, configuravano una vera e propria «guerra ai civili». Le azioni antiguerriglia prevedevano arresti, prese di ostaggi, fucilazione degli ostaggi medesimi, distruzione dei paesi, uccisione degli uomini e deportazione di donne e bambini. In particolare, nelle zone in cui l’esercito italiano non riusciva a venire a capo della ribellione, provvide a svuotare il territorio con la deportazione in massa della popolazione. I deportati furono alcune decine di migliaia, reclusi in un gran numero di campi di concentramento collocati sulle isole dalmate e nella penisola italiana. I più famigerati furono quelli di Gonars in Friuli e dell’isola di Arbe. ll campo di concentramento di Arbe fu creato nel luglio del 1942 nell’odierna isola di Rab ed ospitò complessivamente tra i 10.000 e 15.000 internati tra sloveni, croati ed ebrei diventando il più esteso e popolato campo di concentramento italiano per slavi raggiungendo i 21.000 internati nel dicembre 1942. Con l’arrivo della stagione autunnale la situazione nel campo divenne più difficile: le piogge provocarono più volte il riversamento del liquame delle latrine e la notte del 29 ottobre 1942 una violenta tempesta distrusse quattrocento tende e provocò l’annegamento di alcuni bambini. Il campo si caratterizzò per la durezza del trattamento riservato agli internati, dei quali un gran numero perì di stenti e malattie.

Qui la mortalità fu assai elevata per le pessime condizioni igieniche ed abitative e la sistematica denutrizione. Questi i cinici commenti del generale Gambara: «Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo».

Dal novembre 1942 il numero di internati diminuì per la partenza per altri campi di concentramento, soprattutto di donne e bambini destinati al campo di Gonars.

ll campo di concentramento di Gonars, realizzato dal regime fascista nell’autunno del 1941 in provincia di Udine in previsione dell’arrivo dii prigionieri di guerra russi, fu utilizzato dalla primavera del 1942 per l’internamento dei civili all’interno della “Provincia occupata di Lubiana”, rastrellati dall’esercito italiano e ritenuti potenziali oppositori. Il campo si si riempì nell’autunno inverno 42-43 di nuovo tipo di internati: uomini, donne, vecchi e bambini rastrellati dai paesi vicino fiume e prima deportati nell’isola di Rab. Nel campo di Gonars sono state internate circa 6000 persone di cui oltre 500 morirono di fame e di malattie. Come tutti gli altri campi italiani per internati jugoslavi, il campo di Gonars funzionò fino al settembre del 1943.

A partire dal 1942 anche nelle province giuliane di Fiume, Trieste e Gorizia le autorità italiane adottarono pratiche repressive. Va segnalata ad esempio la strage compiuta nel luglio 1942 nel paese di Podhum, nei pressi di Fiume, in cui vennero uccise una novantina di persone, cioè tutti i maschi adulti del villaggio. Sempre nel 1942 venne costituito l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, specificatamente dedicato alla lotta antipartigiana mediante l’infiltrazione e la tortura. Dal settembre del 1943 l’Italia non fu più un paese occupante, ma occupato a sua volta dai Tedeschi nel corso dell’estate-autunno; nella parte nord orientale d’Italia l’occupazione tedesca ebbe conseguenze diverse rispetto ad altre regioni d’Italia, in quanto il territorio delle province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana venne escluso dal controllo politico e militare delle autorità italiane, cioè della Repubblica Sociale Italiana, lo stato collaborazionista costituito da Benito Mussolini. Mentre nelle altre zone di Italia, specialmente al centro-sud, si festeggiava l’armistizio e si nutriva la speranza di una liberazione, sul “confine orientale” l’8 settembre significò passare sotto il Reich, quindi orrore su orrore: oltre a quello della guerra, quello della feroce occupazione nazista.

Le del nord-est province, con il nome di “Zona di Operazione Litorale Adriatico”, vennero amministrate direttamente dalle autorità tedesche: Friedrich Rainer fu nominato Commissario Supremo. Una situazione analoga coinvolse le province di Bolzano, Trento e Belluno, denominate “Zona di Operazione Prealpi” e affidate al Commissario Supremo Franz Hofer. Proprio in corrispondenza del cedimento militare italiano, tra settembre e ottobre del 1943, nella parte mediana dell’Istria fu attuata un’insurrezione popolare (molto composita riguardo alle motivazioni), che ebbe come conseguenza l’uccisione di circa 500 abitanti, per lo più italiani (evento noto come “foibe istriane”); all’insurrezione popolare fece seguito una feroce rappresaglia delle truppe tedesche che provocò circa 2.500 vittime nel mese di ottobre.

Che cosa è una foiba? Dal latino fovea, sloveno e croato jama, vuol dire “inghiottitoio”. Geologicamente è tipica dei terreni carsici. L’imboccatura può essere larga da alcuni centimetri ad alcuni metri e il pozzo può sprofondare per molte decine di metri, anche con più salti. Nel solo Carso triestino ed in quello goriziano si trovano alcune migliaia di cavità di vario tipo ed il medesimo terreno è diffuso in Slovenia e Croazia.
Storicamente, le foibe sono state utilizzate episodicamente come depositi di materiali di scarto. Durante la seconda guerra mondiale ed il dopoguerra, sono state intensivamente adoperate per far sparire i cadaveri di caduti in combattimento e/o vittime di eccidi, data la difficoltà di scavare fosse comuni nel terreno roccioso. Tale uso in Croazia è attestato fin dal 1941. Nella Venezia Giulia sono state adoperate allo stesso modo nell’autunno del 1943 (particolarmente nota la foiba di Vines, in Istria) e nella primavera/estate del 1945 (note la foiba Plutone, vicino Trieste; le foibe di Gargaro e Zavni in provincia di Gorizia; la foiba di Costrena nei pressi di Fiume). Il termine foiba è correntemente usato per indicare le stragi dell’autunno 1943 in Istria e del maggio 1945 in tutta la Venezia Giulia per opera del movimento di liberazione jugoslavo (autunno 1943) e dello stato jugoslavo (primavera 1945), occasioni nelle quali i corpi delle vittime vennero spesso gettati nelle foibe, di solito dopo fucilazione collettiva. Va precisato che l’infoibamento non era una modalità di uccisione, ma di occultamento delle salme, legato in genere alla difficoltà nello scavo di fosse comuni. Risultano pochissimi casi in cui nell’abisso furono gettate persone ancora vive, specie per errori nella fucilazione. In secondo luogo, non tutte le vittime delle stragi conclusero la loro vita nelle foibe. Molti, forse la maggior parte, trovarono la morte in prigionia. La prima ondata di infoibamenti sono le cosiddette foibe istriane, definizione correntemente usata per indicare le stragi dell’autunno 1943 in Istria. Dopo la capitolazione italiana dell’8 settembre, per poco più di un mese la penisola istriana cadde per la maggior parte sotto il controllo del movimento di liberazione croato (jugoslavo), che vi applicò le pratiche di lotta che prevedevano nelle zone anche solo temporaneamente liberate, l’immediata eliminazione dei «nemici del popolo». Questa era una categoria che nel caso dell’Istria riguardava alcuni segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai partigiani, per il loro ruolo svolto nel regime fascista (gerarchi, squadristi), nelle istituzioni (podestà, segretari comunali) e nella società locale (possidenti terrieri, commercianti ed artigiani accusati di strozzinaggio) o comunque ritenuti pericolosi per il nuovo potere.
Le nuove autorità organizzarono gli arresti, la concentrazione dei prigionieri in alcune località specifiche, come Pisino, i processi sommari e le conseguenti fucilazioni collettive, seguite dall’occultamento dei cadaveri nelle foibe o in cavità minerarie. Si trattò quindi di una violenza dall’alto, programmata e gestita dai quadri del movimento di liberazione croato (jugoslavo). Peraltro, essa fu gestita in un clima di grande confusione, segnato da forme di ribellismo dei contadini croati in una sorta di jacquerie -come afferma Mazzoni-, nel quale trovarono spazio estremismo nazionale, conflitti d’interesse locali, motivazioni personali e criminali, come nel caso di alcuni stupri seguiti da uccisioni, fra i quali assai noto quello di Norma Cossetto. Per le stragi del 1943 l’ordine di grandezza è delle centinaia (le stime variano da 500 a 700).

La durezza dell’occupazione tedesca nel Litorale Adriatico emerse dall’uso repressivo di una struttura industriale, già esistente, con la funzione di Polizeihaftlager (Campo di Detenzione di Polizia): si tratta della Risiera di San Sabba -l’unico campo di concentramento con un forno crematorio sul territorio italiano- al cui interno funzionò un forno crematorio per l’eliminazione dei cadaveri dei prigionieri uccisi (in gran parte politici e partigiani sloveni, croati, italiani). La Risiera fu usata anche come campo di transito per gli ebrei, da qui deportati verso i lager in territorio tedesco e polacco.

La fase conclusiva della seconda guerra mondiale aprile-maggio 1945 si presentò nell’area del Litorale Adriatico con due eserciti in movimento verso nord e in parte convergenti verso i centri urbani principali: dai Balcani la IV Armata jugoslava puntò decisamente su Trieste e su Gorizia, mentre dalla linea gotica partì l’offensiva anglo americana, con obiettivi strategici non limitati al nord Italia o alla Venezia Giulia, ma estesi anche all’Austria e alla Germania.

Accompagnato o preceduto da insurrezioni partigiane locali contro le forze naziste, il ritiro tedesco fu determinato dall’arrivo il 1° maggio 1945 dei militari della IV Armata jugoslava, che occuparono Trieste, Gorizia e la valle dell’Isonzo, e dalle truppe neozelandesi dell’esercito britannico giunte nello stesso territorio il 2 maggio. Il controllo delle città di Gorizia e di Trieste venne lasciato all’esercito jugoslavo, giunto per primo, ma senza determinare inizialmente una precisa linea di separazione delle zone di competenza dei due eserciti alleati. E’ in questo periodo che si verifica la seconda ondata di infoibamenti, le cosiddette foibe giuliane, definizione correntemente usata per indicare le stragi del maggio 1945 nella Venezia Giulia. Le truppe jugoslave che occuparono la regione il 1maggio vi rimasero fino al 9 giugno, data dopo la quale si ritirarono ad est della linea Morgan, mentre ad ovest della linea medesima fu instaurata un’amministrazione militare angloamericana. Durante l’occupazione si verificò l’estensione alla Venezia Giulia delle pratiche repressive tipiche della presa del potere in Jugoslavia da parte del fronte di liberazione a guida comunista, accompagnata da una grande ondata di violenza politica, che nell’arco di poche centinaia di chilometri fra l’Isonzo, la Slovenia e la Croazia fece circa 9.000 morti fra gli sloveni domobranzi, almeno 60.000 fra i croati ustascia ed alcune migliaia fra gli italiani. Nei territori adriatici quindi lo stragismo aveva finalità punitive nei confronti di chi era accusato di crimini contro i popoli sloveno e croato  (quadri fascisti, uomini degli apparati di sicurezza e delle istituzioni italiane, ex squadristi, collaboratori dei tedeschi); aveva sia finalità epurative dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad esempio gli antifascisti italiani contrari all’annessione alla Jugoslavia, sia finalità intimidatorie nei confronti della popolazione locale, per dissuaderla dall’opporsi al nuovo ordine. Per le stragi del 1945 l’ordine di grandezza è delle migliaia. Gli arrestati nelle province di Trieste e Gorizia furono circa 10.000, ma la maggior parte di essi fu liberata nel corso di alcuni anni. Secondo una ricerca condotta a fine anni ’50 dall’Istituto centrale di statistica, le vittime civili (infoibati e scomparsi) nel 1945 dalle province di Trieste, Gorizia ed Udine furono 2.627. Probabilmente la cifra è leggermente sovrastimata. D’altra parte, a tale stima vanno aggiunte le circa 500 vittime accertate per Fiume e qualche centinaio dalla provincia di Pola. Una stima complessiva delle vittime si aggira fra le 3.000 e le 4.000 secondo il Rapporto finale della Commissione storico-culturale italo-slovena, redatto nel 2000. Simbolo di tutte le foibe della miniera di è divenuto Basovizza, che costituisce la sede privilegiata di cerimonie commemorative e patriottiche. In realtà non si tratta di una foiba (abisso carsico), bensì di una cavità mineraria (pozzo della miniera), di grandi dimensioni (larga una decina di metri, profonda più di 250). Nella prima decade di maggio del 1945 venne probabilmente utilizzata per gettarvi le salme di diverse centinaia di prigionieri italiani fucilati nei pressi. Testimonianze concordi parlano dei processi sommari tenuti nell’arco di un paio di giornate a carico di alcune centinaia di uomini arrestati a Trieste, pare in massima parte membri della Questura. Ai processi seguirono le fucilazioni collettive e l’occultamento dei cadaveri nel pozzo e forse anche in alcune altre foibe vicine. Nell’abisso vennero gettati anche i resti della battaglia svoltasi pochi giorni prima nel vicino paese di Basovizza, alle porte di Trieste, fra truppe tedesche e jugoslave, nonché altri materiali. Utilizzata negli anni ’50 come discarica di materiali inerti, è stata successivamente chiusa con una lastra di pietra, proclamata nel 1992 monumento nazionale e nel 2007 oggetto di un nuovo intervento di monumentalizzazione, che ha comportato anche la realizzazione di un centro visite.

Un primo accordo provvisorio per la spartizione del territorio tra gli eserciti vincitori portò alla divisione della Venezia Giulia in due parti delimitate dalla “linea Morgan”: la parte occidentale fu assegnata all’amministrazione dell’esercito anglo-americano (Zona A); la parte orientale assegnata all’amministrazione militare dell’esercito jugoslavo (Zona B). Alla Zona A fu assegnata anche la città di Pola, in Istria, con una limitata porzione territoriale. Zone A e B della Venezia Giulia furono amministrate dall’autorità militare occupante: Governo Militare Alleato (AMG) e Governo Militare Jugoslavo (VUJA). Tale demarcazione venne stabilita durante un incontro tenuto a Belgrado il 9 giugno 1945 tra i rappresentanti della Gran Bretagna e degli Stati Uniti con il Ministro degli Esteri jugoslavo. L’accordo di Belgrado prevedeva il controllo anglo-americano delle ferrovie e delle strade che si dirigevano da Trieste all’Austria, comprese le città di Gorizia, Caporetto e Tarvisio; divenne esecutivo il 12 giugno 1945, data in cui le truppe jugoslave si allontanarono da Pola, da Trieste, da Gorizia e, più a nord, ripiegarono sulla riva sinistra dell’Isonzo. La “linea Morgan” rispondeva principalmente alle esigenze militari anglo-americane, poiché il controllo delle vie di comunicazioni verso l’Austria era considerato di rilievo strategico per i rifornimenti delle truppe presenti in quel settore. La demarcazione attuata dalla “linea Morgan” cessò il 10 febbraio 1947, con la conclusione delle trattative di pace di Parigi e fu abbandonata definitivamente dal 15 settembre 1947, quando il nuovo confine fu segnato. Le discussioni durante le trattative si concentrarono su linee di confine sfavorevoli all’Italia, stato aggressore e sconfitto nella guerra appena conclusa, e si differenziarono per l’ampiezza del territorio destinato alla Jugoslavia. Le indicazioni più penalizzanti per l’Italia provennero dalla Jugoslavia e dall’Unione Sovietica in quanto prevedevano la cessione di Trieste, Gorizia, Tarvisio, Cividale, Grado e tutta l’Istria; le indicazioni meno punitive furono quelle inglese e statunitense, che seguivano nella parte settentrionale il confine che divideva fino al 1914 la provincia di Udine dal litorale austriaco, ma nella parte meridionale lasciavano all’Italia Trieste, Gorizia, Gradisca e l’Istria occidentale da Capodistria fino a Pola; alla Jugoslavia venivano cedute Fiume e Pisino. La proposta francese nella parte settentrionale seguiva le indicazioni degli alleati, ma riduceva il territorio istriano da mantenere all’Italia, che si fermava a Cittanova e al fiume Quieto. Il Governo italiano indicò una linea di confine che rinunciava alle città di Fiume e di Zara. Nessuna variazione fu introdotta al confine tra Italia e Austria. Il 10 febbraio 1947 venne firmato a Parigi il Trattato di Pace che stabiliva il nuovo confine tra la Repubblica Italiana, la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia e la Repubblica d’Austria.

Il Territorio Libero di Trieste venne istituito il 15 settembre 1947 e prevedeva un Governatore nominato da Italia e Jugoslavia. Il territorio Libero di Trieste rimase, dunque, diviso in due parti, mentre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrebbe garantito la sua integrità territoriale e la sua indipendenza. Questa situazione iniziò a cambiare l’anno successivo. Tra le condizioni che hanno determinato la scomparsa del Territorio Libero di Trieste, un ruolo determinante si deve attribuire ai mutati rapporti all’interno degli stati comunisti dell’est europeo: in particolare nell’anno 1948 si produsse una frattura di forte impatto politico, ideologico ed emotivo tra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica. Se nel marzo 1948 Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia si dichiarano favorevoli al ritorno di tutto il Territorio Libero di Trieste all’Italia, dopo il giugno 1948 (data della rottura tra Stalin e Tito) nella Zona B vennero abolite le barriere doganali con la Jugoslavia e fu estesa la legislazione jugoslava, evidenziando l’intento di annessione dell’area. Solo nel 1953, a seguito di una tensione crescente, con pressioni militari lungo i confini e soprattutto con la dichiarazione comune di Stati Uniti e Gran Bretagna sull’intenzione di ritirare le proprie truppe dalla Zona A del Territorio Libero di Trieste, furono avviati contatti determinanti per giungere ad una soluzione.

La cessione dell’Istria, di parte della Dalmazia e di parte del Friuli Venezia Giulia, prevista dal trattato di Trieste, comportò l’esodo di massa da quei territori in cui la popolazione italiana si ritrovò sotto la Repubblica di Jugoslavia.

Dell’esodo parla Armando Sestani, in qualità non solo di storico, ma anche e soprattutto di esule di seconda generazione, cioè nato in territorio italiano, a Taranto dove era stata collocata la sua famiglia dopo la scelta forzata di lasciare Pola.

Per esodo si intendono “quei casi in cui un gruppo di abitanti fu indotto a fuoriuscire dai confini politici del territorio in cui viveva a causa di pressioni esercitate dal governo che lo controllava, sia in termini di violenza diretta sia in termini di privazione di diritti, soprattutto in corrispondenza di un radicale mutamento politico che investe le relazioni tra stati (conflitti bellici, crolli e costruzioni di stati)”. L’esodo quindi è un particolare tipo di spostamento forzato di popolazione, diverso nelle modalità di attuazione rispetto alla deportazione ovvero all’espulsione, ma che giunge al medesimo risultato. Molti degli Italiani di Fiume e dell’Istria optarono per la cittadinanza italiana (come previsto dal Trattato di pace) trasferendosi nella Penisola. Tale scelta ebbe molteplici motivazioni: lo “spettro” delle foibe faceva sentire la popolazione italiana poco protetta mentre si verificavano una serie di abusi, prevaricazioni e violenze. Le politiche jugoslave di confische (abitazioni, botteghe, officine, proprietà agricole, strumenti di produzione, tecnologie anche minime) delle collettivizzazioni, dei rifornimenti di beni di prima necessità, delle politiche culturali, scolastiche e religiose, della formazione dei giovani, del lavoro volontario e coatto senza dubbio contribuirono a scegliere di lasciare la propria terra e di andare in Italia. Le autorità jugoslave tentarono a loro modo di frenare l’esodo, in base a diversi presupposti: il timore di uno svuotamento dell’Istria e il conseguente smacco politico che ne sarebbe derivato; la convinzione che la maggior parte dell’italianità istriana fosse fittizia, frutto di processi di snazionalizzazione che andavano corretti; la necessità di mantenere le piccole e grandi professionalità possedute dagli Italiani ; l’utilità di trattenere «italiani onesti», che sostanziassero le parole d’ordine della fratellanza italo-slava.  L’esodo non fu un evento unico ma un processo di abbandono lungo l’arco cronologico 1943-1956. I distacchi furono diversificati per motivazioni e tempistiche. L’esodo da Zara fu il primo in ordine cronologico: iniziato già nel 1941 con una prima ondata di 10.000 partenze, proseguì nel 1942, al ritmo delle devastanti incursioni aeree alleate; si intensificò con l’ingresso delle truppe jugoslave nell’ottobre 1944, per concludersi nei primi anni ’50: nell’intero periodo la città perse il 70% della popolazione residente nel 1942, circa 43.670 persone (vittime incluse). A Fiume l’esodo per più di 20.000 italiani iniziò nel maggio 1945 ed entro il gennaio 1946 si raggiunsero circa 36.000 abbandoni.

Armando Sestani si concentra sull’esodo da Pola, città da cui proveniva la sua famiglia. Egli arricchisce il suo racconto con la presentazione di preziosi documenti di famiglia, quali l’elenco delle masserizie da trasportare, la scelta (scritta in italiano, croato e inglese, di suo padre di abbandonare l’Istria, le carte di identità dei genitori in 4 lingue).

 A Pola, nel luglio 1946, su 31.700 residenti, 28.058 dichiararono di voler lasciare la città in caso di definitiva cessione alla Jugoslavia. La strage di Vergarolla del 18 agosto (l’esplosione dolosa di una ventina di bombe posizionate sulla spiaggia fece 65 vittime e una quarantina di feriti) fu vissuta dalla popolazione come strategia terroristica jugoslava per mettere in fuga gli italiani e per convincere coloro che già avevano optato per l’abbandono della loro terra di aver fatto la scelta giusta. A dicembre si aprì un movimento di massa che coinvolse circa 30.000 persone. Così migliaia di istriani presero posto sui piroscafi -celeberrimo il Toscana, in spola fra Pola ed Ancona, su cui salirono anche i genitori di Armando Sestani, che ne mostra una foto- messi a disposizione dal Comitato esodo dal Governo italiano. Le immagini dell’imbarco sul piroscafo Toscana sarebbero divenute icona di tutto il movimento dell’esodo.

Tra gennaio e aprile 1951, la riapertura dei termini per opzioni consentì l’espatrio 6.580 persone. La prima e principale ondata di esuli, quella relativa all’esercizio del diritto di opzione dopo il Trattato di pace del 1947, non ebbe per meta principale Trieste (dove comunque alla vigilia del Memorandum gli esuli erano già oltre 30.000) ma la penisola italiana.

Concentrandosi sulla città di Pola: Già nel marzo 1946 a Pola la popolazione italiana organizza una manifestazione spontanea per ribadire il netto rifiuto nei confronti di ogni ipotesi annessionistica della città alla Jugoslavia di Tito. Nel luglio 1946 a Trieste il CLN dell’Istria propone di indire tra la popolazione istriana un plebiscito. Contemporaneamente inizia a Pola la raccolta delle dichiarazioni di esodo in caso di cessione della città alla Jugoslavia: i dati annunciano come, su un totale di 31.700 abitanti, almeno 9.496 capifamiglia avrebbero intrapreso la via dell’esilio. Nel dicembre 1946 a Pola il locale CLN dichiara ufficialmente aperto l’esodo e nel febbraio 1947 la motonave Toscana, messa a disposizione degli esuli dal governo italiano, intraprende il suo primo viaggio. Ne farà altri 12 tra Pola e Venezia e Pola e Ancona fino al 20 marzo, data dell’ultimo trasporto.

 In Italia, l’accoglienza pubblica ai giuliano dalmati avvenne nel quadro di altre categorie di profughi, entro 92 strutture, dislocate in 43 città italiane, che giunsero a essere 109, nel corso degli anni ’50. La loro gestione era dipendente dal Ministero dell’Interno e dall’ Assistenza Post-Bellica, che cooperavano con le autorità comunali. Altri aiuti giunsero dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati. Sorti per fornire asilo temporaneo, molti campi divennero la residenza dei giuliano dalmati per periodi anche lunghi, nonostante le dure condizioni di vita: temperature proibitive, mancanza di igiene, epidemie, promiscuità, frantumazione delle famiglie. Alcune migliaia di esuli non ressero un tale esperienza e presero la via dell’emigrazione in America ed Oceania. Quanto all’accoglienza da parte della società italiana, si intrecciarono gare di solidarietà ed atti di rifiuto. Questi ultimi ebbero spesso matrice politica, dal momento che la propaganda comunista dipinse gli esuli come fascisti in fuga da un paradiso socialista. Superata la prima emergenza, autorità pubbliche e soggetti privati avviarono un’ampia gamma di iniziative a favore dei profughi. Interventi legislativi e provvedimenti in materia di ricovero dei minori, occupazione, assegnazione di alloggi, funzionarono da acceleratore ai processi di inserimento. A partire dal 1952 era stato varato il piano di edilizia nazionale per la nascita di «borghi» giuliani in 42 città italiane, mentre a Trieste entrava in una fase operativa la costruzione di abitazioni nella cintura periferica cittadina e sul Carso. Infatti, avere una casa era il sogno più grande degli esuli, costretti a trascorrere molti anni in campi -ad esempio nel Villaggio San Marco, all’interno del campo di concentramento di Fossoli, dove i profughi rimasero fino al 1970-, alloggi di fortuna o edifici dismessi, come il Reale Collegio di Lucca, citato da Sestani.

La permanenza degli Italiani nei territori ceduti fu poco visibile. I «rimasti» erano due volte minoranza: rispetto alla scelta maggioritaria dell’esodo e di fatto minoranza nazionale nella Jugoslavia di Tito. Dal primo censimento ufficiale jugoslavo (1948) che definiva la cifra provvisoria di 79.575 italiani nella zona attribuita alla Jugoslavia dal Trattato di Parigi, la popolazione italiana fu in continuo decremento: nel 1981 si censivano solo circa 15.000 presenze. Le comunità italiane si adattarono, impararono a vivere nei ter- mini di normalità la scomparsa dei compaesani, la desertificazione dei luoghi, l’innesto di altre etnie, l’anomalia del passaggio da una condizione egemonica a quella di minoranza, lottarono per non scomparire come identità nazionale. Grave e protratto fu l’isolamento rispetto alla nazione madre; per una rete strutturata di scambi con l’Italia si dovette attendere la metà degli anni Sessanta.
Il 5 ottobre 1954 venne firmato a Londra il Memorandum tra Italia e Jugoslavia in base al quale si stabilì l’assegnazione della Zona A all’amministrazione italiana e della Zona B a quella jugoslava. Con il Memorandum di Londra iniziò il “grande esodo dalla zona B” che si concluse ufficialmente nella primavera 1956, con circa 40.000 partenze, pari ai 2\3 della popolazione. Le stime attuali indicano un flusso complessivo di 280.000- 300.000 persone.

Il superamento del Territorio Libero di Trieste venne definitivamente confermato dal Trattato di Osimo (10.11.1975), che pose fine alle incertezze. La formazione di nuovi Stati sul territorio della Jugoslavia dopo il 1991 non modificò i precedenti confini con la Repubblica italiana o con la Repubblica austriaca, ma determinò la comparsa di nuove formazioni statali, in particolare della Slovenia e della Croazia. La Repubblica di Slovenia a seguito di un referendum (23.12.1990) dichiarò la propria indipendenza dalla Jugoslavia e approvò una nuova costituzione il 25 giugno 1991. L’intervento dell’esercito federale jugoslavo diede avvio ad un conflitto con le forze armate slovene che si protrasse dal 26 giugno all’8 luglio 1991 e si concluse con il ritiro dal territorio della Slovenia di tutte le forze armate federali nel successivo mese di ottobre. La Repubblica di Croazia organizzò un referendum (19.5.1991) e proclamò la propria indipendenza il 25 giugno 1991.

Significativi cambiamenti nei rapporti tra gli stati dell’Alto Adriatico sono legati all’Unione Europea, di cui fanno parte con l’Italia (membro costituente fin dal 1958 della Comunità Economica Europea) anche l’Austria (dal 1° gennaio 1995) e la Slovenia (dal 1° maggio 2004).

Dal 20 dicembre 2007 il confine tra Italia e Slovenia ha perduto ogni carattere di filtro burocratico, con la eliminazione delle strutture di controllo doganale e l’abbattimento di gran parte degli arredi presenti sui valichi di confine (sbarre, guardiole, ecc.).




Presentazione del volume di Giacomo Pacini “La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati” (Einaudi Storia, 2021)

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«Sapeva quasi tutto di tutti e quello che non sapeva, tutti pensavano che lo sapesse», si dice di Federico Umberto D’Amato: “anima nera” della Repubblica, per i suoi detrattori; il più grande uomo di intelligence che l’Italia abbia mai avuto, per i suoi estimatori. Per tutti un uomo temutissimo, a capo tra l’inizio degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta dell’organismo informativo del Ministero dell’Interno, quell’Ufficio Affari Riservati (UAR) al centro dei più grandi misteri italiani durante gli anni della guerra fredda. La sua figura è al centro del nuovo volume dello storico Giacomo Pacini, “La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati”, appena uscito per Einaudi Storia e subito balzato in testa nelle classifiche dei libri più venduti.

Pacini, già autore nel 2010 di “Il cuore occulto del potere. Storia dell’ufficio affari riservati del Viminale (1919-1984)”, pubblicato con l’editore Nutrimenti, e di “Le altre Gladio: La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991”, pubblicato sempre nella collana Einaudi Storia nel 2014, ricostituisce attraverso un apparato documentale imponente la storia dell’UAR e l’operato di Federico Umberto D’Amato che ne era a capo; ne esce il quadro di un organismo responsabile di una spregiudicata e capillare opere di infiltrazione all’interno di partiti politici, sindacati e movimenti extraparlamentari, una “polizia parallela” del tutto autonoma rispetto alle forze di pubblica sicurezza, in grado di gestire e tenere a libro paga centinaia di informatori in tutta Italia. L’UAR era un ente, quindi, che agiva come un vero e proprio servizio segreto al di sopra delle leggi e del Parlamento, non troppo conosciuto alla stampa, alle forze politiche e alla stessa magistratura. Lo stesso Federico Umberto D’Amato, per anni detentore di un potere talmente pervasivo da permettergli di condizionare le scelte politiche dei vari ministri dell’Interno, è un personaggio oscuro e poco conosciuto, sul quale Pacini riesce finalmente a far luce.

Venerdì 12 febbraio alle ore 17.30  ne discuteranno con l’autore i giornalisti e scrittori Paolo Morando e Fabio Isman nel corso di un incontro on line nella pagina facebook e nel sito internet dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea. L’evento è organizzato dall’Isgrec in collaborazione con Giulio Einaudi editore. Info: ISGREC, 0564415219, segreteria@isgrec.it, www.isgrec.it, www.facebook.com/isgrec.istitutostoricogr




Conferimento della Laurea Honoris causa in Scienze per la Pace da parte dell’Università di Pisa alla Senatrice Liliana Segre

Nell’ambito delle iniziative per la Giornata della Memoria, martedì 2 Febbraio, nell’Auditorium Polo della Memoria San Rossore 1938 (non a caso) dell’Università di Pisa si è tenuta una manifestazione articolata in due parti: dapprima la presentazione del volume di Marina Riccucci e Laura Ricotti Il dovere della parola. La Shoah nelle testimonianze di Liliana Segre e Goti Herskovitz Bauer, poi la cerimonia di conferimento della Laurea Magistrale Honoris causa per la Pace alla Senatrice Liliana Segre.

La manifestazione si è tenuta parzialmente in presenza e su piattaforma telematica. A coordinare l’evento Fabrizio Franceschini, Direttore del CISE, Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici.

Alle 11 si è aperta la cerimonia con i saluti istituzionali del sindaco di Pisa, Michele Conti, seguito dal prefetto Giuseppe Castaldo, il quale afferma “bisogna difendere la popolazione dal virus più terribile, quello della violenza e dell’intolleranza” e da Alessandra Nardini che definisce Liliana Segre “modello di donna libera e di pace” elogiandone “la generosità con cui ha lasciato alla generazione successiva i valori di giustizia e uguaglianza”. Poi aggiunge “abbiamo il dovere della memoria e anche quello di fare i conti con la nostra storia di Italiani e di Europei”. La ricorda come una bambina di otto anni “a cui è stata tolta l’infanzia” e conclude citando un episodio assai significativo, spesso citato dalla Senatrice a vita, relativo alla fuga delle SS dai lager e il loro tentativo di eclissarsi gettando divise e armi. “Quando anche il comandante di quell’ultimo campo vicino a me si mise in mutande, quell’uomo alto, sempre elegantissimo, crudele sulle prigioniere inermi, e buttò la divisa sul fosso, la sua pistola cadde ai miei piedi ed io ebbi la tentazione fortissima di prenderla e sparargli. Lo avevo odiato, avevo sofferto tanto, sognavo la vendetta: quando vidi quella pistola ai miei piedi, pensai di chinarmi, prendere la pistola e sparargli. Mi sembrava un giusto finale di quella storia, ma capii di esser tanto diversa dal mio assassino, che la mia scelta di vita non si poteva assolutamente coniugare con la teoria dell’odio e del fanatismo nazista; io nella mia debolezza estrema ero molto più forte del mio assassino, non avrei mai potuto raccogliere quella pistola, e da quel momento sono stata libera.” È poi la volta di Luciano Barsotti, presidente della Fondazione Livorno, che ha finanziato la pubblicazione del libro presso la casa editrice Pacini. Egli ricorda come la sua città, fin dalla fondazione, ha convissuto con la comunità ebraica, lì molto numerosa, traendo benefici da questo sincretismo culturale.

Inizia poi la cerimonia vera a propria. Il professor Fabrizio Franceschini spiega il nome dato al luogo dove si sta svolgendo l’evento. Inaugurato il 25 febbraio 2020, Il nome “Polo della Memoria San Rossore 1938”, fortemente voluto dal rettore, è stato scelto per richiamare alla memoria collettiva la “Cerimonia del ricordo e delle scuse” celebrata nel 2018 in occasione dell’80° dalla firma delle leggi razziali “Con la scelta di questo nome vogliamo rinnovare in modo solenne un impegno, quello di difendere e promuovere i valori della democrazia, della libertà, dell’eguaglianza, della fratellanza e del diritto alla dignità di ciascun essere umano”. “Vogliamo che i nostri studenti conoscano i nomi di alunni e docenti perseguitati, espulsi, uccisi per motivi razziali: 20 docenti e 280 studenti”.   “Questo polo – prosegue Franceschini – fa da pendant con l’altro geograficamente sito nella parte opposta del centro storico di Pisa, il polo Pontecorvo, all’interno della stessa area in cui, negli anni Trenta del secolo scorso, sorgevano gli impianti tessili della famiglia Pontecorvo”. Il polo è dedicato a Guido, Bruno e Gillo, che oltre ad essere esponenti di primo piano nei rispettivi campi della genetica, della fisica e dell’arte cinematografica, hanno subito, in quanto ebrei, le persecuzioni razziali nel ’38 e sono dovuti fuggire all’estero, Guido ad Edimburgo, Bruno negli USA e Gillo in Francia. Questo ultimo è tornato poi in Italia per aderire alla Resistenza, coordinando azioni partigiane in Piemonte e Lombardia.

Giunge finalmente la presentazione del libro Il dovere della parola da parte delle autrici, Laura Ricotti e Marina Riccucci, che tra l’altro è anche membro del CISE, la quale spiega l’origine del libro che nasce dagli incontri e dalle conversazioni che hanno intrattenuto tra il 2017 e il 2020 con Liliana Segre e Goti Bauer. Il volume che si compone di quattro capitoli: nel primo Laura Ricotti ricostruisce il contesto storico dell’Olocausto, con riferimenti agli anni 1933-1945, dall’apertura del primo lager ai processi di Francoforte e di Norimberga. Il secondo capitolo verte sull’incontro a Milano tra Liliana Segre e Goti Bauer dopo la deportazione e il ruolo avuto dalla signora Goti nel processo che ha portato Liliana a farsi testimone. Il terzo è la prima biografia (autorizzata) di Goti Bauer, condotta sulla scorta delle parole e del racconto fatti da Goti alle due autrici, durante due incontri nel 2018 e nel 2020, entrambi a Milano. Il quarto, infine, è la storia di Liliana Segre riferita nell’intervista rilasciata a Marina Riccucci nella sua casa milanese nel marzo 2017, prima della nomina a senatrice a vita. Si tratta di un resoconto particolare, durante il quale Liliana Segre “ha parlato della sua vicenda di deportata ad Auschwitz con le parole di Dante, eleggendo termini ed espressioni dell’Inferno a vocabolario della sua testimonianza”. Il volume è corredato anche da videointerviste. La professoressa Riccucci, icasticamente, dice “dalla firma delle leggi razziali l’orizzonte aperto per gli ebrei è diventato quello chiuso di un vagone piombato e di una camera a gas” e conclude, spiegando il titolo del libro, “ogni frase pronunciata deve diventare una pietra di inciampo”.

In collegamento telefonico partecipa una delle testimoni, Goti Herskovitz Bauer, 96enne, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz e molto attiva nella memoria della Shoah. Originaria di Fiume, perde nell’Olocausto i genitori, un fratello, una sorella e un cognato. Ripercorrendo la propria vita dalla solitudine nel periodo delle leggi razziali, all’indifferenza e malvagità, Goti Bauer ricorda, con grande gratitudine, che tra la cattiveria generalizzata ci fu però anche un episodio di grande solidarietà: l’aiuto ed il conforto ricevuto dalla vicina di casa, la signora Angelina Braida, che, esponendosi a gravi rischi personali, fece murare un locale nella sua casa di vacanza a Laurana dove nascose oggetti di valore di tanti ebrei, tra cui anche quelli della famiglia di Goti. La cosa del lager che ricorda con più orrore è la frase “durch den kamin” (per il camino) alludendo ai formi crematori. Come per molti altri deportati, l’occasione della testimonianza per Goti arriva negli anni Novanta quando si riaccende nell’opinione pubblica l’interesse sulla Shoah e sui racconti dei sopravvissuti. Da allora la signora Bauer partecipa a numerosi incontri con le scuole e a manifestazioni pubbliche.

Alle 11:30 inizia la cerimonia di conferimento della laurea. Ad iniziarla è il Magnifico Rettore dell’università di Pisa, Paolo Maria Mancarella, che tiene un discorso intriso dei sentimenti che hanno animato la nostra costituzione. “E’ importante la memoria nell’Italia di oggi, che risulta divisa e incoerente di fronte ai valori che dovrebbero essere comuni -come il cielo nella filastrocca di Rodari: il cielo è di tutti, di ogni occhio è il cielo intero- e non calpestati da alcuni membri delle istituzioni per meri scopi elettorali, facendo leva sulla paura”. Poi introduce Liliana Segre con queste parole “ha imparato a parlare con dolcezza e intelligenza contro le barbarie del mondo” ed è proprio per questo che le viene attribuita la laurea honoris causa in Scienze per la pace.  La motivazione è letta dalla presidente del corso di laurea, Professoressa Eleonora Sirsi: “per il suo impegno nel contrastare gli hate speeches, promuovere una vera educazione alla cittadinanza, alla pace positiva e al ripudio della violenza”. La professoressa ripercorre poi la biografia di Liliana Segre, dall’infanzia con il padre, al precoce senso di ingiustizia a causa delle leggi razziali, fino al tentativo fallito di fuga in Svizzera con la famiglia, l’arresto e il carcere prima a Como e poi a San Vittore. Su quest’ultima esperienza la Senatrice ha però un ricordo dolce “eravamo noi due, io e mio padre, e in quella cella e ho vissuto momenti di felicità perché ero sola con lui”. Poi la deportazione a 14 anni ad Auschwitz, il numero di matricola 75190, il lavoro in una fabbrica di munizioni, il momento terribile in cui, trovandole un pidocchio, la rasano “avevo una consapevolezza nuova della mia nudità e del mio capo rasato…non ero mai stata così sola e infelice, avevo fame, freddo. In quella stanza c’era una bambina di circa 2 anni più grande di me, non parlava la mia lingua, credo che fosse ceca. Nei suoi occhi vedevo lo stesso orrore. Sfruttando il nostro latino scolastico, riusciamo però a dialogare. Non sapevo il suo nome, ma fra di noi nacque una intimità”. Quando torna a casa il 31 agosto 1945, a 15 anni, Liliana non ha voglia di ricordare. L’Italia di quel tempo non faceva della Shoah parte del racconto pubblico, una delle tante “amnesie della storia”, come le ha definite Remo Bodei. Negli anni ’70-’80 precipita nella depressione dalle quale esce grazie al lavoro (rileva la fabbrica paterna di tessuti) e all’inizio degli incontri pubblici e con gli alunni. Arrivano poi le onorificenze: a partire da quella di Commendatore al merito della Repubblica italiana, conferita da Ciampi nel 2004, alle 6 lauree honoris causa, di cui quella di Pisa è l’ultima, fino alla nomina a senatrice a vita nel 2018.

La laudatio è tenuta da Gadi Luzzatto Voghera e da Noemi Di Segni, rispettivamente direttore del CDEC, Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, e presidente dell’UCEI, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

Il primo percorre gli studi essenziali, sia stranieri che italiani, sulla Shoah, a partire dall’opus magnum The Destruction of the European Jews, pubblicato da Raul Hilberg nel 1961 negli Stati Uniti, mentre nello stesso anno Renzo De Felice pubblica in Italia il molto discusso Storia degli Ebrei italiani sotto il Fascismo; gli esperimenti di Stanley Milgram negli anni ’70 che hanno in parte influenzato anche il saggio a Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland di Christopher Browning del 1992; e Modernity and the Holocaust, pubblicato da Zygmunt Bauman nel 1989. Per la filmografia il monumentale documento di Claude Lanzmann Shoah del 1985. Questi studi creano un contesto culturale e civile che fa nascere “l’era del testimone” per dirlo con le parole di Annette Wieviorka.

La laudatio di Noemi Di Segni è all’insegna dell’importanza della memoria e della pace “l’impegno di memoria è un impegno morale per non precipitare nell’abisso del vuoto di umanità” e “il presupposto della pace sono la legalità e la consapevolezza del limite”.

Alle 13:20 avviene la consegna virtuale del diploma di laurea a Liliana Segre seguita dalla sua lectio magistralis. La Senatrice innanzitutto manda un abbraccio virtuale a Goti Bauer “amica e maestra di vita” e ringrazia per gli interventi le due scrittrici Riccucci e Ricotti. Poi, con grande umiltà si domanda “A volte mi chiedo come io possa aver ispirato tutto questo” e si definisce “nonna di me stessa, così come penso di esserlo stata per i tanti ragazzi che mi hanno ascoltato”. “Penso con pena infinita alla ragazzina che sono stata. Ero una bambina di 8 anni quando ascoltai dai miei cari, poi spazzati via dalla Shoah, che ero stata espulsa dalla scuola per la sola colpa di essere nata. Furono troppi quelli che accettarono le leggi razziali, anche per interesse personale, oltre che per indifferenza”. “Ma sono orgogliosa, credo, di essere stata utile nelle scelte di vita di chi mi ha ascoltato, cercando di trasmettere la forza che c’è in ognuno di noi. Ora sono una laureanda, molto matura e commossa”. “Continuerò, nei limiti delle mie forze, -ha concluso- nella mia opera di testimonianza e di costruzione di una società di pace, rispetto, responsabilità, dialogo, solidarietà ed accoglienza dell’altro“. Poi manda un abbraccio a tutti “con l’affetto di una nonna”.

La cerimonia si conclude con l’esecuzione del Kaddish di Maurice Ravel, nella produzione del Festival Nessiah.




“La frontiera contesa: il confine italo-sloveno dal fascismo al secondo dopoguerra fra storia e memoria.”

Nel quadro delle iniziative per il Giorno del Ricordo 2021, si terrà giovedì 4 febbraio a partire dalle ore 18.15 l’incontro promosso dal comitato provinciale ANPI di Lucca “La frontiera contesa: il confine italo-sloveno dal fascismo al secondo dopoguerra fra storia e memoria”. All’incontro parteciperanno Eric Gobetti (storico e regista, autore di “E allora le foibe?”, edito quest’anno da Laterza) e Armando Sestani (vicepresidente dell’ISRECLU, che nel 2015 ha pubblicato il volume “Esuli a Lucca” per Maria Pacini Fazzi); porterà i saluti dell’ANPI provinciale il presidente Filippo Antonini; coordinerà il dibattito Stefano Lazzari della redazione di ToscanaNovecento.

Sarà possibile seguire l’evento in streaming sulla pagina Facebook ANPI Comitato Provinciale Lucca.




Giorno della Memoria 2021: grazie a Regione Toscana, il treno “virtuale” della memoria è partito da Firenze.

Questo sarebbe stato il ventesimo anno dall’istituzione del Treno della Memoria, iniziativa (poi molto “imitata”) creata dalla Regione Toscana, prima in Italia. Ma a causa della pandemia, il treno questo anno non è potuto partire. E gli alunni non si sono potuti neppure riunione per ascoltare storici e testimoni al Nelson Mandela Forum, come si faceva ad anni alterni.

Ma, nonostante le difficoltà, la Regione Toscana, coadiuvata dal Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, ha comunque celebrato la Giornata della Memoria insieme agli studenti, che si sono collegati on line in 11.000, attraverso un viaggio ‘virtuale‘ di quattro ore nella storia, nei campi di sterminio e nei ricordi di vite vissute.

Manca anche la presenza fisica dei testimoni, pure loro collegati da casa, mentre sul palco del Cinema La Compagnia di Firenze è presente Ugo Caffaz, anima fin dall’inizio del Treno della Memoria toscano, che termina così il suo breve discorso “Si dice che senza memoria non c’è futuro, no, non c’è presente, altrimenti non pensiamo a ciò che ci sta intorno, non lo guardiamo e facciamo quello che ci pare”.

Intervengono anche i rappresentanti istituzionali come Alessandra Nardini, assessora regionale all’istruzione, che invita a raccogliere l’eredità dei testimoni e a non abbassare la guardia di fronte ai rigurgiti nazisti e fascisti e ai negazionismo; Antonio Mazzeo, presidente del Consiglio regionale, che auspica che il Treno della Memoria possa partire non ad anni alterni ma tutti gli anni, e Eugenio Giani, presidente della Regione, che, con una metafora attuale, dice che il miglior vaccino contro il virus del razzismo è la memoria.

Ad animare il palco, e attraverso internet, i numerosissimi studenti collegati con i loro insegnanti dalle aule scolastiche, è l’Orchestra multietnica di Arezzo, nata nel 2007 da un percorso formativo, aperto alla partecipazione di musicisti italiani e stranieri e finalizzato alla conoscenza e all’approfondimento delle musiche tradizionali delle aree del Mediterraneo, per predisporre un repertorio basato sulla contaminazione.

Attraverso le parole e le note di Enrico Fink, ebreo, e di Alexian Santino Spinelli, rom, viene lanciato il messaggio che la cultura è fatta di incontri tra diversità e che cultura e musica significano pluralità, confronto e mescolanza. L’Orchestra apre e chiude l’evento e fa da intermezzo fra un intervento e l’altro. Questa celebrazione della Giornata della Memoria è anche l’occasione per lanciare l’ultimo disco, dal titolo Romanò Simchà, una crasi linguistica traducibile come “festa ebraica rom”. Così spiega Fink “lo scopo di questo disco è di raccontare in musica il fatto che la cultura italiana non è un blocco con dei confini a rischio di invasione, ma è sincretica, frutto anche delle minoranze. Il nostro mondo è fatto e arricchito dalla diversità”. Poi Spinelli “all’epoca dei miei genitori nascere Rom era un reato. Mio padre è stato internato da bambino in un campo per zingari vicino Potenza e ha subito la fame per la deportazione fascista”. E’ dunque giusto ricordare che ebrei e sinti e rom sono stati vittima dello stesso progetto genocidario nazifascista. Continua Spinelli “musica klezmer e rom si sono sempre mescolate, come i nostri popoli, anche quando si sono incontrati nelle segrete della Santa Inquisizione o nei lager“.

Sul palco, nella veste di conduttori, anche Camilla Brunelli e Luca Bravi, rispettivamente direttrice e collaboratore del Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato.

Il primo testimone a parlare non è sopravvissuto all’olocausto, ma alla strage di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944. E’ Enrico Pieri e proprio questo mese è stato insignito da Mattarella “Commendatore al merito della Repubblica”.

Pieri si presenta e racconta con semplicità e senza patetismo la sua vicenda: aveva 10 anni quando i nazisti -guidati dagli Italiani, sottolinea- hanno massacrato la popolazione e gli sfollati di Sant’Anna. Lui è sopravvissuto all’eccidio nascosto in un sottoscala, dove lo aveva tirato a sé un’altra bambina, Grazia Pierotti, e ha visto massacrare davanti a sé i suoi familiari ed incendiare la casa. E’ rimasto completamente solo: uccisi genitori, due sorelle, nonni, zii e cugini. Anche della famiglia Pierotti si sono salvate solo Grazia e la sorella minore. Le necessità economiche lo spingono, da adulto, ad andare a cercare lavoro in Svizzera e, sfruttando la sua esperienza di emigrato, Pieri parla dell’importanza della Europa unita e non ha parole di odio (all’inizio ammette di essere stato diffidente) verso i Tedeschi. “Quando emigrai in Svizzera capii che non si doveva e non si poteva più odiare e che mai bisogna generalizzare”. Conclude così: “facciamo dei futuri europei affinché non ci sia un’altra Sant’Anna di Stazzema”, e le sue parole ci ricordano come l’Europa nasca negli eccidi di civili, nei campi di concentramento ed in ogni altro luogo dove guerra, odio e violenza hanno creato devastazione.

Viene poi proiettato Un treno per Auschwitz: memorie di un viaggio che dura 20 anni, un video a cura della Regione Toscana con la regia Tobia Pesci. Di fronte ai nostri occhi scorrono immagini del treno in partenza dalla stazione di Santa Maria Novella, intermezzate da brevissime testimonianze di Antonio Ceseri, IMI, Tatiana Bucci e Vera Michelin Salomon, ebree, che raccontano il momento della loro cattura. Andra Bucci, invece, parla della difficoltà di rifare il viaggio verso Auschwitz, perché si rivede ogni volta in quel vagone piombato che la portò ad Auschwitz la notte del 4 aprile 1944. Del viaggio anche Marcello Martini dice: “nel viaggio verso Mauthausen ho provato la prima paura vera della mia vita”. Poi Andra racconta il momento della “selezione” all’apertura del portellone, mentre di quel momento Maria Rudolf, deportata politica, ricorda le urla in una lingua incomprensibile. La sorella Tatiana ci fa accapponare la pelle quando dice che il ricordo più intenso che ha di Birkenau è la fuliggine anche quando era estate, e l’odore acre “che poi ho capito che era di carne bruciata”. L’immagine successiva è quella di Andra che mostra il tatuaggio, di cui è orgogliosa “perché non sono riusciti a distruggermi, ad annientarmi come volevano, ma sono qui per testimoniare. I bambini ebrei dovevano morire tutti e quando si distruggono mamme e bambini si distrugge un popolo intero”.  Il video prosegue con estratti dalla “cerimonia dei nomi”, cioè la lettura da parte degli studenti, davanti al Memoriale di Birkenau, di circa 600 nomi di deportati e dell’età in cui sono morti, cui seguono una preghiera cristiana e una ebraica. Poi le interviste ai ragazzi: “il mio sistema emotivo è rimasto come congelato” afferma una studentessa, “dovrebbe essere obbligatorio da parte dei governi far fare agli studenti questa esperienza”, dice uno studente mentre un altro, attonito, confessa “nemmeno essendo qui riesco a capire”.  Infine, in uno degli incontri nel cinema Krylov a Cracovia, si parla del momento della liberazione e Marcello ricorda il crollo psicofisico subito quando si sono aperti i cancelli di Mauthausen, mentre Andrà si rammenta di un soldato con una divisa diversa da quella dei suoi aguzzini che le dà una fetta di salame.

Dopo il video, prende la parola Camilla Brunelli che introduce i testimoni e ricorda le leggi razziali e le sofferenze che esse e la persecuzione politica hanno causato in coloro che sono dovuti fuggire o emigrare.

E così appare, in collegamento da Buenos Aires, Vera Vigevani Jarach: “Io ho due dittature sulle spalle, quella fascista, perché nella Shoah ho perso mio nonno a Auschwitz, e quella di Videla in Argentina, perché mia figlia, come tanti studenti e giovani, sono state vittime del suo regime”. Nonostante tutte le persecuzioni e i lutti subiti, Vera si dichiara “una ottimista incorreggibile” e aggiunge, riferendosi al presente “Anche la pandemia ci ha insegnato qualcosa: a usare le piattaforme virtuali. Dopo il covid dovremo rivedere tutto e occuparci della fame, della miseria, delle violenze. Non sono utopie, possono e devono diventare realtà perché siamo noi a dover costruire un mondo migliore, ed io ho fiducia nei giovani, per me sono importanti i giovani”.

E così questa straordinaria 93enne, che non esce da casa da marzo scorso a causa del coronavirus, si dimostra ancora una volta una forza della natura.

Riprende la parola Camilla Brunelli per introdurre la Shoah dei bambini (un milione e mezzo) e invita a riflettere su quale ideologia ha permesso che venissero uccisi: “non è inspiegabile follia, bisogna cercare le cause economiche, ideologiche. Fu un cammino graduale che portò al genocidio di un milione e mezzo di bambini per eliminare il futuro”.

Così inizia il collegamento con Kitty Braun, italiana di origine ebrea, nata a Fiume e deportata con la sua famiglia quando aveva appena 8 anni, prima nel campo di Revensbrück e poi in quello di Bergen-Belsen. Ed è proprio dalla liberazione da questo lager che Kitty inizia a raccontare. “Neppure i soldati inglesi si avvicinarono alla baracca, dal fetore. Io ero bambina ma non camminavo più perché mi si erano atrofizzate le gambe. Così venni presa in braccio dai soldati. Nei loro occhi vedevo l’orrore di ciò che vedevano“. “Non mangiavamo da 2 settimana, ci dettero dei fagioli in scatola (che hanno aggravato la nostra dissenteria), poi ci hanno messi su tavoloni di legno dove siamo stati lavati con il bruschino e con la sistola“. “La sensazione più bella che ricordo è quando poi mi hanno messo a dormire in un letto vero. Ancora ora quando entro nel letto, prima di toccare lenzuola, faccio la doccia, per entrare in un letto voglio sdraiarmi pulita“.  Poi con il pensiero torna indietro e ricorda il momento in cui con la famiglia lascia Fiume, cambia cognome in Ferri, per nascondersi in campagna in Veneto.  “Quello in campagna è stato bel periodo, perché potevamo correte liberi e, avendo una mucca, bevevo latte fresco”. Poi la mattina dell’11 novembre 1944 veniamo presi da due SS che vengono a bussarci con un signore (delatore) e ci portano in prigione a Venezia, dove conosciamo la generosità dei prigionieri comuni che ci danno cibo. Da lì a San Sabba, dove abbiamo saputo che saremmo stati deportati in Germania. Mia madre, che era modista, ricordo che cucì un paio di mutande calde, rosa a fiori. Me li ricordo ancora questi mutandoni, che ballavano alla finestra della baracca per cercare di tappare il freddo che entrava“. Il momento drammatico che, invece, le è rimasto più impresso è quando sua zia, dopo la morte del suo bambino, Silvio, che soffriva da giorni per motivi respiratori e aveva pianto tutta la notte, ha detto “finalmente”. “A che dolore si deve arrivare per indurre una madre a dire così alla morte del figlio?”. La dottoressa Brunelli la esorta poi a ricordare il suo ritorno a casa dopo la liberazione, perché Kitty, di nuovo a Fiume, subisce ulteriori traumi. I Braun trovano la loro casa occupata dalla loro domestica Danica, che li aveva denunciati durante la clandestinità per appropriarsene. Racconta Kitty: “Chi ci apre la porta, dice “speravo che foste morti”. Ma i genitori decidono di non denunciarla. Ma non finisce qui. Nel 1947 la famiglia Braun è costretta a un nuovo esodo e da profughi istriani si trasferiscono a Firenze dove Kitty vive ancora oggi.

Il successivo collegamento è con Tatiana Bucci da Bruxelles. E’ strano vederla per la prima volta senza la sorella Andra (sono state deportate insieme a Birkenau quando avevano rispettivamente 6 e 4 anni), che, per il fuso orario di 9 ore, non può esserci, perché adesso vive in California, ma manda un messaggio registrato.
Camilla Brunelli chiede anche a lei di parlare di ciò che è successo dopo la liberazione. Tatiana inizia molto emozionata, triste, piange e ci spiega il perché “stamattina a radio 3 ho sentito parlare dei campi profughi oggi in Bosnia. ll mio pensiero va a loro“.  Poi Tatiana comincia a raccontare dell’orfanotrofio a Praga, in cui lei e Andra hanno vissuto dal gennaio ‘45 “dove abbiamo dimenticato la nostra lingua e dove ci hanno mandate per la prima volta a scuola”. Poi ricorda “un giorno fanno un appello e ci chiedono “chi di voi è ebreo?”. Rispondiamo in 5; allora ci caricano su un aereo militare e ci portano in Inghilterra, in un paesino del Surrey. Era notte al nostro arrivo, ma vediamo davanti a noi un meraviglioso cottage ricoperto di edera. Là ci accolgono a braccia aperte e ci portano in un grande stanzone: la sala giochi! Sembrava il paese dei balocchi!” “Il periodo in Inghilterra è stato il migliore della nostra vita, perché lì siano rinate“.  Andra e Tatiana alle istitutrici, dirette da Anna Freud, raccontano che mamma e papà erano morti. Infatti così credevano, non avendoli più visti da anni. Ma un giorno viene mostrata loro una foto, in cui riconoscono i genitori. Iniziano così le pratiche per il rimpatrio, che le due bambine vivono però come un nuovo sradicamento. Tatiana racconta della partenza da Victoria Station, del viaggio in treno attraverso la Francia e dell’arrivo a Roma, che definisce “traumatico”. “Al binario ad aspettarci c’era tutta la comunità ebraica che ci mostrava decine di foto di bambini per chiedere se li avevamo visti. Ma non potevamo riconoscere nessuno; solo da adulte abbiamo realizzato che erano i bambini razziati dal ghetto il 16 ottobre 1944 e gasati all’arrivo al lager”.

Arriva infime il messaggio di Andra: “nel 2004 abbiamo ricevuto una telefonata dalla Toscana per chiederci se volevano partecipare a un Treno della Memoria; non abbiano risposto subito, un po’ ci spaventava l’idea di quel viaggio, ma poi abbiamo accettato e da allora la Toscana non ci ha mai abbandonato”.  Poi si rivolge al pubblico di alunni che, dall’altra parte del mondo, la stanno guardando: “voi giovani siete il futuro, ho fiducia in voi. Dovete pensare con la vostra testa e non con quella di chi magari urla di più, e dovete aiutare gli altri”.

Ora la storia delle sorelle Bucci è conosciuta in tutto il mondo, il loro libro è stato tradotto in tedesco, inglese e croato ed è stato creato anche un cartone animato: “La stella di Andra e Tati”.
Siamo in conclusione. Prende la parola Luca Bravi “per tanto tempo queste storie non sono state raccontate, perché non c’era un contesto di persone che volevano ascoltare”.
Poi vengono mostrati quattro lavori, fra i 14 selezionati, svolti da alcuni studenti dei duecento insegnanti che quest’anno hanno partecipato ai corsi on line di preparazione al Giorno della Memoria. Il primo contributo viene da Porto Ferraio: un video in bianco e nero, in muto, basato sulla gestualità, dal titolo “io sono il mio numero”. Il secondo giunge da San Sepolcro ed è incentrato sul tema dell’indifferenza, dalle leggi razziali a oggi, con immagini di barconi carichi di migranti, di mense dei poveri, degli esclusi di ieri e di adesso. Il terzo contributo, di una scuola di Prato, si intitola “Lettera di Lena” ed è letta da Floriana Pagano. La voce narrante è quella di una solare bambina ebrea di 11 anni che racconta la svolta fra la felicità della sua infanzia, in una famiglia unita, alla tristezza del viaggio senza ritorno in un vagone merci. Il quarto, infine, è del Liceo Chini di Lido di Camaiore. In esso gli studenti, attraverso un disegno animato, approfondendo il tema dell’Aktion T4, hanno narrato la storia di ragazzo jenisch, Ernst Lossa, ucciso nella clinica di Kaufbeuren.

L’evento si conclude con la musica dell’orchestra multietnica di Prato e le parole di Primo Levi

“La storia insegna ma non ha scolari”.




La SISLav e l’Istoreco Livorno aprono la terza edizione del bando Ortaggi destinato alle opere prime inedite di storia del lavoro.

Per sostenere lo sviluppo di nuove ricerche sui temi della storia del lavoro, la Società Italiana di Storia del Lavoro (SISLav) e l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco Livorno) hanno istituito nel 2016 un premio intitolato alla storica Simonetta Ortaggi, scomparsa nel 1999, studiosa e autrice di alcuni tra i più importanti e sistematici studi italiani di storia del lavoro. La terza edizione del premio è aperta alle monografie inedite che rappresentino opere prime per gli autori. Sono ammesse anche tesi di laurea e di dottorato, discusse nel triennio 2018-2020.

Il premio consiste nella pubblicazione dell’opera presso la collana “Lavori in corso” delle edizioni SISLav-NDF. Il volume sarà liberamente disponibile in versione elettronica sul sito dell’editore e acquistabile in quella cartacea.

L’opera può essere redatta (o integrata da una traduzione fedele all’originale) in una delle seguenti lingue: italiano, francese, inglese, portoghese, spagnolo, tedesco. La lingua della pubblicazione finale sarà l’italiano; l’eventuale traduzione sarà a carico dell’autore.

Condizione imprescindibile è che l’opera non sia né edita né in corso di pubblicazione e che il candidato non abbia già pubblicato altri lavori in forma monografica. Non vi è alcun vincolo, né di natura cronologica né territoriale, circa l’argomento oggetto della monografia: possono essere presentate ricerche relative a qualsiasi periodo storico, dall’età antica alla contemporanea, e a qualsiasi area territoriale.

La candidatura deve essere presentata entro il 1 marzo 2021 compilando il facsimile allegato e spedendolo all’indirizzo e-mail storialavoro@gmail.com, allegando copia elettronica della tesi o della monografia, un abstract in italiano di massimo 4.000 caratteri, un breve curriculum vitae utile a contestualizzare la ricerca nell’ambito degli interessi del candidato e una lista delle eventuali pubblicazioni.

Per rendere definitiva la candidatura è necessario inviare una copia cartacea della tesi o della monografia entro la data del 1 aprile 2021 al seguente indirizzo:

Società Italiana di Storia del Lavoro
c/o Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità DiSSGeA
Università degli Studi di Padova
Via del Vescovado, 30, 35141 Padova

Farà fede il timbro dell’ufficio postale di partenza. La copia cartacea della tesi non sarà restituita al termine della selezione ma conservata presso la sede della SISLav. Entro il 30 settembre 2021 un’apposita Commissione valuterà insindacabilmente la tesi vincitrice del premio. La Commissione sarà formata da cinque membri: tre nominati dal Direttivo SISLav e due nominati dall’Istoreco Livorno. La composizione della commissione verrà comunicata sul sito della SISLav (http://storialavoro.it) entro il 15 marzo 2021.

La Commissione comunicherà l’esito a tutti i candidati. A suo insindacabile giudizio, qualora nessuna delle opere concorrenti risulti adeguata sotto il profilo tematico e/o qualitativo, il premio potrà non essere assegnato. La Commissione si riserva inoltre di attribuire una menzione speciale a favore della pubblicazione di opere non vincitrici ma ritenute comunque meritevoli.

Il vincitore è tenuto a inviare all’indirizzo email storialavoro@gmail.com – entro quattro mesi dalla comunicazione dell’esito – una versione rivista della sua opera:

– tenendo conto delle indicazioni editoriali e scientifiche della Commissione;
– redatta secondo le norme editoriali della collana “Lavori in corso” delle edizioni SISLav-NDF;
– in lingua italiana, dunque se necessario tradotta a cura e a spese dell’Autore.

Per la revisione della tesi il vincitore potrà avvalersi di due interlocutori indicati dal Direttivo SISLav.

L’Autore rinuncerà ai diritti sulle vendite e avrà diritto a 20 copie cartacee del volume.
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Ci ha lasciato Aristeo Biancolini, partigiano senese.

Ieri è venuto a mancare Aristeo Biancolini, una delle figura più lucide del partigianato senese. Nato a Chianciano nel 1924, da una famiglia di antifascisti, a diciotto anni entrò nelle prime bande che iniziarono a costituirsi tra la Val d’Orcia e la Val di Chiana già a partire dalla fine del novembre del 1943.

Di ideali socialisti, nel Secondo dopoguerra divenne sindaco di Chianciano e per tutta la sua esistenza non ha cessato mai di raccontare, in modo chiaro e sereno, la sua vicenda ai giovani.

fantacciQuando Aristeo descriveva la propria esperienza di combattente per la libertà, lo faceva sempre in modo semplice e privo di retorica accostando con naturalezza gli episodi di rilievo, per esempio il sabotaggio della centrale di amplificazione telefonica di Abbadia San Salvatore (10 marzo 1944), a momenti profondamenti umani tra cui quello della mancata fucilazione di un milite fascista la cui pesante situazione familiare (quattro figli piccoli e la moglie malata di tisi) spinse i partigiani a un atto di misericordia.

Con la sua morte perdiamo un testimone di una delle pagine più significative della Resistenza italiana, ossia quella dei valori etici e morali di centinaia di ragazzi che decisero di rischiare la propria vita, anziché nascondersi, per creare un mondo diverso la cui essenza può essere riassunta dal titolo del libro “Non saremo mai come loro” (a cura di Andrea Fantacci e Monica Tozzi) all’interno del quale Aristeo raccontava la sua esperienza.