Beatrice Giglioli, una donna sulla linea del fronte

1. I Giglioli di Pisa
Beatrice Elena Giglioli nasce a Portici (NA) il 5 febbraio 1892 da Italo[1] e Costanza Stocker[2]. I suoi due nomi richiamano due persone della storia della famiglia, uno per quella materna e uno per quella paterna. Grazie al Book IV. 1 dei Family Memorials of the Giglioli-Casella, scritte ad uso della famiglia da Maria Elena Casella (1888-1959), si apprende che Beatrice aveva una zia materna con lo stesso nome, Beatrice Alicia Ramsay Stocker[3], che nell’anno della nascita della nipote si imbarca per gli Stati Uniti per unirsi alle tribù dei Sioux come missionaria presbiteriana. Il secondo nome ricorre con continuità nel succedersi delle generazioni e si riferisce alla nonna paterna, Ellen Hillyer, per la devozione nei suoi confronti da parte di Italo, padre di Beatrice Elena[4].
La famiglia discende da Giuseppe Giglioli (1804-1865), figlio di Domenico (1775-1848) e Maria Luigia Palmerini (?-1862), patriota, membro della Giovine Italia e amico personale di G. Mazzini. Esule in Inghilterra, G. Giglioli aveva sposato Ellen Hillyer (1819-1894) e dalla loro unione erano nati cinque figli: Enrico (1845-1909), Augusto (1846-1901), Alfredo (1847-1897), Italo (1852-1920) e Elena (1858-1941).

Beatrice Giglioli nei primi anni venti. [Archivio Biblioteca Serantini]

Nel 1903 in seguito al trasferimento del padre Italo – già direttore alla Scuola superiore di agricoltura di Portici –, tutta la famiglia si stabilisce a Roma e dove Beatrice inizia gli studi superiori nel liceo ginnasio T. Tasso. Il suo percorso liceale si completerà al liceo classico G. Galilei di Pisa, perché nel 1904 il padre verrà nominato docente di chimica agraria alla locale Scuola superiore di agraria. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa nell’ottobre del 1912, nel novembre 1913 sostiene l’esame al concorso per un posto di alunna aggregata senza sussidio alla Scuola Normale Superiore, classe di lettere e filosofia. La prova scritta di italiano a quell’esame si intitola L’opera di Dante considerata come sussidio alla conoscenza diretta e piena della Commedia. Vince il concorso e successivamente, per il merito dimostrato negli esami sostenuti, viene ammessa come alunna aggregata con sussidio.
Agli inizi della guerra, avendone conseguito il diploma il 6 aprile 1915, presta la propria opera di aiuto-infermiera della Croce Rossa Italiana. Il suo nome è anche nel 1° elenco dei soci del Club Alpino Italiano chiamati alle armi e il suo servizio sui treni ospedali inizia il 10 agosto 1915. Le infermiere volontarie e le aiuto-infermiere della CRI di Pisa svolgono servizio anche presso l’Ospedale militare di riserva, nel Palazzo Arcivescovile, nell’Ospedale succursale Pisa e negli istituti di rieducazione per soldati mutilati. In questo periodo Beatrice intrattiene corrispondenza con ufficiali e sottufficiali al fronte, quasi tutti studenti dell’Università di Pisa. Tra questi c’è Piero Pieri, in seguito tra i maggiori storici italiani della Prima guerra mondiale.
Nel giugno 1917 si laurea in lettere a pieni voti con una tesi su Il problema della decadenza dell’Impero romano negli storici moderni. Il relatore è Vincenzo Costanzi (1863-1929), ordinario di storia antica. Per nomina ministeriale, Beatrice viene incaricata dell’insegnamento di storia, geografia e diritti e doveri per l’anno scolastico 1917-18 nella Scuola tecnica Nicola Pisano di Pisa. Nel maggio 1918, presso l’Università di Pisa, supera l’esame di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese per gli istituti d’istruzione media di 2° grado.
Nell’agosto 1918 si trasferisce a Londra, dove, il 26 dello stesso mese, ottiene per esame il posto di traduttrice al War Office (Ministero della guerra), con il compito di tradurre in inglese documenti e opuscoli italiani e francesi concernenti la guerra europea. Poche settimane dopo, il 21 settembre 1918, si dimette dall’incarico in seguito alla nomina ad assistente presso la Facoltà di Italiano dell’Università di Cambridge. Durante la sua permanenza in Inghilterra segue corsi di perfezionamento di filologia e letteratura inglese, tiene conferenze a Londra e a Edimburgo sulla storia e la letteratura italiana. Nel gennaio 1919 e per i due trimestri successivi assume l’incarico di insegnare lingua e letteratura italiana presso la stessa Università di Cambridge, impegno che prosegue fino al luglio successivo, quando è costretta a rientrare in Italia per l’aggravamento delle condizioni di salute del padre.
Nel frattempo, le profonde trasformazioni geo-politiche legate al riassetto seguito alla Prima guerra mondiale, generano tensioni politiche in tutta Europa. Il legame della famiglia Giglioli con la tradizione risorgimentale mazziniana e con il tema dell’autodeterminazione politica delle nazionalità, si manifesta nel sostegno alla spedizione fiumana di D’Annunzio, alle rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e all’indipendenza ceco-slovacca.
Nell’autunno del 1920 Beatrice diviene insegnante supplente di lingua inglese all’Istituto tecnico Antonio Pacinotti di Pisa, dove rimane negli anni scolastici 1920-21 e 1921-22. Vince il concorso generale a cattedre di lingua inglese per gli istituti tecnici e si trasferisce per un anno a Sassari, dove insegna all’Istituto tecnico Alberto Lamarmora. Dall’a.s. 1923-24 e 1924-25 insegna presso l’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, nel corso superiore della Sezione commercio e ragioneria. A Torino, nel 1925, per l’editore Paravia traduce dall’inglese la guida pratica di J.E. Russell, Lezioni intorno al terreno. A partire dall’a.s. 1925-26 torna a Pisa, al Liceo ginnasiale G. Galilei dove lei stessa aveva studiato e dove diventerà titolare di lingua e letteratura inglese dall’a.s. 1935-36. Dall’a.a. 1925-1926 è incaricata del lettorato di lingua inglese della Scuola Normale Superiore, incarico riconfermato fino al 1959. Presso la SNS sono conservati i registri delle sue lezioni a partire dall’anno 1932 e tra i testi da lei più utilizzati nei corsi compare Oliver Twist di C. Dickens.
Oltre che sul piano professionale, Beatrice è attiva anche su quello civile: quando il 13 febbraio 1926 viene fondata la Sezione di Pisa del CAI, risulta – insieme ai fratelli Irene e Giorgio, oltre che a Piero Zerboglio – tra i promotori e fondatori[5].
Il 25 febbraio 1933 firma il giuramento di “fedeltà” al Re e al regime fascista. Il verbale del giuramento riporta i nomi dei testimoni, Giovanni Gentile, direttore della SNS, e i docenti Francesco Arnaldi e Giovanni Ricci[6].

Ingresso Villa dei Giglioli, 1938 [Archivio Biblioteca Serantini]

Quella di Beatrice al fascismo non è un’adesione ideologico-politica, è invece un’adesione solo formale, dovuta alla necessità di rimanere come insegnante alla SNS, per poter continuare a provvedere a sé stessa e all’anziana madre. La sua precedente attività di volontaria della CRI nella Prima guerra mondiale e la partecipazione, insieme al padre, alla campagna a favore dell’indipendenza ceco-slovacca nel 1920, sono impegni pubblici di tipo “patriottico” nel segno della tradizione mazziniana, ma negli anni che vanno dal 1922 al 1933 non c’è nessuna sua presa di posizione in senso nazionalista. Del resto, nel libro sulla storia dei Giglioli scritto dalla madre di Beatrice e pubblicato nel 1935, benché l’argomento riguardi la tradizione risorgimentale della famiglia, non vi è traccia di alcun accenno al fascismo e al suo leader, in cui evidentemente l’autrice non riconosceva alcuna continuità con la storia del mazzinianesimo[7].
Dall’anno scolastico 1935-1936, oltre che al Liceo ginnasio G. Galilei, è nominata titolare di lingua e letteratura inglese anche alla scuola media R. Fucini di Pisa. Nel 1935 pubblica per R. Pironti di Napoli la traduzione di Much ado about nothing di W. Shakspeare.

2. Sulla linea del fronte: 31 agosto 1943-1° gennaio 1945
Durante gli anni di guerra con meticolosa puntualità Beatrice Giglioli annota su piccole agendine gli avvenimenti familiari e locali. Con la sorella Irene, Beatrice ha vissuto a Cisanello, sobborgo di Pisa, per gran parte del Novecento. Oltre alle notizie sugli eventi quotidiani, nelle sue agendine registra alcune dinamiche relazionali e sociali, che vengono alla luce, paradossalmente, per effetto dei bombardamenti su Pisa, che iniziano il 31 agosto 1943 e proseguono a lungo. Alla dimensione verticale delle bombe che cadono dall’alto e che producono morte e distruzione, subentra quella orizzontale degli effetti generati dalle esplosioni, a partire dai comportamenti di chi, sopravvissuto, si trova ad agire in una realtà fisica (edifici, ponti, strade) e umana (morti, feriti) drammaticamente colpita e dove la vita, per continuare, deve affrontare difficoltà inedite in una situazione che è mutata profondamente. Nella vita civile niente è più come prima: provvedere alle cure mediche per i malati e ora anche per i feriti, spostarsi da un luogo all’altro della città, a piedi, in bicicletta o con qualche altro mezzo, procurarsi cibo e rifornirsi di provviste, dare e avere notizie sulle persone care o conosciute, poter continuare o meno a svolgere il proprio lavoro, poter contare o meno sul funzionamento delle istituzioni, dei servizi postali, dei trasporti ferroviari e delle infrastrutture in genere, ecc. Le bombe, inoltre, producono anche un elevato numero di sfollati, le cui sorti sono esposte a grave rischio, costretti come sono a cercare ospitalità, un alloggio o almeno un riparo.

Bombardamento di Pisa, dicembre 1943 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Pochi giorni dopo il primo bombardamento, inoltre, in seguito all’armistizio con gli Alleati annunciato l’8 settembre, si determina un ulteriore cambiamento, che ha ripercussioni notevoli sulla società civile e rende ancora più precaria la situazione di Pisa e che peggiora con l’arrivo delle truppe d’occupazione naziste, alle quali gli uomini della RSI, sorta nel frattempo, sono del tutto subalterni.
Di tutto ciò si trova ampia traccia nei diari di Beatrice[8]. Quella che si raccoglieva nella villa di Cisanello prima dei bombardamenti era una fitta rete di rapporti fatta di legami parentali, amicali, professionali e culturali, sostenuta da una rete altrettanto fitta di vicini di casa, affittuari, conoscenti e persone provenienti per lo più dal territorio circostante per le collaborazioni domestiche (cucina, pulizie e lavori di casa) e per la fornitura di servizi (materie prime, cibo, servizi di manutenzione della casa, ecc.). A questi va aggiunta la cura dei numerosi animali (cani, gatti, galline, conigli, capre, api), e il conforto rappresentato dal giardino, con l’attenzione esperta ai fiori, alle verdure e alle piante da frutto, esito evidente delle competenze di Italo Giglioli trasmesse alle figlie. Dopo il bombardamento di Pisa, le sorelle Giglioli vogliono subito vederne gli effetti per valutarne la portata e si attivano per far fronte a tutto, a partire dal fatto che accorrono subito presso le macerie della casa degli amici Zerboglio, colpita in pieno da una bomba sul Lungarno Regio (odierno Lungarno Pacinotti), per mettere in salvo la maggior quantità possibile dell’archivio e dei numerosissimi libri che vi erano raccolti. La rete dei rapporti d’amicizia è un bene prezioso, che va tenuta attiva nei momenti difficili, come si vede quando il 23 settembre 1943, dopo aver saputo che l’amico Aldo Visalberghi (1919-2007) era stato ferito nella difesa di Roma, Beatrice Giglioli si affretta a informarne gli amici comuni della famiglia Barletta. La rete di solidarietà si manifesta accogliendo in casa sfollati, curando gli esseri umani e gli animali, continuando ad avere la stessa attenzione di prima anche per il giardino e ospitando amici e parenti a pranzo, a cena, per la notte o anche solo per il tè, cercando, procurando e distribuendo risorse alimentari e facendo di necessità virtù con quelle disponibili. Le sorelle Giglioli intendono in ogni momento ricostituire una comunità di fraternità e integrazione civile, il che rappresenta, per i loro interlocutori, una risorsa preziosa su cui contare. Fra gli amici ospitati più frequentemente a casa Giglioli ci sono persone di differente appartenenza religiosa, come anglicani e valdesi (il pastore Attilio Arias o l’insegnante e collega Laura Revel), o ebrei (alcuni esponenti della famiglia De Cori, Giulia Letizia Aghib, l’insegnante e collega Maria Sacerdotti), nonostante fossero in vigore le leggi razziali fasciste emanate nel 1938 e la persecuzione anti-ebraica si fosse inasprita dopo la nascita della RSI. È la storia stessa della famiglia Giglioli, con il suo ramo protestante inglese degli Hillyer e degli Stocker, a fornire esempio vissuto di costruzione comunitaria. Le Giglioli, del resto, non si fanno intimidire nemmeno dall’arrivo delle truppe tedesche nella loro casa, una prima volta ad aprile 1944 e poi altre due volte tra luglio e agosto.
Gli interlocutori delle sorelle Giglioli sono soprattutto insegnanti, colleghi di Irene e di Beatrice, la quale, insegnando sia nelle scuole secondarie che alla SNS, si trova a contatto con molti dei più noti intellettuali e scienziati attivi a Pisa (G. Gentile, L. Tonelli, L. Russo, S. Timpanaro sr. ecc.). Tra questi ci sono anche alcuni medici molto noti in città, come Francesco Niosi o Silvio Luschi, che prestano cure alle sorelle, amici e vicini. Nelle pagine di Beatrice si coglie bene anche il pesante impatto della guerra sulla vita della scuola. Il lavoro di Beatrice presso la SNS l’ha portata a essere insegnante di molti studenti poi noti nell’ambito delle professioni e che, come nel caso di Visalberghi, sono diventati anche amici. Alla costruzione di questa parte dei rapporti delle sorelle Giglioli con il mondo universitario ha anche contribuito la precedente attività di docente a Pisa del padre Italo, la cui amicizia con Adolfo Zerboglio, per esempio, ha portato all’amicizia fraterna tra le figlie di Giglioli e il figlio di Zerboglio, Piero, importante figura dell’antifascismo azionista toscano, il cui nome ricorre molto frequentemente nelle pagine del Diario. In effetti, dal Diario traspare la posizione antifascista delle Giglioli, tanto che la loro casa, oltre che un riferimento sicuro per Zerboglio, lo è anche per un altro esponente azionista, Carlo Ricci, frequente ospite a Cisanello, così come accadeva anche per altri antifascisti.

Arrivo soldati a Pisa settembre 1944 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Non sono solo le numerose presenze di persone e cose a caratterizzare il Diario, ma anche alcune assenze. Può sembrare strano che in quelle pagine, così attente ad annotare tutto ciò che va dalla minuta vita quotidiana ai grandi avvenimenti politici e militari, manchino due fatti di grande rilievo. In effetti, non c’è alcuna citazione dell’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta a Firenze il 15 aprile 1944, e nemmeno dell’eccidio per mano nazista avvenuto a Pisa il 1° agosto 1944 in casa di Giuseppe Pardo Roques, presidente della comunità ebraica pisana, che era stato amico di Italo Giglioli. È probabilmente la gravità dei due fatti a indurre in Beatrice un’evidente auto-censura a scopo precauzionale. È nella corrispondenza con la sorella Lilia, svolta attraverso scambi realizzati fuori dal circuito postale grazie a mani amiche, che i due fatti vengono citati e commentati.

Negli anni della guerra Beatrice Giglioli continua a lavorare come insegnante al Liceo G. Galilei e come lettrice alla SNS, dove la conferma del suo incarico giunge anche per l’a.a. 1943-44 da parte del nuovo direttore, Leonida Tonelli, rinnovato anche da Luigi Russo[9]. Dall’anno accademico 1942-1943 fino al 1948-1949 è docente incaricata di lingua e letteratura inglese all’Università di Pisa. A causa delle vicende belliche nell’a.a. 1943-44 inizia le lezioni il 1° febbraio 1944 e può tenere solo lezioni saltuarie fino ad aprile.
Dopo la fase dell’occupazione tedesca della città e i mesi di guerra dell’estate del 1944, riprenderà l’insegnamento alla SNS il 25 gennaio 1945. Uno dei suoi interlocutori è il meridionalista Giuseppe Isnardi (1886-1965), collaboratore dell’Animi, che dal 1928 al 1934 insegna al Liceo classico Carducci-Ricasoli di Grosseto e dal 1934 al 1951 a Pisa, dove insegna lettere al ginnasio G. Galilei, collega di Beatrice, insieme a G. Raniolo e a Ildebrando Imberciadori, che insegna lettere al triennio liceale.
Sull’esempio della madre, Beatrice si dedica alla cura dell’archivio di famiglia con l’aiuto della sorella Irene e della cugina Maria Elena Casella. Il ruolo di Beatrice nel conservare l’archivio di famiglia è ricordato proprio dalla Casella in alcuni passi delle sue Family Memorials: «The passage was marked by Italo Giglioli in the book found for me by Beatrice Giglioli at Cisanello, in September 1958» (p. 80); «I once found by chance, in Beatrice’s study, a notebook with some notes jotted down by Italo Giglioli» (p. 150).
Beatrice muore a Pisa il 7 febbraio 1988. Le ceneri per sua volontà sono state collocate nel cimitero di Pisa accanto a quelle delle sorelle Irene e Lilia. L’archivio è lasciato ad Antonio Ricci, che lo ha donato alla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. Italo nasce a Genova il 1° maggio 1852 da Giuseppe e Ellen Hillyer. Si laurea in agraria al Royal Agricultural College di Cirencester, contea di Gloucestershire. Muore a Pisa il 1° ottobre 1920.
  2. Costanza nasce a Roma il 2 ottobre 1856 dal reverendo anglicano Edward Seymour Stocker (1828-1900) e da Jean Hamilton Dunbar (1829-1862). Nel 1885 incontra Italo Giglioli e sarà suo padre Edward, il 26 agosto 1886, a celebrare il loro matrimonio a Londra. Oltre alla cura dei figli, Costanza coltiva le sue passioni e, grazie alla vicinanza del marito e alla conoscenza della storia della famiglia Giglioli, si interessa alle vicende del Risorgimento italiano, in particolare alle avanguardie democratiche e giacobine attive a Napoli tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Da questi studi nasce il volume dedicato alla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato in Inghilterra nel 1903.
  3. Nata a Roma il 13 marzo 1858, Beatrice A.R. Stocker muore il 23 febbraio 1935 a Sonoma, in California, dov’è sepolta. Tracce molto interessanti della sua esperienza di missionaria si ritrovano in alcune lettere da lei inviate alla sorella Constance Giglioli Stocker, cfr. A Doorkeeper in the House of God: The Letters of Beatrice A. R. Stocker, Missionary to the Sioux, 1892-1893, a cura di A.M. Baker, «South Dakota History», vol. 22, n. 1, 24 marzo 1992, pp. 38-63.
  4. L’ultima figlia di Ellen Hillyer è stata chiamata Elena, così come quest’ultima ha voluto chiamare Maria Elena la sua unica figlia. Beatrice Elena non ha fatto a tempo a conoscere la nonna Ellen, morta nel 1894 in Abruzzo, a Chieti, dove risiedeva presso la famiglia del genero Raffaello Casella, marito di Elena Giglioli.
  5. «Notiziario» CAI – Sezione di Pisa, a. xxxvii, n. 1, 2017.
  6. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. Dal fascicolo risulta che Beatrice Giglioli è iscritta al Pnf dal 31 luglio 1933, tessera n. 671151, e all’Afs (Associazione fascista della Scuola) dal 1934, tessera n. 022270.
  7. C. Giglioli Stocker, Una famiglia di patrioti emiliani. I Giglioli di Brescello, con appendice di 26 lettere inedite di patrioti del tempo, Milano [etc.], Società editrice Dante Alighieri, 1935.
  8. B. Giglioli, Diario 21 agosto 1943 – 1° gennaio 1945. Ricordi dell’estate 1944 di Antonio Ricci, a cura di F. Bertolucci, B. Cattaneo e G. Mangini, Ghezzano (PI), BFS edizioni, 2025.
  9. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. L’incarico alla sns termina nell’a. a. 1959-60.



FIRENZE, 1° SETTEMBRE 1944

Terminata la battaglia per la liberazione, Firenze si sveglia non più oppressa dal macigno dell’occupazione nazifascista ma con una serie di problemi da risolvere nel breve periodo, al punto che la gioia di assaporare quel senso di libertà anelato da tanto tempo viene in parte strozzata da una realtà fatta di macerie, dove tutto è da ricostruire, e da una popolazione stremata che necessita nell’immediato dei bisogni primari. Case, strade, ponti che non esistono più, uomini, donne e bambini sfollati che hanno bisogno di un tetto e di piatti caldi quotidiani, e che per bere e lavarsi spesso sono costretti a stazionare in lunghe file davanti alle poche fontane funzionanti.

Una città che versava in condizioni critiche sotto il profilo annonario, igienico e abitativo, oltre che dal punto di vista della sicurezza e dell’ordine pubblico. L’emergenza annonaria era la più drammatica come risulta dai rapporti ufficiali britannici e dal diario di guerra della XIV armata germanica, i tedeschi avevano lasciato ai fiorentini il 9 agosto 1944 scorte alimentari per 22 giorni, più precisamente 125 tonnellate di farina, 25 di riso, 10 di pasta e 25 di pane, oltre ad una tonnellata e mezzo di latte condensato per il sostentamento delle madri e dei malati[1]. Si trattava di una minima parte di quanto i militari tedeschi, rimasti di fatto gli unici padroni della città, dopo la fuga delle autorità civili fasciste, avevano requisito e in molti casi razziato nelle ultime settimane. Ad ogni modo con queste scorte modeste ma provvidenziali la città riuscì a sopravvivere fino alla fine del mese. Con l’arrivo delle truppe alleate i benefici sperati furono disattesi, infatti la situazione annonaria nell’autunno-inverno ‘44 non migliorò, e nonostante le promesse delle autorità alleate gli alimenti base continuavano a mancare o a essere reperibili solo alla borsa nera.

Un problema altrettanto grave era costituito dall’emergenza abitativa, Firenze pur non avendo subito ferite paragonabili a quelle inflitte in altre città italiane, per il rispetto tributato al suo patrimonio artistico, per l’assenza di strategiche concentrazioni industriali o perché la guerra era finita otto mesi prima che al Nord, aveva avuto danni al suo tessuto urbano niente affatto trascurabili.

Dopo la liberazione la popolazione fiorentina, che era salita in poco tempo da 350.000 a 500.000 abitanti, trovò rifugio un po’ dovunque, in particolare nelle case requisite ai fascisti e nei centri per sfollati, organizzati nelle parrocchie, nelle case del popolo, nei locali del comune e soprattutto nelle scuole[2]. In accordo con gli alleati furono riorganizzate le strutture di accoglienza, e in molti si riversarono soprattutto presso l’Ente comunale di Assistenza, uno dei più attivi in città, che a fronte di questa situazione di estrema precarietà fu chiamato a rispondere con urgenza ed efficacia. Grazie all’opera del direttore Luigi Rondoni, del presidente Giorgio La Pira, e all’aiuto economico e logistico degli alleati, una delle prime azioni dell’Ente fu la riapertura delle mense già adibite in passato alla distribuzione dei “ranci del popolo” e la distribuzione di generi di prima necessità alla popolazione. Come refettori furono utilizzati i locali delle parrocchie, che crearono una rete capillare e diffusa in città, a cui si aggiunsero centri assistenziali, case del popolo e molte altre strutture di fortuna.

Dal punto di vista amministrativo, già nel pieno della battaglia, l’11 agosto, la guida della città fu subito assunta da una giunta comunale nominata direttamente dal Comitato toscano di liberazione nazionale (Ctln). Vi fu un lungo braccio di ferro con le forze alleate per la definizione dell’organico amministrativo, ma il Ctln ebbe la meglio e riuscì ad imporre alla carica un medico socialista, Gaetano Pieraccini, mentre alla carica di vicesindaco furono designati il democristiano Adone Zoli e il comunista Mario Fabiani. La scelta di Pieraccini non fu la più gradita agli Alleati, che avrebbero preferito come primo cittadino non un rappresentante del partito storico della sinistra, ma altri uomini come il conte Paolo Guicciardini, esponenti liberali come Dino Philipson e l’avvocato Gaetano Casoni, o anche Piero Calamandrei del Partito d’Azione. Alla base della loro opposizione vi era la consapevolezza del valore simbolico della figura del primo cittadino che avrebbe rappresentato Firenze a livello nazionale e mondiale; ma gli Alleati preferirono giustificare diplomaticamente le loro riserve con l’età avanzata del medico fiorentino[3]. Alla fine nonostante le infondate obiezioni sull’età, la scelta di Pieraccini risultò la più adatta “per un sindaco della Liberazione” che era sempre stato un tenace oppositore del regime, oltre che uno dei padri nobili del socialismo toscano[4].

Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

Giunto alla guida della città quasi ottantenne, Gaetano Pieraccini fu chiamato a risolvere problemi di assoluta emergenza, con i quali nessun sindaco del capoluogo toscano si era mai dovuto misurare, come quel problema sorto a termine della guerra – ma che esisteva sia pure in misura ridotta dallo scoppio delle ostilità – dei profughi di guerra e dei sinistrati dai bombardamenti, che Firenze, al pari delle altre città italiane, si trovò ad accogliere, sistemare e sfamare. Fu un’emergenza abitativa che continuò per diversi anni e rappresentò uno dei problemi più drammatici dell’intera storia della città[5].

In città subito dopo la liberazione esistevano soprattutto due categorie di persone che dovevano essere assistite perché prive di vitto e alloggio: gli sfollati residenti in altri comuni d’Italia che avevano dovuto abbandonare la propria casa per la guerra e i sinistrati fiorentini a cui era stata distrutta o lesionata la propria abitazione. Molti di loro avevano trovato rifugio temporaneo in Palazzo Pitti e nell’adiacente Giardino di Boboli quando Firenze nella notte fra il 3 e il 4 agosto fu trasformata in un “teatro di paura e distruzione” da parte delle truppe tedesche in ritirata. Per rallentare l’avanzata degli alleati, che stavano risalendo la penisola, i tedeschi distrussero dietro di loro tutte le vie di comunicazione, compresi tutti i ponti ad eccezione del Ponte Vecchio.

A molti sinistrati successivamente fu trovata una sistemazione soprattutto nelle scuole dell’area fiorentina che velocemente furono adibite allo scopo, mentre molti altri sfollati trovarono rifugio soprattutto presso la caserma Cavani ex Genio di via della Scala, dove poterono rimanere fin quando non arrivarono migliaia di profughi provenienti da vari paesi, in particolar modo dalle ex colonie africane e dai territori esteri quali la Grecia, l’Albania e la Tunisia, che alla fine del ’45 si abbatterono come una valanga nel Centro stravolgendo quella già precaria sistemazione che avevano trovato gli sfollati ed i sinistrati fiorentini[6].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze, Fondo Eca, Filza n. 7, Categoria IV, Inserto n. 22, Centro sinistrati e sfrattati, anno 1945 e seguenti.

 

Da quel momento in poi le Istituzioni si mobilitarono costantemente per trovare nuovi locali adatti ad accogliere tutti coloro che avevano bisogno di un tetto, soprattutto quando si sarebbe aggiunto quel nuovo flusso di esuli, provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia, conseguente alla stipula del Trattato di Pace, del 10 febbraio 1947, che segnò una rinuncia definitiva alla sovranità italiana sui territori del confine orientale. Dal febbraio di quell’anno giunsero a Firenze, come in molte altre località della penisola, cittadini italiani, indotti ad abbandonare i luoghi nativi dal sentimento di appartenenza alla madrepatria, dalla politica persecutoria praticata dal regime titino nei confronti dell’elemento italiano, e in molti casi anche dal rifiuto di vivere sotto un regime comunista.

Firenze fu meta di un ampio flusso migratorio dal litorale adriatico e come nel resto d’Italia, l’esodo coinvolse esponenti di tutti i ceti sociali, «dal professionista e dal pubblico funzionario alla “sigaraia di Pola”, accomunati dal desiderio di tenere fede alla propria italianità anche a costo di abbandonare i loro beni»[7].

Come avvenuto per i territori della Venezia Giulia passati alla Jugoslavia, il Trattato di Parigi consentiva agli italiani residenti nel Dodecaneso la possibilità di esercitare il diritto di opzione. Iniziarono così i rimpatri di quanti avevano scelto la nazionalità italiana, e alcuni di essi, sbarcati a Bari, giunsero a Firenze e si sommarono ai “greci”, arrivati nel novembre del ’45, provenienti da Patrasso (la maggior parte), da Atene, Corfù e Salonicco.

I primi sintomi della gravità del problema si verificarono quando si cominciò a cercare i locali per sistemarli, in quanto quelli disponibili erano già tutti occupati dagli sfollati e dai sinistrati fiorentini. Furono individuati come edifici adatti ad ospitarli alcune scuole, alcune abitazioni private e soprattutto la caserma di via della Scala, la caserma Laugier, in via di Tripoli e il convento sconsacrato di Sant’Orsola in via Guelfa. Ma l’emergenza abitativa apparve presto evidente e le condizioni di questi italiani privati delle loro terre, delle loro case e dei loro beni dalla sconfitta militare si rivelarono drammatiche anche in un’epoca di privazioni generalizzate. Questi centri di raccolta rappresentavano una detenzione ingiusta e pesante per coloro che erano obbligati a subirla e al contempo costituivano un problema sociale per Firenze che doveva “sopportarli e in parte supportarli[8].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze , Fondo ECA, Filza n. 7, Categoria IV, Atti e carteggio vario con l’ufficio provinciale per l’assistenza post-bellica, 1945 e seguenti.

 

I profughi giuliano-dalmati, appena arrivati alla stazione, ha raccontato la signora Liana Di Giorgi Sossi, esule da Pola[9], furono accolti da un signore che si era già stabilito a Firenze e sistemati nel fatiscente complesso dell’ex convento di Sant’Orsola, che accolse circa 580 istriani[10], nelle cui stanze vennero ricavati 272 ambienti familiari, senza il diritto ad un minimo di vita privata, con gli spazi riservati a ciascun nucleo familiare delimitati da semplici coperte appese ad un filo. Ma nonostante gli spazi ristretti e la promiscuità esistente erano riusciti a creare una sorta di Kibbutz con all’interno una scuola, uno studio medico, e addirittura avevano formato una squadra di pallavolo maschile e femminile e un’orchestra che si esibiva durante le feste. Liana Di Giorgi Sossi, allora bambina, in un’intervista ha raccontato alcuni episodi della sua infanzia:

Ricordo che, mentre stavo al campo ho fatto la prima comunione nella chiesa di Santa Reparata: è stato bello. Però noi lì eravamo isolati. Eravamo nel centro e uscivamo solo per andare a scuola oppure a lavorare[11].

 

Il Centro Raccolta Profughi di Via Guelfa, presso la ex Manifattura Tabacchi e, prima ancora, Monastero di Sant’Orsola. Fotografia di Elio Varutti.

 

Sant’Orsola, Firenze, Centro di accoglienza degli esuli istriani, fiumani e dalmati, Pasqua 1947 (archivio Liana Di Giorgi Sossi).

 

Firenze, CRP ex Manifattura Tabacchi, Comunione e Cresima, 15 giugno 1948.

 

Non tutti i profughi giuliano-dalmati passarono attraverso il Centro di Sant’Orsola, i più fortunati, che avevano trovato un lavoro, poterono contare sull’ospitalità di parenti o riuscirono ad ottenere un tetto dal Commissariato Alloggi, evitando così il passaggio dal campo profughi.

Una settantina di altri esuli adriatici invece trovarono posto nei locali di via della Pegola, che negli ultimi tempi erano stati utilizzati come magazzini dall’Università: «Il Genio civile, l’associazione degli industriali e il centro italiano femminile, hanno fatto il possibile per rendere abitabili e confortevoli i nuovi ambienti»[12]. Le 22 famiglie che compongono la piccola comunità hanno così trovato ospitalità in questa specie di “centro profughi”.

L’accoglienza che incontrarono gli esuli giuliano-dalmati ha rappresentato una brutta pagina della storia fiorentina, specie se paragonata all’atteggiamento molto più aperto di realtà locali spesso più povere, come la Sardegna, che ospitarono, con assai maggiore disponibilità i profughi. In molti casi pesò su di loro il pregiudizio che fossero “fascisti”:

C’era una gran malinconia, una tristezza diffusa nei nostri genitori, per il fatto di non essere accettati dagli altri, dai fiorentini, che ci consideravano fascisti e stranieri solo perché eravamo fuggiti da Pola. Per un periodo di tempo il controllo su di noi fu talmente forte che venne addirittura installato un corpo di guardia della Celere nella portineria e gli adulti dovevano esibire sempre un documento per entrare[13].

Solo a partire dalla metà degli anni Cinquanta i profughi scappati da Tito avrebbero raggiunto migliori condizioni di vita ottenendo l’assegnazione di case popolari di recente realizzazione, all’Isolotto, a Bellariva, in via Fanfani, o accedendo all’affitto di abitazioni realizzate nel 1953 per loro e per altri profughi nei complessi di via Niccolò da Tolentino (via delle Gore) e in via di Caciolle.

Non mancarono problemi anche per il rinserimento dei profughi provenienti dalle ex colonie africane e dall’Egitto che, pur non essendo una colonia italiana, aveva accolto, fin dall’Ottocento una folta e qualificata comunità di italiani, sessantaseimila all’inizio del secondo conflitto mondiale.

A Firenze arrivarono anche i rimpatriati provenienti dalla Tunisia e per loro venne requisito l’albergo Cavour in via del Proconsolo per alloggiarvi circa 220 profughi[14]. Un numero minore di “tunisini” trovò posto invece nel Centro profughi di via della Scala ormai quasi completamente occupato dai profughi “greci”.

Non riusciamo a ricavare un numero preciso di profughi che hanno alloggiato a Firenze, ci affidiamo a riguardo al quotidiano “La Nazione” che in data 12 dicembre 1945 riporta un numero di 2700 connazionali dall’estero alloggiati al Centro profughi di via della Scala e che sarebbe presto aumentato con l’arrivo di altri gruppi di profughi. Diventava così fondamentale per gli Enti incaricati di provvedere alla loro accoglienza organizzando nel migliore dei modi le strutture adibite allo scopo per “rendere l’ospitalità non uguale a quella dei lager![15]. E la città di Firenze, con un fragile apparato di emergenza, riunì tutte le forze per attrezzarsi al fine di offrire vitto e alloggio a questi sventurati diventando così un crocevia di razze, dialetti e lingue di tutto il mondo.

Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

In questo movimento continuo di persone accadeva anche che il 23 novembre 1945 arrivasse a Firenze un treno carico di 700 profughi, di ignota provenienza e senza nessun preavviso né da Roma né da alcuna delle stazioni di transito. E neanche al ministero dell’Assistenza post-bellica sapevano dell’esistenza di questo treno in viaggio per Firenze… un vero treno fantasma. E mentre si cercava di correre ai ripari per trovare una sistemazione a queste persone, dalla stazione di Campo di Marte si annunciava l’arrivo di un altro treno: altri vagoni stracolmi di uomini donne e bambini che viaggiavano con il solo bagaglio della propria sofferenza, «senza neppure farli precedere da quell’avviso che si usava per le merci!»[16]. Fu avvisata dell’arrivo di questi treni la direzione del Centro profughi per provvedere all’accoglienza, ma in via della Scala tutti i locali disponibili erano già al completo. Lo sconforto e la rabbia di coloro che avevano viaggiato per giorni stipati all’interno di un vagone esplose quando, arrivati a destinazione, vennero a sapere che nessuno li aspettava, che lì non vi era posto per loro. Risolutivo fu l’intervento del direttore del Centro, che giunto alla stazione con gli addetti della mensa popolare ed un carico di buone pietanze alimentari, riuscì a calmare gli animi e convincerli ad accettare di rimettersi in viaggio verso Bologna (città da cui, di lì a poco, sarebbero tornati a Firenze!)[17].

Questo clima di caos e di incertezza, tipico di una situazione al collasso, era causato anche da difficoltà di comunicazione con gli organi centrali e dalla confusione creata dai movimenti degli eserciti insieme agli intralci provocati dagli organismi di controllo degli Alleati.

L’afflusso di profughi proseguì per tutto il 1945, soprattutto furono numerosi i rimpatri dalla Grecia (il nucleo più consistente di profughi a Firenze alloggiati nella ex caserma di via della Scala) che giunsero ininterrottamente per tutto il mese di novembre e l’inizio di dicembre, poi iniziò l’arrivo degli istriani che proseguì anche negli anni Cinquanta. Mentre il flusso di profughi “africani” nel capoluogo toscano si protrasse fino agli anni Settanta, quando, dopo il colpo di stato nel 1969 del colonnello Gheddafi, fu messa in atto la “cacciata” di tutti gli italiani dal territorio libico. Non solo, Gheddafi per appagare il suo sentimento di vendetta nei confronti dell’Italia, andò oltre ordinando la restituzione dei morti italiani che furono dissotterrati dai cimiteri e imbarcati sulle navi per tornare in patria.

 

NOTE:

[1] Enrico Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957) dall’11 agosto all’anno dei tre ponti, Ibiskos, Empoli 2008, p. 56.

[2] Daniela Poli, Storie di quartiere. La vicenda Ina-Casa nel villaggio Isolotto a Firenze, Edizioni Polistampa, Firenze 2004.

[3] Cfr. Lelio Lagorio, Cronache di lotta socialista a Firenze, in Il socialismo a Firenze dalla Liberazione alla crisi dei partiti 1944-1994, a cura di Luigi Lotti, Polistampa, Firenze 2013, p. 119.

[4] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957), cit., p. 53.

[5] Negli anni ‘60, dopo la realizzazione di molti alloggi, erano ancora in attività 32 centri sfrattati con 779 famiglie alloggiate composte da 2696 persone, in Daniela Poli, Storie di quartiere, cit., p. 84.

[6] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[7] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione, cit., p. 189.

[8] Elio Varruti, I diritti e le ortiche. Esuli dai campi profughi ai villaggi per rifugiati di firenze-1945-2009, https://eliovarutti.wordpress.com/2020/10/10/

[9] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in Daniela Tartaglia, Sant’Orsola. Fotografie da un monastero, Crowdbooks, 2019.

[10] Il Crp di Sant’Orsola operò dal 1945 al 1955 per i profughi istriani. Vi confluirono con le loro famiglie 580 dipendenti della manifattura tabacchi di Pola assegnate alla manifattura tabacchi di Firenze, che dall’Ottocento fino al 1941 aveva sede proprio a Sant’Orsola (Il Centro continuerà ad essere attivo fino alla fine degli anni Sessanta accogliendo sfrattati o senza tetto).

[11] Ibidem.

[12]Dopo le nostre segnalazioni. I profughi giuliani decentemente sistemati, «La Nazione», 13 marzo 1948.

[13] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in D. Tartaglia, Sant’Orsola, cit.

[14] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[15] E. Miletto, In fuga. Assistenza e accoglienza degli italiani di Grecia in Piemonte, in Convegno internazionale “Grecia e Italia 1821-2021: due secoli di storie condivise, Atene 2023, p.716.

[16] Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

[17] Ibidem.

 

Articolo pubblicato nel marzo 2025.




Cattolici e RSI in Toscana (1943-1944)

Il rapporto tra Chiesa cattolica e fascismo è oggetto di una lunga stagione di studi che, culminata nella monografia di L. Ceci (L’interesse superiore, 2013), ha gettato luce sui momenti, i protagonisti e i caratteri essenziali di quella relazione; ciò detto, perfino a ottant’anni dalla Liberazione le conoscenze restano a tratti lacunose.

Uno dei problemi principali concerne quella parte – esigua sul piano numerico ma assai attiva, rumorosa e influente – del laicato e soprattutto del clero che, lungi dal limitarsi all’obbedienza nei confronti delle autorità civili, militari e religiose, aderì con entusiasmo alla RSI. Alcuni esempi sono noti: pensiamo ai cappellani militari, oggetto di un volume fondamentale di M. Franzinelli (1991); oppure a quanti animarono periodici come «Italia e civiltà» (Firenze), «L’Italia cattolica» (Venezia) e soprattutto «Crociata italica» (Cremona), diretta da don Tullio Calcagno e studiata già negli anni Settanta da A. Dordoni. Nel complesso, però, la storiografia, inclusa quella di matrice cattolica, ha mostrato un interesse assai limitato e i contorni del gruppo restano vaghi, rendendo opportune indagini più approfondite.

Per quanto concerne l’area toscana, teatro di episodi tra i più violenti e drammatici della guerra di Liberazione, il caso più eclatante ebbe per protagonista il vescovo di Massa C.A. Terzi, che dopo la Liberazione fu accusato di acquiescenza eccessiva ai tedeschi e finì – unico nell’episcopato italiano – per dimettersi. Che dire però di altri attori, scivolati in parte o del tutto nell’oblio? Al fine di evidenziare il carattere trasversale del consenso alla RSI, capace di interessare le diverse componenti della compagine ecclesiale, questo intervento si soffermerà brevemente su quattro figure di diversa natura: un cappellano militare, un delatore, un parroco di campagna e un intellettuale.

Il cappellano militare

Originario di Bologna, Sergio Baccolini (1913-1997) entrò nell’ordine benedettino vallombrosano con il nome di Gregorio. La notizia della belligeranza lo colse a Roma, nel monastero di S. Prassede, da dove – animato da fervente patriottismo e da profonda ammirazione nei confronti del Duce e del Führer – chiese invano di essere nominato cappellano militare. Trasferito a Pescia e quindi a Firenze, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 funse da collegamento tra le SS e la famigerata Banda Carità e quindi, nell’aprile 1944, ottenne l’agognata nomina a cappellano. Forte della nuova posizione, Baccolini avviò un’intensa opera propagandistica sui fogli della RSI, culminata in un violentissimo articolo contro i chierici “traditori” apparso nel giugno 1944 su «Repubblica» (l’organo del Partito fascista repubblicano a Firenze). All’inizio del luglio 1944, quando la battaglia per la liberazione della città era ormai imminente, l’autore fu assegnato alla Polizia repubblicana di Toscolano Maderno (Brescia), dove continuò a dispiegare lo zelo politico abituale, collaborando con i fogli farinacciani «Crociata italica» e «Il Regime fascista» e riuscendo a farsi ricevere da Mussolini. Baccolini rimase nelle fila della Polizia repubblicana fino alla fine del gennaio 1945, quando a seguito di una denuncia anonima rassegnò le dimissioni da cappellano. La sua vicenda durante gli ultimi, concitatissimi mesi di guerra resta poco chiara; certo è che dopo l’insurrezione generale fu arrestato e internato nel campo di Bresso (Milano), da dove fu liberato nel 1946 grazie anche all’intervento del cardinale-arcivescovo di Milano A.I. Schuster. Sospeso a divinis ed espulso dall’ordine, visse a Milano, aderì alla massoneria e in seguito si convertì all’ortodossia, contribuendo alla realizzazione del primo viaggio di La Pira in URSS (1959). Dopo una serie di spostamenti si stabilì infine a Torino, divenendo una figura di riferimento per la comunità ortodossa locale e nazionale. Nel 1984, a Lisbona, fu consacrato vescovo del capoluogo piemontese dal metropolita Gabriele, della Chiesa ortodossa autonoma del Portogallo, e mantenne l’incarico fino alla morte.

Il delatore

Un altro esponente dell’ordine vallombrosano a Firenze fu il romano Epaminonda Troya, in religione Ildefonso (1915-1984). Da vicario cooperatore della parrocchia di S. Trinita, collaborò per un breve periodo con gli azionisti fiorentini ma nel novembre 1943 fu arrestato dalla Banda Carità e decise di passare dalla parte dei fascisti. La sua carriera di delatore e “confessore” al servizio della Banda Carità fu breve ma le sue azioni restarono impresse nella memoria delle vittime, turbate dalla freddezza, dal sadismo e dal cinismo del frate. Pienamente soddisfatte, nel gennaio 1944 le autorità fasciste gli consentirono di operare a Roma, dove il mese successivo il religioso svolse un ruolo essenziale nell’irruzione della Banda Koch nell’abbazia benedettina di San Paolo fuori le mura, rifugio di decine di ebrei e antifascisti. Sospeso a divinis dai superiori, egli si recò a Milano e quindi a Cremona, con l’incarico di spiare Farinacci e il suo entourage per conto del ministro degli Interni Buffarini Guidi. La missione ebbe successo, al punto che Troya pubblicò su «Crociata italica» diversi articoli in cui difendeva apertamente la delazione come strumento legittimo di lotta politica e religiosa da parte di chierici e laici. Benché screditato agli occhi della S. Sede, egli sfruttò la confusione generale e i contrasti ai vertici dell’Ordinariato militare per divenire, nonostante la sospensione a divinis, tenente cappellano della GNR prima a Trieste (dove ebbe diversi scontri con il vescovo A. Santin) e quindi a Verona. Al termine delle ostilità fu arrestato, processato e condannato insieme ai superstiti della Banda Koch, restando in carcere fino al maggio 1953. Il carcere non ne mutò le idee, come attestano le lettere di protesta scritte ancor dopo la liberazione per protestare contro l’iscrizione al Casellario politico centrale. Dopo il 1962, le tracce dell’ex delatore si perdono: sappiamo solo che visse nel paese natale, in provincia di Roma, e che poco prima di morire fu riammesso al sacerdozio.

Il parroco di campagna

Uomo di pensiero più che d’azione, il parroco della chiesa di S. Lucia a Terzano (una frazione di Bagno a Ripoli) Leone Frosali (1892-1972) è una figura diversa e decisamente meno nota rispetto a Baccolini e Troya. La mancanza di documenti impedisce di gettare luce sulla sua condotta tra l’entrata in guerra dell’Italia e l’armistizio di Cassibile; dopo l’8 settembre, però, egli aderì con convinzione alla repubblica di Mussolini, destando una certa sorpresa tra la popolazione. Tale adesione prese la forma di un’intensa campagna giornalistica, che lo portò a divenire una firma familiare ai lettori di «Repubblica» e «Crociata italica». Nei suoi scritti si ritrovano i capisaldi del discorso portato avanti dall’area ecclesiale incarnata da don T. Calcagno: l’opposizione irriducibile a ebrei, comunisti, protestanti, massoni e “traditori”; lo sprezzo per l’ignavia della maggioranza del clero; il connubio tra fede e patria; la lettura del conflitto in termini apocalittici, come una lotta tra bene e male; e naturalmente la netta scelta di campo in favore della RSI. A colpire è soprattutto la polemica nemmeno tanto implicita con il cardinale-arcivescovo di Firenze E. Dalla Costa, che sul piano pubblico si fece promotore di riconciliazione e su quello riservato si impegnò a fondo nel soccorso agli ebrei perseguitati. Pur senza nominarlo, infatti, Frosali rigettò come insufficienti se non ambigui gli appelli alla concordia lanciati dall’episcopato, stigmatizzando l’anglofilia di larga parte del clero italiano e spingendo tutti a cooperare al successo dell’Asse. La curia vescovile tollerò queste dichiarazioni fino all’aprile 1944, quando (anche per scongiurare ritorsioni partigiane) sollevò Frosali dall’incarico e in seguito gli impedì di pubblicare alcunché senza l’esplicita approvazione dei superiori. Il sacerdote, che nell’ultimo articolo aveva esortato la GNR a incidere il «bubbone cancrenoso» della Resistenza, si dovette rassegnare. A questo punto, le sue tracce si perdono quasi del tutto. Non pare che egli sia stato processato per il sostegno alla RSI, ma esigenze di sicurezza personale indussero i superiori ad allontanarlo dalla regione. Ancora nel 1959, infatti, Frosali era cappellano presso l’ospedale-ricovero “Anacleto Bonora” di S. Pietro in Casale (Bologna). Tornò in Toscana solo più tardi per essere ricoverato presso la Casa cardinale Maffi a Cecina (Pisa) e morì a Firenze.

L’intellettuale

Rampollo di una famiglia nobile e benestante di origine veneta, il fiorentino Antonio Marzotto Caotorta (1917-2011) si laureò in Giurisprudenza e combatté con gli Alpini sul fronte greco, restando gravemente ferito e ottenendo una medaglia d’argento al v.m. Congedato dal R. Esercito in quanto mutilato di guerra, tornò all’Università, militando nelle fila dei GUF e laureandosi in Scienze politiche nel 1942. Il profilo intellettuale lo portò a concentrarsi anzitutto sulla scrittura di articoli che, apparsi principalmente sugli organi dei GUF di Forlì («Pattuglia») e Firenze («Rivoluzione»), spiegavano come i principi corporativi avrebbero strutturato la comunità nazionale e internazionale dopo la vittoria dell’Asse. All’indomani dell’8 settembre, egli scelse la RSI, pubblicando una serie di articoli su «Italia e civiltà» – la rivista fiorentina fondata e diretta da Barna Occhini che, sia pure con toni meno virulenti e un taglio più intellettuale rispetto a «Crociata italica», prese nettamente le distanze dalla monarchia sabauda. Qui Marzotto continuò a sviluppare le sue riflessioni sul corporativismo, confermando di ritenerlo uno dei portati essenziali del fascismo. Rispetto al passato, però, il suo discorso si allargò alla difesa del papa e del cattolicesimo da posizioni non solo conservatrici ma intransigenti, rivelate da cenni a De Maistre e soprattutto alla catena degli errori moderni (Riforma protestante, illuminismo, Rivoluzione francese, ecc.) che avrebbero portato all’apostasia del mondo contemporaneo. Alla fine del conflitto, Marzotto non subì arresti né processi ma il clima politico-culturale della Firenze del dopoguerra lo indusse a tenere un profilo basso e a concentrarsi sulla ditta di famiglia fino alla fine degli anni Cinquanta, quando si trasferì a Milano per occuparsi del servizio personale di aziende come la Compagnia generale di elettricità o la Finanziaria Ernesto Breda. Nel capoluogo lombardo egli intraprese una carriera pubblica di grande successo, che lo portò a divenire, tra le altre cose, presidente nazionale di Federtrasporti (1968-1992) e deputato nelle fila della DC (1972-1983). Negli ultimi anni della sua vita tornò a dedicarsi alla scrittura, pubblicando diversi volumi. Morì a Milano in età molto avanzata.

 

Giovanni Cavagnini si è addottorato alla Scuola normale superiore di Pisa e all’École pratique des hautes études di Parigi, ed è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia e finanza dell’Università di Roma Tor Vergata ed è tra i collaboratori della Biblioteca F. Serantini. I suoi lavori si sono concentrati sul cattolicesimo europeo, la Grande guerra, il colonialismo e, più recentemente, la storia della fisica nel Novecento. 

Articolo pubblicato nel gennaio 2025.




La Resistenza in Valtiberina

La Valtiberina è una zona geografica soprattutto appenninica, soggetta alla provincia aretina, che si estende nella Toscana orientale comprendendo grosso modo l’alta valle del Tevere. L’intera area fu coinvolta nella primavera/estate del 1944 in quel fronte divisorio tra Ancona e Livorno, linea di scontro tra l’esercito anglo-americano che risaliva la penisola e le truppe tedesche costrette alla ritirata. In quella zona i nazisti appoggiati dai fascisti scorrazzavano per lungo e per largo prestandosi però all’insidia clandestina delle formazioni partigiane e conseguentemente mettendo in atto feroci rappresaglie e deportazioni delle popolazioni locali. Ma è proprio sui componenti di queste popolazioni, prevalentemente contadini – in tutta l’area il sostentamento e l’attività lavorativa si fondavano direttamente sulla terra – che la Resistenza ha potuto appoggiarsi per proseguire e portare a termine la Liberazione. Già dalla sera stessa dell’8 settembre, il primo e spontaneo atto di resistenza passiva, ma sostanziale, al tedesco che gettò le premesse dell’azione armata, fu l’assistenza agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia ed ai renitenti alla leva. Da quel giorno il ruolo svolto dal mondo contadino durante la Resistenza è stato determinante fino al punto che “…se i contadini non le fossero stati favorevoli, partecipandovi anche attivamente in gran numero, la Resistenza sarebbe stata impossibile[1].

Quando i tedeschi imposero la denuncia e la consegna degli ex prigionieri e l’iscrizione degli sbandati negli uffici comunali per il loro eventuale richiamo, automaticamente costrinsero tutti gli abitanti della campagna, nessun ceto escluso, a schierarsi o con i nazifascisti o contro di essi a favore dei perseguitati. La stragrande maggioranza scelse la seconda soluzione, preparando alla nascente resistenza politica e armata un territorio particolarmente favorevole.

Il Casentino e la Valtiberina come altre zone rurali della Toscana si trasformarono in un grande centro di raccolta, assistenza e transito di decine di migliaia di individui. Fu un’azione che coinvolse tanto i privati quanto il movimento resistenziale organizzato, con l’aiuto di diversi diplomatici stranieri che operavano per conto degli alleati e l’appoggio in denaro e mezzi fornito dal clero. Naturalmente il lavoro di assistenza ai prigionieri alleati e agli sbandati non passò inosservato ai tedeschi e ai collaborazionisti fascisti che fin dal 16 settembre intimarono: “Tutti i prigionieri di guerra dovranno consegnarsi al Comando tedesco… coloro che continueranno a dargli vitto e alloggio… saranno puniti secondo la legge tedesca[2]. Anche il capo della provincia di Arezzo, pensando di far leva su quello che riteneva l’anello più debole, ossia i proprietari terrieri, decretava “il sequestro della proprietà a chi dà ospitalità ad ex prigionieri e sbandati[3]. Ma entrambe le azioni intimidatorie non riuscirono a rompere quel fronte solidale che si era creato attorno alla Resistenza. L’importanza del contributo del mondo contadino alla lotta contro i nazifascisti era già stato manifestato dal “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, futuro CTLN, con un volantino nel settembre del ‘43 quando elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta, invitandoli, al momento del raccolto, ad evadere gli ammassi per sottrarre il grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane.

Ma la Resistenza in Valtiberina oltre al contributo di sostanza dato dunque dal mondo contadino, ha potuto contare anche sul forte sostegno della Chiesa caratterizzando la lotta per la Liberazione, in questa zona forse più che in altre, con uno sfondo prevalentemente cattolico. Si deve tener presente, infatti, che in questa vallata il parroco, nel tempo, per una complessità di cause, aveva finito per rappresentare in genere più che altrove l’incontrastata guida della sua gente: consigliere e confessore, uomo di fiducia e punto di riferimento in ogni occasione. In pratica la parrocchia diventava onnicomprensiva, luogo di culto, di riunione e di divertimento, era centro religioso, sociale e non ultimo luogo di istruzione scolastica. Infatti la Valtiberina, incastonata nell’Appennino, presentava diversi nuclei frazionali dispersi fra le montagne e molto disagevoli a raggiungere, cosicché l’istruzione scolastica negli anni era stata lasciata al clero, ed anche il fascismo dopo i Patti Lateranensi col suo programma di alfabetizzazione aveva preferito costituire le “scuole sussidiate” continuando ad affidarle ai parroci. In questo modo al clero montanaro di questa diocesi veniva affidato più dei due terzi dell’insegnamento elementare. Ogni parrocchia aveva la sua scuola dislocata nei locali della canonica, che dipendeva dal Provveditore agli Studi della Provincia, in cui si svolgevano gli stessi programmi, almeno teoricamente, delle elementari comunali[4]. Questo aspetto, non trascurabile, dell’istruzione scolastica lasciato nelle mani della Chiesa si sarebbe poi fatto sentire  più che mai durante la Resistenza tra quei giovani usciti dalle aule parrocchiali, soprattutto perché questi ragazzi, abitanti nella vallata, venivano consegnati all’istruzione scolastica impartita il più delle volte da preti con idee innovative, progressiste che per lo più erano stati inviati nelle zone più disagiate come in una sorta di confino, un po’ simile a ciò che avverrà poi negli anni Cinquanta con don Milani. Nelle diocesi di questo Appennino toscano, per esempio, avevano trovato rifugio vari sacerdoti romagnoli già aderenti alla prima Democrazia Cristiana murriana[5] come don Zanzi (parroco a Usciano) e don Savini (parroco a Palazzo del Pero), o come don Sante Tampieri e don Edoardo Cotignoli nel Montefeltro, o infine come Francesco Mari nella zona di Città di Castello. Anche se non vi era una posizione omogenea concordata preventivamente, perché entravano in gioco temperamenti individuali e altri fattori soggettivi, è possibile riscontrare nei sacerdoti della provincia d’Arezzo un orientamento abbastanza generalizzato e costante verso i valori democratici e di giustizia sociale a giudicare dall’alto prezzo di sangue pagato nei giorni della Resistenza, dove furono ventiquattro le vittime del mondo clericale cadute sotto i colpi dei nazifascisti[6]. Significativo anche il modo: in genere per essersi offerti quali ostaggi volontari per liberare la propria gente come don Fondelli a Meleto o don Lazzeri a Civitella di Chiana o indiscriminatamente rastrellati con la popolazione da cui non intendevano dissociarsi. E i nazifascisti quando se la prendevano con il clero parrocchiale dell’Appennino dimostravano di conoscere molto bene il ruolo dei parroci in queste zone, considerando la loro opera svolta, almeno all’inizio dell’offensiva, la principale se non l’unica guida dell’opposizione. Esisteva un forte legame, espressione di un tessuto comunitario compatto, fra la popolazione e il parroco che si era consolidato negli anni dalla comune convivenza, dalla scuola, dalla partecipazione nelle attività sociali, un legame che proprio nei mesi della Resistenza risultava non necessariamente e solo religioso ma andava oltre fino al punto che spesso era lo stesso parroco ad avvallare le decisioni collettive per l’appoggio alla lotta partigiana. In questa zona nei mesi dopo l’Armistizio del ’43 il parroco interpretava la comunità scegliendo il campo della lotta e implicitamente la comunità lo delegava in ciò a rappresentarla. Ed è per l’appunto questa presenza attiva del clero parrocchiale che va considerata come un fattore essenziale che spiega e qualifica la partecipazione collettiva della popolazione contadina nella Valtiberina in chiave cattolica nella lotta per la liberazione. Inoltre dobbiamo considerare che la diocesi aretina era guidata da Monsignor Emanuele Mignone, l’unico vescovo che in Toscana si era apertamente dichiarato antifascista contravvenendo in parte all’orientamento dettato dal cardinale Elia Dalla Costa, la più alta autorità religiosa toscana, che prevedeva “di rendersi estranei ad ogni competizione politica”, e di fatto obbedienza alla legittima autorità, cooperazione nella tutela dell’ordine pubblico e quindi legittimazione del fascismo…ma con neutralità[7]. Dopo l’8 settembre il Vescovo Mignone si attivò immediatamente nella lotta contro il nazifascismo cooperando con gli oppositori politici ed entrando in contatto con le formazioni partigiane, caso unico nell’alto clero toscano che volutamente ignorava il CTLN e i partigiani perché nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione del popolo all’ideologia comunista. Non è privo di significato, infatti, che il Vescovo Mignone sia stato proclamato cittadino onorario dal CTLN all’indomani della Liberazione, e può essere indicativo anche il fatto che nella diocesi aretina non ci sia stato un solo caso di cappellano militare della Repubblica Sociale Italiana. E non altrimenti si spiega la presenza dei parroci nei Comitati Nazionali di Liberazione (organismi nati dopo l’8 settembre e prima dei CNL) e poi nei Comitati provinciali di liberazione, né si comprenderebbe come il primo nucleo resistente nella zona di Anghiari fosse stato organizzato dal prevosto mons. Nilo Conti. Nella provincia aretina, dunque, un contributo essenziale e determinante, al pari di quello offerto dal mondo contadino, è stato dato dalla Chiesa coinvolgendo nella Resistenza sia i parroci che le cariche ecclesiastiche più alte della diocesi. Così la stragrande maggioranza del clero che prese posizione lo fece quindi a favore della Resistenza politica e spesso non esitò a entrare in quella armata.

 

NOTE:

[1] Lorenzo Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina in La Resistenza dei cattolici sulla Linea Gotica, (a cura di) Silvio Tramontin, Edizioni cooperativa culturale “Giorgio La Pira”, Sansepolcro 1983, p. 158.

[2] Iris Origo, Guerra in Valdorcia, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 65-67.

[3] Da un manifesto affisso nella Provincia di Arezzo in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiana, 15 marzo 1975, p. 72.

[4] L. Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina, cit., p. 159.

[5] Prende il nome da Romolo Murri, presbitero e politico italiano, tra i fondatori del cristianesimo sociale in Italia, propugnatore di un maggior impegno  politico dei cattolici, agì come voce critica nei confronti del conservatorismo delle gerarchie ecclesiastiche, cercando una conciliazione tra socialismo e dottrina sociale della Chiesa. Egli subì la sospensione a divinis nel 1907 e la scomunica nel 1909, revocata poi nel 1943. Cfr. Giampiero Cappelli, Romolo Murri: contributo per una biografia, Edizioni 5 lune, Roma 1965.

[6] Ivi, p. 160.

[7] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 78.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




ARNALDO DELLO SBARBA, ANATOMIA D’UNA CADUTA

Era stato protagonista della politica toscana da fine ‘800 in poi. Nel 1924 Mussolini lo voleva nel “Listone” fascista.
Ma contro l’ex ministro riformista insorse lo squadrismo pisano.

 Dalla rilettura di archivi pubblici e privati, in parte inediti, il ritratto di una classe dirigente che allevò il fascismo e ne fu divorata.

1911, Arnaldo a Roma, appena eletto deputato socialista
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Che nel giro di pochi giorni, o forse di poche ore, si sarebbe giocato tutta la sua vita politica, Arnaldo Dello Sbarba (1) lo sapeva da tempo. E a quella vigilia elettorale dell’anno 1924 (2) era arrivato come lui sapeva fare: ben preparato.
Aveva dalla sua Benito Mussolini, vecchia conoscenza d’epoca socialista e ora duce del fascismo vittorioso. Aveva conquistato Cesare Rossi (3), numero due del regime e potente capo dell’ufficio stampa del governo. Nella circoscrizione, nella quale Dello Sbarba aveva recitato da primattore per quattro legislature, puntavano su di lui le élite fiancheggiatrici che speravano così di moderare e controllare lo squadrismo (4).
Nella base fascista Arnaldo poteva contare sul Fascio di Pisa, guidato dal capitano Bruno Santini (5), che sul “caso Dello Sbarba” aveva ricevuto istruzioni “inequivocabili” dal duce. Santini capeggiava in quei giorni il movimento dei “dissidenti” contro il segretario federale Filippo Morghen (6), sostenuto invece dai “ras” provinciali (7). E da quando Morghen s’era avventurato a giurare: «Nel fascismo, o me o Dello Sbarba» (8), Santini s’era convinto che poteva usare Dello Sbarba per togliersi Morghen dai piedi.

Considerati dunque tutti i pro e i contro, Arnaldo riteneva di poter vincere la partita. Sarebbe stato ammesso nella “Lista Nazionale” di Mussolini, con la certezza di tornare in parlamento. Voti personali ne aveva in quantità, al resto ci avrebbe pensato il diluvio di seggi garantiti ai fascisti dalla legge Acerbo.
Eppure, compiuti cinquant’anni il 12 agosto 1923, Arnaldo Dello Sbarba si avvicinava all’anno nuovo in stato di grande agitazione. Alla vigilia di Natale, il suo fedele segretario Carlo Conti (9) aveva riferito al fratello Bruno Dello Sbarba di «gravi preoccupazioni politiche non ancora ultimate [anche se] ben incamminate (…) Ci vorranno ancora dei giorni nei quali Arnaldo, che non sta bene soprattutto di cuore, ha bisogno di calma più assoluta (…) . Scrivigli per tranquillizzarlo e incitarlo a vincere la più aspra battaglia» (10).
Finito in mezzo alle lotte intestine del fascismo pisano, nel novembre del 1923 Arnaldo era stato addirittura aggredito alla stazione di Pisa da una squadraccia comandata dal conte Giuseppe Della Gherardesca (11).
Di questo si era immediatamente lamentato con Cesare Rossi. L’aggressione, scrive Arnaldo a Rossi il 10 novembre 1923, non è stata affatto «frutto di uno stato di esaltazione personale» ma della volontà di «costringermi fuori dalla vita pubblica».
Arnaldo riferisce a Rossi che in una riunione della federazione fascista, successiva all’aggressione,

in cui il Gherardesca urgentemente chiamato partecipò, […] si proclamò che io ero un comunista, antitaliano e anti-patriota, e che coloro che mi avevano fatto affronto avevano compiuta opera italianissima, da deplorar semmai per essere stata solo nei limiti di minacce e di ingiurie (…). Fui interventista della primissima ora, partecipai alla manifestazione di Quarto (12) e scoppiata la guerra mi scrissi volontario. Non ho, in coscienza, nulla da rimproverarmi (…) alle accuse di chi, come il Gherardesca fu in quegli anni noto tedescofilo.

Lei mi è testimone – continua la lettera di Arnaldo a Rossi – con quale ardore nel 1921 io, nella circoscrizione di Pisa Lucca Livorno e Massa Carrara, difesi il blocco nazionale ed affermai le ragioni del fascismo, allo stesso modo che nelle sventurate elezioni del 1919, per riaffermare le ragioni della guerra e della patria, fui esposto a tutti gli oltraggi e a tutti gli attentati dei socialcomunisti. Venuto il governo fascista gli ho dato disinteressatamente ed incondizionatamente tutto il mio consenso, fino a partecipare alla commemorazione della marcia su Roma. Della mia devozione per il Presidente non ho bisogno spero neanche di intrattenermi (13).

Primo maggio 1900. Arnaldo saluta il nuovo secolo con la prima pagina de L’Avanti.
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Questo Arnaldo Dello Sbarba del 1923 non era evidentemente più quello «degli anni della sua splendida gioventù», raccontati da Arnaldo Fratini (14) nella sua storia del socialismo volterrano, «che germogliò per la cura, l’ardore e il coraggio con cui lui, insieme ad altri ottimi compagni, volle e seppe coltivarlo». Non era più il battagliero direttore de «Il Martello», uno dei primi giornali del socialismo toscano (15), né il giovane avvocato che nel 1898 aveva difeso, a fianco di Pietro Gori, i lavoratori in sciopero a Campiglia e nel 1900 aveva combattuto per la grazia all’anarchico Cesare Batacchi, rinchiuso nel mastio di Volterra per una bomba mai lanciata (16).
Aveva cambiato rotta: c’era stato l’appoggio alla campagna coloniale di Libia del 1911 (17), l’espulsione dal PSI nel 1912, l’interventismo, la guerra, il “Biennio Rosso” vissuto dalla parte opposta della barricata, all’ombra del liberalismo giolittiano.
Deputato ininterrottamente dal 1911, nei governi di Nitti e Giolitti, Arnaldo era stato sottosegretario alla Giustizia nei mesi insanguinati dall’insorgenza del fascismo. Nel debole governo Facta era stato infine ministro del lavoro, finché la marcia su Roma non aveva mandato tutti a casa. Dopo di che, da deputato, aveva votato per il primo governo Mussolini, usando poi la presenza in parlamento per intessere relazioni nei palazzi del nuovo potere.

Il suo riferimento più importante era diventato Cesare Rossi, che in quell’inizio del 1924 stava lavorando per allargare il consenso al fascismo e farne la spina dorsale di un nuovo stato. La candidatura di un Arnaldo Dello Sbarba, ex ministro dell’era giolittiana, era funzionale a questa strategia.
Così Cesare Rossi si era fatto il regista della candidatura Dello Sbarba nel listone fascista. All’inizio del 1924 aveva ordinato a Luigi Freddi, capo ufficio stampa del PNF, di impedire all’ala intransigente del fascismo pisano di usare il settimanale «L’Idea fascista» per «scocciar l’anima a Dello Sbarba (…) poiché costui (che fra parentesi è molto intelligente e abbastanza ben visto dal Presidente, il quale gli ha anche affidato l’incarico, insieme ad altri due o tre Deputati, di costituire un gruppo di sinistri fascistofili) finirà per essere compreso nel Listone. (…) Io mi riprometto di difenderlo al momento opportuno» (18).
Il tandem Rossi-Freddi aveva anche imbastito una massiccia campagna di stampa per Arnaldo, trainata da «Il Nuovo Giornale» di Athos Gastone Banti e dal «Corriere italiano» di Filippo Filippelli (19).
Per dividere il fronte degli intransigenti, Cesare Rossi aveva mobilitato con un telegramma il principe Piero Ginori Conti (20), proprietario della Boracifera di Larderello e ras dei ras provinciali:

Consiglio inviare senz’altro Presidente Mussolini telegramma in cui si prospettino opportunità positive soprattutto elettorali inclusione Dello Sbarba testimoniando, come per mio conto ho già fatto e farò ancora, il suo contributo [di] affiancatore [del] movimento fascista in varie sue fasi.

Intanto Arnaldo Dello Sbarba stava preparando un promemoria per illustrare i suoi meriti «di affiancatore del fascismo». Nel suo archivio se ne trovano diverse bozze. Un primo schema lo redige Carlo Conti e per Arnaldo rivendica la lotta contro il popolare segretario provinciale del PSI Carlo Cammeo e le manovre messe in atto per destituire, in combutta col prefetto filofascista Renato Malinverno, i “sindaci rossi” Giulio Guelfi di Cascina ed Ersilio Ambrogi di Cecina (21).
Un canovaccio è incaricato di stenderlo anche l’altro segretario, il cavalier Vittorio Fagioli di Marciana Marina, luogotenente di Arnaldo per la provincia di Livorno:

I socialisti ufficiali gli dichiararono guerra implacabile […]. Nelle elezioni del 1919 la campagna bolscevica fu esclusivamente contro l’on. Dello Sbarba, che fu coperto di contumelie come guerrafondaio, indicato all’ira delle folle e in un sobborgo di Pisa gli fu perfino tirato in faccia manciate di sterco e di mota gridando: Eccoti la Patria! (22).

1920, Arnaldo sottosegretario alla Giustizia nel V° governo Giolitti
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Il promemoria definitivo, in terza persona e da spedire a Roma, Arnaldo lo scrive di suo pugno. Nella prima parte ripercorre le prove del suo amor di Patria, già ricordate nella lettera a Cesare Rossi. Poi passa agli esempi concreti, che letti oggi fanno venire i brividi.

Sottosegretario alla giustizia con Giolitti – scrive di sé Arnaldo Dello Sbarba – si batté col noto maestro Cammeo in una elezione provinciale memorabile e difese i fascisti sempre. Avvenuta la uccisione Cammeo (Mussolini ebbe con lui in proposito una corrispondenza telegrafica) procurò la scarcerazione della Rosselli e degli altri accusati (23). Quando, dopo i fatti di Sarzana (24), fu arrestato Santini, andò a Massa per farlo scarcerare. Quando fu ucciso Menichetti (25) in una imboscata comunista a Ponte a Moriano, ne seguì a capo scoperto il feretro.
Ministro del lavoro, parlando in una solenne riunione a Larderello (il senatore Ginori Conti presente e testimone) fece pubblica esaltazione del fascismo. Idem per l’inaugurazione del monumento ai caduti a Bagni di San Giuliano [e] il 26 ottobre 1922 in un pubblico discorso a Casanova di Piemonte […].
Dopo l’avvento del governo fascista, […] si fece sollecito di infondere nelle masse operaie, su cui ha vivo ascendente, il senso di fiducia e disciplina al governo dell’on. Mussolini, che esaltò […] ai metallurgici di Viareggio, ai contadini di Rosignano, agli operai di Ponte a Moriano, ai cavatori di alabastro di Castellina, ai mezzadri di Collesalvetti. […]. Nell’anniversario della Marcia su Roma – a dimostrare che fascismo e nazione si identificano – partecipò ai pubblici cortei (26).
È perseguitato dai ras locali con la scusa che egli ha una mentalità socialista, quella che servì sempre senza infingimenti […] e che anche oggi, per la parte che tende all’elevazione morale e materiale delle classi lavoratrici, non avulse ma integrative dei supremi interessi della Patria, ha il suo più grande interprete in Mussolini e la pratica nei sindacati nazionali fascisti.

La candidatura Dello Sbarba viene discussa a Roma dalle massime cariche del fascismo dal 4 all’11 febbraio 1924. Ne abbiamo sul «Messaggero Toscano» il resoconto di Bruno Santini, presente come segretario del fascio di Pisa, che riferisce di aver dichiarato in diverse riunioni tra il 4 e il 9 febbraio, a Costanzo Ciano, presente Morghen, a Cesare Rossi, alla Pentarchia (la commissione elettorale a cinque) presieduta da Aldo Finzi

che l’on Dello Sbarba aveva forti correnti contrarie nel partito Fascista e una ragguardevole forza sua fuori dal partito, tra tutti coloro che per quindici anni erano stati da lui beneficiati, aiutati, sorretti. Se l’on. Dello Sbarba fosse entrato nella Lista Nazionale del Partito Fascista, questa avrebbe guadagnato voti di molti elementi non fascisti.

Alla seduta decisiva dell’11 febbraio 1924 partecipa Mussolini in persona, che ha l’ultima parola sulle candidature. «Davanti a S.E. Mussolini, presente S.E. De Bono – racconta Santini – ripetei le stesse dichiarazioni. Il Presidente mi lesse alcuni appunti riguardanti l’on. Dello Sbarba, che riflettevano la sua posizione rispetto al Fascismo», e qui Santini cita a memoria la scarcerazione degli assassini di Cammeo, quella dello stesso Santini a Massa e il discorso filo fascista a di San Giuliano Terme. «Altro lesse il Presidente che io non ricordo. Ricordo che le dichiarazioni del Presidente furono esplicite, nette, recise» (27).
Ai vertici fascisti Mussolini aveva letto dunque proprio il promemoria scritto da Arnaldo. E aveva deciso. L’annuncio arriva a Dello Sbarba con un biglietto proveniente dai corridoi della Pentarchia:

Caro Arnaldo, stamani la tua questione è stata decisa favorevolmente. Tu sei stato ammesso come era giusto e doveroso. [La firma è purtroppo indecifrabile].

«Comincia circolare voce tua inclusione, studio affollato, entusiasmo vivissimo» telegrafa Conti ad Arnaldo il 12 febbraio. Il mattino dopo il segretario viene convocato dal prefetto Renato Malinverno, preoccupato della piega presa dagli avvenimenti. Alle 16,30 Conti riferisce ad Arnaldo:

Alle 11:00 sono stato chiamato dal prefetto. Ha cominciato col prospettarmi il pericolo di dimissioni, di astensioni eccetera. L’ho fermato subito su questa strada dicendogli chiaro e tondo che avevo saputo da Dario Lischi (28), tornato stanotte da Roma, le parole chiare e inequivocabili dette dal Duce al Santini: “Dì ai Pisani che Dello Sbarba è nella lista per mio volere e nessuno ce lo toglie, che è anche l’ora di smetterla con i campanili – essendo la lista Nazionale – anche se i campanili sono storti e artistici come quelli di Pisa”.
Il prefetto evidentemente non conosceva questo episodio che gli ha fatto impressione. Allora ho cominciato a parlare descrivendogli la situazione vera, (i grandi consensi eccetera) che è in tuo favore. Quanto a dimissioni, astensioni ecc ., gli ho detto saranno in numero molto ridotto seppur vi saranno. Che in ogni modo si tratterà di qualche capo malinconico e scornato. (…) Che la verità vera è questa: Medoro (29) e gli altri della federazione avevano corso troppo nel farti la guerra e si trovavano perciò impegnati fino al collo (…) per giustificare dinanzi alla Pentarchia la loro imbecillità e creare fantasmi di agitazione.
Poi uscendo gli ho detto: Scusi lei sente di essere il prefetto? Lui mi ha risposto: Ah per questo Le assicuro che io eseguirò e farò rispettare gli ordini! Basta così! Ho la convinzione di averlo lasciato persuaso.

Il 14 febbraio anche la stampa dà la notizia dell’inclusione di Arnaldo nel listone fascista. Ma gli avversari non si sono dati per vinti.
Il 15 febbraio una lettera proveniente da Pisa avverte Dello Sbarba:

Carissimo onorevole, sono arrivati stamani da Roma gli energumeni Carosi, Biscioni, De Guidi, Parenti ed altri che lunedì notte, appena appresa la notizia della sua inclusione nel Listone, partirono per impressionare le direzione del partito. Minacciarono distacco dal Partito ufficiale, costituzione di fasci autonomi, rappresaglie ecc. e secondo quanto essi affermano sarebbero riusciti a persuadere il Direttorio e l’on. Giunta a far pressione presso il Duce per ottenere il loro intento (30).

Il 17 febbraio il segretario provinciale Filippo Morghen – che si era istallato in permanenza a Roma presso l’hotel Continental, a due passi dalla stazione – dirama a tutti i fasci l’ordine di inviare ai vertici nazionali telegrammi contro l’inclusione di Dello Sbarba nel listone.
Morghen ha dalla sua la deliberazione del 2 febbraio della federazione fascista pisana che si era pronunciata per l’esclusione di Dello Sbarba e un’ordine del giorno approvato dall’assemblea dei sindaci fascisti in cui essi «confermano di ritenere Dello Sbarba politicamente non degno di essere compreso nella Lista Nazionale». Se Mussolini lo avesse ciò nonostante inserito, i sindaci fascisti minacciano di dimettersi in massa. E se qualcuno se ne fosse dimenticato, il 18 febbraio ci pensa il sindaco di Collesalvetti Gino Lavelli de Capitani, proprietario di fabbriche nella piana pisana, a spedire a tutti i sindaci una copia della delibera approvata, invitandoli a passare ai fatti (31).

Il 19 febbraio Carlo Conti informa Arnaldo dei metodi adottati dagli intransigenti.

Alla famosa adunanza, molti sindaci non erano presenti e, tolti 3 o 4, gli altri dichiarano che fu loro imposto di votarti contro. A Volterra si vive nel terrore, girano col nerbo per impedire che ti si facciano telegrammi o si faccia il tuo nome. Sono 7 o 8, ma armati, e fanno paura alla gente. Soltanto perché il Quadri fece pubblica dichiarazione di soddisfazione per la tua inclusione, la farmacia ora è guardata dai carabinieri”.

Lo stesso Conti è stato minacciato con un biglietto anonimo: «Diciamo a lei diabolico segretario di smetterla perché prima del suo padrone sarà soppresso». Conti commenta: «Niente po’ po’ di meno! Povero, grande Mussolini, da qual gente è qui rappresentato!».

Il fatto è che il «povero grande Mussolini» ha già fatto marcia indietro, cedendo alle pressioni del fascismo intransigente. Accade così ora nel microcosmo pisano ciò che in grande si ripeterà nel gennaio del ’25, come reazione al delitto Matteotti. Messo di fronte all’alternativa drastica, e rimangiandosi le promesse di moderazione, il duce sceglierà sempre di appoggiarsi all’ala più violenta del fascismo.
Alla sera di quel tormentato 19 febbraio 1924, l’agenzia Stefani batte infine il dispaccio che riporta la versione definitiva della Lista Nazionale per la Toscana. Arnaldo Dello Sbarba non vi compare più.

È successo che per tagliare la testa alle lotte interne, Mussolini ha deciso per la Toscana una lista “fascistissima”, composta di sole camicie nere. Accanto ai 24 nomi scelti dal duce vengono indicate con puntigliosità le cariche fasciste e i meriti di guerra: combattente, decorato, grande invalido e così via. Per Pisa in lista compaiono Guido Buffarini Guidi (32), sindaco e presidente dei combattenti, e Lando Ferretti (33), «ferito in guerra e decorato», entrambi candidati proposti dalla federazione pisana. Non vi compare invece l’uomo che il direttorio aveva proposto come primo: Filippo Morghen. L’eliminazione di Dello Sbarba ha trascinato con sé anche il suo arcinemico – almeno in questo Bruno Santini aveva visto giusto.
Il quale Santini, qualche giorno appresso, si prende pure la soddisfazione di rivelare sulla stampa gli intrallazzi di Morghen, che, mentre scatenava le camicie nere contro Dello Sbarba, dietro le quinte tentava un accordo con il vituperato ex ministro. Santini racconta che, nelle concitate giornate in cui a Roma si discuteva della candidatura Dello Sbarba, Morghen lo aveva fatto contattare da tre suoi uomini della commissione elettorale pisana che gli avevano promesso di «cessare la campagna contro di Lei» in cambio dell’impegno dello stesso Dello Sbarba a sostenere l’ingresso nel Listone «di nomi nostri, designati dalla Federazione» – tra i quali compariva come primo proprio il Morghen (34). È probabile che questo doppio gioco abbia convinto il duce a escludere pure lui dalla lista.

«Che farà ora Dello Sbarba?» si chiede il Messaggero Toscano la mattina del 20 febbraio. Il giornale prospetta due strade: presentare una lista propria, o aderire alla lista “Democratici Sociali” creata da due sue vecchie conoscenze, Mario Supino, avvocato, esponente della “democrazia massonica” di Pisa, e Augusto Mancini (35), filologo e deputato radicale, che di questa «lista parallela» aveva già informato Arnaldo per lettera il 15 febbraio.
In realtà, Arnaldo avrebbe avuto anche una terza opzione: confluire nella “lista bis” in cui Mussolini aveva dirottato in Toscana i tre deputati liberali uscenti, restati anche loro fuori dalla lista “fascistissima”. E cioè il livornese Guido Donegani, presidente della Montecatini, il senese Gino Sarrocchi, liberale della destra salandrina contiguo al fascismo, e l’agrario grossetano Gino Aldi Mai (36). Questa “lista bis” avrebbe pescato nei seggi spettanti all’opposizione, ma era appoggiata dal governo e sarebbe poi confluita nella maggioranza. Teoricamente, l’opzione ideale per Dello Sbarba: garantita nel risultato, indipendente nella forma, fascista nella sostanza. Ma – informava il «Messaggero Toscano» – «i liberali non ne vorranno sapere di Dello Sbarba», ormai sgradito al fascismo locale e temibile concorrente nelle preferenze.

1916, Arnaldo sottotenente nei gruppi di artiglieria avanzata della Val Lagarina a Coni Zugna e Zugna Torta.
(Fondo A. Dello Sbarba Biblioteca Guarnacci di Volterra)

La mattina del 20 febbraio Arnaldo è ancora deciso a non mollare. Solo e arrabbiato nel suo ufficio di deputato a Roma, prende carta e penna e scrive a Mussolini per annunciargli che lui si candiderà comunque.

Caro Presidente, ieri discutendosi in Pentarchia la lista per la Toscana, il mio nome non fu incluso nella lista nazionale, non già perché mi si potesse rimproverare alcuna colpa verso la Patria o verso il Fascismo, ma solo perché tal Morghen, segretario provinciale di Pisa, per risentimenti personali spintisi fino ad una vera e propria caccia all’uomo, ha creato una situazione di grottesco imbottigliamento antisbarbiano che ieri (domandalo al comm. Cesare Rossi) egli non riuscì a giustificare […]. D’altronde io so di non avere demeritato né della Patria né del Fascismo, cui ho dato lealmente consigli e aiuti; so di avere numerosi amici in Toscana, i quali non possono e non vogliono tollerare questa forma di ostruzionismo politico, e quindi, non perché malato di parlamentarismo, ma perché […] devo difendere la mia dignità umana, io vado ad appellarmi al giudizio degli elettori, ai quali chiarirò che […] solo da loro, che mi diedero per 4 legislature il viatico, io posso accettare oggi il congedo dalla vita politica” (37).

Alla sera, però, Arnaldo ci ripensa. Per tutto il giorno ha ricevuto messaggi che lo spingono a più miti consigli. Il fedele e accorto Carlo Conti, già la sera del 19 febbraio, lo ammoniva: «I pochi amici coi quali ho parlato sono poco favorevoli a liste bis o parallele».
La mattina dopo anche Gino Sossi, avvocato, compagno in politica, socio negli affari e marito della sorella Adele, gli aveva scritto:

Non so se tu accetterai di fare parte di una lista parallela, ma il mio avviso è che tu debba accettare se sicuro della riuscita. Se dovessimo fare la lotta delle preferenze con Donegani, Sarrocchi ecc. credo che potremo essere battuti. Perciò sii vigile, l’unica cosa da evitare è di accingersi alla lotta e rimanere a terra.

Anche l’industriale farmaceutico pisano Alfredo Gentili, suo fedele sostenitore, lo metteva in guardia dal candidarsi «nella lista bis, che qui è chiamata la lista dei cani rognosi». Infine, da Pisa gli aveva telegrafato la moglie Maria Ziffo:

Amici interpellati ritengono conveniente tuo disinteressamento eventuale lista liberale perché lotta ridurrebbesi favorire influenti liberali privilegiati [da] centri elettorali industriali.

A sera, dunque, Arnaldo Dello Sbarba si era di nuovo seduto alla scrivania per scrivere una seconda lettera a Mussolini e poi fargliela recapitare subito a mano dal servizio parlamentare. Sono le ultime parole – almeno per ora! – di una lunga carriera politica:

Illustre Presidente – scrive Arnaldo – la situazione di ostilità e di dissenso che si è riacutizzata, in questi giorni, fra fascisti pisani per la cocciuta volontà di alcuni di essi, ingiustamente prevenuti contro di me ed immemori della mia opera sempre onesta e fermamente patriottica anche in ore oscure, che rivendico in pieno, mi decide a rinunciare alla formazione di una lista propria […]. Ma se rinuncio a rientrare in Parlamento, ove le mie forze elettorali mi avrebbero certamente riportato, non intendo disertare il campo della lotta imminente. Perciò, inviterò con pubblico manifesto i miei amici a votare compatti e fervorosi la Lista Nazionale, con l’augurio che gli infatuati miei oppositori non mi impediscano almeno di portare il mio personale disinteressato aiuto alla forte battaglia che tu combatti – con pugno sicuro – per la più grande vittoria dell’Italia.

In soli cinque giorni Arnaldo Dello Sbarba si era giocato la sua carriera politica, e aveva perso.

Qualche settimana dopo lo conforta sua madre da Volterra:

Arnaldino mio – scrive Isola Veroli – non posso descriverti la consolazione. Sapendo la guerra che ti facevano e conoscendo questa gente, avevo sempre paura che ti facessero del male. Anche Bruno mi scrive che è contentissimo della tua decisione, prega e spera che tu non cambi. Mi dici che presto verrai a Volterra. Io non ci credo finché non ti vedo e il desiderio è tanto grande” (38).

Il 4 aprile 1924, alla vigilia di elezioni che a Pisa si sarebbero svolte per la prima volta da vent’anni senza un Dello Sbarba in qualche lista, si fa vivo di nuovo l’amico industriale Alfredo Gentili:

Il governo dovrebbe esserle grato (esiste oggi la gratitudine a Roma?) per il suo atteggiamento. Avremo la possibilità non lontana di vedere un segno della gratitudine mussoliniana per lei?

Gentili allude a quella prossima “infornata di nuovi senatori” per nomina governativa di cui già parlano i giornali (39). Il Duce avrebbe ripescato anche Arnaldo? Amici, sostenitori, segretari, e prima di tutti lui stesso, ci contano.
Le “infornate” arriveranno una dopo l’altra, ma il turno di Arnaldo Dello Sbarba non arriverà più. Al contrario, il fascismo pisano vuole liberarsi definitivamente di lui.
Il 2 gennaio 1925, al culmine della crisi seguita al delitto Matteotti e alla vigilia del discorso con cui Mussolini assumerà in parlamento la responsabilità dell’assassinio (40), un corteo di fascisti furibondi attraversa Pisa come “una colonna di fuoco” (41). Oltre a distruggere il circolo repubblicano e il quotidiano cattolico «Il Messaggero toscano», al grido di “fuori i massoni dal fascismo” i fascisti devastano la loggia massonica, l’abitazione e lo studio del gran maestro Alfredo Pozzolini e l’abitazione e lo studio al Palazzo alla Giornata di Arnaldo Dello Sbarba.
Pochi mesi dopo, Arnaldo deciderà di abbandonare Pisa per Roma: «Ho dovuto constatare scrive al fratello Bruno (42) – che a Pisa non c’è aria per me, e non c’è lavoro».

NOTE:

(1) Arnaldo Dello Sbarba (1873-1958) è stato dalla fine dell‘800 alla prima metà del ‘900 un protagonista della politica in provincia di Pisa (compresa l’area da Rosignano all’Elba). Laureato in Giurisprudenza a Pisa, consigliere in comune a Volterra e poi in provincia, è parlamentare dal 1911 al 1924. Diviene sottosegretario nei governi Nitti e Giolitti (1920-1921) e ministro per il Lavoro nei governi Facta (1922). Naufragata la candidatura nel “Listone” fascista del 1924 e entrato nel mirino dei fascisti, abbandona Pisa per Roma. Fino al 1929 è sottoposto a vigilanza di polizia. Nel 1943 il prefetto della RSI emette contro di lui mandato di cattura. Dopo la Liberazione di Pisa, il 29 dicembre 1944 è ammesso nel CLN provinciale su nomina del neonato “Partito Democratico del Lavoro”, nonostante la decisa opposizione di partigiani e CLN di Volterra che lo accusano di complicità col fascismo. Nel dopoguerra ricopre numerose cariche, tra cui quella di Presidente della Cassa di Risparmio di Pisa e della Domus Galileiana. Cfr. A. Biscioni, Dello Sbarba Arnaldo, in Dizionario biografico degli italiani Treccani, 1990, https://www.treccani.it/enciclopedia/arnaldo-dello-sbarba_(Dizionario-Biografico).
Gran parte delle sue carte sono conservate nel Fondo A. Dello Sbarba nell’archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra (d’ora in poi BGVolterra/FAdS), Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013. Per questo articolo sono stati esaminati inoltre archivi privati ancora inediti, custoditi dalla famiglia (d’ora in poi APAdS), l’Archivio di Stato di Pisa, la Biblioteca Capitolare dell’Arcidiocesi di Pisa, la SMSBiblio di Pisa, la Biblioteca delle Oblate e l’Archivio di Stato di Firenze. Un piccolo “fondo Dello Sbarba” è anche presso l’Archivio centrale dello Stato.
(2) Sulle elezioni del 6 aprile 1924 Cfr. R. De Felice, La legge elettorale maggioritaria e le elezioni politiche del 1924, in Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966. Sulla situazione in Toscana in quel periodo si v. A. Giaconi, La fascistissima: il fascismo in Toscana dalla marcia alla “notte di San Bartolomeo”, Foligno, Il formichiere, 2019.
(3) Cesare Rossi (1887-1967), sindacalista rivoluzionario, interventista, giornalista con Mussolini al «Popolo d’Italia», co-fondatore dei Fasci nel marzo 1919. Mussolini lo incaricò di organizzare la “Ceka fascista” che rapì e uccise Matteotti. Accusato del delitto, in un memoriale indicò Mussolini come mandante. Fu prosciolto in istruttoria. Scappò in Francia, ma fu arrestato nel 1928 e condannato dal Tribunale speciale a diversi anni di carcere e confino. Nel 1947 al nuovo processo Matteotti – in cui chiamò a deporre in suo favore anche Arnaldo Dello Sbarba – venne assolto per insufficienza di prove. Cfr. M. Canali, Cesare Rossi da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1991; M. Franzinelli, Matteotti e Mussolini, Milano, A. Mondadori, 2024.
(4) Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa, 1919-1925, Pisa, Giardini, 1995. La responsabilità delle vecchie élite dominanti nello sviluppo del fascismo (sottovalutazione o condivisione?) è un nodo storiografico fondamentale, oggi particolarmente attuale. Le élite politiche formatesi in epoca liberale stentarono a comprendere la natura del fascismo e che sarebbe diventato il loro “rottamatore”. Ma furono proprio le vecchie classi dirigenti a contribuire a creare, ciascuna corrente a modo suo, il clima favorevole al fascismo e a sostenerlo. Molti liberali lo tennero addirittura a battesimo. Giovani liberali furono tra i fondatori del fascio di Pisa e mantennero a lungo la doppia militanza. Furono originariamente liberali diversi fascisti di spicco qui citati, come Piero Ginori Conti, Costanzo Ciano, o lo stesso Filippo Morghen. C’era poi la composita galassia dei “democratici” (“democrazia massonica” inclusa) che si era candidata nel 1919 nell’”Unione democratica” e nel 1921 nel “Blocco Nazionale”, sempre con capolista Arnaldo Dello Sbarba. La loro convinta campagna interventista per la guerra come compimento del Risorgimento e rigeneratrice dei popoli incontrò il dannunzianesimo prima e il fascismo poi. A Pisa, dove l’interventismo attingeva al mito di Curtatone e Montanara, il fascismo partì da una generazione di studenti-combattenti motivati da una parte del vecchio corpo docente a combattere il “nemico interno” dei neutralisti, degli anti-nazionali, dei socialisti.
Tra gli interventisti democratici, inoltre, i social-riformisti finirono per sottomettere la lotta di classe agli “interessi della Nazione”, tanto più che nei mesi della neutralità italiana il Partito socialista riformista, cui apparteneva Arnaldo Dello Sbarba, puntellò al potere un liberale di destra come Salandra, già orientato all’intervento e sabotatore dei negoziati con l’Austria. Questo composito “radicalismo nazionale”, intriso di polemica antigiolittiana, antisistema e soprattutto antisocialista, pervase buona parte dell’intellighenzia italiana e nel dopoguerra accompagnò consapevolmente l’ascesa del fascismo, condividendone i valori e spesso anche le azioni.
(5) Bruno Santini, nato a Carrara nel 1895, studente di giurisprudenza a Pisa, capitano degli alpini, avvocato. Alla guida della componente ex combattentistica, animata da toni anti-borghesi, diventa segretario del Fascio di Pisa nel dicembre 1920 e guida gli assalti alla sinistra, ai sindacati, alle leghe rosse, ai sindaci socialisti. Entrerà in conflitto col segretario federale Filippo Morghen e dopo alterne vicende verrà espulso e costretto ad lasciare Pisa nel 1925. Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, Pisa e il caso Santini, 1923-1925, Roma, Bonacci, 1983.
(6) Filippo Morghen nasce a Castellina Marittima nel 1882 da una famiglia di incisori e acquafortisti (il nonno Raffaello era al servizio del granduca Ferdinando III). Laureato in giurisprudenza a Pisa, è combattente, avvocato e possidente. Da Filippo Morghen Arnaldo Dello Sbarba aveva acquistato in società col fratello Bruno la cava di alabastro del Marmolajo di Castellina Marittima, dove sindaco era proprio quel Carlo Conti che fu amico, segretario e consigliere di Arnaldo (vedi nota 6). In APAdS sono conservati gli atti di compra-vendita della cava e il relativo carteggio.
(7) Sul “dissidentismo” pisano e il conflitto Santini-Morghen è bene non fermarsi alla semplice dicotomia “normalizzatori contro intransigenti”. C’è infatti da chiedersi quanto di “ideale” ci fosse nei conflitti tra fascisti per i quali, dopo la marcia su Roma, si erano spalancate le porte del potere assoluto. Il controllo del partito consentiva loro di occupare importanti posizioni e ottenere consistenti arricchimenti personali. Più forte del confronto sulle idee, era dunque la lotta per accaparrarsi i rilevanti vantaggi derivanti da un movimento che stava trasformandosi in regime. Vedi i già citati lavori di P. Nello e M. Canali, oltre a M. Mazzoni, Livorno all’ombra del fascio, Firenze, L.S. Olschki, 2009.
(8) Sull’aut aut di Morghen Cfr. il «Messaggero Toscano», 29 febbraio 1924.
(9) Carlo Conti (1879-1943), più volte sindaco di Castellina Marittima ‒ suo feudo politico ‒, amico, segretario particolare e ascoltatissimo consigliere di Arnaldo Dello Sbarba, è stato poeta e giornalista per diverse testate, tra cui: «La nuova Italia», da lui fondato, «La Nazione», «Il Telegrafo», «Il Giornale d’Italia», «Il Ponte di Pisa», «Camicia nera», il giornale della corrente di Santini, di cui era amico. Collaboratore della casa editrice Nistri-Lischi, repubblicano filodemocratico e massone, tentò senza successo di riunificare in un’unica formazione le varie anime della “democrazia massonica” pisana. Nell’aprile 1923 inaugurò il suo terzo mandato da sindaco con un discorso di entusiastico sostegno al governo Mussolini. Cfr. In memoria di Carlo Conti, Lallo, a cura dei giornalisti pisani, Pisa, V. Lischi e figli, 1963, e Discorso di Carlo Conti pronunciato per l’insediamento dell’amministrazione comunale di Castellina Marittima il 20 aprile 1923, Pisa, Nistri-Lischi, 1923, ristampato da Tagete, Pontedera, 2005.
(10) Lettera di Carlo Conti a Bruno Dello Sbarba, fratello minore di Arnaldo, del 24 dicembre 1923 in APAdS.
(11) Giuseppe Della Gherardesca (1876-1968), Conte Palatino, Nobile dei Conti di Donoratico, Patrizio fiorentino, di Pisa e di Volterra, Nobile di Sardegna. Esponente di spicco dell’aristocrazia agraria e del fascismo toscano, dominatore della zona di Castagneto Carducci e Bolgheri. Podestà di Firenze dal 1928 al 1933, Senatore del Regno dal 1929 al 1943, carica da cui decadde nel 1945 in seguito all’epurazione antifascista.
(12) A Quarto il 5 maggio 1915, per il 55° anniversario della spedizione dei Mille, Gabriele D’Annunzio pronunciò, davanti a oltre ventimila persone, un’“orazione” per invocare l’intervento nella guerra contro l’Austria-Ungheria, che ebbe una forte eco e segnò la definitiva egemonia nazionalista sul movimento interventista, agli inizi spinto dall’“interventismo democratico” di personaggi come Leonida Bissolati, compagno di partito di Arnaldo Dello Sbarba.
(13) Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Cesare Rossi del 10 novembre 1923, in BGVolterra/FAdS, Carteggio, b. 4. I documenti citati di seguito, salvo diversa indicazione, si intendono provenienti da questo archivio, stessa posizione.
(14) Arnaldo Fratini (1895-1973) è stato la memoria storica del socialismo a Volterra. Alabastraio, entrato giovanissimo nel PSI, dal 1919 ne fu più volte segretario e consigliere comunale e fu perseguitato dal fascismo. Cfr. A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, «Volterra», dal n. 9 (set. 1969) al n. 11 (nov. 1970).
(15) «Il Martello» venne fondato il 6 ottobre 1894 dal ventunenne Arnaldo Dello Sbarba con Giulio Topi (nel 1920 primo sindaco socialista di Volterra) sull’onda delle lotte contro il governo Crispi. Il giornale dovette chiudere il 13 settembre 1895 avendo collezionato tre processi in 12 mesi.
(16) Cfr. D. Benvenuti, Le cravatte nere, storie degli anarchici a Volterra, Volterra, Distillerie, 2009.
(17) L’appoggio alla conquista della Libia comportò l’espulsione dal PSI (con una mozione promossa da Benito Mussolini) della corrente riformista di Bissolati e Bonomi di cui faceva parte anche Arnaldo Dello Sbarba. Cfr. M. Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori riuniti, 1976, anche I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Milano, Garzanti, 1946.
(18) Cfr. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., p. 55.
(19) Athos Gastone Banti (1881-1959), giornalista “spadaccino” (molte sue polemiche finivano in duello) fu amico e sostenitore di Arnaldo Dello Sbarba. Redattore capo del «Telegrafo», corrispondente di guerra per il «Giornale d’Italia», dal 1919 al «Nuovo Giornale» di Firenze, organo ufficioso degli ambienti massonici, la cui sede venne data alle fiamme nel 1924 dai fascisti. In seguito Banti torna al «Giornale d’Italia», ma finisce nei guai con Mussolini per un articolo sul caffè bevuto dal Duce in tempi d’autarchia. Nel dopoguerra fonda e dirige «Il Tirreno» di Livorno fino al 1957. Filippo Filippelli (1890-1961), fascista della prima ora, giornalista dal 1920 al «Popolo d’Italia», nel 1922 diventa segretario di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Nell’aprile 1923 è azionista, amministratore delegato e direttore del «Corriere Italiano», creato dai vertici fascisti con fondi messi a disposizione da gruppi industriali come Ansaldo, Eridania, Ilva, Fiat ecc. Il giornale funzionava anche come collettore di finanziamenti occulti gestiti da Arnaldo Mussolini per il fascismo e per la stessa famiglia Mussolini. Filippelli fornì a Amerigo Dumini (per il «Corriere italiano» ispettore delle vendite) la Lancia con cui Matteotti venne rapito ed ucciso. Ricercato, rivelò in un memoriale l’esistenza della “Ceka del Viminale”, comandata da Dumini. Venne arrestato il 17 giugno 1924 e due giorni dopo il giornale cessò le pubblicazioni. A proposito di fondi, nell’archivio Arnaldo Dello Sbarba (BGVolterra/FAdS, carteggio, b. 4) esistono le lettere indirizzate ad Arnaldo, firmate dal direttore dello stabilimento Solvay di Rosignano, che accompagnano quattro assegni di £ 5.000 ciascuno emessi dalla Solvay a favore dei due giornalisti: due intestati a Filippelli datati 22 febbraio e 27 marzo 1924, due intestati a Banti datati 14 aprile e 7 maggio 1924. Arnaldo fa da intermediario tra la Solvay e i beneficiari.
(20) Piero Ginori Conti (1865-1939), Principe di Trevignano, conte palatino, nobile romano, patrizio di Firenze e di Pisa e nobile di Livorno. Parlamentare dal 1900 al 1921. Sposa Adriana del Larderel e ne eredita le proprietà. Alla guida della Società Boracifera Larderello, inventa lo sfruttamento della geotermia per produrre elettricità. Crea il primo fascio fuori dalla città di Pisa e stronca così lo sciopero del 1920 alla Boracifera, imponendo l’eliminazione di molti diritti, licenziamenti di massa e successivamente l’obbligo di iscrizione al PNF per i dipendenti. Sostenitore di Mussolini, alla sua morte il fascismo lo celebra con funerali di Stato. Cfr. il volume apologetico di R. Martinelli, Il fascismo a Larderello, Firenze, Sansoni, 1934. Inoltre, M. Fontani e M. G. Costa, Come la chimica Toscana si prostrò di fronte al fascismo: il caso di Piero Ginori Conti, https://chimicanellascuola.it/index.php/cns/article/view/chimica-toscana-fascismo-il-caso-piero-ginori-conti/65
(21) Promemoria Carlo Conti, due pagine scritte a mano: “Chiedere chi, a proposito di sindaci rossi, aiutò il Comune di Cascina a liberarsi del famigerato sindaco Guelfi, insistendo presso l’autorità governativa e giudiziaria perché promuovessero un’inchiesta amministrativa contabile prima, la procedura penale poi? Il prefetto Malinverno dirà che tutta questa opera fu compiuta dall’onorevole Dello Sbarba (…)”. Su Giulio Guelfi (1888-1939) Cfr. Massimiliano Bacchiet, “Guelfi Giulio” in ToscanaNovecento: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16235-guelfi-giulio?i=12. Renato Malinverno fu prefetto filofascista di Pisa dal 1° settembre 1921 al 14 aprile 1924.
(22) Promemoria Fagioli: sette pagine scritte a mano intestate Camera dei Deputati. “Si venne alle elezioni del 1921 e Dello Sbarba fu accolto come capo del Blocco Nazionale (…). In quell’occasione corse tutta la circoscrizione, parlando patriotticamente ed esaltando le nuove correnti del fascismo (…). A Volterra, dove nel 1919 i bolscevichi avevano proibito a Dello Sbarba l’entrata, egli fu ricevuto trionfalmente da cortei capitanati dai fascisti Pedani, Maffei ecc. (…)”. Paolo Pedani era ispettore della zona di Volterra, Gherardo Maffei segretario del fascio di Volterra e commerciante di alabastro. Nel 1924 entrambi furono protagonisti della campagna contro la candidatura Dello Sbarba.
(23) Il commando fascista che uccise Carlo Cammeo era composto dallo studente Elio Meucci, da Mary Rosselli-Nissim, figlia di un patriota mazziniano e fanatica attivista interventista durante la Prima guerra mondiale, e da Giulia Lupetti, figlia del comandante del presidio militare di Pisa. Cfr. Massimiliano Bacchiet, Un’ora di dolore per il proletariato pisano, in ToscanaNovecento: https://www.toscananovecento.it/custom_type/unora-di-dolore-per-il-proletariato-pisano/
(24) Il 21 luglio 1921, Sarzana fu attaccata da una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini, ma stavolta furono affrontati da Carabinieri e Guardie regie, cui seguì la resistenza antifascista spontanea della popolazione e degli Arditi del Popolo. Fu uno dei pochi episodi di resistenza armata ai fascisti, che ebbero diversi morti e feriti e molti arrestati.
(25) Tito Menichetti, giovane fascista ex ufficiale, fu ucciso il 25 marzo 1921 durante una spedizione punitiva a Ponte a Moriano e celebrato come il “primo martire” del fascismo pisano. I Fasci organizzarono i suoi solenni funerali cui parteciparono tutte le istituzioni. L’Università accolse il feretro in Sapienza con la partecipazione del senato accademico oltre che del Rettore Ermanno Pinzani, che poi, sugli studenti universitari fascisti caduti nel 1921, così scrisse : Nell’anno scolastico testé decorso (…) quei martiri (…) hanno offerto la loro vita giovanile, preziosa e piena di entusiasmi in olocausto ai santi ideali di patria, giustizia e libertà”. Cfr. E. Pinzani, Inaugurazione degli studi. Relazione del Rettore, «Annuario della R. Università di Pisa per l’Anno Accademico 1921/1922», Pisa, Tip. Mariotti, 1922, p. 24.
(26) Nel corteo che attraversa “una città imbandierata”, Arnaldo Dello Sbarba è in prima fila insieme al sindaco Buffarini Guidi, al prefetto Malinverno, al senatore Supino e al deputato Ruschi. Cfr. «Messaggero toscano», 29 ottobre 1923.
(27) Cfr. «Messaggero Toscano», 21 febbraio 1924.
(28) Dario Lischi “Darioski” (1891-1938), giornalista, colonna dell’«Idea fascista», organo della federazione fascista pisana, del cui consiglio federale fu più volte membro, autore di numerosi libri, tra cui La marcia su Roma con la colonna Lamarmora (1923), Viaggio di un cronista fascista in Cirenaica (1934) e Tripolitania Felix (1937). Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo…, cit., p. 136.
(29) “Medoro” nomignolo dato dai pisani a Filippo Morghen a causa delle sue traversie coniugali. Ispirato alle vicende di Angelica nell’Orlando Furioso.
(30) Sandro Carosi (1899-1965), uomo di fiducia di Morghen, era farmacista e sindaco di Vecchiano, definito dal prefetto Malinverno «uno squilibrato per temperamento violento». Tra gli altri, uccide a freddo il tipografo Ugo Rindi l’8 aprile del 1924. Ebbe il compito di minacciare ripetutamente Arnaldo Dello Sbarba. Giuseppe Biscioni, “ras” di Calci, partecipò all’assassinio Rindi. Daniele De Guidi era il “ras” di Rosignano Marittimo. Lamberto Parenti era squadrista a Cascina e Navacchio. Francesco Giunta (1887-1971), segretario del PNF dal 1923 al 1924 e parlamentare dal 1921 al 1943, fu il persecutore della minoranza slovena di Trieste. Nel 1945 la Jugoslavia lo dichiarò criminale di guerra, ma l’Italia non concesse l’estradizione.
(31) L’ordine del giorno dei sindaci e la lettera del sindaco di Collesalvetti viene spedita da Carlo Conti ad Arnaldo il 19 febbraio 1924.
(32) Guido Buffarini Guidi (1895-1945), laureato in Giurisprudenza, volontario nella Prima guerra mondiale, massone nella loggia Darwin di Pisa. Avvocato e sindaco fascista di Pisa dove fu anche podestà e federale, membro del Gran consiglio del fascismo, sottosegretario agli interni (1933-1943), fu ministro dell’Interno nella Repubblica Sociale Italiana e corresponsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Venne fucilato dai partigiani il 10 luglio 1945.
(33) Lando Ferretti (1895-1977), combattente di due guerre, capo-corso alla scuola Normale di Pisa, deputato fascista dal 1924 al 1939. Dirigente sportivo, in era fascista fu presidente del CONI e commissario della Federazione italiana gioco calcio. Nel 1942 tenne una conferenza a Firenze nel 1942 indicando “il comune nemico nel trinomio giudaismo, plutocrazia, bolscevismo” e proponendo la ghettizzazione degli ebrei. Nel dopoguerra fu a lungo senatore del MSI (1953-1968) e membro del comitato organizzatore delle olimpiadi di Roma del 1960.
(34) Cfr «Il Messaggero Toscano» del 21 febbraio 1924.
(35) Mario Supino (1879-1938), avvocato, collega e amico di Arnaldo, già dirigente dell’Associazione nazionale combattenti di Pisa, per conto della massoneria si candidò alle elezioni politiche del 1924 nella lista democratico sociale, con scarso successo. Augusto Mancini (1875-1957) fu docente di filologia all’università di Pisa. Interventista, deputato repubblicano dal 1913 al 1924. Primo presidente del CLN di Lucca e primo rettore dell’università di Pisa liberamente eletto.
(36) Guido Donegani (1877-1947) fu presidente della società Montecatini, deputato del partito fascista dal 1921 al 1939, massone. Nel 1921 era stato eletto con Arnaldo Dello Sbarba nella lista dei “Blocchi Nazionali”. Gino Sarrocchi (1870-1950), deputato della destra liberale dal 1913 al 1929, ministro ai Lavori pubblici del primo governo Mussolini, si dimise dopo il delitto Matteotti. Nel 1929 fu nominato senatore. Dopo il 25 luglio 1943 si ritirò a vita privata. Gino Aldi Mai (1877-1940) eletto deputato a Siena in una lista agraria-liberale che poi confluisce nel PNF, rieletto dal 1924 al 1934, poi nominato senatore.
(37) APAdS, minuta a mano di 15 pagine in piccolo formato intestate “Camera dei Deputati”.
(38) In APAdS.
(39) Cfr. «La Nazione» del 17 giugno 1924, che cita indiscrezioni su possibili nomi.
(40) Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, cit., cap. 7: Dal delitto Matteotti al discorso del 3 gennaio.
(41) Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., pp. 80-83.
(42) Lettera del 26 agosto 1925, in APAdS.

Riccardo Dello Sbarba
Volterra, 1954. Laureato in filosofia a Pisa, docente di ruolo, giornalista professionista. Fin da giovanissimo partecipa ai movimenti degli studenti medi e universitari, milita nel gruppo del “Manifesto” di Pisa e scrive corrispondenze per il quotidiano. Dal 1986 al 1988 è nominato dalla Regione Toscana nel CdA del Parco di S. Rossore. Collabora con «Il Tirreno». Nel 1988 si trasferisce a Bolzano, dove lavora al quotidiano «Alto Adige» fino al 1992, al settimanale in lingua tedesca «ff» fino al 2001 e dirige il quotidiano «Il Mattino» fino al 2003. Cura il volume: Alexander Langer, Scritti sul Sudtirolo – Aufsätze zu Südtirol, Merano, A&B, 1996 ed è autore di: Südtirol-Italia: Il calicanto di Magnago e altre storie, Trento, Il Margine, 2003. Per quattro legislature, dal 2004 al 2023, è consigliere per i Verdi del Sudtirolo nel Consiglio provinciale di Bolzano, di cui è stato presidente dal 2006 al 2008. Collabora alla Biblioteca F. Serantini su temi inerenti la storia politica e sociale della provincia di Pisa.




Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




Licio Nencetti (1926-1944)

Fra coloro che presero parte alla Resistenza non vi furono solamente individui spinti da autentici e solidi ideali di libertà, ma anche persone motivate da ragioni all’apparenza meno nobili e genuine. Nel corso dell’occupazione vi fu chi aderì alla lotta armata per spirito d’avventura, per poi ritornare rapidamente alla vita di tutti i giorni dopo aver scoperto i disagi della vita del ribelle, oppure chi partecipò per opportunismo, ritenendo la vittoria alleata ormai imminente o chi preferì entrare nelle formazioni partigiane piuttosto che arruolarsi nella Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Certamente il diciassettenne Licio Nencetti, nato a Lucignano in Val di Chiana il 31 marzo del 1926, non rientrava all’interno di queste categorie. A differenza di molti altri il giorno dell’armistizio (8 settembre 1943) non lo colse impreparato e non generò in lui alcun dubbio in merito alla decisione da dover prendere: il ragazzo, nonostante la giovane età, aveva da tempo maturato una scelta ed aveva ben chiaro il mondo che avrebbe voluto che sorgesse dopo la conclusione della guerra.

A contribuire a questa rapida presa di coscienza avevano avuto un ruolo di fondamentale importanza i genitori: dalla madre aveva appreso l’importanza dei valori cristiani, come l’amore e l’altruismo nei confronti del prossimo, mentre dal padre aveva imparato a non piegarsi di fronte alle ingiustizie e a mantenere una propria libertà di pensiero. Con l’ascesa del fascismo iniziò per la famiglia Nencetti un periodo di declino: tra gli anni Venti e Trenta vennero ripetutamente colpiti da malattie che talora si rivelarono mortali, mentre il padre venne perseguitato a più riprese dai fascisti locali per le sue idee politiche. Numerosi furono i casi nei quali Silvio Nencetti venne maltrattato e intimorito; in un’occasione lo spavento fu tale che egli da quel giorno vide la propria salute peggiorare gradualmente e “per sette anni non fu più lui, una malattia lenta lo prese[1]. Nella seconda metà degli anni Trenta vi fu l’apice delle disavventure della famiglia con la morte tra il 1935 e il 1937 della sorella minore e del padre. In questo frangente Licio e la madre si trovarono costretti a dover fronteggiare una situazione complicata, cercando di garantire al contempo la sopravvivenza del nucleo e pagare le spese mediche necessarie per curare l’unica sorella rimasta in vita. Licio iniziò ad affiancare allo studio qualche lavoro, ma i soldi che riusciva a guadagnare non erano sufficienti per il loro sostentamento, allora iniziò ad ingegnarsi per avere un guadagno maggiore, inviando i suoi disegni al Comune, che inizialmente li accettava e puntualmente li rigettava quando venivano a conoscenza delle idee politiche del defunto padre[2].

 

Rita e Silvio Nencetti con le figlie Irma e Lilia

 

Questo momento invece che demoralizzarlo e renderlo passivo aumentò in lui l’avversione nei confronti del regime. Negli anni Licio seguì le orme del padre e sviluppò una coscienza antifascista che lo portò a stringere legami con gli oppositori del regime presenti nella provincia. Dopo l’armistizio il giovane fu tra i primi ad aderire alla Resistenza, abbandonando temporaneamente la Val di Chiana e dirigendosi frequentemente nel Casentino dove, nel frattempo, stavano sorgendo i primi gruppi partigiani. Nei primi mesi d’occupazione Licio mantenne una discreta libertà di movimento, facendo la spola tra le terre natale e la zona di Talla, recandosi talvolta a salutare clandestinamente la madre ormai rimasta sola dopo la morte nel 1942 dell’ultima sorella. Rispetto alla Valdichiana, prevalentemente pianeggiante e collinare, l’angusta vallata a nord di Arezzo offriva un terreno ideale per la lotta partigiana fatta di imboscate e di rapide fughe.

In una lettera inviata alla madre il 9 novembre 1943 Licio le chiedeva perdono per le preoccupazioni che le procurava con tale scelta, ma al contempo non rinnegava la propria decisione, descrivendola alla stregua di un evento ineludibile: “Io non potevo più stare quassù in mezzo a una masnada di vigliacchi, lo vado con i ribelli per difendere l’idea di mio padre che è sempre viva in me e per ridare ancora una volta l’onore alla mia bella Patria. Mamma non piangere perché io presto tornerò e poi perché devi piangere se sai che tuo figlio è a combattere per un’idea leale e giusta[3]”. Malgrado la forte emozione Licio in questa prima comunicazione evidenziava una notevole lucidità che sarebbe poi emersa nella lotta dei mesi successivi: “Non dire a nessuno che io sono con i ribelli perché faresti la mia perdita e quella dei miei compagni. Di a chi ti domanda di me che io sono da Tullio[4]”.

 

Licio con la Madre Rita

Due biglietti che Licio e la madre si scambiarono segretamente

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nonostante non avesse ancora raggiunto la maggior età Licio venne nominato dai suoi compagni comandante della formazione attiva nella zona di Talla. Tutte le testimonianze riguardanti la sua figura concordano nell’attribuire al giovane un carisma ed una determinazione inusuali per un ragazzo della sua età. Il partigiano Raffaello Sacconi lo ricorda in questo modo: “Mi fece subito una buona impressione: viso aperto, simpatico, occhi vivacissimi. Mi colpì specialmente la sua insofferenza per l’inazione cui eravamo costretti, in attesa di organizzarci per cominciare la lotta contro i fascisti e i tedeschi[5]. Malgrado la naturale inesperienza Licio emanava una notevole sicurezza, e quando vi fu da scegliere a quale formazione fornire del materiale bellico, di fondamentale importanza, arrivato nel febbraio 1944, Sacconi ricorda che “non ebbi alcuna titubanza ad assegnare al suo gruppo una delle due mitragliatrici di cui disponevamo. Sapevo di affidarla in buone mani[6]. Ad accrescere l’ascendente nei confronti dei compagni contribuiva il coraggio che il giovane metteva in ogni operazione, portandolo ad essere sempre in prima linea.

Il gruppo guidato da Licio si differenziava per alcuni aspetti dalle altre formazioni che operavano nel Casentino. In primo luogo, il comandante della formazione non era stato un militare e non aveva nessun tipo di esperienza bellica, questo determinava all’interno del gruppo l’assenza di una rigida gerarchia e la presenza di un rapporto maggiormente democratico, improntato sul confronto e il dibattito tra i membri. In secondo luogo, la formazione era composta da ragazzi particolarmente giovani, dediti ad azioni fulminee e rischiose. Questa caratteristica portò alcuni a ribattezzare la formazione la “squadra volante”; come ricorda Domenico Peruzzi, uno dei principali componenti del gruppo, erano soliti compiere azioni rapidissime: giungevano nella zona delle operazioni all’imbrunire e alle prime luci del giorno dopo erano già in montagna a diverse decine di chilometri di distanza[7]. Dopo i primi mesi di lotta i componenti del gruppo iniziarono a chiamarsi la “Teppa” come scherno agli appellativi che le autorità fasciste utilizzavano per identificarli.

Nei primi mesi la formazione inquadrata all’interno del “Gruppo Casentino” (diverrà successivamente la XXIIIª Brigata “Pio Borri”) si occupò prevalentemente di questioni organizzative, impossessandosi di armi, materiali e viveri, senza però disdegnare allo stesso tempo la possibilità di compiere azioni di sabotaggio ai danni dei nazisti e dei fascisti che operavano nei loro territori. Ad esempio, il 4 novembre Licio ed altri tre compagni riempirono di sabbia i radiatori di alcune autocisterne che da Foiano erano dirette verso Cassino, rendendole inutilizzabili dopo pochi chilometri[8]. I ragazzi della “Teppa” si impegnarono anche nell’occultamento e nel sostentamento dei prigionieri Alleati fuggiti dai campi di detenzione della provincia di Arezzo e nel reclutamento dei soldati del disciolto Esercito sparsi per il Casentino.

Dal marzo 1944 i diversi gruppi aventi base territoriale si trasformarono in compagnie e gli ultimi partigiani che ancora vivevano con le loro famiglie abbandonarono le loro case e si diedero alla macchia nascondendosi sulle montagne. Il gruppo guidato da Licio divenne formalmente la IV Compagnia[9]. La disparità delle forze in campo obbligò i partigiani a compiere azioni di piccolo calibro: raramente miravano all’uccisione dei fascisti, puntando semmai al loro disarmo e al conseguente aumento dell’arsenale a loro disposizione. Al contempo lo scopo era anche quello di impressionare le popolazioni locali e di disorientare il nemico sulla reale entità del numero dei partigiani. Questo atteggiamento riuscì a fruttare alcuni risultati, obbligando le forze occupanti a dispiegare i soldati nelle zone nevralgiche e ad accompagnare i convogli che si muovevano sul territorio, costituendo in questo modo una continua minaccia per i nazifascisti. Rispetto alle altre unità operanti nella vallata i ragazzi della “Teppa” mantennero sempre una discreta indipendenza nei confronti degli altri gruppi casentinesi.

Dopo esser stato una spina nel fianco dei nazifascisti per tutta la primavera del 1944, il 24 maggio Licio venne catturato in località Bottigliana, sul versante casentinese del Pratomagno. Di ritorno da un incontro con alcuni esponenti della Resistenza, avvenuto sul massiccio, il comandante della “Teppa” venne accerchiato dagli uomini della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Dopo averlo disarmato i fascisti lo obbligarono a condurli nel punto dove era avvenuto l’incontro: facendosi scudo con Licio gli uomini arrivarono all’altezza dell’Uomo di Sasso, dove vennero investiti dal fuoco dei partigiani, che riuscirono successivamente a dileguarsi lungo le pendici del massiccio. La posizione di Licio era fortemente compromessa, venne trovato in possesso di armi e di documenti che riportavano le azioni svolte dalla sua formazione. Il comandante della “Teppa” venne dunque trasportato al Distretto Militare di Poppi, dove venne interrogato e torturato per diverse ore, ma nonostante le percosse e la promessa di avere salva la vita Licio non rivelò nulla ai suoi aguzzini[10].

La mattina del 26 maggio Licio venne trasportato a Talla e fucilato nella piazza principale. Il parroco, presente durante l’esecuzione, sostenne che dopo averlo confessato venne passato per le armi da un gruppo di repubblichini senza che vi fossero difficoltà nello svolgimento delle operazioni[11]. Questa versione differisce invece dall’esposizione contenuta all’interno delle motivazioni per il conferimento della medaglia al valore conferita a Licio nel 1990: il documento sostiene che il plotone di fronte alla solennità e alla fermezza tenute dal comandante durante la fucilazione non eseguì l’ordine e che fu lo stesso tenente Sorrentino ad occuparsi personalmente dell’uccisione sparandogli in bocca[12]. Ancora oggi non sappiamo a quale versione fare riferimento, se credere alla dichiarazione che il parroco rilasciò al Sacconi, oppure attenersi alle motivazioni per il conferimento della medaglia. Certamente durante la fucilazione perse la vita anche il giovane Marcello Baldi, colpito da un proiettile vagante mentre si affacciava dalla chiesa incuriosito dal trambusto.

Anche per quanto riguarda la cattura sono presenti due versioni in netto contrasto tra loro. I compagni di Licio hanno sempre sostenuto che l’arresto del loro comandante fosse dovuto ad una delazione compiuta da parte dei Versari, padre e figlio e del loro compaesano Brucche. Certi della loro colpevolezza i membri della “Teppa” giustiziarono pochi giorni dopo Giuseppe Versari e Brucche, mentre il figlio, Virgilio, riuscì a fuggire[13]. A porre in dubbio la solidità di tale interpretazione hanno contribuito nel corso del dopoguerra le dichiarazioni rilasciate da parte di Salvatore Vecchioni, comandante della 2ª compagnia della Brigata “Pio Borri” operante nel territorio di Partina. Dopo l’arresto di Licio, il Vecchioni fu l’unico che ebbe l’occasione di scambiare qualche parola con il comandante prima che questi venisse fucilato, visto che anch’egli era trattenuto presso il Distretto Militare di Poppi per un’altra vicenda. Alle domande del Vecchioni, in merito alla possibilità che vi fosse stato un tradimento, Licio rispose negativamente, affermando che non aveva avuto nessun tipo di presentimento e che non aveva sospetti. Inoltre è importante ricordare che i Versari militarono all’interno della Resistenza e che questi videro la loro casa bruciare ,con all’interno una delle loro mogli, dopo l’uccisione del repubblichino Mistretta[14]. Alla luce di questi elementi pure Raffaello Sacconi, che nel 1944 aveva sostenuto la colpevolezza dei Versari e di Brucche, ha progressivamente mutato le proprie convinzioni, sostenendo che un individuo lucido e sveglio come Licio si sarebbe certamente accorto che l’incontro sul Pratomagno non era altro che un’imboscata orchestrata ai suoi danni[15].

 

Salvatore Vecchioni, comandante della 2ª compagnia della Brigata “Pio Borri”

 

Ancora oggi, ad oltre ottant’anni di distanza dalla morte il nome di Licio riecheggia tra i monti del Casentino e le colline della Val di Chiana. La scomparsa del giovane partigiano non ha coinciso con la lenta e triste scomparsa della sua figura, ma ha combaciato semmai con la nascita e la diffusione di un mito utilizzato quale esempio di integrità e libertà. Percorrendo la provincia di Arezzo ci si imbatte in svariati luoghi intitolati alla memoria di Licio o che ricordano il suo sacrificio e quello dei suoi compagni attraverso targhe e monumenti: questo accade in prevalenza nelle aree dove i partigiani della “Teppa” operarono maggiormente, come la zona nei dintorni di Lucignano in Val di Chiana e nei pressi di Talla e Castel Focognano nel Casentino meridionale. A Lucignano, paese natale di Licio e di molti suoi compagni, è possibile ancora oggi poter vedere dall’esterno l’abitazione nella quale Licio nacque e dove è apposta una targa[16]. Sempre nello stesso comune è poi presente un monumento collocato nei giardini pubblici “Don Valentino della Mazza”: l’opera, dedicata ai partigiani Nencetti, Toti e Masini, raffigura probabilmente l’uccisione del comandante della “Teppa”, con un uomo con le mani legate dietro alla schiena che grida e un soldato che imbraccia un fucile[17]. Nonostante non fosse originario di Talla il comune ha poi intitola a Licio la piazza dove avvenne la fucilazione ed ha inserito il suo nome sul cippo che ricorda le vittime provenienti dal comune cadute durante il secondo conflitto mondiale[18].

 

L’abitazione dove è cresciuto Licio Nencetti                       

 

Monumento in ricordo dei partigiani Nencetti, Toti e Masini

 

Il cippo in ricordo delle vittime di Talla durante la Seconda guerra mondiale situato in piazza “Licio Nencetti”

 

Nell’area di Castel Focognano sono presenti invece alcune iscrizioni che testimoniano il buon rapporto che vi fu nel corso della guerra di Liberazione fra gli uomini della “Teppa” e le popolazioni della vallata. In una sorta di dialogo che non si è mai interrotto le targhe e i monumenti della zona sono un esplicito ringraziamento ai partigiani e ai civili per il contributo fornito durante il conflitto. Nella frazioni di Calleta e San Martino, appartenenti al comune di Castel Focognano, sono presenti due targhe molto interessanti, la prima certifica l’unione tra le due parti con la seguente frase “Qui a Caletta Licio Nencetti e i suoi ribelli trovarono gente amica che li ospitò, li curò e li sostenne condividendo con loro gli ideali e il rischio della vita[19], mentre la seconda, posta sulla facciata della chiesa di San Martino ricorda che in quel luogo gli uomini di Licio si recarono tra il febbraio e il maggio 1944 ad assistere alla messa domenicale[20]. A pochi chilometri di distanza, nel paese di Carda, troviamo infine un monumento interamente dedicato alle popolazioni della vallata, alle quali giunge il sentito ringraziamento dei ragazzi della “Teppa”[21]. Questi sono solamente alcuni degli indizi che testimoniano l’eccellente rapporto che vi fu tra i componenti della “squadra volante” e i civili durante il periodo dell’occupazione, un legame fondato sul reciproco sostegno.

 

La targa a Calleta

Lapide a Carda

 

Il nome di Licio non è stato solamente scolpito sulla pietra, ma è stato impresso e “inciso” nelle memorie delle persone anche attraverso un notevole numero di canzoni dedicategli. In particolar modo questi canti vennero ideati negli anni della lotta al nazifascismo o nel periodo immediatamente successivo alla liberazione, quando ancora il ricordo e il dolore della morte del giovane partigiano erano vivi tra le popolazioni, come nel caso del testo di Libero Vietti[22] o della canzone “La fucilazione del partigiano Licio Nencetti” attribuita a un poeta di nome Casini[23]. Il repertorio non si limita solamente alla seconda metà del Novecento, ma trova anche una sua realizzazione più contemporanea nella canzone realizzata nel 2005 dai Casa del Vento un gruppo combat folk aretino[24].

Come spesso è avvenuto nel corso della Liberazione la formazione assunse il nome del defunto comandante, l’aspetto però probabilmente più curioso ed affascinante legato alla figura di Licio nasce da una promessa che i ragazzi della “Teppa” fecero dopo la scomparsa del loro leader: provati e traumatizzati i giovani giurarono che avrebbero chiamato almeno uno dei loro figli con il nome di Licia o di Licio.  I componenti della formazione mantennero l’impegno, e ancora oggi, a diversi anni di distanza, sono numerose le persone che in provincia di Arezzo continuano a portare tale nome in ricordo del comandante della “Teppa”.

 

Note:

[1] S. Mugnai (a cura di), Madre di partigiano. Il diario di Rita Nencetti, Comune di Lucignano, Roma 1984, p. 29.

[2] Ivi, pp. 41-42.

[3] Lettera inviata da Licio Nencetti alla madre Rita il 9 novembre 1943, https://memoria.provincia.arezzo.it/biografie/licio_nencetti_corrispondenza1.asp.

[4] Ibid.

[5] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 192.

[6] Ibid.

[7] Intervento di Domenico Peruzzi detto “Mireno” nel filmato Racconti di vita partigiana. La squadra volante de la “Teppa”, realizzato dalla Banca della Memoria del Casentino,  https://www.youtube.com/watch?v=AQMStAhI6jg&t=1066s.

[8] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., p. 28.

[9] Ivi, pp. III-IV.

[10] Memoria scritta di Salvatore Vecchioni citata in ivi, pp. 195-196.

[11] Memoria scritta di don Gino Vignoli citata in ivi, pp. 84-85.

[12] Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, https://www.anpi.it/biografia/licio-nencetti.

[13] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 194-195. Nonostante siano passati diversi anni dall’accaduto nel filmato registrato dalla Banca della Memoria del Casentino i compagni di Licio continuano a sostenere che si fosse trattata di un’imboscata, https://www.youtube.com/watch?v=AQMStAhI6jg.

[14] Memoria scritta di Salvatore Vecchioni in R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, cit., pp. 195-198.

[15] Ivi, p. 199.

[16] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lastra-commemorativa-a-licio-nencetti/.

[17] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-giardini-di-lucignano/.

[18] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-dedicato-a-licio-nencetti-a-talla/.

[19] MEMO, il progetto delle memorie, https://memo.anpi.it/monumenti/3794/lapide-a-nencetti/.

[20] MEMO, il progetto delle memorie, https://memo.anpi.it/monumenti/4172/lapide-a-nencetti/.

[21] Pietre della Memoria, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-ai-partigiani-della-teppa-carda-di-castel-focognano/.

[22] https://memoria.provincia.arezzo.it/canti/canzoni/Libero%20Vietti%20-%20Canzone%20per%20Licio%20Nencetti.mp3.

[23] Il Deposito, Canzone su Licio Nencetti partigiano – Testo accordi e musica | ilDeposito.org.

[24] https://www.youtube.com/watch?v=Dzm53rjZa8U.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Questo articolo è stato pubblicato nel novembre 2024




Pio Borri (1923-1943)

Sfogliando le pagine dedicate alla guerra di Liberazione nella provincia di Arezzo ci si imbatte frequentemente nella XXIIIª Brigata Garibaldi “Pio Borri”, una delle formazioni più attive ed importanti della Toscana orientale durante l’occupazione nazifascista. Ma chi era Pio Borri e perché gli venne intitolato un gruppo partigiano? Le informazioni a nostra disposizione sono scarse e limitano la loro attenzione ai dati anagrafici e alla cronaca della morte, avvenuta l’11 novembre 1943 a Molin di Bucchio. Le poche notizie che ci permettono di poter delineare in forma seppur minima il carattere e gli ideali del giovane protagonista di questo articolo provengono dal libro che Giuseppe Bartolomei dedicò alla lotta partigiana nella provincia di Arezzo: “Conoscevo Pio. Abitavamo vicini e ci frequentavamo nei pomeriggi liberi dalla scuola. Non era loquace. Carattere appassionato ed introverso, pareva nascondere in fondo all’anima un grumo irrisolto di angoscia, il risentimento impotente per un’ingiustizia, che a volte si manifestava in uno scatto improvviso. O nella ricerca della solitudine. Il padre, militante liberale, era morto per una bastonatura di squadristi: la più tetra espressione della volgarità imbecille del regime, prima che si mettesse le ghette[1].

Come molti altri giovani della sua generazione dopo l’armistizio (8 settembre 1943) Pio Borri decise di darsi alla macchia ed unirsi alle neonate formazioni partigiane che nel frattempo stavano sorgendo sul territorio. Nell’autunno 1943 il principale gruppo della Resistenza aretina era situato a Vallucciole, piccolo borgo dell’alto Casentino, distante pochi chilometri da Stia. Nel periodo a cavallo tra settembre e ottobre l’abitato venne designato dagli esponenti del Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista (CPCA)[2] quale centro della Resistenza aretina. La decisione di concentrare nel piccolo borgo l’opposizione al nazifascismo era motivata in particolar modo dal rilevante quantitativo di armi presenti nell’abitato[3] e dalla marginalità del borgo, che garantiva al contempo la possibilità di poter mantenere un certo livello di segretezza riguardo ciò che vi accadeva e di potersi facilmente sganciare in caso di attacchi nemici.

Nella fase iniziale il gruppo concentrò le proprie energie nel consolidamento della formazione, cercando armi, coordinando l’arrivo dei prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento[4] e istruendo all’uso delle armi coloro che non avevano avuto esperienza militare. Le dimensioni della formazione crebbero rapidamente e nel giro di un mese il gruppo giunse a superare le cento unità, grazie al continuo afflusso di nuovi partigiani provenienti da gruppi della zona e di prigionieri alleati. L’aumento degli effettivi non tardò a creare le prime complicazioni: alla fine di ottobre nel territorio di Stia i fascisti effettuarono un rastrellamento che portò all’arresto di due importanti elementi della formazione[5], mentre pochi giorni dopo un gruppo diretto a Vallucciole, costituito da ventitré prigionieri alleati, venne intercettato nei pressi di Stia, provocando uno scontro a fuoco che portò all’uccisione di un uomo.

I recenti sviluppi avevano portato i comandi della formazione ad optare per lo spostamento del quartier generale in una località ancora più remota, il podere le Pescine. La nuova locazione offriva migliori garanzie di fronte ad un’ipotetica incursione fascista, evitando la possibilità di un accerchiamento e favorendo la fuga del raggruppamento. Contemporaneamente allo spostamento della formazione giunse a Molin di Bucchio un’importante rifornimento del CPCA, costituito in prevalenza da viveri, come farina, pasta e marmellata, e da altri oggetti fondamentali per la sopravvivenza in montagna, come una bombola di carburo e un riflettore. Malgrado la situazione sconsigliasse qualsiasi tipo di movimento che allontanasse la formazione dalle pendici del Falterona, l’acquisizione di un tale quantitativo di materiale avrebbe garantito la sopravvivenza del gruppo, senza che questo gravasse eccessivamente sulle popolazioni locali.

Per l’occasione vennero predisposte due piccole unità, una guidata da Borri e l’altra da Alfredo Donnini: le squadre avrebbero dovuto discendere separatamente la vallata, per poi ritrovarsi a Molin di Bucchio verso l’una di notte; una volta giunti a fondovalle i gruppi si sarebbero dovuti impossessare del carico e riportalo al podere le Pescine seguendo l’itinerario precedentemente intrapreso. Sfortunatamente il piano non si svolse nel modo ipotizzato, e l’unità di Borri giunse a destinazione in anticipo rispetto alla squadra di Donnini. Ad attenderli a Molin di Bucchio erano presenti 45 militi della MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) guidati da Emilio Vecoli: nello scontro a fuoco Borri venne colpito alla scapola, mentre i compagni vennero disarmati e subito interrogati per conoscere il luogo dove era nascosto il rifornimento; Borri venne interrogato per ultimo, e nonostante fosse ferito ed ormai prossimo alla morte non rivelò nessuna informazione ai suoi aguzzini, che stanchi dell’infruttuosità dell’interrogatorio lo lasciarono morire di dissanguato nel gelo della notte[6].

Vecoli, intenzionato ad individuare la formazione ed eventualmente scontrarsi con essa nel caso vi fossero state le condizioni per un combattimento, diresse la maggioranza degli uomini a sua disposizione in direzione di Vallucciole, Una volta giunti nel borgo gli uomini del capo manipolo non incontrarono nessun partigiano, ma rinvennero per le strade del borgo e nelle abitazioni tracce che testimoniavano l’inequivocabile passaggio dei ribelli per l’abitato. I militi proseguirono dunque la loro ricerca continuando l’ascesa per le pendici del Falterona, ma anche in questo caso non incontrarono nessun partigiano lungo il loro cammino e rientrarono a Stia nel tardo pomeriggio. Nel progetto di Vecoli in seguito all’identificazione e alla localizzazione del gruppo sarebbe seguita, nei giorni successivi, un’ampia operazione volta alla distruzione del gruppo, ma ciò non si verificò mai.

La morte di Borri coincise con la fine della formazione partigiana: la scomparsa del giovane studente sconvolse la Resistenza aretina e rappresentò per essa una drammatica presa di coscienza dei drammi e dei dolori che la guerra di Liberazione avrebbe comportato. La scomparsa di Borri aveva interrotto un periodo nel quale nazifascisti e partigiani non si erano mai fronteggiati in rilevanti scontri, preferendo semmai concentrare le loro attenzioni nel consolidamento delle loro forze e limitandosi a qualche scaramuccia o a qualche azione di disturbo. Altro aspetto che determinò la rapida conclusione della formazione fu l’immediato abbandono da parte degli elementi casentinesi: la defezione di questi individui, probabilmente terrorizati per delle potenziali ripercussioni ai danni dei loro familiari, causò la perdita delle figure probabilmente più importanti del gruppo per la loro conoscenza del territorio.

La fine della formazione aveva messo in evidenza i limiti del raggruppamento ed aveva sottolineato i rischi legati ad una strategia che concentrava la maggioranza delle unità in un unico luogo. In una riunione avvenuta a Subbiano il 23 novembre i principali esponenti della Resistenza avevano dunque optato per un cambio di strategia, prediligendo la presenza sul territorio di formazioni dalle dimensioni più esigue e dal carattere locale[7]. Nonostante le tendenze centrifughe e il carattere eterogeneo della nuova impostazione, i capi della Resistenza decisero di porre le varie formazioni all’interno di una grande brigata posta sotto il comando di Siro Rosseti e alle dipendenze del CPCA. Nei mesi successivi la formazione cambierà denominazione diverse volte, inizialmente verrà dedicata al giovane scomparso e verrà ribattezzata Raggruppamento “Pio Borri”, successivamente diverrà la XXIIIª Brigata Garibaldi “Pio Borri” ed infine diverrà nelle ultime fasi della guerra di Liberazione la Divisione Partigiani “Arezzo”[8]. L’uccisione di Borri aveva poi messo in luce la profonda disparità tra fascisti e partigiani: i primi potevano contare su una fitta rete di collaborazionisti che tenevano informate le autorità sugli spostamenti del gruppo, mentre i secondi non potevano vantare ancora un solido sostegno da parte dei civili, inclini semmai a fornire le informazioni ai fascisti pur di aver qualche tipo di favoreggiamento.

Malgrado la morte di Borri avesse gettato nel panico la Resistenza aretina ed avesse portato allo sgretolamento della formazione Vallucciole, aveva contemporaneamente offerto ai ribelli la possibilità di poter convogliare intorno alla sua figura il risentimento nei confronti dei nazifascisti. Le modalità della morte del giovane studente si prestavano perfettamente a questo scopo: da un lato la brutalità e la vigliaccheria della sua uccisione non avevano fatto altro che ricordare alla popolazione quale fosse il carattere dei fascisti, mentre dall’altro il contegno e la tenacia dimostrate da Borri furono elementi fondamentali affinché la sua morte non rimanesse solamente la scomparsa di un partigiano, ma venisse utilizzata quale esempio di sacrificio per una causa maggiore. I membri del CPCA riuscirono ad utilizzare a proprio favore gli eventi successivi, creando e diffondendo false notizie con l’intento di aumentare lo scontento della popolazione nei confronti dei fascisti. In tal senso i bombardamenti avvenuti il 12 novembre, giorno nel quale si tenne il funerale di Borri, divennero per il Comitato un evento potenzialmente utile: nei giorni successivi la Resistenza fece circolare per la città numerosi volantini che correlavano l’attacco aereo con la morte del giovane studente. Chiaramente i due eventi non avevano nessun tipo di legame, ma l’invenzione ebbe il merito di sconsigliare ai fascisti l’estensione della repressione e di incrementare parallelamente l’astio nei loro confronti[9].

In prospettiva gli eventi dell’11 novembre 1943 segnarono in modo drammatico il futuro del borgo. Malgrado dopo l’uccisione di Borri il paese non avesse più ricoperto un ruolo rilevante all’interno della Resistenza questo continuò ad essere etichettato dai fascisti locali come “covo di partigiani”, fornendo un’immagine enormemente amplificata riguardo la presenza dei ribelli nel Casentino e nei pressi di Vallucciole. Nel corso dell’inverno 1943-1944 nel paese non avvennero movimenti degni di particolare attenzione, ma divenne meta occasionale di alcuni gruppi fiorentini che operavano nella zona e che transitavano nell’abitato o vi giungevano per rifornirsi. Alimentata dai fascisti casentinesi tale credenza continuò a sopravvivere ed assunse dimensioni superiori alla sua reale entità, costituendo uno dei motivi che portò la 2ª e la 4ª compagnia della Hermann Göring ad agire in modo così determinato e massiccio il 13 aprile 1944.

Dalla seconda metà del Novecento la figura di Pio Borri è stata ampiamente celebrata nella provincia di Arezzo attraverso la monumentalistica, l’intitolazione di spazi dedicati all’istruzione scolastica e mediante la rievocazione del suo sacrificio in occasione dell’anniversario della sua morte. A Molin di Bucchio sono presenti due monumenti che ricordano la figura del giovane studente: una lapide recante la frase “Prima vittima dei nazifascisti, primo esempio di sacrificio per gli ideali di giustizia e libertà” e a pochi metri di distanza una colonna in metallo inserita all’interno di un articolato spazio dedicato ai principali eventi avvenuti nel borgo durante la seconda guerra mondiale.

A Molin di Bucchio la figura di Pio Borri viene poi annualmente celebrata in occasione dell’anniversario della sua morte attraverso una cerimonia alla quale partecipano le principali istituzioni della zona e i ragazzi delle scuole medie della zona. Infine nel 1973 venne inaugurata ad Arezzo la scuola elementare “Pio Borri”, mentre ad alcune centinaia di metri di distanza, nell’attuale liceo classico musicale “Francesco Petrarca”, frequentato dallo stesso Borri negli anni dell’adolescenza, l’aula magna è stata intitolata al giovane partigiano[10].

 

Lapide a Molin di Bucchio

 

Anniversario della morte di Pio Borri

 

Note:

[1] G. Bartolomei, I sentieri della guerra. Zibaldone di voci, di impressioni e di notizie della guerra in Valtiberina e dintorni, ITEA Editrice, Anghiari 1994, pp. 86-87.

[2] Nato il 2 settembre 1943 grazie all’iniziativa del cattolico Sante Tani e dell’azionista Antonio Curina.

[3] Il 13 settembre 1943 alcuni stiani insieme ad altri individui provenienti da Bibbiena riuscirono ad impossessarsi di un elevato numero di armi del Regio Esercito.

[4] I campi di Renicci, Laterina e Poppi.

[5] Molto probabilmente la cattura di Cianferoni e Bartolucci era frutto di un’indicazione fornita da una spia interna al gruppo partigiano.

[6] L. Grisolini, Vallucciole: 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, pp. 84-86.

[7] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 75.

[8] R. Sacconi, Partigiani in Casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 29.

[9] A. Curina, Fuoco sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo 1957, pp. 70-71.

[10] All’interno dell’aula è possibile leggere il documento di accompagnamento alla medaglia al valore: «Organizzatore della prima formazione partigiani dell’aretino sempre volontario nelle azioni più rischiose, caduto in una imboscata, rispondeva prontamente con il fuoco della sua arma al nemico che gli intimava la resa. Colpito gravissimamente al petto, catturato e sottoposto ad atroci torture teneva contegno superbo e spavaldo rifiutando ogni delazione. Gettato per disprezzo nella neve, quindi esalava l’ultimo respiro, con sulle labbra il nome della madre e quello della Patria. Bellissima figura di patriota e di martire della libertà».

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nell’ottobre 2024.