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Giorgio Alberto Chiurco: un intellettuale militante nel regime fascista.

Giorgio Alberto Chiurco (1895-1974) è noto soprattutto come cronista ufficiale della rivoluzione fascista, autore di una delle più celebri opere edite sul tema negli anni del regime mussoliniano. Nato a Rovigno d’Istria ma trasferitosi presto in Toscana per motivi di studio, egli fu uno dei protagonisti della fascistizzazione delle province senese e grossetana. Ma non solo: medico e squadrista della prima ora, poi parlamentare, ufficiale pluridecorato, docente universitario e scienziato razzista, Chiurco fu un attore molto attivo nella vita politica e intellettuale del regime. Finora, il suo percorso biografico era stato soltanto parzialmente esplorato dalla storiografia ma il volume di Borri, esito di un’approfondita ricerca negli archivi nazionali e internazionali, si propone di fornire una ricostruzione complessiva delle vicende politiche e culturali del personaggio, che si intrecciano su più livelli con la storia italiana del Novecento.

Riportiamo di seguito un estratto del volume, dedicato al ruolo svolto da Giorgio Chiurco, come medico e intellettuale fascista, nella creazione di un nuovo prototipo di italiano, il cosiddetto «Uomo Nuovo» fascista inteso come modello di un’umanità superiore, destinata a fare le fortune dell’Italia e del regime.

 

Un intellettuale militante

V’è una cultura della rivoluzione che si esprime attraverso la polemica pubblicistica di uomini come Maccari e Malaparte. Ve ne è un’altra che parla per anatemi e per invettive ma che, andando al sodo, serve unicamente nei momenti di pericolo […]. V’è, infine la cultura della rivoluzione che ha avuto per cronisti Gorgolini e Chiurco, e che ha per storici Volpe ed Ercole. La prima cultura, della polemica pubblicistica, impedisce che le porte della rivoluzione si chiudano […]. La seconda cultura, quella degli oltranzisti, è sempre richiamabile in servizio, al primo segno del temporale. La terza cultura, quella dei cronisti della rivoluzione, rimane l’anima di ogni processo storico da istruirsi a carico di quei nemici che, rimasti nascosti durante il nostro cammino, tentano di uscire allo scoperto per sbarrarci, al momento che sembrerà loro opportuno, la strada.

Era in questi termini che Mussolini descriveva a Yvon De Begnac[1] l’attivismo politico racchiuso nell’opera degli intellettuali fascisti. Chiurco trovava posto nel gotha culturale fascista non tanto per meriti scientifici, ma come cronista del periodo rivoluzionario, a dimostrazione della forte impronta ideologica che ne caratterizzò il lavoro, come pure della pluralità di ambiti su cui tale operato si estese. L’eclettismo dell’istriano può leggersi come riflesso del pluralismo culturale sperimentato dal regime, inteso come sovrapposizione fra correnti e programmi diversi nei campi delle arti e della scienza, destinati però a convergere nella mobilitazione in favore della rivoluzione fascista.[2] La celebrazione totalitaria del primato della politica su ogni espressione della vita delle masse rappresenta probabilmente la sintesi più efficace per spiegare tale pluralità, senza con questo voler ridurre la cultura fascista alla sua sola funzione strumentale.[3]

Mario Isnenghi distingueva tra intellettuali militanti, produttori di senso, e intellettuali funzionari, organizzatori e propagandisti, rinviando alla funzione svolta dagli attori culturali nella società fascista. L’attenzione di Isnenghi non era rivolta alla sola conoscenza alta, ma all’organizzazione culturale latamente intesa, comprendendo quindi insegnanti, giornalisti, oratori i quali, per motivi e in modi diversi, portarono la dottrina fascista tra le masse.[4] Le convergenze e sovrapposizioni riscontrabili tra tali figure e funzioni,[5] lungi dallo sminuirne l’efficacia, riconfermano la pluralità di livelli su cui si mossero gli agenti culturali del fascismo, seppur all’interno della cornice tracciata dal regime. Anche intellettuali intransigenti come Chiurco, contrari a mediazioni che limitassero la forza rinnovatrice fascista, distinsero la propria attività per un doppio crisma culturale e politico, conoscendo convergenze e divergenze rispetto alle correnti dominanti.[6] Non ci sono soltanto opportunismo e spirito conformista nelle proposte del medico istriano, pronto a formulare idee e difendere le proprie posizioni, se ritenute meritevoli, anche quando difformi dagli orientamenti del regime. A rendere Chiurco un intellettuale militante, nel significato più letterale del termine, è la natura totalizzante della sua adesione al regime, che ne fa uno scienziato, medico e autore vissuto nel fascismo e del fascismo, criticandone talvolta decisioni e orientamenti, ma condividendone il progetto complessivo.

La produzione letteraria dell’istriano può essere ricompresa nelle due macrocategorie degli scritti scientifici e delle opere a carattere cronistico-letterario dedicate al fascismo rivoluzionario e ai suoi martiri. Una distinzione – come vedremo – comunque non priva di punti d’incontro, riflesso tanto del ricordato eclettismo dell’autore, quanto del progressivo prevalere del Chiurco politico rispetto allo scienziato. Gli scritti razzisti degli anni Trenta, piegati alle necessità della pseudoscienza di regime, sono in tal senso indicativi della politicizzazione di tutta la produzione letteraria dell’istriano, il quale appartenne alla cosiddetta «industria culturale» tratteggiata da Gabriele Turi, formata dall’insieme degli intellettuali di regime. Al centro di tale produzione, indipendentemente dalle singole aree di interesse, rimasero sempre la costruzione dello Stato nuovo e di una nuova generazione di italiani, i «fascisti integrali» evocati da Mussolini.[7] Il concetto dell’italiano nuovo ricorre tanto negli scritti scientifici, quanto nella produzione cronistico-letteraria del medico istriano, sempre attento a temi quali l’educazione dei giovani, lo sport, l’eugenetica, la salvaguardia della sanità razziale.

Nell’ottica del regime, le nuove generazioni dovevano essere innanzitutto numerose, in salute e fisicamente prestanti, motivo per cui la medicina divenne una pratica «con etichetta nazionalistica e marchio fascista», come scritto da Giorgio Cosmacini.[8] Il regime sottopose la disciplina all’influenza dell’autorità politica, facendo dei medici i “sacerdoti” del progetto mussoliniano di ingegneria sociale, incaricandoli di salvaguardare la salute fisica e morale della popolazione, di «abituare gli italiani al moto, all’aria libera, alla ginnastica ed anche allo sport».[9] Nel 1921, Chiurco vedeva negli squadristi i protagonisti di una nuova era, «gli eletti, gli aristocratici del pensiero e dell’azione predestinati al comando da Dio e dalla patria». Per un corretto sviluppo dei giovani risultava fondamentale la «forza, equilibrio, volontà, disciplina che solo una razionale educazione fisica può dare».[10]

L’evoluzione del concetto di uomo nuovo ricalca nel pensiero di Chiurco la cronologia tracciata da Emilio Gentile, per cui a cavallo tra gli anni Venti e Trenta l’attenzione si concentra sul potenziamento fisico e demografico della popolazione, con l’emergere dell’imperialismo e del razzismo quali fattori di rilievo nel dibattito. Nel Manuale di cultura fascista del 1930, l’autore inseriva le politiche demografiche tra «i principi basilari del Fascismo nei riguardi della tutela fisica e morale della razza», vedendo nella crescita della popolazione «uno dei mezzi più efficaci per la sua valorizzazione ed espansione materiale e spirituale nel mondo».[11] Al numero doveva seguire la qualità, assicurata dallo sviluppo di qualità fisiche e mentali, favorite da politiche volte ad «accrescere la validità, l’energia e la resistenza morale e fisica del giovane», facendone un «cittadino soldato» e un cittadino-produttore.[12] Con la proclamazione dell’impero alla metà degli anni Trenta, alla formazione delle nuove generazioni si aggiunse il problema della loro protezione dal rischio di incroci genetici con le popolazioni indigene, la mescolanza con le quali rappresentava «sia per ragioni sanitarie e biologiche, che per la dignità della razza, un grave pericolo per il popolo italiano colonizzatore». Per questo motivo, diventava «un dovere della nostra dignità imperiale» la «formazione di una coscienza razziale per difendere la razza italica da qualsiasi imbastardimento», ricorrendo a leggi che «impediscono il mescolamento di italiani con indigeni».[13]

Al problema della preservazione si affiancava quello dell’educazione. Per questo motivo, il regime varò dagli anni Venti quello che Luca La Rovere ha definito «il più importante esperimento di pedagogia politica di massa mai tentato nella storia nazionale italiana».[14] L’educazione morale doveva riguardare il senso di disciplina e la fedeltà all’idea, per cui sui fascisti, secondo i postulati di Arnaldo Mussolini, incombeva «il dovere di essere, nella vita nazionale, sempre i primi, vigili contro gli avversari» ma anche pronti «a volgarizzare i postulati», a «tesserli ed a viverli nelle manifestazioni di ogni giorno».[15] Fascismo, aggiungeva Chiurco, significava «soprattutto spirito di abnegazione ed assoluta e cieca disciplina», poiché «il fascista deve essere in prima linea puro e senza macchia».[16] Nei manuali scolastici curati tra il 1930 e il 1934, l’istriano dedicò ampio spazio ai «doveri del cittadino verso la famiglia e verso la patria», sostenendo che ogni buon italiano «sentirà, e praticherà, prima di ogni altro, il dovere dell’ordine e della disciplina», poiché «dall’uno e dall’altra scaturiscono il rispetto delle leggi, il sentimento della gerarchia, l’ossequio all’Autorità».[17]

È infine evidente l’intento educativo della Storia della rivoluzione fascista. Non a caso, Mussolini medesimo, nel proprio Invito alla lettura, incluse tra i principali destinatari dell’opera «i giovani delle più fresche generazioni», che attraverso l’opera «impareranno a venerare i segni del Littorio e a rispettare i veterani che fecero la Guerra e la Rivoluzione».[18] La funzione didattica della Storia fu sottolineata da numerose riviste del tempo, con Carlo Capasso che la definì «una vera scuola per le generazioni nuove»,[19] mentre il periodico del ministero della Pubblica Istruzione, Accademie e Biblioteche d’Italia, inserì i volumi del Chiurco tra le opere che «inizieranno il giovine alla meditazione degli avvenimenti storici».[20] Pure i fuoriusciti antifascisti intuirono l’intento pedagogico di quella che definirono «una storia del fascismo ad uso dei balilla», e pur criticando l’opera e lo stile prolisso dell’autore, riconobbero come il poter disporre di «un’organizzazione di massa, inquadrata da migliaia di cavalier Chiurco» costituisse un punto di forza dell’Italia mussoliniana.[21]

Tramite l’apparato propagandistico fascista, la Storia divenne un testo importante per il progetto di rinnovamento nazionale, una presenza immancabile tra gli scaffali di biblioteche, circoli di lettura, scuole di ogni grado e tipologia, nonché dono per gli studenti che maggiormente si fossero distinti nell’apprendimento, i quali «nell’esempio dei pionieri della rigenerazione della patria» avrebbero trovato «i migliori esemplari per la loro formazione spirituale».[22]

 

[1] F. Perfetti (a cura di), Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 402-3.

[2] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2011, p. 225.

[3] E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2008 (ed. orig. 1995). In generale, R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2000.

[4] M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino 1979.

[5] S. Luzzatto, The Political Culture of Fascist Italy, in Contemporary European History, vol. 8, 2, 1999, p. 322.

[6] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, cit., pp. 86-89, 228-29.

[7] G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 21. Sul tema, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 235-64; P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo. La costruzione di un progetto totalitario, Viella, Roma 2017.

[8] G. Cosmacini, Medici e medicina durante il fascismo, Pantarei, Milano 2019, p. 65. In riferimento al ruolo dei medici nel regime, R. Maiocchi, Scienza e fascismo, Carocci, Roma 2004, pp. 140-54.

[9] Discorso ai medici del novembre 1931, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera Omnia, vol. 25, La Fenice, Firenze 1956, pp. 58-62. Circa la funzione educatrice dello sport, P. Dogliani, Educazione fisica, sport nella costruzione dell’«uomo nuovo», in P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo, cit., pp. 143-55.

[10] Lo squadrista incarnò il mito fascista dell’italiano nuovo, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 245-48. Per le citazioni cfr. L’inchiesta fascista sui fatti di Roccastrada, in L’Era Nuova, 30 luglio 1921; Fascismo ed educazione Fisica, in La Scure, 24 giugno 1922.

[11] G.A. Chiurco, Manuale di cultura fascista, Morano, Napoli 1930, pp. 89-90.

[12] Id., L’educazione fisica nello Stato fascista. Fisiologia e patologia chirurgica dello sport, San Bernardino, Siena 1935, p. 7. Il modello di “cittadino-soldato” è posto al centro della pedagogia totalitaria del regime dalla seconda metà degli anni Venti.

[13] Id., La sanità delle razze nell’Impero italiano, Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Roma 1940, pp. 1049-50.

[14] L. La Rovere, Totalitarian Pedagogy and the Italian Youth, in J. Dagnino, M. Feldman, P. Stocker (a cura di), The “New Man” in Radical Right Ideology and Practice. 1919-1945, Bloomsbury Academic, London 2018, p. 21. La traduzione è mia.

[15] A. Mussolini, Fascismo e civiltà, Hoepli, Milano 1937, pp. 134-35.

[16] G.A. Chiurco, Comandamento del fascista: onestà e disciplina, in Il Popolo Senese, 3 gennaio 1929.

[17] Id., Elementi di cultura fascista, Morano, Napoli 1934, p. 94.

[18] B. Mussolini, Invito alla lettura, in G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, vol. 1, Vallecchi, Firenze 1929, pp. VII-VIII.

[19] C. Capasso, Storia della rivoluzione fascista di G.A. Chiurco, in Bibliografia fascista, 7, 1929, pp. 1-3. Capasso fu docente scolastico, studioso di didattica e professore universitario.

[20] G. Ruberti, Libri per una vita intera, in Accademie e Biblioteche d’Italia, 1, 1929, pp. 50-58.

[21] S. T., Una storia del fascismo ad uso dei balilla, in Lo Stato Operaio, 8, 1929, pp. 706-11.

[22] La citazione è di Ruggero Romano, deputato fascista dal 1924 al 1939, durante una cerimonia ufficiale a Noto, cfr. C. Sgroi (a cura di), R. Liceo-Ginnasio «A. Di Rudinì» di Noto. Annuario Scolastico 1929-1930, Studio Editoriale Moderno, Catania 1931, p. 22.




Vittorio Meoni, testimone e storico della Resistenza

Il 10 dicembre 2022 ricorre il centenario della nascita di Vittorio Meoni. Unico sopravvissuto all’eccidio fascista di Montemaggio, Vittorio è stato a lungo il nome più rappresentativo della Resistenza nel senese e in particolare nella Valdelsa. La storia della sua fuga drammatica e rocambolesca, gravemente ferito, mentre reparti della GNR stavano per fucilarlo insieme a 19 altri giovanissimi partigiani dopo un rastrellamento il 28 marzo 1944, ha circolato come una sorta di epos popolare. Le immagini della sua deposizione al successivo processo, in cui protende un dito ammonitore, sono state in questi territori il principale emblema di un più complessivo j’accuse contro il regime e le sue violenze.  Vittorio è stato il testimone per eccellenza della Resistenza senese: e il ruolo di eroe popolare ha segnato l’intera sua esistenza.  D’altra parte, possiamo anche considerare Vittorio come la prova vivente di una congiunzione tra memoria e storia, due dimensioni della rappresentazione del passato che per molti sarebbero antitetiche e incompatibili. Infatti, malgrado l’ingombrante peso memoriale che si porta addosso e che sembra condannarlo a recitare il personaggio di storie quasi mitiche, Vittorio diventa col tempo egli stesso storiografo. Il punto di svolta della sua carriera è la pubblicazione nel 1975 della Memoria su Montemaggio, un agile libriccino nel quale decide di raccontare in proprio la vicenda dell’eccidio. Lo fa non abbandonando la prima persona testimoniale,  ma utilizzando e comparando le fonti, e soprattutto con un tono disteso e quasi distaccato, abbandonando del tutto la retorica fatta di “infamia” e “gloria” che aveva caratterizzato i primi racconti postbellici degli eccidi e delle vicende partigiane (Smeraldo Amidei, Infamia e gloria in terra di Siena durante il nazi-fascismo, Siena, Cantagalli, 1945; ANPI, Partigiani alla sbarra, Siena, La Poligrafica, 1948). Non so quante copie siano state stampate di Memoria su Montemaggio nel corso degli anni: ma certo il libro ha una diffusione capillare in Valdelsa, è praticamente entrato in tutte le case, segno tangibile di un antifascismo che si è respirato come l’aria in queste zone di subcultura rossa (oggi la situazione è più complessa: la subcultura rossa non c’è più da un pezzo, e la permanenza dell’antifascismo come valore unificante sarebbe da verificare). Da allora in poi, per Vittorio Meoni è iniziata una sistematica attività storiografica, che investe altri episodi della resistenza (Una vittoria partigiana: Monticchiello 6 aprile ’44, Siena 1978), delle lotte contadine (Gli scioperi del 1902 in Valdichiana, Montepulciano 1989) e della Liberazione (Verso la liberazione, con P. Paoletti e C. Biscarini, Siena 1994). Ma soprattutto, all’inizio degli anni ’90, Vittorio fonda l’Istituto storico della Resistenza senese e si dedica anima e corpo alla costruzione e alla trasmissione di una cultura storica alle generazioni più giovani. Al centro di questo progetto sta in particolare il recupero e l’allestimento come Laboratorio didattico di Casa Giubileo, il luogo sul Montemaggio in cui è avvenuto l’eccidio. Nei numerosissimi incontri con ragazze e ragazzi delle scuole, Vittorio era al tempo stesso personaggio-eroe, testimone e professore. La logica memoriale non si contrapponeva alla conoscenza critica propria della storiografia, ma semmai la fecondava. Da qui un atteggiamento sempre aperto verso il progredire della conoscenza storica: Vittorio non ha mai difeso le narrazioni dogmatiche e monumentali: si rendeva ben conto che l’antifascismo non può che poggiare sulla ricerca della verità. Negli anni 2000 ha portato avanti un altro suo personalissimo progetto: ha ricostruito la storia della distruzione e espropriazione della Casa del Popolo di Siena da parte dei fascisti, e i torbidi accordi da questi stretti con il Monte dei Paschi (La casa del Popolo di Siena e il ‘dono della vergogna’, Siena, Nuova Immagine 2003); è così riuscito a ottenere la restituzione da parte della Banca alla società civile senese dei locali della Casermetta, oggi Stanze della Memoria – presidio cruciale per una identità senese che voglia radicarsi non solo nel mito del Medioevo ma anche nelle drammatiche vicende novecentesche e nei valori di libertà e uguaglianza che ne sono scaturiti.

(Fabio Dei)

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Alessandro Rinaldi, criminale di guerra dimenticato

Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa,
senza negarlo mai, volenterosamente v’andava
e più volte a fedire e a uccidere uomini
con le proprie mani si trovò volentieri.

G.BOCCACCIO, Decameron, I,1.

Qualora la celeberrima descrizione del Boccaccio venisse purgata della sua aria ironica e assumesse un tono freddo e reale calzerebbe a pennello per un personaggio che tra il 1919 ed il 1947 assurse più volte ai disonori della cronache del territorio senese, ossia Alessandro Rinaldi.

Alessandro Rinaldi

Alessandro Rinaldi

Nato a Siena nel 1903, entrò giovanissimo nel movimento fascista; distintosi ben presto per l’intelligenza ed il coraggio, fece una rapidissima carriera assumendo una posizione di spicco ne La Disperata, la squadra d’assalto più brutale e sanguinaria del territorio.
Quando Mussolini prese il potere in Italia, il fascismo tentò di darsi una facciata di rispettabilità dislocando gli elementi più facinorosi in posti di scarsa importanza e questo fu anche il destino del Rinaldi ‘normalizzato’, come semplice impiegato, dietro una scrivania del Sindacato di Commercio.

Ancora il 25 luglio del ’43, il soggetto viene descritto come un tranquillo scribacchino precocemente invecchiato e piuttosto corpulento ma gli avvenimenti dell’8 settembre lo trasformarono completamente restituendogli vigore.
Con la nascita della Repubblica Sociale Italiana, Il Rinaldi si mise immediatamente a servizio del prefetto di Siena Giorgio Alberto Chiurco, il quale lo nominò commissario politico per la città con pieni poteri.
Il nuovo funzionario non perse tempo. Si insediò alla Casermetta (oggi sede delle Stanze della Memoria), redasse delle accurate liste di antifascisti, sospetti e presunti fiancheggiatori dei partigiani quindi procedé agli arresti, agli interrogatori e alle torture. La sua azione non si arrestò alle mura della città ma si allargò a tutto il territorio con alcune puntate persino nel Grossetano. Una serie di testimonianze confermano la presenza del Rinaldi su buona parte dei luoghi degli eccidi e dei rastrellamenti avvenuti poco prima del passaggio del fronte: a Rigosecco (Montalcino), dove il 19 gennaio 1944 furono fucilati i partigiani Panti Luciano e Marsili Luigi; il 28 marzo dello stesso anno a Casa Giubileo (Monteriggioni) dove vennero fucilati diciassette partigiani che si erano arresi; il 5 aprile a Monticchiello, dove venne passato per le armi il partigiano Mencattelli Mario e infine il 28 aprile a Castellina Scalo, dove in seguito ad un rastrellamento effettuato insieme alle truppe tedesche rimasero uccisi tre civili ed altrettanti vennero deportati. Da notare che in tutte queste circostanze il gerarca ricoprì ruoli decisionali.
Si ipotizza persino, anche se ancora non sono emerse conferme, la presenza dello stesso a Scalvaia (Monticiano), dove vennero fucilati 11 renitenti alla leva, il 21 marzo 1944.
Particolarmente raffinata era anche la cura dell’immagine di se stesso che il Rinaldi presentava; si era fatto realizzare, infatti, una propria divisa diversa dagli altri militi della Guardia Nazionale Repubblicana, ossia un abito da cacciatore su cui facevano bella mostra di sé l’inseparabile fucile mitragliatore e due cartucciere, una per le bombe a mano e una per i caricatori. Dopo ogni azione fruttuosa, i militi della casermetta sfilavano su dei mezzi scoperti per le principali vie della città; sulla prima macchina del corteo, invariabilmente, si vedere il gerarca con la faccia truce.
L’arrivo degli alleati a Siena, i primi di luglio del ’44, vide la fuga di molti fascisti che decisero di seguire, nel nord Italia, le sorti della Repubblica Sociale Italiana.

Alessandro Rinaldi riparò ed operò nella zona di Brescia fino al maggio 1945 quando si rese latitante e divenne un criminale comune.
Riconosciuto a Firenze, venne arrestato e rinviato a giudizio il 28 febbraio del 1947. Inchiodato da prove e testimonianze inconfutabili, il gerarca insieme ad altri commiltoni subì la condanna all’ergastolo, ma la sua vicenda non finì qui: nel luglio 1948, riuscì ad evadere dall’Ospedale San Gallo di Firenze ma fu arrestato nuovamente a Brescia. A questo punto per lui si aprirono definitivamente le porte del carcere.

Nel 1959, dopo dieci anni di detenzione, venne anmistiato.




Vittorio Bardini. Costituente senese

Condannato dal Tribunale Speciale nel 1928 perché comunista e pericoloso oppositore del regime, si era fatto otto anni di reclusione. Poi era espatriato clandestinamente in Unione Sovietica dove aveva frequentato una scuola militare. Inviato in Spagna, aveva combattuto nelle file repubblicane ed era riparato in Francia in seguito alla vittoria del franchismo. Dopo due anni di campo di concentramento, consegnato alla polizia fascista dal governo filonazista di Vichy, nel 1941 aveva fatto il suo ingresso nel carcere di Santo Spirito di Siena. Lì lo volle incontrare l’Arcivescovo della città, Mario Toccabelli, forse incuriosito dalla sua storia e dalla sua personalità. “In occasione della festa del carcerato (…) fui l’unico che non andò a messa (…). Verso la fine della cerimonia (…) Monsignor Toccabelli vene a trovarmi in cella. Con molto garbo e correttezza ci salutammo. Mi fece alcune domane e dopo qualche battuta a conclusione del nostro incontro, mi chiese a quale curia appartenevo: gli risposi che non ero molto ferrato nella conoscenza della gerarchia e della organizzazione ecclesiastiche. Si congedò invitandomi a pregare il buon Dio e a ritornare su quella che secondo lui era la giusta strada, la strada del fascismo”.

Bardini (al centro della foto sotto il ragazzo seduto sul cannone) in Spagna negli anni della guerra civile

Bardini (al centro della foto sotto il ragazzo seduto sul cannone) in Spagna negli anni della guerra civile

Così amava raccontarsi Vittorio Bardini, nato a Sovicille nel 1903, professione muratore. A quell’incontro con l’alto prelato sarebbero seguiti il confino a Ventotene, un breve periodo di libertà dopo il 25 luglio 1943, il trasferimento a Milano, di nuovo in clandestinità, per organizzare i Gap, l’arresto, la deportazione a Mauthausen e infine, a guerra conclusa, i ruoli dirigenti nel Pci, l’elezione al Parlamento e prima ancora all’Assemblea Costituente.
Di questa suo ruolo in uno dei luoghi politici di massima rilevanza per la storia della Repubblica, Bardini non ha lasciato memorie, mettendolo in secondo piano rispetto all’attività nel partito e per il partito. Probabilmente considerava un puro servizio anche il suo voto su quei banchi. E d’altra parte, se la preparazione in materia giuridica non gli poteva consentire chi sa quali apporti originali, la sua presenza, insieme a quella di molti altri ed altre come lui, bastava da garanzia sul fondamento antifascista della legge fondamentale del nuovo Stato repubblicano che si andava elaborando.

Roma, dicembre 1947. Da sinistra: Vittorio Bardini, Ilio Barontini, Walter Audisio e Francesco Moranino.

Roma, dicembre 1947. Da sinistra: Vittorio Bardini, Ilio Barontini, Walter Audisio e Francesco Moranino.

Solo da qualche ricordo frammentario si ricavano notizie non sulla discussione in aula, bensì su quella che si svolgeva fra la base comunista, con una dialettica e una libertà di parola superiori a quanto ci si potrebbero immaginare. Per due volte, nel 1946 e nel 1947, Palmiro Togliatti arrivò a Siena per assistere al Palio. In entrambe le occasioni partecipò ad una assemblea degli scritti, accompagnato da Bardini. E in entrambe le occasioni non mancò chi gli rivolse critiche esplicite sull’amnistia che aveva decretato come Guardasigilli e sul voto del Pci sull’articolo 7, rivelando il malcontento serpeggiante sia per la mano tenera con i fascisti, sia per la mano tesa alla chiesa e alla Dc. Bardini probabilmente non gradì quegli interventi, ma alla fine poté quasi rallegrarsene perché, come ricordò, si trattava di parole dette da “bravi compagni, ma di tipo particolare, personaggi caratteristici che con alcune loro espressioni si rendevano anche simpatici. Per queste caratteristiche si resero simpatici anche Togliatti”.

Anche un comunista d’acciaio come lui non mancò tuttavia di ricevere critiche da chi ancora più d’acciaio lo avrebbe voluto. Teresa Noce ebbe infatti a dolersi per il fatto che avesse accettato di entrare, in quota Pci, nella Deputazione del Monte dei Paschi di Siena. A lei i banchieri non piacevano, anche se erano iscritti al partito e certi incarichi le parevano un allontanamento dalla prospettiva della rivoluzione socialista. Ma forse era nel torto, non avendo valutato a pieno quale fosse il significato, anche simbolico, di un comunista dentro la Rocca di Piazza Salimbeni, da sempre presidio finanziario esclusivo della nobiltà agraria, della borghesia dei commerci e della rendita immobiliare e delle forze politiche di loro rappresentanza.

Bardini in Piazza Matteotti a Siena. Comizio per il 25 aprile 1946

Bardini in Piazza Matteotti a Siena. Comizio per il 25 aprile 1946




Il buon tedesco dell’Amiata

La storia di Abbadia San Salvatore, paese di origini longobarde che si trova sul Monte Amiata in provincia di Siena, nel secolo scorso si intrecciò nuovamente per due volte in modo significativo con la Germania ed i tedeschi e in entrambe le occasioni risultò per motivi diversi emblematica la presenza dell’ingegnere Carl Buckart.

All’inizio del secolo in paese fu avviata una importante attività mineraria con estrazione dal sottosuolo del cinabro e la sua trasformazione in mercurio. La “Società anonima delle miniere di Mercurio del Monte Amiata” proprietaria dell’impianto, era composta quasi esclusivamente da industriali, uomini d’affari e aristocratici tedeschi che avevano investito in questa attività vista l’alta redditività della vendita del mercurio sul mercato internazionale ed il suo insostituibile valore in campo bellico, quale elemento fondamentale per la costruzione dei detonatori delle bombe. Anche tutto lo staff tecnico che dirigeva la miniera e istruiva le maestranze locali totalmente prive di esperienza proveniva dalla Germania. Fu così che tra gli altri giunse per la prima volta ad Abbadia il giovane ingegnere elettromeccanico Carl Buckart. La dirigenza tedesca guidò anche l’ammodernamento del paese con l’apertura di una cooperativa di consumo, un pronto soccorso, la costruzione di case operaie. A fronte di queste innovazioni nel tessuto sociale, sul lavoro mantenne un atteggiamento più rigido, non cedendo quasi mai alle richieste di miglioramenti da parte dei minatori. Comunque, come ci ricorda anche Fortunato Avanzati nel suo libro “Gente e fatti dell’Amiata”, questi tecnici tennero generalmente nei riguardi della popolazione badenga un comportamento formalmente corretto ed alcuni di essi instaurarono amicizie in ambiente di lavoro, ma anche all’esterno che, come vedremo, si protrassero nel tempo. Proprio Buckart ed un altro ingegnere tedesco furono molto apprezzati dalle maestranze e dalla popolazione quando non esitarono ad entrare in una galleria invasa da gas tossico, esponendosi ad un rischio mortale pur di salvare la vita a due minatori rimasti storditi dalle esalazioni. Testimonianze orali ci raccontano poi come il giovane Buckart riuscì a farsi benvolere anche al di fuori dell’ambito minerario. In particolare viene ricordata l’amicizia con Giuseppe Contorni, soprannominato Peppelò, che di professione faceva il fabbro ed il costruttore di carri e calessi. Spesso la sera in bottega, davanti al fuoco, si soffermavano con altri amici a mangiare e a suonare la fisarmonica.

Nel 1914 con l’inizio della prima guerra mondiale i tedeschi cominciarono ad essere percepiti come nemici, ma rimasero al loro posto di lavoro fino all’anno dopo, quando anche l’Italia entrò nel conflitto mondiale e loro dovettero abbandonare la miniera che, al momento della loro partenza, era diventata la più moderna del mondo e la seconda per importanza per i volumi di produzione dopo quella spagnola di Almaden. Dello staff tecnico tedesco rientrato in patria, sappiamo con certezza che gli ingegneri Dausch e Buckart, dopo l’esperienza maturata in Italia, continuarono a dedicarsi all’estrazione del cinabro e alla produzione di mercurio in alcune piccole miniere a nord della Germania.

Foto tratta da http://www.museominerario.it

Foto tratta da http://www.museominerario.it

La presenza della Germania ad Abbadia San Salvatore si manifestò nuovamente dopo circa trent’anni in circostanze però più drammatiche. A partire dal Settembre 1943 la miniera, proprio per l’alto interesse strategico del materiale prodotto, fu costretta a lavorare sotto il controllo delle autorità militari tedesche. L’ingegnere Carl Buckart, allora sessantaquattrenne, ritornò ad Abbadia in qualità di controllore della miniera. Nonostante fosse al momento inquadrato nella Wermacht come maggiore e quindi facente parte delle odiate forze di occupazione, in ricordo degli anni trascorsi in paese all’inizio del secolo fu ben accetto dalla popolazione. Prova ne sia che anche il sopra citato Peppelò, di idee socialiste, riallacciò contatti di amicizia con lui. Così con altri tornarono ad incontrasi periodicamente per parlare ed ascoltare il suono della fisarmonica. Ma veramente importante sembra sia stata la sua presenza in miniera. Ricorda Luciano Segreto nel suo libro “Monte Amiata” che in quel momento all’interno della miniera agivano due diverse anime: quella politico-militare dei partigiani che aveva come obiettivo il sabotaggio della produzione e quella della direzione italiana che cercava di concordare con i lavoratori una produzione limitata e abilmente nascosta per concedere ai tedeschi la minor quantità possibile del materiale prodotto.

Entrambe riuscirono ad ottenere risultati tramite il sabotaggio da parte dei partigiani dei macchinari dei cantieri più bassi e quindi meno accessibili ai controlli e con il rallentamento della produzione da parte degli altri operai motivata anche dalla mancanza di materie prime come nafta, esplosivi, miccia, ecc. In questo quadro l’ingegner Buckart, secondo molte testimonianze, tenne un comportamento corretto ed evitò per quel che era in suo potere, che le truppe tedesche usassero la mano pesante. Fortunato Avanzati ci ricorda che fu Buckart a far liberare gli arrestati per la manifestazione antinazista che si era tenuta il 4 Dicembre 1943 e che poco dopo tentò di costituire una commissione interna con lavoratori non compromessi con il fascismo e anche con qualche comunista. Questo tentativo ebbe breve durata e sebbene fosse stato avviato forse con buone intenzioni, su di esso Avanzati getta qualche critica perché la sua riuscita avrebbe potuto smorzare la combattività della parte più politicizzata degli operai legata al movimento partigiano.

Tondi Domenico, dipendente della miniera come autista del direttore Masobello ed elemento di collegamento tra gli operai ed i gruppi partigiani operanti sul Monte Amiata, fa capire nella sua testimonianza riportata nel testo “Un’isola in terraferma” che anche tramite Buckart lui era venuto a conoscenza di un imminente rastrellamento che nel Marzo 1944 le truppe tedesche avrebbero svolto nei confronti dei partigiani presenti sul Monte Amiata. In questo modo Tondi poté avvertire il distaccamento partigiano che si spostò in Val d’Orcia. Ma a detta di molti il ruolo più importante Buckart lo svolse nell’imminenza dell’arrivo delle truppe alleate. I tedeschi decisero di far saltare in aria la miniera in modo che gli alleati non potessero usufruire del mercurio. Questo proposito fu fortemente ostacolato dai minatori e dai partigiani che smontarono e nascosero molte attrezzature meccaniche ed anche dallo stesso Buckart che, dicono, abbia indicato ai propri connazionali tra i macchinari della miniera da colpire alcuni desueti o non strettamente indispensabili. Furono così distrutti i forni Spirek, ma non quelli a torre e furono abbattuti i castelli dei pozzi, ma non furono minati i pozzi stessi, sabotaggio che avrebbe tenuta la miniera chiusa per anni. Al passaggio delle truppe francesi che liberarono Abbadia, un ufficiale ed ingegnere minerario si compiacque dei lievi danni subiti dall’impianto. Trascorso poco più di un mese si poté ricominciare la produzione. Sempre Domenico Tondi testimonia come, a causa del suo intervento Buckart, fosse stato denunciato da una segretaria del fascio repubblichino. Probabilmente a seguito di questa denuncia, gli fu tolto l’incarico ad Abbadia e venne immediatamente rimpatriato circa una settimana prima dell’arrivo degli alleati. Questo fatto avvalora il suo intervento in difesa della miniera, documentato attualmente solo da numerose fonti orali e che avrebbe necessità di uno studio approfondito e qualificato. Il rapporto tra Abbadia e l’ingegner Carl Buckart si concluse comunque negli anni cinquanta quando il tedesco tornò per salutare gli amici rimasti e si incaricò di portare personalmente dalla Germania all’allora direttore della miniera un’auto della Volkswagen per non fargli pagare le spese doganali.




Vittorio Meoni, la ricerca continua della libertà

Vittorio Meoni è nato l’11 dicembre del 1922 da una famiglia di insegnanti. La prima fase della sua vita fu segnata dai continui spostamenti dei genitori. A Colle di Val d’Elsa, città del padre, a Siena, a Prato, a Firenze per l’Università di Scienze Politiche. La sua storia è conosciuta, forse soprattutto, per il drammatico episodio che lo ha visto tra i protagonisti dell’eccidio di Montemaggio. Tuttavia, l’intera vita di Vittorio merita di essere osservata con attenzione, poiché è attraversata senza interruzione da un filo sottile ma evidente, quello della ricerca della libertà. Molte volte ha avuto la possibilità di parlare dell’esperienza da partigiano, dell’impegno politico, della Cremona, del carcere.

In più di un’occasione ha voluto mettere le sue memorie nero su bianco, ma il racconto più compiuto è probabilmente quello riportato in maniera chiara e lineare in La libertà è come l’aria (Effigi edizioni). Qui è Vittorio stesso a parlare, senza vergogna, della sua adesione ai GUF (Gruppi Universitari Fascisti), dai quali però venne espulso in seguito a un’osservazione fatta a voce alta all’Università e a un interrogatorio dal quale venne congedato “per assoluta e dichiarata mancanza di fede fascista”. Abbracciò pienamente l’antifascismo, interprete del forte risentimento e dalla povertà che mordeva la popolazione. Fu per lui una “vera e propria rivoluzione culturale, maturata nell’ambiente cattolico fiorentino, caratterizzato dalla presenza e dall’opera di alcuni sacerdoti e di personaggi-simbolo come Giorgio La Pira”. Anche durante il secondo convegno giovanile alla Casa fiorentina della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), Vittorio non mancò di manifestare pubblicamente il proprio dissenso. Prese infatti la parola, criticando il sistema corporativo e la sua antidemocraticità. Questa volta le conseguenze furono più gravi, poiché, dopo un altro interrogatorio poliziesco, venne trasferito al carcere delle “Murate”, dove rimase per circa due mesi. Non fu l’unica esperienza di detenzione. Anche dopo la notizia della caduta del fascismo, nel 25 luglio del 1943, Vittorio venne preso e torturato a “Villa Triste” e di nuovo trasferito al carcere delle “Murate”. Intanto, i tedeschi avevano cominciato anche a Firenze il rastrellamento sistematico degli ebrei.

Vittorio Meoni oggi

Vittorio Meoni in una foto recente

Una volta libero, decise di darsi alla macchia, scelta di cui mise al corrente soltanto il padre, con cui condivideva gli ideali antifascisti: “Pensai che l’unico modo di raggiungere una formazione partigiana era quello di andare a Colle, dove sapevo che c’erano amici e persone che si stavano organizzando per iniziare la lotta armata contro la Repubblica Sociale. […] Partimmo in tre: con me c’erano Mauro Rolandi e un certo Bargi (detto Ciclamino)”.

Sotto la guida di Velio Menchini (detto “Pelo”), Vittorio fece le sue prime azioni partigiane a Casole d’Elsa e a Montieri (in entrambi i casi vennero assalite le caserme dei carabinieri, per procurarsi le armi necessarie), poi sul Montemaggio (per compiere azioni di sabotaggio sulla via Cassia e sulla linea ferroviaria Siena-Firenze). Fu in quest’ultimo luogo che i repubblichini uccisero con un plotone d’esecuzione diciannove compagni. Era il 18 marzo del 1944. Di quella triste pagina della nostra storia Vittorio è l’unico sopravvissuto, anche se gravemente ferito, per essere scappato appena prima che i fascisti riuscissero a premere il grilletto. Ne ha scritto dettagliatamente nella Memoria su Montemaggio (Anpi Siena, 1975).

Di nuovo dietro le sbarre, venne fatto uscire quando la Liberazione di Roma spinse i repubblichini impauriti a scarcerare decine di detenuti politici. Si mise dunque a disposizione del Corpo di Spedizione Francese che liberò Colle. A quel punto, aveva provato sulla sua pelle cos’era la paura e il freddo e la lontananza dagli affetti. Nonostante la Toscana fosse finalmente libera dall’oppressione fascista, sempre per quel filo di cui dicevo all’inizio, si arruolò come volontario nell’esercito di liberazione italiano. In particolare, prese parte al Gruppo di Combattimento “Cremona”, che operava in Romagna, a fianco dell’VIII Armata Britannica, un’esperienza che può essere attentamente letta in Dal fazzoletto rosso alle stellette. 1944-1945: l’esperienza dei volontari senesi nei Gruppi di Combattimento (Nuova Immagine, 2005).

Vennero in seguito il trasferimento a Roma per partecipare alla Commissione di Direzione Nazionale del PCI, il rientro a Siena, le drammatiche giornate del ’48, i processi che la Resistenza senese dovette subire, la difficile scelta di non accettare la candidatura a sindaco. Anche in questi casi, per usare le parole di Ivan Tognarini, “Vittorio è stato (ed è, auguriamoci ancora per tanti e tanti anni) uno spirito libero, una coscienza critica, una persona che, senza mai scadere nell’alterigia, nella boria, nella tracotanza, è stata ed è rimasta rigorosamente e coraggiosamente coerente con le proprie idee”.

Oggi, all’età di quasi 93 anni, il suo impegno e la sua grande partecipazione non sono ancora finiti. È infatti il Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea, nonché dell’Anpi provinciale di Siena. Con mente lucida, nel 2015 come allora, non perde occasione per raccontare la sua storia e insegnare a tutti che “la libertà è come l’aria, ne apprezzi tutto il valore quando ti manca”.




Romano Bilenchi, a 25 anni dalla morte

Venticinque anni fa, il 18 novembre 1989, moriva nella sua casa di via Brunetto Latini, a Firenze, Romano Bilenchi. Aveva da poco compiuto 80 anni (era infatti nato il 9 novembre 1909 a Colle di Val d’Elsa), aveva lavorato fino all’ultimo ai suoi progetti letterari, portando avanti quella tenace volontà di riscrittura (che significa anche ripensamento, riconsiderazione, analisi) che da sempre caratterizzava come un tratto distintivo il suo lavoro.

Nella sua casa – da cui ormai da anni non si allontanava più, per l’aggravarsi della malattia che lo affliggeva – aveva esercitato il suo ruolo di intellettuale, di coscienza critica e di testimone del suo tempo; lo aveva fatto in modo appartato e dimesso, senza spocchia o boria, discutendo tuttavia animatamente e calorosamente, con grande schiettezza, insomma dialogando nel senso più pieno del termine, con chiunque, amici intellettuali, giovani, semplicemente amici, si rivolgesse a lui, anche con la curiosità di ascoltare le sue parole, gli infiniti episodi della sua vita, da autentico “narratore orale” quale era stato definito.

Nel momento in cui ci si avvicina a Romano Bilenchi, ci si scontra immediatamente con la complessità irriducibile della sua figura e con la stratificazione di interessi (culturali, letterari, politici) che la connotano (dunque di prospettive o punti di vista con cui è possibile accedervi). E’ proprio questo elemento a rendere particolarmente arduo il tracciarne un profilo, un ritratto, che risulterà sempre inevitabilmente una copia sbiadita e parziale del modo di essere di Bilenchi.

Certo, l’approccio più immediato e all’apparenza (solo all’apparenza, però) più facile è quello che lo vede testimone impegnato inromano-bilenchi-160x250 prima persona nelle vicende del suo tempo, che lo vede cioè attraversare il labirinto del Novecento, con le ideologie, le incurvature, le idealità, le delusioni che lo hanno caratterizzato. Bilenchi muore proprio in quel 1989 che vede la caduta del muro di Berlino, ovverosia di uno dei simboli del percorso travagliato del Novecento, che chiude il ‘secolo breve’ e questa coincidenza di date getta una luce particolare sul nostro discorso.

Bilenchi si muove nello spazio temporale del Novecento attraversandone i momenti più emblematici: pur venendo da una tradizione familiare socialista, aderisce in gioventù al fascismo, con la forza ‘eversiva’ di un giovane che vede in quel movimento lo strumento per rompere con il passato, nella convinzione di voler partecipare alla costruzione di un mondo nuovo, di una nuova società, fondata su nuovi valori morali.

Ma l’adesione al fascismo non significa affatto una identificazione acritica o un annullamento della coscienza critica; al contrario Bilenchi si trovò ad esercitare la sua adesione da uomo libero, e fu proprio questo esercizio di libertà del pensiero, unito all’incondizionato riconoscimento del valore in sè dell’amicizia, ad erodere dal di dentro le sue convinzioni e a collocarlo su un nuovo fronte. Si è definito Bilenchi ‘fascista di sinistra’, così come si è parlato di ‘fascismo rivoluzionario’, per sottolineare il fortissimo senso antiborghese e anticapitalistico delle sue posizioni. Definizioni che a stento racchiudono la complessità delle scelte e del pensiero bilenchiani.

“Fascista lo sono stato quando ero più giovane, soprattutto quando ero un ragazzo. (…) ora se debbo dirle la verità non lo sono più”: così ad Ezra Pound, ma è solamente una delle tante ammissioni (o confessioni) di un mutamento ideologico che Bilenchi ci consegna con una folgorante, essenziale semplicità.

bilenchi-bottone“Non essere più fascista” ci rivela in controluce la sensazione sgradevole e amara di speranze tradite, di disillusioni e delusioni andata maturando nel corso di tanti anni e insieme l’esercizio di una coscienza critica inesausta, che lo conduce a scelte diverse, a trovare nuovi orizzonti, dunque un nuovo spazio ideologico in cui riversare il peso delle speranze e degli ideali per un mondo nuovo.

Bilenchi si muove con passione e passioni, sul versante delle ideologie del Novecento, non è un gretto opportunista o un voltagabbana, ma un uomo che crede e difende i suoi valori appassionatamente, che sa compiere scelte di campo. Passione e amicizia costituiscono chiavi di lettura significative nel percorso umano e politico di Bilenchi.

Se era stato un fascista non accomodante e per molti aspetti scomodo, Bilenchi sarà ancora un comunista non ortodosso, capace di coniugare la carica sovversiva, antiborghese, anticapitalistica del comunismo con la sua idea di libertà e di uomo. Altra definizione, quella di comunista liberale, che presenta gli stessi limiti di cui dicevamo.

Bilenchi aderì al PCI con convinzione, senza dubbio, ma per tutto il resto della vita ebbe bisogno di ripercorrere e spiegare (spiegarsi) quello che era successo a lui e ad un’intera generazione. Da qui, il lavorio continuo di riscrittura, di scavo e di illuminazione sui percorsi segreti della sua parabola. Da qui emerge ancora l’intreccio indissolubile tra la passione politica e la scrittura, la letteratura. Ma emerge anche, senza retorica, la categoria dell’amicizia, che è la chiave per penetrare nell’uomo, nella personalità di Bilenchi e che ha ispirato alcune delle sue pagine più belle.

L’amicizia, la condivisione di destini, non sempre e non necessariamente di idee, la comprensione tra uomini costituiscono un valore ininterrottamente affermato da Bilenchi, nell’arco della sua esistenza e della sua produzione letteraria. “L’unica cosa che vale è l’amicizia e tenersi stretti tra coloro che, o fessi o intelligenti, sono in buona fede”: così scrive, nel 1935, a Mino Maccari, offrendoci un’altra scoperta ammissione, di cristallina semplicità ma insieme di grande vigore.

romano bilenchiDopo la liberazione di Firenze e dopo l’impegno in prima persona nella Resistenza, Bilenchi si dedica ad una intensa attività pubblicistica, a testimonianza del suo impegno civile. Straordinaria è l’esperienza del “Nuovo Corriere”, da lui diretto, che diventa a poco a poco un momento di incontro e confronto delle forze democratiche fiorentine, un momento di feconda apertura culturale. Per otto anni, Bilenchi si concentra sul lavoro giornalistico, trascurando la letteratura; vi tornerà dopo la ferita del 1956, dopo cioè la chiusura del quotidiano, riprendendo così il lavorio di scavo e riscrittura a lui congeniale, con nuovi progetti editoriali.

Bilenchi infine rientra nel PCI nel 1972, nel momento in cui si apre una nuova fase politica per il partito, tornando così ad impegnarsi in prima persona per la costruzione di una nuova sinistra.

Le date che, sommariamente, abbiamo indicato rappresentano autentici snodi della storia del Novecento italiano e vedono sempre Bilenchi impegnato ad offrire contributi significativi. Accanto a questo, intrecciata con tutto questo, la passione per la letteratura, l’esercizio, anche se talvolta trascurato per lunghi periodi, della scrittura, con prove che lo collocano tra i più grandi autori del Novecento. E certo quest’ultimo, non secondario aspetto della personalità di Bilenchi, pure noi lo abbiamo trascurato e ce ne rammarichiamo, consapevoli dell’inestricabile intreccio di passioni che ci offre.