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Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.




Le carte di “Lorenzo Gestri”: il fondo archivistico di un cultore degli archivi

Il mestiere dello storico – ha sostenuto di recente Adriano Prosperi – può essere descritto come una «deliberata immersione nelle profondità del dimenticato». Lo studioso di storia sarebbe quindi una sorta di sub, un palombaro che si avventura scendendo negli abissi oscuri per poi tornare in superficie e riportare alla luce reperti dimenticati o perduti, brandelli di realtà del passato.

In questa avventura nell’ignoto, diventa cruciale l’atto di scegliere, di individuare «ciò che si deve raccontare». Il momento della selezione è tanto importante in quanto ciò che si può trarre in salvo dall’oblio è appena una porzione infinitesimale rispetto a ciò che è destinato a rimanere sommerso: la storia è in realtà «una macchina per dimenticare», poiché «lo strato del ricordato e del ricostruito vi galleggia come una sottile zattera sull’oceano del dimenticato»[1].

Accostare l’oblio agli abissi oceanici è un luogo ricorrente. Ritroviamo una simile metafora marittima nella prefazione dell’ultima opera di Lorenzo Gestri, storico venuto a mancare esattamente venti anni fa. Le lotte legate all’«utopia igienista», ricostruite magistralmente da Gestri per il contesto pisano tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, rappresentavano una «sorta di Atlantide riemersa», una vicenda che aveva avuto in quegli anni «la forza trascinante di una grande prospettiva di palingenesi e resurrezione per l’intera umanità», ma che in seguito era stata dimenticata dagli storici, lasciata in disparte per concentrarsi su altre piste interpretative. «L’oblio – spiegava Gestri – ha radici diverse. Raggiunte le attese, trasformatesi le conquiste in prassi quotidiana, intervengono umanamente i meccanismi della memoria: il passato sgradevole viene lasciato cadere»[2].

Gestri_001La «macchina per dimenticare» tratteggiata da Prosperi veniva collocata nella riflessione di Gestri sul terreno delle grandi battaglie ideali e del conflitto sociale. Così facendo i contorni di alcuni degli ingranaggi dell’oblio si facevano più precisi: si dimentica perché non fa piacere né è utile tenere sempre davanti agli occhi le lacerazioni e gli scontri del passato, anche se questi hanno portato a un avanzamento positivo nella vicenda umana. Come «ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo», secondo la nota formula di Ernest Renan[3], è normale che ogni cittadino delle nostre travagliate democrazie dimentichi quanto il paesaggio sociale, politico e istituzionale che lo circonda sia frutto delle innumerevoli occasioni in cui i suoi antenati si sono trovati su fronti contrapposti a sostenere con veemenza diversi principî e ideali.

Salvare dall’abisso del dimenticato quei nostri antenati è stato uno dei compiti della vita – prematuramente interrotta – di Lorenzo Gestri. Nato nel 1943 a Piazza al Serchio, in provincia di Lucca, Gestri visse a Parigi parte dell’infanzia, per poi trasferirsi con la famiglia a Carrara. Figlio di insegnanti con ruoli dirigenziali e grande passione politica (il padre Leo, socialista, fu il primo sindaco rosso del comune apuano tra il 1956 e il 1961), ereditò e sviluppò sia l’amore per gli studi che l’impegno civile. Iscritto non appena maggiorenne al partito socialista nel 1961, l’anno seguente scelse di frequentare il corso di laurea in Lettere moderne dell’Università di Pisa, con l’idea di approfondire la conoscenza della grande tradizione del socialismo italiano, «il desiderio […] di “rivisitare” le origini del movimento, origini che, come sempre accade per tali fenomeni, sono pure, autentiche, “rivoluzionarie”, prima che il movimento, passando sul terreno dell’organizzazione strutturata e permanente, perda la sincerità delle sue fonti, iniziando appunto a “fare politica”, a secolarizzarsi»: «volevo affinare la mia preparazione storica, per avere più strumenti nelle scelte che ero chiamato a fare appunto nel presente», avrebbe scritto più tardi[4].

La passione per lo studio prese invece il sopravvento, e invece che intraprendere la carriera politica – pure intesa come una continuazione della storia con altri mezzi – Gestri intraprese la carriera accademica, intesa come una continuazione della politica con altri mezzi. Laureato nel 1969 con una tesi intitolata Il movimento operaio e socialista nella provincia di Massa-Carrara dal 1895 al 1905 (relatore Mario Mirri), divenne prima assistente ordinario presso la cattedra di Storia del Risorgimento, retta da Giorgio Candeloro con cui stringe un forte legame, poi titolare della cattedra di Storia del movimento operaio e sindacale. Un ricco profilo della produzione storiografica è rintracciabile in rete nella pagina a lui dedicata dalla Biblioteca Franco Serantini, con cui Gestri ebbe un rapporto intenso e appassionato. Sin dalla nascita infatti, scrive Franco Bertolucci, «non c’è stata iniziativa della biblioteca che non abbia visto in Gestri l’interlocutore naturale, attento, sempre pronto a offrire un consiglio per migliorare il nostro lavoro»[5].

Non è un caso quindi se la famiglia ha scelto di affidare le sue carte di studio alla Biblioteca Serantini, oggi anche Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pisa. Il fondo archivistico di Lorenzo Gestri è composto da 53 buste, 47 unità tra quaderni piccoli, agende, block notes, raccoglitori di appunti manoscritti, e 14 schedari a fogli mobili. Di questi solo 3 buste e 2 schedari, versati alla Biblioteca precedentemente, sono già inventariati; per le altre al momento esiste solo un elenco sommario curato da chi scrive. Le buste sono composte in gran parte da fotocopie di materiale archivistico e di pubblicazioni coeve, sistemate tematicamente attorno ad alcuni nuclei di ricerca. Di questi, solo alcuni hanno poi trovato uno sbocco in pubblicazioni compiute, come il libro già citato sulla cremazione a Pisa; altri invece rappresentano materiali preparatori per lavori da completarsi. Corposa la documentazione raccolta ad esempio sulla situazione sociale ed economica del centro portuale di La Spezia tra la seconda metà dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, che occupa quasi nove buste; oppure sull’emigrazione lunigianese a cavallo tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo, contenuta in tre buste, di cui lo stesso Gestri aveva segnalato di avere pubblicato «solo […] un primo contributo derivato da un lungo lavoro di spoglio delle fonti ufficiali a stampa, che comparirà in termini più esaustivi nell’ambito di uno studio più generale dedicato all’economia ed alla società della Val di Magra, al momento in attesa di pubblicazione»[6]. Nelle buste si trovano anche le tracce dell’attività culturale e politica di Gestri: la creazione dell’Istituto storico Apuo-Lunense nella seconda metà degli anni Settanta, la commemorazione di Giorgio Candeloro nel giorno del commiato, la presentazione alle elezioni politiche del 1994 con una lista socialista.

Sono impressionanti però soprattutto gli schedari e i raccoglitori, dove con una scrittura minuta e precisa Gestri ha registrato centinaia di nomi di militanti di base dall’esistenza oscura e di associazioni di lavoratori dalla vita spesso effimera, i cui riferimenti però erano stati rintracciati negli archivi, sia pubblici che privati, e nella stampa militante dell’epoca e di cui venivano annotati fino ai minimi riferimenti: gli indirizzi, le informazioni biografiche, le cariche ricoperte, le quote versate per le sottoscrizioni pubbliche. È un segno della passione per «quell’universo affascinante della storia dei “vinti” e degli “irreducibili” che sempre ha attirato la curiosità storica e la passione civile di Gestri»[7]. Di questa inclinazione alla ricostruzione meticolosa e certosina si trova prova in alcuni fascicoli dedicati a Pisa, dove a partire dagli elenchi elettorali del 1908 erano state tratte delle elaborazioni non conclusive, ma che sicuramente hanno contribuito ad arricchire la conoscenza profonda della realtà popolare pisana dello studioso. «La ricerca – ha scritto Gestri – comporta realmente vivere in lunghe frequentazioni con le ombre, ascoltarne le voci»[8]: a partire dalle voci che Lorenzo Gestri ha scelto di ascoltare nella sua carriera di storico, ha voluto selezionare nella sua personale immersione nell’oceano del dimenticato, è possibile apprezzare lo spessore di uno studioso profondo e sensibile, che molto ha lasciato alla storiografia del movimento operaio e sindacale e che ancora di più avrebbe potuto lasciare. Le sue carte sono oggi disponibili per chi voglia continuare a immergersi in quelle stesse acque.

[1] Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino 2021, p. 54.
[2] Lorenzo Gestri, Le ceneri di Pisa. Storia della cremazione. L’associazionismo laico nelle lotte per l’igiene e la sanità (1882-1939), Nistri-Lischi, Pisa 2001, p. 6.
[3] Ernest Renan, Che cos’è una nazione? Conferenza tenuta alla Sorbona l’11 marzo 1882, in Id., Che cos’è una nazione?, introduzione di Silvio Lanaro, Donzelli, Roma 2004, p. 8.
[4] Lorenzo Gestri, Lettera di dimissioni dal Partito Socialista Italiano (1992), in Id., Storie di socialisti. Idee e passioni di ieri e di oggi, a cura di Laura Savelli, Dipartimento di Storia moderna e contemporanea. Università di Pisa – Bfs, Pisa 2003, p. 174.
[5] Franco Bertolucci, Gestri, Lorenzo: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/99-gestri-lorenzo
[6] Lorenzo Gestri, Incombenze e tribolazioni accorse ad un propagandista libertario in un anno di grazia di fine ‘800, in Id., Storie di socialisti cit., p. 193.
[7] Bertolucci, Gestri, Lorenzo cit.
[8] Gestri, Le ceneri di Pisa cit., p. 13.




Cesare Lodovici direttore di «Alalà!» settimanale del Fascio carrarese di combattimento

La ricorrenza del centenario dei fatti di Sarzana è stata un’occasione importante per rileggere e fare il punto (si veda il convegno di studi Resistenza ante litteram. 1921-2021. A cent’anni dai “Fatti di Sarzana”, Sarzana, 16-17 luglio 2021) su un episodio significativo, quasi una momentanea battuta d’arresto, nell’ascesa e nell’affermazione del fascismo in Italia e in particolare nella zona di confine tra Liguria e Toscana dove – proprio a Sarzana – il movimento tardò a prendere piede. Episodio che gli squadristi si affrettarono a definire “eccidio” ma che fu piuttosto un’opposizione ferma delle forze dell’ordine intervenute in quell’occasione e di resistenza popolare, poi, di fronte all’ennesimo assedio che i fascisti tentarono sulla città, questa volta per liberare dal carcere Renato Ricci arrestato il 17 di quello stesso mese.
Tra le tante testimonianze che i giornali si affrettarono a pubblicare nei giorni successivi agli scontri, restava tuttavia parzialmente inedita una lunga e dettagliata cronaca dello scrittore Cesare Vico Lodovici (Carrara, 18 dicembre 1885 – Roma, 24 marzo 1968) e allo stesso modo restava quasi del tutto sconosciuta la sua partecipazione allo squadrismo apuano e all’azione del 21 luglio di cui è, appunto, testimone oculare.
Quasi del tutto perché già nel 1992 lo storico tedesco Roger Engelmann nel libro, mai tradotto in italiano, Provinzfaschismus in Italien. Politische Gewalt und Herrschaftsbildung in der Marmorregion Carrara 1921-1924 (R. Oldenbourg Verlag, Munchen, 1992) indica Lodovici tra i membri del Fascio di Combattimento di Carrara e caporedattore di «Alalà!», settimanale ad esso collegato, che lo scrittore dirige per poco più di due mesi tra il 30 luglio e l’8 ottobre 1921.
Ed è proprio sul numero di «Alalà!» del 30 luglio 1921 che esce il suo resoconto su Come si svolsero i fatti di Sarzana, (ripreso subito dopo da «L’intrepido: settimanale del Fascio di combattimento lucchese» del 14 agosto 1921) a quasi dieci giorni di distanza dagli scontri, sul numero 2 anno I del periodico dove il suo nome figura nell’ultima pagina in basso a destra, nel ruolo di direttore insieme con quello di Lodovico Canepa che ne è gerente responsabile, mentre sul numero precedente del 16 luglio 1921, che corrisponde dunque alla prima uscita del settimanale, il titolo di direttore era affidato al solo Canepa; ed è forse questo il motivo per cui nel regesto di Massimo Bertozzi, La stampa periodica in provincia di Massa Carrara, nella scheda sintetica su «Alalà!», Lodovici non è menzionato (Pacini, Pisa, 1979, pp. 170-171).
Eppure, come emerge dai suoi interventi, il ruolo dello scrittore all’interno del Fascio di combattimento di Carrara non deve essere stato affatto secondario, pur non avendo ricoperto particolari posizioni di comando; né può dirsi anonima l’impronta che la sua direzione imprime al giornale in questo brevissimo ma cruciale lasso di tempo.

Lodovici_La_donna_di_nessunoAllo stesso modo non è trascurabile il ruolo di Lodovici negli ambienti letterari e culturali di quel primissimo scorcio degli anni ‘20 soprattutto per l’eccezionalità delle relazioni che seppe intrecciare e la singolarità della sua scrittura teatrale grazie alla quale il suo nome è ancora citato nelle storie del teatro del Novecento. Amico di Pirandello, di Montale e di Gobetti (solo per citarne alcuni) seppe promuovere presso l’editore torinese, insieme con Sergio Solmi, la pubblicazione del volume degli Ossi di seppia, libro d’esordio di Montale, uscito nel 1925. Del resto Gobetti fu anche editore de L’idiota (1923), uno dei testi teatrali più conosciuti di Lodovici insieme con La donna di nessuno (1920). Infine, bisogna ricordare che ancora oggi è sua la traduzione più accreditata di tutto il Teatro di Shakespeare pubblicato da Einaudi (1965).
Forse a causa di una certa settorialità degli studi, dunque, o forse perché lo stesso Lodovici fin dal 1935, anno in cui si trasferisce a Roma per lavorare come consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, visse appartato con un’accettazione silente ma sofferta del regime fino a quando, nel secondo Dopoguerra, assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano «La Giustizia», organo del Partito socialista democratico italiano.

La sua adesione al Fascio di combattimento di Carrara e al Partito fascista è comunque facilmente inquadrabile e presenta caratteristiche per certi versi comuni a quella di molti altri intellettuali dell’epoca: reduce dalla Prima guerra mondiale, nella quale aveva perso il fratello minore Vico e guadagnato due medaglie al valore dopo essere stato vittima dei gas asfissianti, nel 1917 Lodovici aveva scontato un anno di prigionia nel carcere di Theresienstadt, in Boemia; laureato in legge, ma scrittore e autore teatrale per vocazione, alle idee liberali univa un forte spirito antiborghese; a ciò si aggiunga, a chiudere il quadro, l’appartenenza a una famiglia di industriali del marmo che a Carrara, come molte altre e più potenti famiglie del comprensorio apuano, Lodovici_L'Idiotapartecipavano strategicamente alla vita politica cittadina aderendo all’una e all’altra organizzazione per mantenere inalterata la propria influenza intorno al tema cruciale del possesso degli agri marmiferi. Negli anni di cui ci stiamo occupando, la crisi politico-sociale del dopoguerra aveva infatti accentuato le aspirazioni delle masse popolari e dei cavatori verso la riappropriazione delle cave, anche in seguito alla proposta di legge mineraria presentata alla Camera dall’on. Eugenio Chiesa il 22 marzo del 1920.
A Carrara il sindaco Edgardo Lami Starnuti non seguì la politica del Ministro, anch’esso repubblicano, e la lotta politica per il possesso delle cave passò nelle mani della Camera del Lavoro di cui in quegli anni era segretario Alberto Meschi. Quest’ultimo, in una Lettera aperta a Benito Mussolini individuava negli esponenti delle famiglie proprietarie degli agri marmiferi i sostenitori e gli aderenti allo squadrismo: Ghino Faggioni e Gualtiero Betti fra tutti e poi quelli che ruotano intorno a questo sistema socio-politico: i Corsi, i Giorgi, i Lodovici, gli Ascoli, i Salvini, i Gattini, i Dell’amico, tutti nomi di famiglie già presenti e poi elette nel Direttivo del Partito liberale a partire dal maggio del 1921.

Ritratto di Lodovici

Ritratto di Lodovici

A gennaio di questo stesso anno, anche Renato Ricci era rientrato in città da Fiume e, iscritto inizialmente al fascio di Pisa, dopo aver fondato l’Associazione dei Reduci fiumani, esordisce nella politica locale all’interno della già menzionata Associazione Democratica Liberale Carrarese che si stava organizzando, appunto, in vista delle elezioni politiche indette per il 15 maggio, dopo lo scioglimento della Camera voluto da Giolitti a fine febbraio. Oltre a Ricci, il «Giornale di Carrara» del 9 aprile 1921, organo di stampa del partito, indica nel nuovo consiglio direttivo liberale anche Tommaso Lodovici, fratello maggiore dello scrittore, poi eletto nel Consiglio comunale presieduto dal sindaco repubblicano Lami Starnuti.
Le elezioni politiche passeranno però in secondo piano dopo che lo stesso Ricci, il 12 maggio di quell’anno, fonda a Carrara la sezione locale dei Fasci di combattimento in cui confluiscono sia gli ex-legionari fiumani sia alcuni membri dell’appena rinnovato Partito liberale.
Nei mesi successivi i giornali locali iniziano il racconto degli scontri e delle violenze che da quel momento in poi furono all’ordine del giorno, così come gli atti provocatori e le vendette che lo squadrismo locale organizzò nel territorio apuano contro socialisti e anarchici e, all’inizio dell’anno successivo, all’interno dello stesso movimento fascista provocando la fine dell’alleanza tra liberali e repubblicani e la conseguente caduta dell’amministrazione Lami Starnuti a gennaio del 1922: a questo punto la spaccatura tra squadristi intransigenti e normalizzatori fu insanabile.
Lodovici appartiene chiaramente alla seconda delle due, all’ala moderata del partito come si deduce dai suoi interventi sulle colonne di «Alalà!»: favorevole ai Patti di pacificazione, egli conferma più volte la sua posizione statalista e pubblica accorati appelli alla disciplina in cui chiede con forza la fine della violenza.
La sua fiducia nel capo, anche dopo le dimissioni di Mussolini, non verrà mai meno – almeno in questo periodo – ed egli tenta più volte di riportare all’unità le divergenze interne al movimento, per cui fu uno dei sostenitori della necessità di trasformare il movimento dei Fasci di combattimento in un vero partito politico, cosa che accadrà a Roma il successivo 8 novembre.
L’azione politica del nuovo partito dovrà basarsi, secondo Lodovici, su un programma di rinnovamento civile e sociale a partire dalla questione che, più di ogni altra a Carrara, aveva scatenato gli scontri tra fascisti, socialisti e anarchici: il controllo degli agri marmiferi e il commercio del marmo che non potevano essere separati dal controllo della Camera del Lavoro. Ai primi di settembre, infatti, i fascisti annunciano la costituzione della Camera Carrarese dei Sindacati Economici invitando gli operai ad associarsi e a ritirare le tessere.
Lo scontro allora fu inevitabile: alcuni industriali iniziarono ad esigere la tessera fascista e a licenziare chi, invece, continuava ad avere quella della Camera del Lavoro. Nel mese di settembre la violenza, mai veramente cessata, diventò di nuovo lo strumento principale della politica fascista e fu diretta ancora più apertamente contro i rappresentanti del sindacato.

Lodovici in auto [1923]

Lodovici in auto [1923]

Ad ottobre Renato Ricci concedeva ad Alberto Meschi due ore di tempo per lasciare la città e sgomberare l’edificio in cui aveva sede la Camera del Lavoro.
A questo punto Lodovici pubblica su «Alalà!» ancora un paio di articoli: il 20 settembre partecipa alla manifestazione per la Solenne Consegna del Gagliardetto al Fascio Carrarese di Combattimento e prende la parola con Ricci, Faggioni e Dino Perrone Compagni per ricordare i termini della lotta tra il Sindacato e la Camera del lavoro.
Sarà uno dei suoi ultimi contributi perché l’8 ottobre del 1921 pubblica il suo Congedo in una lettera in cui saluta Renato Ricci, defilandosi così dall’esperienza squadrista e dalla direzione del giornale.
Sul numero successivo, del 15 ottobre 1921, Lodovici non è più indicato come direttore del settimanale, la grafica del periodico è completamente cambiata e l’unico gerente responsabile è di nuovo Lodovico Canepa. Anzi il 29 ottobre, quando Lodovici interviene con un ultimo articolo, una nota della direzione precisa che quell’articolo non impegna alcun fascista a dover condividere tutte le idee esposte.
Nel 1923 Lodovici tentò ancora una volta, ma senza successo, di riconciliare le due correnti del fascismo carrarese quando Ricci si scontrò con il nuovo sindaco di Carrara, Bernardo Pocherra, costringendo alle dimissioni lui e l’ala liberal-conservatrice del partito.
Probabilmente, già a questa altezza cronologica, la fiducia che Lodovici poteva ancora riporre in una possibile svolta liberale del fascismo doveva essere minima e ciò spiega in qualche modo sia la solidarietà e l’amicizia dimostrata a Piero Gobetti sia il suo impegno nella direzione del «Quindicinale», rivista da lui fondata a Milano nel 1926 con Enrico Somarè, che non fu certamente su posizioni filo-fasciste.
È significativa, in questo senso, una lettera da Viareggio del 9 giugno 1923 in cui Lodovici esprime a Gobetti la sua solidarietà: «Ho sentito le sue disavventure; in parola d’onore io non capisco più il mondo – come quel legnaiolo di Hebbel nella Maria Maddalena. Ma: passerà. Io sono convinto che il liberalismo illuminato sarà l’erede del fascismo
Il 19 luglio del 1930 è ancora di Lodovici la firma in calce alla Vibrante e commossa rievocazione dei fatti di Sarzana pubblicata su «Il popolo apuano», organo della federazione provinciale fascista, per commemorare i morti del 21 luglio; ma già nell’autunno del ‘21, quando si congedava da Ricci, Lodovici doveva aver compreso che il liberalismo illuminato sarebbe arrivato probabilmente solo dopo la fine del fascismo.

Le foto pubblicate in questo articolo sono del prof. Gualtiero Magnani di Carrara, che ringraziamo per la gentile concessione. Ogni altro uso, condivisione con terzi e riproduzione non sono consentite.




ROSARIA BERTOLUCCI, romana di nascita versiliese d’adozione

Rosaria Ciampella nasce a Roma il 23 aprile 1927 da una famiglia borghese, riceve una formazione culturale essenzialmente umanistica dalla quale trae l’amore per la letteratura e la storia.

Di fronte alla drammaticità della guerra, al disastro italiano e allo shock del primo grande bombardamento di Roma, il 16 luglio 1943, che causò oltre tremila morti e undicimila feriti, la giovane Rosaria matura la propria scelta di vita, iscrivendosi al Partito socialista – anche se poi non militerà mai attivamente nell’organizzazione –[1]. All’ideale del socialismo è sempre rimasta fedele seppur negli anni della maturità si sia avvicinata anche alla cultura libertaria.

Nel novembre del 1944 supera, con un buon risultato, il concorso di ammissione alla Facoltà di Magistero di Roma per il corso in materie letterarie ma, la precarietà della situazione generale dovuta alla guerra che condiziona la vita della sua famiglia e il successivo precoce matrimonio, la costringeranno con rammarico ad abbandonare gli studi universitari.

Dunque, originaria di Roma ma ‒ come amava definirsi ‒ versiliese d’adozione, in questa terra approda nel 1946 quando si sposa con un giovane di Pietrasanta. Durante questi anni non abbandona la propria voglia di scrivere e di leggere; ne sono testimonianza alcune lettere a direttori di periodici e riviste a cui invia i propri lavori, tra questi lo scrittore Corrado Alvaro che esprime il proprio apprezzamento per la sua scrittura[2].

Nel 1969 approda a Carrara dove gestisce una libreria e dove inizia un’intensa attività culturale e giornalistica. In questi anni conosce e frequenta assiduamente molti esponenti della cultura e dell’arte di Carrara, della Versilia e non solo come il fotografo Ilario Bessi, lo scultore Carlo Sergio Signori, il pittore Mino Maccari, la pianista Pina Telara e lo scrittore Carlo Cassola[3].

Nel 1978 arriva il riconoscimento più importante, è il primo premio assoluto per la narrativa al Morganti di Viareggio per il suo lavoro su Enrico Pea[4], precedentemente il saggio era stato selezionato nella sezione saggistica opera prima al Premio Viareggio, all’epoca ancora diretto da Leonida Repaci[5].

Sibilla_Aleramo_006In pochi anni – dal 1978 al 1983 – pubblicherà cinque monografie di storia della letteratura, oltre a quella su Pea, un saggio su Tomasi di Lampedusa[6], un altro su Cardarelli[7], quello sullo pittore/scrittore viareggino Lorenzo Viani che riceverà poi il premio Montecatini (VII edizione)[8] e, infine, uno studio su Sibilla Aleramo[9].

Di quest’ultima opera si evidenzia, in una recensione pubblicata dalla redazione viareggina de «La Nazione», che la scrittrice “versiliese” ha voluto scegliere «una particolare angolazione» per analizzare l’opera della Aleramo indagando non solo l’aspetto intellettuale ma anche la «donna» e con uno stile asciutto e semplice ha stilato «un profilo squisitamente femminile, al tempo stesso immerso nei problemi contemporanei»[10]. Il testo è aperto da una  presentazione di Carlo Cassola che aveva letto e apprezzato il lavoro in bozze nella primavera/estate del 1980.

Questi saggi rappresentano il principale corpus di critica letteraria di Rosaria Bertolucci, scritti con una lingua ricca e fluida, alimentata da una tensione interna sì che molte sono le pagine in cui la prosa si rivela, a volte, autentica poesia, corredati da un’accurata documentazione, testimonianza tangibile dell’attenzione alla narrativa contemporanea.

In particolare il saggio dedicato a Viani scrittore riesce a ricostruire e reintegrare da un punto di vista storico tutto l’arco dell’esperienza umana del pittore viareggino, narratore e poeta di personaggi della cultura sotterranea e dei senza volto della Versilia.

Il libro verrà presentato alla biblioteca comunale Lorenzo Quartieri di Forte dei Marmi il 17 maggio 1980. Nell’occasione interverrà Vittorio Vettori, poeta, scrittore, critico letterario e dantista[11], che avrà parole di elogio, sottolineando come l’opera critica sullo scrittore Viani della Bertolucci è

un omaggio intelligente e affettuoso alla terra versiliese e all’estroso ed energico genius loci da cui essa è abitata. Chi infatti è più vicino di Viani a tale estro e a tale energia? E anzi si potrebbe dire che il vero genius loci della Versilia sia lui, Lorenzo Viani in persona, così come ci viene incontro dal mirabile monumento viareggino di Arturo Martini, così come – sopra tutto – possiamo sempre ritrovarlo e riscoprirlo nella drammatica galleria delle sue incisioni e delle sue tele non meno che nelle appassionate e appassionanti testimonianze della sua geniale presenza di singolarissimo outsider del Novecento letterario italiano. Rosaria Bertolucci si è accostata appunto al Viani scrittore, rinvenendone fin dal principio il tratto distintivo fondamentale: il colorismo espressionistico e quindi non descrittivo, ma tragico della «parola».
«Parola come colore», la formula critica adoperata dalla Bertolucci nel sottotitolo del suo libro, risulta felicemente indicativa e calzante, se la si intende, com’è ovvio, in rapporto alla speciale figuratività dell’arte di Viani pittore e incisore, in rapporto alla luce cruda e tagliente che si raggruma e si fa colorata espressione (o espressivo colore) in quell’arte[12].

Ma torniamo a Pea: il libro che esce a maggio del 1978[13], è forse quello più amato dalla Bertolucci non solo perché è il primo ma perché le permette di introdursi in punta di piedi nei salotti culturali versiliesi. È presumibile che l’idea del libro sullo scrittore versiliese sia nata qualche anno prima, grazie all’incontro con l’insegnante Emilio Paoli, un testimone attento dell’ultimo periodo di vita di Pea, suo estimatore e critico, autore di un prezioso volume sulla sua poetica[14].

Il volume viene presentato il 15 luglio a Forte dei Marmi, proprio al Quarto platano al caffè Roma di Piazza Garibaldi, luogo simbolo, cenacolo di artisti e scrittori della prima metà del Novecento[15]. Alla presentazione partecipano i figli di Pea, lo scrittore Rodolfo Doni[16], il professore Giovanni Scarabelli, Roberto Monciatti – presidente dell’ACREL di Viareggio – e i titolari della Libreria Internazionale che sono fra gli organizzatori[17].

Pea_Enrico_004L’interesse e gli studi su Pea fanno sì che la Bertolucci incontri l’editore Marco Carpena di Sarzana[18]. Quest’ultimo è stato fondatore tra il 1952 e il 1954, insieme con Renato Righetti e Giovanni Petronilli del premio Lerici, dedicato alla poesia inedita, ai quali si aggiunge poco dopo anche Enrico Pea. Nel 1958, alla morte dello scrittore versiliese e in suo ricordo, l’appuntamento letterario diventerà premio Lerici-Pea.

Dall’incontro con Carpena nascono due progetti editoriali nei quali la Bertolucci è coinvolta pienamente.

Il primo è un instant-book che prende vita proprio sull’onda dell’anniversario della scomparsa dello scrittore versiliese, Pea vent’anni dopo[19], che esce per i tipi di Carpena nel settembre del 1978 e che contiene ben sei interventi della Bertolucci che cura senza firmarla anche la bibliografia finale del volume[20].

Il secondo è collegato alle giornate di studio che si terranno a Viareggio nel mese di aprile del 1980[21]. Nell’occasione si svolge un’importante tavola rotonda cui partecipano oltre alla Bertolucci, i docenti dell’Università di Pisa, Carlo Quiriconi e Anna Barsotti, insieme a Silvio Guarnieri, autorevole critico letterario e titolare sempre presso l’ateneo pisano della cattedra di Storia della Letteratura italiana. Gli atti di quella tavola rotonda verranno editi da Carpena e ancora oggi sono un utile riferimento bibliografico per la conoscenza dello scrittore versiliese[22].

Nel 1979 esce Il principe dimenticato recensito positivamente dallo studioso Emilio Paoli nelle pagine del «La Nazione». L’opera della Bertolucci è considerata «uno studio serio e sereno su tutta l’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa» e propone «una rilettura» a tutto tondo dello scrittore siciliano rompendo il silenzio della critica a vent’anni dalla prima edizione del Gattopardo[23].

Anche lo studio su Vincenzo Cardarelli, che riceverà il 1° premio Casentino per la saggistica[24], è dedicato ad un aspetto poco conosciuto del poeta quello di pubblicista, soprattutto legato alla sua collaborazione giovanile al quotidiano socialista l’«Avanti!» dove inizia la propria attività come correttore di bozze. In queste cronache, studiate dalla Bertolucci e, allora, poco analizzate dalla critica, Cardarelli mostrava di essere un acuto osservatore del costume e dell’ambiente romano in un momento cruciale e delicato della storia del Paese e attraversato da mille inquietudini, quello che precedette il primo conflitto mondiale[25].

Parallelamente a queste attività dal 1977 la Bertolucci inizia a collaborare stabilmente con la stampa quotidiana locale, suoi scritti si ritrovano sia nella cronaca versiliese che in quella di Carrara de «La Nazione». La collaborazione a questo quotidiano, che si protrarrà per dodici anni consecutivi, verte essenzialmente su due ambiti: quello sociologico e quello storico/culturale cui dedica una produzione attenta di tipo divulgativo.

Per la Bertolucci capire la storia significava comprendere i rapporti causa-effetto che legavano il presente al passato. Per cogliere i frutti della storia, quindi, era necessario che questa fosse conosciuta il più approfonditamente e dal maggior numero di persone possibili. E per raggiungere questo obiettivo era fondamentale che la storia, oltre ad essere insegnata bene nelle scuole, venisse anche divulgata. È dunque soprattutto in questo senso che va letto il suo lavoro che mira alla divulgazione della storia politica, sociale e culturale del territorio attraverso un fiume prorompente di articoli e saggi sparsi su quotidiani, riviste e pamphlet. La scrittrice opera un’intelligente e originale sintesi dei diversi aspetti che connotano il profilo di una comunità, ricostruendo gli eventi in maniera rigorosa, ma non accademico, utilizzando lo stile, piano e ordinato, accattivante e fluido tipico dei divulgatori.

Negli oltre novecento articoli e scritti vari di quegli anni, ne spiccano un centinaio che – direttamente o indirettamente – trattano della storia sociale, economica, politica e culturale nella città del marmo e del territorio apuo-versiliese, ora in parte raccolti in un volume appena uscito[26]. Non sono banali articoli di cronaca, ma veri e propri saggi di ambito storico che il lettore di allora de «La Nazione» poteva leggere come capitoli di un libro in divenire.

L’azione svolta dalla Bertolucci tramite le pagine del giornale non passò inosservata tanto che due “anziani” militanti dell’anarchismo, come Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi, la vollero conoscere e coinvolgere nelle loro attività.

La Bertolucci aveva già iniziato da tempo un approfondito studio sulla storia di Carrara e del suo territorio. Ne sono testimonianza diversi articoli che escono nel 1978, sempre sulle pagine de «La Nazione», dedicati a figure locali e/o nazionali la cui storia si è intersecata con quella della città del marmo come Cesare Vico Lodovici, Giovanni Fantoni, Domenico Cucchiari, Gabriele D’Annunzio, Antonio Stoppani, Lorenzo Viani, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e Pellegrino Rossi.

Va ricordato che in questi anni la Bertolucci è un’assidua frequentatrice dell’Archivio di Stato di Massa e dei principali centri culturali del territorio come le Biblioteche civiche di Carrara e di Massa, l’archivio e la biblioteca dell’Accademia di Belle Arti, quella della Camera di Commercio di Carrara. Conosce e frequenta le raccolte private di alcune famiglie, come quella di Paolo Micheli Pellegrini[27] e di Cesare Vico Lodovici, di cui conosce e frequenta il fratello Renato o quella di esponenti politici come il comunista Antonio Bernieri che, proprio nel 1977, insieme a Lorenzo Gestri aveva fondato l’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense. Infine, conosce e studia materiali preziosi per la storia novecentesca della città, come il diario dattiloscritto, dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, di Augusto Ciaranfi, direttore della Banca Commerciale, succursale di Apuania, all’epoca ancora inedito[28].

Una prima prova delle capacità che la Bertolucci ha acquisito nella lettura integrata dei fenomeni sociali, culturali e politici si ha in occasione della pubblicazione di un’inchiesta storica sulla nascita e lo sviluppo della stampa periodica nella provincia che esce a puntate tra l’aprile e il giugno del 1979 nelle pagine di cronaca locale della «Nazione»[29].

Dunque, quando la Bertolucci incontra Mazzucchelli e Marzocchi, i due sanno benissimo chi hanno di fronte e capiscono che un accordo tra i tre è potenzialmente foriero di buone iniziative. Gli anziani militanti, ormai prossimi agli ottant’anni, hanno l’urgente bisogno di trasmettere alle future generazioni non solo la propria storia ma anche quella della loro generazione. Si mettono subito al tavolo di lavoro e l’intesa è ben presto trovata. È presumibile che la prima idea sia proprio quella di un progetto che riguarda un momento essenziale delle memorie dei due militanti: l’esperienza spagnola per Marzocchi e quella resistenziale per Mazzucchelli. Non sarà un caso, come vedremo, l’uscita nel 1988 della biografia di Ugo Mazzucchelli[30] mentre per quella di Marzocchi il progetto, a causa della malattia e poi della morte del protagonista nel giugno del 1986, non vedrà la luce.

Novantaquattro_003La creatività e lo spirito d’iniziativa la portano a travalicare l’accordo e a progettare, una storia romanzata del moti del ’94. Durante tutto il 1980 la Bertolucci lavora intensamente e nell’autunno consegna la bozza ai due militanti, che l’approvano senza esitazione, e nel febbraio del 1981 vede la luce Milleottocentonovantaquattro[31].

Nel volume emerge con forza la vene letteraria dell’autrice che, in una lettera di accompagnamento alla pubblicazione, nel rivendicare che i moti «sono un fenomeno carrarese e non genericamente della Lunigiana», avverte «di non aver scritto un testo di storia né tanto meno un saggio rivolto agli addetti ai lavori», ma di aver voluto semplicemente raccontare in forma prosastica ai più giovani quanto era avvenuto alla fine dell’Ottocento. L’aver scelto la «forma del racconto» non vuole minimamente sminuire il significato e la portata politica, sociale e storica di quei fatti ma tentare di «farli rivivere, intatti ed attuali», come un «frammento di storia locale umanamente vissuto sullo sfondo di un più vasto contesto» nazionale e internazionale[32].

Il libro viene presentato a Carrara il 6 aprile 1981 nella sala comunale con la partecipazione di storici come Lorenzo Gestri[33] e Nunzio Dell’Erba.

Contemporaneamente la Bertolucci ha avviato una ricerca riguardante la storia della ferrovia marmifera che, nonostante ormai fosse chiusa da quasi due decenni, continuava a far discutere la politica locale a causa della pratica di liquidazione dei suoi debiti pregressi, insomma, come in anni più tardi scriverà la scrittrice, tutta la storia di questa impresa rappresentava, con i suoi protagonisti e con le sue vittime, una tipica vicenda all’italiana.

Il saggio è il primo lavoro in assoluto che ricostruisce complessivamente tutta la storia di questa ardita arteria ferroviaria, inaugurata nella seconda metà dell’Ottocento, che collegava i bacini marmiferi con la stazione ferroviaria di Avenza e il porto marittimo di Marina di Carrara. Il lavoro venne pubblicato a puntate sulla rivista «Carrara marmi» del Centro studi del marmo del Comune, tra il 1980 e il 1982[34], poi successivamente è stato ripubblicato dal quotidiano «le Città», anche se in forma ridotta, e poi utilizzato per alcune lezioni tenute dalla Bertolucci  all’Università della Terza Età nel secondo biennio di attività dei corsi, tra il 1989 e l’inizio del 1990.

Dunque, la Bertolucci, è un’attenta e curiosa studiosa di storia locale e non manca di partecipare a ogni evento di ambito storiografico che si svolge in città. Nell’aprile del 1980 assiste al convegno organizzato dall’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense sulla resistenza in Apuania che vede la partecipazione di esponenti di rilievo nazionale tra i quali il senatore Leo Valiani, Leonetto Amadei, presidente della Corte costituzionale, lo storico Franco Catalano e Franco Francocivh, presidente dell’Istituto storico regionale della Resistenza. L’incontro, di cui la Bertolucci darà un puntuale resoconto dalle pagine de «La Nazione»[35], è un ulteriore stimolo allo studio della guerra civile che ha insanguinato il nostro paese prima nel biennio nero del 1921-’22 e poi tra il 1943-’45, e che aveva profondamente segnato la storia della provincia di Massa e Carrara.

L’argomento verrà trattato dalla Bertolucci in più di un’occasione e poi, come detto, troverà una sintesi nella biografia del partigiano anarchico Ugo Mazzucchelli.

In quello stesso anno il regista Luigi Faccini presenta il film Nella città perduta di Sarzana che viene poi proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia. Il film racconta un episodio drammatico della guerra civile, accaduto a Sarzana il 21 luglio 1921, tra fascisti e antifascisti dove i primi ebbero la peggio. Il film è strutturato sulla dettatura del rapporto da parte del prefetto Vincenzo Trani, incaricato dall’allora Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, di riportare la pace e l’ordine nella cittadina. Il film, che nell’estate dell’anno successivo verrà trasmesso in due serata anche dalla RAI, fu proiettato in diverse città italiane, tra cui Carrara, suscitando dibattiti e prese di posizione.

Anche la Bertolucci intervenne con un articolo pubblicato dalla «Nazione» in due parti ai primi di settembre. Lo scritto si soffermava in particolare sul ruolo del ras Renato Ricci, ricostruendone anche in parte la biografia. Ad analizzare l’articolo si comprende come la scrittrice tentasse di capire come fosse nata, anche in una città di provincia come Carrara, quella frattura nella società italiana, causata dalla guerra civile proclamata dal fascismo, che avrebbe avuto un seguito non solo nel 1943-’45 ma anche nefaste influenze nella storia repubblicana.

Successivamente si impegna nello studio della Resistenza a Carrara di cui un primo abbozzo viene pubblicato a puntate nella primavera del 1984 in sette puntate da «La Nazione» tra l’aprile e il maggio 1984. La ricerca, costruita sulla documentazione dell’archivio del CLN conservato a Firenze presso l’Istituto Storico Regionale della Resistenza, e su testimonianze dirette di alcuni protagonisti come lo stesso Mazzucchelli, Antonio Bernieri e altri.

Nell’autunno del 1988 esce l’ultima monografia della Bertolucci, quella dedicata proprio a Ugo Mazzucchelli, con la quale si completa il ciclo di studi avviato dieci anni prima sulla genesi dell’antifascismo locale e sull’esperienza resistenziale.

Il libro viene presentato sabato 19 novembre 1988 al Centro culturale Amendola di Avenza, con la partecipazione accanto all’autrice e a Ugo Mazzucchelli, degli storici Enzo Santarelli e Pier Carlo Masini. Per il primo il libro non vuole essere un saggio e nemmeno una semplice biografia e ha la sua ragion d’essere nell’«aria» di Carrara e nella figura particolare di Mazzucchelli, un anarchico ragionante. Mentre, per Masini il libro rappresenta bene lo spirito di questa terra «incline al radicalismo», come altri territori dell’Italia centrale, Umbria, Marche, Romagna e parte dell’Emilia, dove la «spinta verso forme politiche tese alla libertà e alla democrazia» è stata la principale risposta a lunghi anni di governi reazionari e repressivi.

Un’ampia recensione del libro viene pubblicata dal quotidiano «le Città» nel quale si sottolinea forse il pregio maggiore del libro che è quello di essere volutamente «divulgativo, scritto non per storici o per specialisti di storia locale, ma per far conoscere questa figura di uomo a tutti», al di là degli schieramenti precostituiti. Uno strumento utile per comprendere non solo la vita di Mazzucchelli, che l’editorialista definisce «costruttore di storia», ma anche le peculiarità di un movimento, come quello libertario, che ha avuto una storia così complessa e articolata nel territorio apuano. Un libro «dichiaratamente di parte» dove, inevitabilmente, la «Bertolucci subisce il fascino del personaggio» ma con uno stile giornalistico sa renderlo nella sua più piena dimensione umana e politica[36].

L’approccio biografico scelto dalla Bertolucci, per raccontare una pagina importante della storia novecentesca dell’anarchismo a Carrara, si inserisce bene sul piano storiografico in quegli anni nei quali il genere biografico si va affermando nella ricerca storica. Un approccio innovativo che mette al centro delle attenzioni del lettore l’individuo come entità al quale ricongiungere la ricostruzione storiografica. Una narrazione nella quale vengono coniugati oltre agli aspetti prettamente storico-politici anche quelli di natura sociologica, culturale, antropologica e psicologica, un approccio che troverà nei decenni successivi ampia fortuna nella storiografia dedicata al genere biografico. Una questione, quella dell’affermazione del genere della biografia nella storiografia contemporanea, che solleciterà Alceo Riosa, nei primi anni Ottanta, a interrogarsi sulla relazione tra la «crisi dello storicismo» e l’ingresso della biografia nel tempio di Clio:

La perdita della dimensione teologica della storia ha favorito una più larga attenzione verso gli agenti storici, gli uomini, le motivazioni delle loro scelte, non più riportabili allo Spirito del Mondo né più unicamente riferibili alle leggi della struttura economica. L’uomo nella storia certo, ma con una sua autonomia e relativa libertà di scelta[37].

Nel febbraio 1988 la Bertolucci è tra le promotrici dell’Università della Terza età organizzata dalla Comunità montana e dalla Circoscrizione 4 del Comune di Carrara. È titolare del corso di storia locale e, nell’estate del 1988 e in quella successiva, anche di un corso di latino per le prime classi dei licei e dei ginnasi sempre su incarico dell’amministrazione comunale.

Le forze iniziano a mancare: nella primavera del 1989, gli effetti della malattia si fanno più palesi e deve ridurre le sue attività, alla fine dell’anno chiude l’agenzia libraria e sospende le sue collaborazioni alle diverse testate giornalistiche. Ha ancora la forza per portare a termine le lezioni del secondo ciclo dell’Università della Terza Età e completare il suo ultimo libro, quello dedicato al fotografo Ilario Bessi, scomparso tre anni prima, testo che cura, come già accennato, con due dei colleghi giornalisti, Romano Bavastro e Vittorio Prayer, con cui ha condiviso dodici anni di professione e lavoro comune[38].

Una stagione unica e irripetibile crediamo, quella vissuta dalla scrittrice, nella quale la cultura locale trovò una persona sensibile, leale e generosa che ha fatto conoscere ad un ampio pubblico la storia sociale e politica del territorio apuo-versiliese e della città del marmo, una città – e con essa molti dei suoi cittadini –  che la scrittrice ha tanto amato e che l’ha resa felice. Per questo le siamo infinitamente grati e riconoscenti.

Rosaria Ciampella Bertolucci muore all’ospedale civile di Camaiore il 28 ottobre 1990.

Note

[1] Nell’archivio personale della Bertolucci è conservata la tessera n. 261300, anno 1945, della Sezione del rione Trevi di Roma. Nelle carte è conservato anche un biglietto/invito, con data 15 maggio 1945, della sezione ANPI III zona Monte Sacro indirizzato alla “partigiana Rosaria Ciampella” per una conferenza pubblica il 20 maggio del partigiano Riccardo Antonelli, in occasione dell’inaugurazione della Sezione partigiani del Circolo socialista. Quest’ultimo è stato il comandante della III zona, arrestato dai nazi-fascista il 16 maggio 1944 è torturato in via Tasso senza cedere ai suoi aguzzini. Durante gli anni dell’occupazione nazi-fascista di Roma è probabile che Rosaria abbia stretto vincoli sodali di collaborazione, soprattutto in ambito socialista, nella lotta antifascista e questo biglietto ne è una prova ma, per la sua giovane età e per la mancanza di ulteriore documentazione non possiamo stabilire una sua partecipazione diretta alla Resistenza.
[2] Archivio BFS, Carte R. Bertolucci, Corrispondenza, Lettera di C. Alvaro a R. Bertolucci, Roma, 28 agosto 1946.
[3] Carlo Cassola (1917-1987), antifascista, partigiano scrittore e saggista di fama internazionale, quando conosce la Bertolucci è particolarmente impegnato con il progetto della Lega per il disarmo unilaterale e nell’ambito di queste attività conosce e frequenta gli anarchici, in particolare Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi.
[4] Premio 1978 «A. Morganti». Resi noti i vincitori, «Il Tirreno» (cronaca di Viareggio), 12 lug. 1978.
[5] Viareggio, seconda rosa, «La Nazione», 2 giu. 1978; I concorrenti al «Viareggio» per l’opera prima, «Il Tempo», 2 giu. 1978.
[6] R. Bertolucci, Il principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979.
[7] R. Bertolucci, Cardarelli sconosciuto, Firenze, La Ginestra, 1980.
[8] Lorenzo Viani scrittore e Cardarelli pubblicista. Due nuovi libri di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 2 aprile 1980. Cfr. A Rosaria Bertolucci il premio Montecatini, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 28 novembre 1981.
[9] R. Bertolucci, Sibilla Aleramo, una vita, prefazione di Carlo Cassola, Viareggio-Avenza, Centro studi di letteratura contemporanea-Centro studi sociali e Sea, 1983.
[10] Fr. A., Saggio su Sibilla di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 25 set. 1983.
[11] Vittorio Vettori (1920-2004) originario del casentino ha vissuto tutta la sua vita a Firenze, è stato presidente dell’Accademia Pisana dell’Arte-sodalizio dell’Ussero, segretario generale dell’Associazione «Amici della Rassegna di Cultura e vita scolastica», Membre d’honneur della Société libre de poésie di Parigi e fondatore nonché direttore della «Lectura Dantis Internazionale» di Pisa.
[12] Il testo del suo intervento si può leggere in V. Vettori, Figuratività e scrittura di Lorenzo Viani, «Messaggero Veneto», 18 mag. 1980.
[13] Esce «Pea uomo di Versilia» nel ventennale della morte, «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 23 mag.1978; Un libro su Pea «uomo di Versilia», «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 24 mag. 1978.
[14] Cfr. E. Paoli, Pea: la poesia della malizia, Sarzana, Carpena, 1973.
[15] Cfr. R. Pellegrino, Vent’anni fa moriva Pea, oggi solenne commemorazione, «Il Tirreno» (cronaca regionale), 11 agosto 1978.
[16] Rodolfo Doni, nom de plume di Rodolfo Turco (1919-2011), è stato uno scrittore e banchiere considerato uno dei più rappresentativi intellettuali d’ispirazione cattolica del ’900.
[17] Ricordato Enrico Pea nel ventennale della morte, «La Nazione» (cronache della Versilia), 20 lug. 1978. In ricordo di Enrico Pea, «La Nazione» (cronache della Versilia), 14 lug. 1978; Commemorato E. Pea, «Il Tirreno» (Cronaca di Viareggio), 18 lug. 1978; Presentato al Forte il libro «Pea uomo di Versilia», «La Nazione» (cronache della Versilia), 21 lug. 1978. M.B., Incontro su «Pea uomo di Versilia», «L’Ariete», set. 1978, p. 19.
[18] Marco Carpena (1914-1985) è un noto animatore culturale soprattutto nei decenni Cinquanta-Settanta non solo nell’ambito editoriale.
[19] Pea vent’anni dopo, Sarzana, Carpena, 1978. Contiene interventi oltre che della Bertolucci di Emilio Paoli, Marco Carpena, Alfredo Catarsini, Danilo Orlandi, Eugenio Pardini, Giovanni Petronilli e Renato Santini. Si v. a proposito la recensione di A. Caggiano, Pea vent’anni dopo, «Giustizia nuova», 15 dic. 1978.
[20] Si tratta dei saggi: Nella libreria di Franceschi; L’amicizia con Ungheretti; Primo ritorno in patria; La capanna della Bohème; Confidenze in libreria, pp. 27-37; Sintesi biografica, pp. 69-71. La bibliografia delle opere di Pea, l’elenco dei racconti ed articoli per quotidiani e riviste e la rassegna hanno scritto su Enrico Pea, pp. 72-83.
[21] La settimana di studio su Enrico Pea si svolge a Viareggio dal 14 al 20 aprile 1980 con una mostra bio-bibliografica alla Biblioteca comunale, la tavola rotonda il 19 aprile e una rappresentazione del Maggio in Passeggiata di fronte a Piazza Mazzini. Cfr. Viareggio ricorda il «suo» Enrico Pea, «Il Popolo», 13 mag. 1980.
[22] Dedicato a Enrico Pea: settimana di studio, 14-20 aprile 1980, Biblioteca Comunale “Guglielmo Marconi”, Viareggio, curatori: O. De Ambris, M. Simoncini, A. Vannucci; tavola rotonda: A. Barsotti, R. Bertolucci, S. Guarnieri, A. Quiriconi, Sarzana, Carpena, 1980.
[23] E. Paoli, Scrittrice versiliese ripropone Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Principe dimenticato, «La Nazione» (cronaca della Versilia), 15 apr. 1979.
[24] A Rosaria Bertolucci il premio «Casentino» di saggistica, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 9 ago. 1979.
[25] Rosaria Bertolucci: due preziosi saggi, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 9 apr. 1980.
[26] R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ’800 e ’900, Pisa, BFS edizioni, 2020.
[27] Paolo Micheli Pellegrini (1924-2007), discendente di una famiglia aristocratica. persona di grande erudizione, nonché formidabile collezionista di documenti storici è stato nel 1994 tra i fondatori dell’Accademia Aruntica.
[28] Cfr. A. Ciaranfi, Diario della Banca commerciale italiana succursale di Apuania Carrara dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, Carrara, Edizione per il comune di Carrara a cura di Acrobat Media ed., 2005.
[29] L’inchiesta venne pubblicata su «La Nazione» (cronaca di Carrara) in cinque puntate.
[30] Cfr. R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, introduzione di P. C. Masini, Carrara, FIAP, 1988, ristampato poi con il titolo Ugo Mazzucchelli un anarchico e Carrara, Carrara, Società editrice apuana, 2005.
[31] R. Bertolucci, Milleottocentonovantaquattro storia di una rivolta, Carrara, Gruppo anarchici riuniti (G.A.R.), 1981.
[32] Cfr. Storia di una rivolta. Edito dai Gar è uscito un interessante saggio di Rosaria Bertolucci sui «moti» del 1894, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 11 mar. 1981.
[33] Lorenzo Gestri (1943-2002), docente di storia contemporanea presso l’Università di Pisa è stato un fine e profondo conoscitore della storia sociale e del movimento operaio carrarese e in generale della Toscana Nord-Occidentale.
[34] R. Bertolucci, La Ferrovia marmifera forse una storia (1a parte), «Carrara marmi», mar. 1980, pp. 16-21. 2a parte, mar. 1981, pp. 21-24; 3a parte, mar. 1982, pp. 17-24; 4a parte, giu. 1982, pp. 13-18; 5a parte, set. 1982, pp. 21-23.
[35] R. Bertolucci, Al convegno di studi storici. La Resistenza cominciò nel ’21, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 3 aprile 1980.
[36] Ugo Mazzucchelli costruttore di storia. È uscito il libro edito dalla SEA, «le Città», 3 nov. 1988.
[37] Cfr. Biografia e storiografia, a cura di A. Riosa, Milano, F. Angeli, 1983, p. 13.
[38] «Luci di marmo». Omaggio al maestro e alla sua città, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 10 dic. 1989.




Roveno Benedetti, Pietro Del Giudice e Balilla Grillotti: antifascismo, guerra e resistenza a Montignoso

Lo sguardo da un piccolo centro, vocato all’agricoltura e alle cave di marmo, Montignoso. Linda Grillotti – Benedetti ha attraversato tutta la seconda guerra dei trent’anni (Hobsbawm) e con i suoi  frammenti di memorie (in allegato) ci restituisce l’umanità e l’ideologia di una contadina che si trovò a vivere a ridosso di quella che sarebbe divenuta la Linea Gotica. Sono ricordi raccolti dai nipoti che, pur nella loro essenzialità, riescono a trasmettere piccole fotografie di una vera e propria ideologia popolare, ovvero “l’intero arco delle idee e delle convinzioni che sono alla base dell’azione sociale e politica”, per dirla con George Rudé. Da quelle voce si intravede il “fronte interno” nella Grande guerra, il regime fascista, l’emigrazione, la miseria, la violenza invadente della seconda guerra mondiale e l’ancoraggio ad un territorio che, nonostante la preminenza del marmo, conserva un volto rurale. Nello scritto emergono riferimenti sfuggenti ai partigiani Roveno Benedetti, Pietro Del Giudice e Balilla Grillotti.

Roveno Benedetti era il secondo dei numerosi figli nati dall’unione di Linda, narratrice delle nostre memorie, ed Ottaviano, autore delle poesie riportate nella testimonianza. Nacque nel 1923 a Sant’Eustachio di Montignoso, una manciata di case a picco sui castagni e sul mare. L’ambiente che lo circondava era intriso di cristianesimo e cultura contadina. Dopo aver terminato le scuole elementari, il piccolo Roveno venne mandato a studiare a Sampierdarena (Genova) presso il collegio dei Salesiani. La guerra strappò Benedetti dalla costa ligure tirrenica conducendolo al fronte fino all’8 settembre, quando decise, tra mille peripezie, di tornare a casa, a Montignoso. Una volta uscito il bando di arruolamento per l’esercito della RSI, prese la strada dei monti, arruolandosi in seguito nel gruppo autonomo dei Patrioti apuani. Dall’autunno del 1944 Roveno fu un caposquadra e guida montana, incaricato di consegnare agli Alleati le comunicazioni inerenti al trasporto dei civili lungo la celebre via della libertà. Il sentiero, che univa il paese di Antona, controllato dai partigiani e la Versilia, dove si trovavano gli statunitensi della Buffalo, era continuamente esposto ai colpi dell’artiglieria tedesca ed italiana. Il 21 novembre 1944, in località Pozzi di Seravezza, durante un fuoco degli eserciti dell’Asse contro gli avamposti Alleati, Roveno rimase gravemente ferito insieme al compagno Francesco Buffoni. Ricoverati presso l’ospedale di Viareggio, i due patrioti apuani morirono dopo pochi giorni.

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Partigiani del gruppo patrioti apuani al centro il comandante Pietro Del Giudice

Pietro del Giudice, classe 1914, di origine operaia, era un frate domenicano laureato in Diritto canonico a Firenze. Fra il giugno ed il luglio 1944, dopo aver abbandonato il convento, mise in piedi i Patrioti apuani. Comandante della formazione, rifiutò il commissario politico e collaborò militarmente con gli Alleati, ai quali forniva indicazioni sugli spostamenti nemici e dai quali riceveva rifornimenti. I Patrioti Apuani facevano riferimento alla componente cattolica del CLN di Massa. Durante l’attacco che sarebbe risultato decisivo, il 5 aprile 1945, i partigiani guidati da Del Giudice supportarono gli statunitensi. A liberazione avvenuta l’ex frate venne nominato prefetto di Massa, impegnandosi nell’opera di ricostruzione della provincia. Meno di un anno dopo, nel marzo 1946, Del Giudice fu sostituito da un funzionario. Il suo albergo, incastonato nelle Apuane, a due passi dal monte Folgorito, diventò luogo di ritrovo di moltissimi intellettuali ed artisti del dopoguerra tra i quali ricordiamo Beppe Fenoglio, Enrico Pea, Giuseppe Ungaretti, Sandro Penna, Eugenio Montale e Carlo Carrà.

Balilla Grillotti, elettromeccanico, era figlio di Daniele, instancabile organizzatore dei cori del maggio in tutta la regione del marmo (Massa Carrara e Versilia). La famiglia Grillotti, in cui si mescolavano tradizioni risorgimentali e socialiste, diventò un obiettivo prioritario della violenza fascista locale. Daniele (detto il Pisan), vice sindaco di Montignoso dopo la tornata elettorale del 1920, morì nel 1922 in seguito alle percosse ricevute da alcune camicie nere. Il figlio Balilla, prima dell’avvento del fascismo, prese parte alle riunioni e alle bevute presso il circolo anarchico Né dio né padrone di Montignoso. Ardito del popolo, il 25 novembre 1921 fu arrestato con l’accusa di aver ucciso un fascista ma, l’11 gennaio 1922, venne assolto per mancanza di prove e scarcerato. Grillotti, in seguito all’ennesimo pestaggio da parte delle camicie nere, decise di emigrare a Genova, dove divenne uno dei capi del movimento operaio clandestino della Valpolcevera. Dopo l’8 settembre 1943 fu nominato responsabile politico del partito comunista di tutta la Valpolcevera e quindi comandante dei Gap genovesi, partecipando ad alcune rilevanti operazioni militari. La notte del 19 luglio 1944, Grillotti si recò a trovare la famiglia dopo alcuni mesi di assenza ma, in seguito ad una delazione, venne arrestato dai fascisti. Tradotto in questura e poi nel carcere di Marassi (Genova) Grillotti fu ripetutamente torturato, poi processato ed infine fucilato il 29 dello stesso mese. E’ uno degli autori delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana.

Nello scritto di Linda viene ricordato anche Giuseppe Del Freo, nato a Montignoso nel 1895 da una famiglia “di modeste condizioni economiche”, come ci narra Francesco Bergamini.  Del Freo, di formazione crociana, insegnò filosofia presso il liceo classico di Viareggio. Spesso, l’antifascista schedato dal 1931, conduceva i suoi studenti sulle Apuane dove insegnava loro a conoscere la montagna e a comprendere la realtà nella quale vivevano. Molti allievi di Del Freo diventarono partigiani e riconobbero nell’uomo di cultura montignosino un tassello importante della loro “scelta” resistenziale. Socializzazioni come quelle che si instaurarono tra Del Freo ed e i suoi studenti ci confermano la categoria di antifascismo esistenziale elaborata da Guido Quazza, un vero e proprio cuneo nel totalitarismo imperfetto del regime. In occasione del settantesimo della Liberazione, l‘Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Lucca è stato tra i promotori dell’affissione di una targa commemorativa al Liceo classico Carducci di Viareggio, per ricordare quei giovani che persero la vita nella guerriglia al nazifascismo, dopo aver condiviso un percorso, intellettuale ed umano, con Del Freo.

Le memorie di Linda sono un documento raro e dalla potente forza evocativa. In poche pagine si mescolano e sovrappongono i “grandi temi” della storia del Secolo breve (Hobsbawm) con il punto di vista di una donna che ha incontrato, nel corso della sua lunga vita, i quattro percorsi biografici tratteggiati in questo articolo che rappresentano, emblematicamente, due rivoli che confluirono nella Resistenza, l’antifascismo storico e l’antifascismo di guerra.




Mons. Giovanni Sismondo (1879-1957)

Nato a Brusasco (TO) da una famiglia di contadini, ordinato sacerdote nel 1905 a Casale Monferrato, Giovanni Sismondo è Vescovo di Pontremoli fra il 1930 e il 1954 e svolge un ruolo determinante nella città e nella diocesi.

Dopo l’8 settembre 1943 alla sua attività pastorale e affianca quella di infaticabile mediatore tra le parti in conflitto, sempre al fianco dei più deboli e bisognosi, non manca mai di schierarsi dalla parte dei prigionieri e dei condannati dal regime fascista e dal comando tedesco e non fa mai mancare una parola di conforto alle vittime.

mons_Sismondo_1Già il 21 settembre, non manca di esprimere la sua protesta per l’occupazione da parte dei tedeschi del Seminario vescovile, che diverrà poi la sede dei fascisti del battaglione S. Marco: la X Mas che nei mesi successivi utilizzerà quei locali anche per la detenzione di prigionieri spesso picchiati e torturati prima dell’esecuzione.
Porta il proprio conforto alle famiglie delle vittime ed offre sostegno morale come nel caso dei giovani catturati a Bagnone, sul Monte Barca, imprigionati e torturati dai fascisti in Seminario e poi fucilati a Valmozzola (PR) il 17 marzo 1944.
Mette i locali della diocesi di Pontremoli, l’orfanotrofio Leone XIII, il Galli Bonaventuri e l’istituto Cabrini a disposizione degli sfollati, soprattutto massesi.
Entra in contatto con il maggiore inglese Gordon Lett comandante del Battaglione Internazionale che combatte nelle vallate di Zeri e Pontremoli ed attraverso di lui ottiene che il minacciato bombardamento su Pontremoli della primavera del 1945 venga evitato.
Il vescovo protesta più volte contro le azioni di violenza, contro i rastrellamenti, contro le uccisioni e diviene un riferimento per tutti: prefetto, comando tedesco (che dal settembre 1944 con lo sfollamento di Massa era stato trasferito a Pontremoli), partigiani.
E così, salendo fino a Zeri, organizza scambi di prigionieri che contribuiscono a salvare molte vite umane.

Nell’imminenza dell’arrivo degli Alleati tra il 25 e il 27 aprile 1945, è ancora lui determinante: quando i partigiani intimano ai tedeschi la resa che viene rifiutata, egli invia una staffetta al comandante della “Beretta” invitandolo a non scendere a Pontremoli per evitare un inutile strage perché le pattuglie partigiane ben poco avrebbero potuto contro duemila tedeschi ben armati, disposti ormai a tutto.
Negli ultimi concitati giorni riesce a rintracciare, nascosti nella valle del Verde a nord di Pontremoli, due militari tedeschi disertori e recandosi di persona da loro si fa rilasciare una dichiarazione senza la quale i tedeschi avrebbero distrutto la città già in parte minata.
Il comandante tedesco, Bernard Kreussig, riconosce in lui un’autorità e un interlocutore e prima di lasciare Pontremoli, consegna al Vescovo quanto è custodito nei magazzini dei viveri e del vestiario per i poveri della città.

Alla fine della guerra Mons. Sismondo, a seguito delle dimissioni di Mons. Terzi, per un certo periodo regge anche la diocesi di Massa.
Nel 1948 gli viene assegnata la Medaglia d’Argento al Merito Civile.




Il caso “Facio”, il comandante partigiano ucciso dai suoi compagni

E’ l’alba del 22 luglio 1944: ad Adelano di Zeri una scarica di colpi di fucile rompe il silenzio di queste vallate dell’alta Lunigiana fra Toscana, Liguria ed Emilia. Dante Castellucci, il comandante partigiano «Facio», comunista e garibaldino, è morto: ha solo 24 anni ma è già un eroe della lotta contro tedeschi e fascisti. Eppure a fucilarlo non sono i soldati nemici, ma un gruppetto di partigiani della IV Brigata Garibaldi della Spezia. Il suo accusatore è Antonio Cabrelli «Salvatore», di oltre vent’anni più anziano, che ha imbastito contro «Facio» un processo-farsa dalla condanna già scritta, portandolo davanti a un improvvisato tribunale di guerra per i reati di tradimento e sabotaggio.

Quella di «Facio» è una storia di vita, per quanto breve, capace di attraversare e vivere da protagonista grandi temi ed eventi del Novecento italiano. Calabrese, nato nel 1920 a Sant’Agata di Esaro, con la famiglia emigra ancora bambino nel Nord-Pas de Calais, nella stessa città in cui vivono grandi antifascisti italiani come Ermindo Andreoli e i fratelli Gino ed Eusebio Ferrari. I Castellucci rientrano in patria all’alba della Seconda Guerra mondiale e Dante viene chiamato alle armi nell’esercito italiano: spedito sul fronte prima in Francia e poi in Unione Sovietica, il 25 luglio del 1943 si trovava in permesso per convalescenza. Da intellettuale autodidatta scrive, dipinge, suona il violino. Entra in contatto con le famiglie antifasciste emiliane dei Sarzi e dei Cervi, organizzando con esse le prime forme di Resistenza. Divenuto il braccio destro di Aldo Cervi, nel dicembre del 1943 viene arrestato assieme ai sette fratelli ma, fingendosi un soldato straniero, viene rinchiuso nel carcere parmense della Cittadella dal quale riesce ad evadere pochi giorni prima della fucilazione dei compagni a Reggio Emilia. I sospetti del Pci reggiano, che emette una circolare di arresto nei confronti di Castellucci, lo spingono a entrare in contatto col Cln di Parma, dove il dirigente comunista Luigi Porcari lo manda alle dipendenze del Battaglione garibaldino «Picelli» comandato da Fermo Ognibene «Alberto». In Lunigiana, «Facio» si rende protagonista di ripetuti attacchi alle postazioni nemiche, guadagnandosi in breve tempo la fiducia dei compagni e la stima delle popolazioni civili ancora oggi riscontrabile presso i testimoni dell’epoca, fino a divenire Comandante del battaglione dopo la morte di Ognibene. Il 17 marzo 1944 «Facio» fa il suo ingresso nel mito resistenziale con la battaglia del Lago Santo: chiuso in un rifugio con otto uomini male armati, resiste oltre ventiquattr’ore, senza perdite, all’accerchiamento di oltre cento soldati nazifascisti; alla fine i nemici contano decine di morti e feriti e sono costretti alla ritirata ordinata. La battaglia di Lago Santo ricopre il «Picelli» di un alone di leggenda e «Facio», con Fermo Ognibene caduto in battaglia due giorni prima, ne diventa il comandante.

Dante Castellucci Facio in un'immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Dante Castellucci in un’immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Il battaglione interpreta benissimo le tattiche della guerriglia, compiendo attacchi fulminei e spostando continuamente la propria posizione. Disorienta i comandi nazifascisti, convinti di trovarsi di fronte a una formazione composta da centinaia di uomini. Tutela l’incolumità della popolazione civile, perché senza fornire un punto di riferimento territoriale, non concede la possibilità della rappresaglia nazista. Il «Picelli» è anche un esperimento politico e sociale, come nei dettami della lotta partigiana che ha il fine di rovesciare ruoli e costumi della società fascista. Il comandante vive e agisce alla pari dei suoi uomini, li guida in azione, siede a mensa con loro e si serve sempre per ultimo, rinunciando spesso alla propria razione, ed è l’ultimo a usufruire del vestiario ricevuto da un lancio o sottratto al nemico. Quando Laura Seghettini, pontremolese appena uscita dal carcere fascista, entra a far parte del battaglione, non viene destinata al ruolo di staffetta o di aiutante, ma diventa partigiana combattente fino ad assumere il ruolo di vice-comandante. Per poche settimane, Laura sarà anche la compagna di «Facio»: i due già progettano una sorta di «matrimonio in brigata», ma la vita in quei mesi corre troppo veloce.

foto segnaletica di antonio cabrelli_da Archivio centrle dello Stato_Casellario politico centraleAntonio Cabrelli «Salvatore», nominato da «Facio» commissario politico di un distaccamento del «Picelli», intende proseguire la sua scalata ai vertici del movimento partigiano spezzino: ha progettato la costituzione di una brigata garibaldina che faccia capo alla federazione comunista della Spezia e ai comandi liguri, ma il «Picelli» dipende ancora da Parma, cui «Facio» deve tutto. «Salvatore», così, sottrae il distaccamento «Gramsci» dalle dipendenze del «Picelli», lo trasforma in brigata e se ne autoproclama commissario politico. Per portare a termine il suo piano, deve sbarazzarsi dell’ostacolo più grande, rappresentato dal «brigante calabrese», come lo chiama lui: tra i due corrono lettere infuocate con accuse e minacce reciproche; Dante Castellucci sfugge a un agguato tesogli a tradimento; «Salvatore», allora, agisce con l’inganno.

La mattina del 21 luglio 1944 «Facio» viene chiamato al comando della brigata appena fondata da «Salvatore», con la scusa di chiarire la questione di alcuni materiali sottratti a un aviolancio. Convinto di dover affrontare solo un’accesa discussione, si fa accompagnare da due uomini fidati. Appena giunto nella sede del comando, il comandante del «Picelli» viene disarmato, aggradito e picchiato da Cabrelli, che ha imbastito un tribunale di guerra nel quale è, al contempo, accusatore e giudice. Poche ore dopo «Facio» viene condannato a morte per i reati di furto, sabotaggio e tradimento.

L’ultima notte la passa con «Laura», che nel frattempo lo ha raggiunto, sorvegliato da uomini della IV Brigata che a un certo momento gli offrono la via di fuga: «non sono scappato dai fascisti, non scapperò dai compagni» sono le parole di Dante Castellucci. Verga alcune lettere alla famiglia e agli amici emiliani. Scherza, com’è nel suo carattere, racconta qualche barzelletta e riesce pure a dormire un poco, come racconta «Laura».

Alle prime luci del 22 luglio viene prelevato e portato davanti al plotone d’esecuzione: è lui stesso a esortare i partigiani che non trovano il coraggio di sparargli addosso. Con «Facio» muore una delle più interessanti ed efficienti espressioni che il movimento partigiano aveva espresso fino ad allora.

Luca Madirgnani (Carrara, 1977), dottore di ricerca presso l’Università di Siena, assegnista presso l’Insmli, collabora con l’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età Contemporanea Apuana; si occupa di Didattica della Storia nella scuola. Ha pubblicato saggi e articoli sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo; l’ordine pubblico e la violenza politica; la Storia della Resistenza e il movimento partigiano. E’ in corso di stampa per Il Mulino il volume Il Caso-Facio. Eroi e traditori della Resistenza.