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Guido Cerbai, un percorso sghembo e coerente

Le stagioni più vivaci della sinistra italiana – quelle, diciamo, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – sono state animate da soggettività molto diverse e sono state tante le figure che hanno attraversato questi anni con bagagli politico-culturali e lungo percorsi non convenzionali.
Una di queste figure è Guido Cerbai, nato a Galliano di Mugello nel 1934, vissuto dal 1946 al 1959 a Firenze e successivamente trasferitosi a Pisa, dove attualmente risiede.
Oggi, alle soglie dei novant’anni, Cerbai è una figura sempre presente e visibile nella vita politica cittadina come attivista e dirigente di Rifondazione Comunista, ereditando una fitta rete di relazioni intessuta nel corso di sessant’anni di attività dapprima sindacale e quindi nelle istituzioni e portando sempre nelle assemblee e nelle iniziative politiche una voce autorevole che si appoggia a una memoria precisa, lucida e colta.
Tutte queste caratteristiche hanno fatto in modo che diverse persone, indipendentemente tra loro, lo abbiano individuato nella seconda metà degli anni Dieci come testimone privilegiato di un lungo periodo di vita politica e sindacale cittadina. Questo riconoscimento si è materializzato nel febbraio 2019 in una lunga intervista di vita in video della durata di oltre quattro ore che è stata successivamente montata, suddivisa in sette scansioni cronologiche e caricata sulla piattaforma Youtube. Per favorire l’accesso all’intervista è stato quindi realizzato un apposito sito web (cerbairacconta.wordpress.com), dal quale è possibile anche scaricare una versione sintetica dell’intervista di poco più di un’ora.
È molto difficile se non impossibile individuare una fase saliente di questo lungo percorso di vita, in quanto in tutte le sue diverse fasi si ritrova lo stesso intreccio armonico tra universo affettivo, impegno politico e lavoro, segnato peraltro da una forte coerenza di fondo.
Ciò che cambia nel tempo sono gli scenari, raccontati con viva partecipazione emotiva e con ricchezza di particolari. Scenari molteplici e articolati ma che possono essere ricondotti a quattro fondamentali: la dura campagna mugellese della famiglia, dell’infanzia e degli anni della prima adolescenza, la Firenze della frequentazione della Madonnina del Grappa fino al compimento degli studi universitari, la vita di fabbrica a Pisa fino ai primi anni Novanta e infine l’impegno politico nel territorio, cioè nel quartiere e in città, prevalente negli ultimi decenni. Questi scenari si articolano poi internamente e si sovrappongono tra loro, come nel caso dell’impegno politico e di quello sindacale, entrambi intensi soprattutto a partire dal Sessantotto, oppure, più indietro nel tempo, come nel caso della vita all’interno della Madonnina del Grappa, dove la formazione scolastica e universitaria s’intrecciano con la vita dell’istituto ma anche con la vita politica fiorentina, fortemente segnata dalla presenza di grandi personalità del cattolicesimo progressista.

Roma, manifestazione per la pace 1991

Figura impegnata in prima fila e al tempo stesso osservatore analitico e capace di ricostruire il contesto storico e politico, Cerbai restituisce in modo altrettanto dettagliato e preciso gli eventi personali e quelli collettivi: i difficili anni del dopoguerra, la Firenze di Giorgio La Pira e di Don Lorenzo Milani, il clima oppressivo della fabbrica degli anni Sessanta, l’imprevista e galvanizzante svolta del Sessantotto, che sconvolge sia la sfera politica che quella culturale, il robusto impegno sindacale nella fase ascendente degli anni Settanta e poi in quella del lento regresso degli anni Ottanta e Novanta, ma segnata dallo straordinario successo costituito dalla salvezza dell’impianto pisano e di tutti i suoi posti di lavoro, il parallelo emergere di un impegno di partito che pur nelle successive formazioni non verrà mai meno e gli darà la possibilità di trasporre l’ispirazione democratica di base ereditata da Don Milani e da La Pira dal consiglio di fabbrica alla presidenza del consiglio di circoscrizione.
Questa interpretazione tenacemente radicale dell’impegno pubblico prende infatti varie forme e si traduce nell’adesione a diverse sigle, dalla Cisl al Movimento politico dei lavoratori, da Democrazia proletaria a Rifondazione comunista, ma non tradisce l’ispirazione di fondo maturata negli anni dell’adolescenza all’incrocio tra cattolicesimo progressista e un socialismo non burocratico, ma al contrario anzitutto autogestionario.
La testimonianza di Guido Cerbai permette di ripercorrere anche le trasformazioni economiche e sociali che hanno via via segnato gli anni della ricostruzione, quindi del miracolo economico e poi degli ultimi decenni e di osservare da vicino figure come quella di Don Giulio Facibeni o quella di Don Lorenzo Milani, oltre ad altri protagonisti della sinistra politica e sindacale pisana e nazionale.

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Adolfo Zerboglio e la Prima guerra mondiale*

«L’on. Adolfo Zerboglio si dichiara interventista»: così il 26 marzo 1915 apriva in prima pagina «Il Popolo d’Italia» diretto da Benito Mussolini, che ancora si dichiarava «quotidiano socialista». Venivano poi riportate le parole dell’onorevole:

Il mio interventismo non è motivato da ragioni peregrine da me scoperte: io sono interventista in forza di motivi, che pesano sulla coscienza di coloro che ritengono la guerra necessaria, per una seconda pace ulteriore, per il raggiungimento dei fini nazionali e per la necessità che l’Italia non perda ogni influenza e ogni simpatia, nell’avvenire, per la libertà[1].

Zerboglio criticava le posizioni neutraliste del Partito socialista, considerate «negazione di ogni aspirazione ideale, visione miope dell’oggi, senza orizzonti un po’ remoti» e concludeva affermando che «la guerra mi sembra però destinata a creare i mezzi e l’ambiente per mutazioni profonde dei rapporti economici, politici quali finora non ci ha dato il socialismo»[2], considerazione che evidenziava il distacco dell’esponente politico dal mondo socialista, maturato sin dalla crisi della Guerra italo-turca.
Una postilla redazionale ricordava infine le differenze di posizioni tra Zerboglio e la corrente rivoluzionaria che faceva capo al giornale. Si riconosceva che la presa di posizione «fra i più autorevoli e geniali rappresentanti del pensiero socialista in Italia», tra i «migliori» a entrare nel movimento interventista, non era in contraddizione con le «teorie socialiste» nel «sostenere la necessità che l’Italia intervenga nel conflitto europeo»[ 3].

Zerboglio_Adolfo_deputato

Adolfo Zerboglio, nato nel 1866, d’origine piemontese ma toscano di adozione, era allora un giurista di fama internazionale: libero docente prima presso l’Università di Pisa, poi per un breve periodo a Roma e infine a Urbino – terminerà la sua carriera all’Università di Macerata -, era rappresentante di quel socialismo giuridico che ebbe tanta fortuna tra la fine dell’Ottocento e l’età giolittiana. Autore di numerosi volumi è promotore insieme a Alfredo Pozzolini e Eugenio Florian dei periodici, la «Rivista di diritto penale e sociologia criminale» e la «Rivista di diritto e procedura penale»[4]. Eletto deputato al Parlamento nel collegio di Alessandria per la prima volta nel 1904, collaboratore de la «Critica sociale» e di molti altri periodici socialisti nonché di molti quotidiani nazionali d’informazione, era uno dei riformisti più in vista del gruppo di Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, amico personale di Cesare Battisti di cui condivideva in pieno gli ideali irredentisti[5].
Il 15 maggio 1915, pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, a Pisa un gruppo di studenti e professori universitari dopo aver votato un ordine del giorno contro il «traditore Giolitti» tentò d’inscenare un corteo diretto verso la prefettura; furono fermati e dispersi da una moltitudine di proletari e militanti socialisti e anarchici. La città in quei giorni viveva in stato d’assedio, con pattuglie di carabinieri e militari a presidiare i punti nevralgici e i palazzi del potere. Nonostante il divieto di una manifestazione antinterventista e antimilitarista convocata per il 19 maggio e impedita dall’intervento delle forze dell’ordine[6], le iniziative dei neutralisti si moltiplicavano in tutta la provincia, con comizi e cortei spontanei a rimarcare la netta separazione tra il mondo popolare e proletario e le élites «guerrafondaie» arroccate tra i docenti e studenti dell’università, i ceti commercianti, gli imprenditori della media e alta borghesia e i gruppi di nazional-patriottici. Al fronte interventista portava la propria benedizione anche il Cardinale Pietro Maffi[7], già sostenitore in precedenza della guerra italo-turca del 1911: alle posizioni espresse dal prestigioso prelato si adeguò l’intero mondo dell’associazionismo cattolico[8].
Come è stato rilevato dalla ricerca storica, profonda fu la frattura tra la «città patriottica» e la «città proletaria» e nella prima, grazie al prezioso intervento extra istituzionale dell’Università, si andava coagulando «un nuovo blocco politico-sociale», che sulla scelta bellicista auspicava una rinnovata forza politica d’ordine[9]. Zerboglio non fu il solo socialista riformista seguace di Bissolati in Toscana a scegliere decisamente di aderire al fronte interventista: anche altri “storici militanti” si schierarono per la guerra, come ad esempio il volterrano Arnaldo Dello Sbarba, il fiorentino Carlo Catanzaro[10], il senese Vittorio Meoni[11], il lucchese Quirino Nofri[12] e il pistoiese Pompeo Ciotti, allora segretario nazionale del Partito socialista riformista italiano[13]. Erano militanti della “vecchia guardia”, che avevano contribuito in maniera sostanziale alla genesi e alla storia del PSI in Toscana.
Lo spostamento in blocco di gruppi di intellettuali e militanti politici di lungo corso verso l’interventismo era un fenomeno sostanzialmente nuovo dal punto di vista politico, che però aveva radici lontane ben impiantate in alcuni settori del mondo culturale italiano. Questi gruppi svolsero un compito specifico, quello di “popolarizzare” la guerra, darle una forma ideale che poi si radicherà nell’immaginario collettivo dei decenni successivi[14].
Zerboglio, dunque, in questa scelta non era isolato: l’Università di Pisa, come ricordato, fin dall’inizio fu in gran parte schierata per l’intervento. Il rettore dell’Università, David Supino, già ai primi di maggio del 1915 aveva inviato al presidente del Consiglio Antonio Salandra una lettera di piena adesione alle scelte del governo[15]. Il coinvolgimento dell’Ateneo nella mobilitazione e partecipazione al conflitto fu impressionante: 37 furono i docenti e 68 gli aiuti e assistenti richiamati al fronte, 34 gli amministrativi, tecnici e inservienti, ma il grosso degli arruolati era composto dagli studenti, su 1.501 iscritti sono 1.484 coloro che vennero battezzati dal fuoco delle battaglie[16].
Come ricordò Ivanoe Bonomi, uno dei leader del socialismo riformista di destra, nonché volontario nel primo anno di guerra e che verrà dal primo ministro Boselli nel giugno del 1916 incaricato della gestione del ministero dei lavori pubblici, «i cinque anni di conflagrazione mondiale sono stati il periodo di educazione e di coltura della nuova gioventù italiana, e le lezioni della nostra guerra sono stati il solo libro della loro vita»[17]. Nell’aprile del 1917 anche il secondogenito di Zerboglio, Vincenzo comunemente chiamato Enzo, giovane studente universitario della facoltà di giurisprudenza poco più che diciottenne, partiva volontario[18].
Fu poi nei mesi successivi alla rotta di Caporetto, nell’autunno 1917, che Zerboglio maturò con ogni probabilità il suo definitivo distacco dall’area socialriformista, come testimonia una sua intervista rilasciata al «Nuovo giornale» nel dicembre del 1917. Il quotidiano aveva lanciato in quelle settimane un’inchiesta sulla situazione elettorale e politica, considerato che le ultime elezioni si erano tenute nel 1913. Era stato inviato un breve questionario ai deputati toscani per avere notizie sulla situazione del loro collegio, dei programmi dei loro partiti e sulle loro idee circa la Guerra di Libia, il Trattato di Losanna e la situazione internazionale.
Il giurista piemontese apriva la sua breve lettera dichiarando di non essere candidato di «nullo collegio», di aver abbandonato il partito socialista e non aver aderito a quello riformista, e, ormai di essere lontano dalla «politica militante». Si domandava poi con amarezza:

chi voterebbe per un originale, che crede antidemocratica una gran parte della odierna democrazia, in sé e nei suoi propositi? Che è tanto anticlericale da esserlo anche in confronto dei clericali… Rossi? Che odia la tirannide borghese, ma non ama la tirannide proletaria? Che mentre ha i suoi riveriti dubbi, così sulla utilità sociale come sulla efficienza sostanzialmente rivoluzionaria, di buon numero di moti operai, cari agli agitatori di professione, ritiene che sarebbe davvero benefica per tutti, e per la classe lavoratrice in specie, una lotta assidua contro i parassiti che si annidano nello stato ed intorno allo stato? Che considera primo obbligo di un deputato, sia quello di rifiutarsi al servizio di pressioni, di raccomandazioni presso il governo, che vincolando la sua libertà, moltiplica le ingiustizie, ed aumenta impiegati, funzionari ecc. a carico della collettività? Che …: ma questo sarebbe il programma per collegio che non esiste e che non nominerà mai a proprio rappresentante il di Lei dev.mo Adolfo Zerboglio[19].

Non ci fu in quei mesi iniziativa o dibattito a Pisa che non vedesse la partecipazione di Zerboglio, come durante la campagna lanciata dal governo per il prestito nazionale per finanziare le già esauste casse statali e sostenere lo sforzo bellico. Il docente, insieme ad altri colleghi, fece sentire la propria voce a sostegno delle scelte governative definendo il prestito un «buon affare» e la sua sottoscrizione una «buona azione patriottica» per garantire la «vittoria» e una «pace giusta»[20]. Questo ruolo, di attivista del fronte interno, propagandista e organizzatore portò il docente piemontese in tante località nel difendere la scelta interventista e nel sostenere lo sforzo bellico, anche con numerosi articoli su quotidiani e periodici. Più volte si recò al fronte portando aiuti alle truppe, soprattutto quando si trattava di ricordare e sostenere i propri studenti, vera avanguardia mobilitata in difesa della patria.
Con la fine della guerra e l’annuncio della vittoria, Adolfo Zerboglio, in qualità di presidente del Comitato di Resistenza, inviò un telegramma di congratulazioni al generale Diaz:

A Voi degnissimo duce di impareggiabili soldati, per la fede nei destini della Patria che serbammo incrollabile, in questi giorni di continuate, grandi, giuste vittorie, inviamo il più fervido omaggio di un’ammirazione infinita e di una gratitudine eterna[21].

Il 3 novembre 1918, in una Pisa imbandierata e festante, partecipò all’imponente manifestazione di giubilo per la vittoria indetta dalle associazioni combattentistiche che attraversò la città in un tripudio di folla e al suono della marcia reale, applaudendo la regina e il principe ereditario affacciatisi nel frattempo dal balcone del Palazzo Reale. Zerboglio, acclamato più volte, prese la parola, ogni intervento della manifestazione terminava con un corale «viva la Patria, viva il Re, viva l’esercito italiano», tanto che il «Messaggero toscano» scriveva di «deliranti dimostrazioni di Pisa per la vittoria e l’armistizio»[22].
Qualche giorno dopo, per Zerboglio e la sua famiglia l’entusiasmo per la vittoria venne funestato dalla notizia della morte dell’amato figlio Enzo. Il docente Italo Giglioli, nel commemorare il figlio dell’amico, sottotenente del Battaglione degli alpini «Aosta», caduto «eroicamente» il 26 ottobre 1918 sul Monte Solarolo, scriveva del legame ideale tra la sua morte a quella dei patrioti risorgimentali: egli era «l’ultimo della lunga serie (oltre un centinaio) degli studenti dell’Università di Pisa morti in questa guerra; la quale segna l’ultimo trionfo lontano dei combattenti di Curtatone e Montanara».
E parlando del padre e del figlio entrambi definiti «combattenti» rammentava che l’uno, vecchio lottatore per la giustizia sociale; ma non mai dimentico della patria e di quei principii di elevamento sociale, i quali nella solidarietà di patria e di razza, come nella santità e negli affetti della famiglia, hanno non crollabile fondamento. L’altro, giovane combattente dell’ora, puro volenteroso olocausto nella guerra immane per la libertà e il progresso sociale di Europa.
«Non vi parlo dalla casa di un morto, ma da quella di un vivo: di uno che mai fu tanto vivo come oggi» – diceva Adolfo Zerboglio nell’ultimo discorso di questi giorni al popolo pisano, adunato, nell’entusiasmo del trionfo nazionale, innanzi alla casa dove spirò Giuseppe Mazzini. L’oratore non sapeva che in quell’ora stessa, la parte più cara della propria vita, delle speranze, dei suoi più intimi affetti, non viveva più quaggiù, ma giaceva spento presso il Grappa glorioso[23].

La morte del figlio fu una cesura irreversibile per il giurista piemontese. Da questo momento in poi Zerboglio farà del ricordo del figlio[24] e dei valori della patria, rappresentati dalla guerra vittoriosa contro l’Austria, la bussola che orienterà ogni sua successiva azione politica[25]. Il figlio verrà insignito l’anno successivo della medaglia d’oro, sarà lo stesso Re in persona, in Piazza d’armi a Pisa, a consegnare al padre l’onorificenza[26].
Alcuni anni più tardi Zerboglio dedicherà al figlio un commosso ricordo, accostando il suo nome a quello di Enrico Toti, un altro «valoroso combattente» della Grande guerra . Verso la memoria del figlio, il docente piemontese avrà sempre una devozione inconsolabile che lo accompagnerà fino alla morte. Ogni anno, durante i giorni dell’anniversario della scomparsa, egli tornerà con la famiglia nei luoghi del Carso e sulla tomba del figlio nel cimitero di Crespano del Grappa, in una specie di rito laico familiare, un ritiro spirituale nel quale mantenere ad perpètuam rèi memòriam la figura del giovane Enzo.

* Questo articolo fa parte di un più ampio lavoro di ricostruzione della biografia intellettuale di Adolfo Zerboglio avviato dal alcuni anni dalla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. L’on. Adolfo Zerboglio si dichiara interventista, «Il Popolo d’Italia», 26 marzo 1915.
  2. Ivi.
  3. Ivi.
  4. Cfr. Sul socialismo giuridico si v. M. Sbriccoli, Elementi per una bibliografia del socialismo giuridico italiano, Milano, Giuffrè, 1976. All’interno del saggio, alle pagine 137-144, vi è una prima essenziale bibliografia delle opere di Adolfo Zerboglio edite tra il 1889 e il 1914.
  5. Si v. in proposito A. Zerboglio, Martirio di Cesare Battisti. Patriotta socialista. Commemorazione tenuta il 16 gennaio 1917 al Conservatorio G. Verdi di Milano per iniziativa del Circolo Trentino di Milano, Milano, Sede dell’Unione Generale degli Insegnanti italiani Comitato Lombardo, 1917.
  6. L’agitazione dei neutralisti pisani. Numerosi arresti, «Il Messaggero Toscano», 20 maggio 1915.
  7. Cfr. P. Maffi, Fede e patria. Discorsi patriottici per una più grande Italia, Pisa, Libreria Ecclesiastica, 1915. Inoltre, G. Cavagnin, La diocesi e il cardinale Maffi di fronte alla guerra, in I segni della guerra. Pisa 1915-1918. Città e territorio nel primo conflitto mondiale, a cura di A. Gibelli, G.L. Fruci, C. Stiaccini, Pisa, ETS, 2016, pp. 40-45.
  8. Il dovere dei giovani cattolici nel supremo cimento della Patria, «L’Eco del Popolo», Pisa, 23 maggio 1915.
  9. Sul dibattito e lo scontro tra neutralisti e interventisti a Pisa e provincia si v. C. Di Scalzo, Il dibattito in margine alla grande guerra a Pisa nei mesi della neutralità italiana, Tesi di laurea, Università di Pisa, a.a. 1978-79, relatore L. Gestri. Cfr. inoltre. G.L. Fruci, Pisa, in Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, a cura di F. Cammarano, Firenze, Le Monnier, 2015, pp. 433-445. Id., La strana disfatta dell’interventismo pisano, in I segni della guerra. Pisa 1915-1918, cit., pp. 32-39. Cfr., anche. P. Nello, A chi la città? Pro e contro la guerra nella città “proletaria”, in La Toscana in guerra. Dalla neutralità alla vittoria, 1915-1918, a cura di S. Rogari, Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2019, pp. 125-135.
  10. Cfr. F. Taddei, Catanzaro Carlo, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1975, t. 1, p. 538.
  11. Cfr. T. Detti, Meoni Vittorio, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1977, t. 3, cit., pp. 427-428.
  12. Cfr. L. Guerrini, Nofri Quirino, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1977, t. 3, pp. 692-695.
  13. Cfr. M. Figurelli, Ciotti Pompeo, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1976, t. 2, pp. 45-47. Ciotti muore l’11 ottobre 1915, nell’agosto è stato sostituito nell’incarico di segretario generale da Mario Silvestri.
  14. Cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, v. 4, Dall’Unità a oggi, t. 2, p. 1313. Si v. anche Gli intellettuali e la Grande guerra, a cura di M. Mori, Bologna, Il mulino, 2020.
  15. Archivio storico dell’Università di Pisa, Lettera del Rettore D. Supino al presidente del Consiglio A. Salandra, Pisa, maggio 1915.
  16. Archivio storico dell’Università di Pisa, Fascicoli vari riguardanti le chiamate alle armi dei docenti e studenti per gli anni 1915-1918. Si v. anche Nella vigilia del cimento, «Il Ponte di Pisa», 23 maggio 1915.
  17. Cfr. I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Roma, A.F. Formíggini, 1924, p. 124.
  18. Cfr. P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto, in Archivio Biblioteca F. Serantini, p. 27.
  19. Nostra inchiesta sulla situazione elettorale e politica. Il pensiero dei parlamentari toscani, «Il Nuovo giornale», 19 dicembre 1917.
  20. La concordia di Pisa per il Prestito Nazionale, «Il Ponte di Pisa», 2-3 febbraio 1918. Già l’anno precedente Zerboglio aveva partecipato alla raccolta dell’oro per le casse esauste del governo con la donazione delle sue due medaglie di deputato ottenute per la XXI e XXIII legislatura. Cfr. Offrite l’oro alla Patria, «Il Messaggero Toscano», 30 marzo 1917.
  21. Cfr. Omaggi al generale Diaz e all’esercito, «Il Messaggero toscano, 3 novembre 1918, 2. ed., p. 3.
  22. Cfr. Le deliranti dimostrazioni di Pisa per la vittoria e l’armistizio, «Il Messaggero toscano, 4 novembre 1918, p. 2. V. anche Le imponenti dimostrazioni di ieri. I reali nuovamente acclamati dal popolo, «Il Messaggero toscano, 5 novembre 1918, p. 2.
  23. I. Giglioli, Un eroe: Enzo Zerboglio, «Il Fronte interno», 11-12 novembre 1918, p. 2.
  24. La notizia della morte del figlio di Zerboglio, il 105° tra gli studenti universitari di Pisa, viene comunicata ai pisani anche dal periodico «Il Ponte di Pisa» con una breve nota nel numero del 10 novembre 1918. Altri ricordi del giovane sottotenente si possono leggere nel numero successivo, quello del 16 novembre, del periodico pisano (Cfr. A. di Vestea, Enzo Zerboglio, e M. Razzi, In memoria di Enzo Zerboglio).
  25. Il giurista firmerà il principale articolo della prima pagine de «Il Ponte di Pisa» in occasione dell’annuncio della vittoria. Cfr. A. Zerboglio, La vittoria, «Il Ponte di Pisa», 10 novembre 1918.
  26. Cfr. P. Zerboglio, [Memorie familiari], cit., p. 30. Si v. anche Per non dimenticare, «Il Giornale della donna», 20 novembre 1920.
  27. Cfr. A. Zerboglio [a cura di], Medaglie d’oro: Enzo Zerboglio, Enrico Toti, Milano, Imperia, 1923.



Il partigiano Beppe e la Resistenza nel Volterrano

La vicenda partigiana di Vinicio Modesti (Beppe) è una storia esemplare per comprendere la Resistenza nella provincia di Pisa. Sono qui presenti, infatti, molti degli elementi fondamentali per cogliere le specificità della lotta di liberazione nel Volterrano, l’area di maggiore attività partigiana a livello provinciale.

L’irrequietezza e l’insofferenza delle generazioni più giovani rappresentano il punto di partenza senza il quale non sarebbe neanche pensabile una partecipazione armata alle attività clandestine antifasciste e antitedesche. Vinicio era nato a Volterra nel 1924: dopo l’8 settembre, poco più che studente e appena approdato all’insegnamento tecnico, organizzò con un paio di amici un piccolo nucleo di cospiratori. Un membro del locale Cln li invitò però ad aspettare, per «non turbare la pace del paese». Intanto, a partire dal novembre 1943, la pace dei maschi nati tra il 1923 e il 1925 fu turbata dalla chiamata alle armi delle autorità militari della neocostituita Repubblica di Salò. Da qui la scelta di sparire e unirsi ai partigiani.

I tentativi di avere contatti con la rete antifascista si rivolsero inizialmente verso Firenze, poiché altrove in Toscana l’organizzazione clandestina era ancora debole e poco strutturata, ma senza esito. Alcuni gruppi di uomini alla macchia si erano formati più a sud, attorno a Massa Marittima, comandati da Velio Menchini ed Elvezio Cerboni; i primi di novembre l’incarico di organizzare una formazione partigiana venne affidato a Mario Chirici, comandante repubblicano antifascista molto noto nella zona e appena tornato dalla Jugoslavia. Erano molti i collegamenti con il Volterrano e la Val di Cecina, aree collinari e boscose unite da una fitta rete di strade comunali: nel giro di pochi giorni i ragazzi che insieme a Vinicio Modesti volevano unirsi ai partigiani trovarono i contatti giusti per raggiungere il campo base della banda di Chirici, all’Uccelliera, tra Monterotondo e Massa Marittima. Vinicio però arrivò in un momento particolarmente infelice: la formazione si era appena spostata per sfuggire a un rastrellamento e senza essere riuscito ad agganciare nessuno il giovane decise di rientrare a Volterra.

Non appena rientrato, i militi repubblichini, ben informati dei suoi movimenti, lo andarono a cercare a casa, in Piazza dei Priori; all’ultimo un vicino generoso lo nascose permettendogli di fuggire. Nascosto da coloni in mezzo al bosco, tratteneva rapporti epistolari con la famiglia, che nel frattempo subiva la persecuzione fascista: il negozio venne chiuso, i genitori e le sorelle furono costretti a lasciare Volterra. Nel mese di gennaio del 1944 Vinicio si spostò di nuovo verso sud, nel grossetano, dove riuscì finalmente a incontrare i partigiani di Mario Chirici. In pochi giorni venne nominato capo squadra e vide la graduale crescita degli effettivi armati dai 15 iniziali agli 80 circa.

A metà febbraio, tuttavia, la vita della formazione venne bruscamente interrotta dal rastrellamento del Frassine, il maggior trauma nell’esperienza resistenziale della zona, motivo di una profonda frattura che non si sarebbe mai più rimarginata. La sera del 15 febbraio, partirono da Follonica e da Massa Marittima dei camion carichi di militi fascisti locali, a cui si aggiunsero altri provenienti da Grosseto, in direzione dell’area dove avevano base i partigiani: prima dell’alba del 16 febbraio, tre colonne di repubblichini comandate dagli ufficiali Giovanni Nardulli di Massa Marittima, Monti di Grosseto e Pini di Castelpiano, conclusero l’operazione di rastrellamento della formazione, che venne presa totalmente alla sprovvista. La maggior parte degli uomini riuscì a scappare, un piccolo gruppo si asserragliò in una casa colonica, da dove ingaggiò una lunga sparatoria con gli assedianti. Dopo qualche ora i partigiani si arresero: cinque vennero trucidati, gli altri furono condotti in prigione.

Molti uomini che avevano gravitato intorno a Chirici decisero di allontanarsi e proseguire la loro attività più a nord-est, tra le province di Pisa e di Siena, in particolare nell’area tra il bosco delle Carline, Radicondoli e il bosco di Berignone, dove si era formata una squadra sotto il comando di Elvezio Cerboni. Qui con la guida di Guido Stoppa e di Alberto Bargagna l’organizzazione militare e i rapporti con il territorio si fecero più solidi e strutturati, le bande si svilupparono in maniera efficiente e dai primi di marzo riuscirono a darsi un livello operativo coordinato e coerente. Le azioni a Belforte e Montieri, nel marzo 1944 sancirono l’inizio di una nuova fase.

Il diario del partigiano Beppe, datato aprile 1944, è stato di recente ristampato insieme a un racconto successivo dello stesso Vinicio Modesti. L’attività da lui svolta dopo la guerra come scultore e insegnante hanno lasciato una memoria viva nel territorio; meno invece si sapeva della sua esperienza partigiana. Sia il diario che il racconto si chiudono però con la primavera del 1944, tranne un accenno alla vicenda della sorella Rossana che si prolunga fino a giugno. Le vicende partigiane vissute nel maggio e nel giugno non appaiono. Si tratta di una scelta singolare, che merita una riflessione. La maggior parte delle azioni partigiane di questa area avvennero proprio a partire dal maggio del 1944, quando con lo sfondamento della Linea Gustav e la ripresa dell’avanzata alleata sul territorio italiano, le speranze di una liberazione imminente spinsero a una crescita esponenziale della presenza e della forza resistenziale nella provincia di Pisa. Molti si unirono solo in questa ultima fase, tra la primavera e il passaggio del fronte.

Di questi mesi, che pure furono i più ricchi di colpi riusciti e di consenso da parte della popolazione, Vinicio Modesti tace. Forse perché altri potevano raccontare, mentre lui solo avrebbe potuto testimoniare ciò che accadde prima, i lunghi itinerari inconcludenti, le sconfitte, gli «odiosi attendismi». Forse perché considerava la parte precedente quella più autentica e sofferta dell’esperienza partigiana, più solitaria e imprevista, dura e dagli esiti imprevisti. Impossibile arrivare ora a una risposta certa; rimane il fascino irrisolto per una testimonianza ricca e vitale, irrequieta e intensa come lo sa essere solo lo spirito di un ragazzo che «era giovane ma [che] i suoi diciannove anni li aveva vissuti così intensamente che in certe cose pareva un saggio».




Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.




Il cardinale Maffi e il fascismo

Quello tra chiesa cattolica e fascismo è un rapporto complesso, che non può essere ridotto a mera strumentalizzazione reciproca, volta al rafforzamento del consenso e alla soluzione della «questione romana». Come ha spiegato Giovanni Miccoli, si trattò di «un’alleanza e un accordo non meramente tattici ma più intimi e sostanziali», basati su «consonanze essenziali» (il culto di valori come ordine, gerarchia, disciplina, autorità, obbedienza) e «nemici comuni» (su tutti, liberalismo e comunismo). Il dato appare con particolare chiarezza nel caso pisano, caratterizzato da una serie di elementi di particolare rilievo: la violenza estrema dello squadrismo, dilaniato da faide intestine e animato da personaggi brutali come Alessandro Carosi; la forza delle sinistre e in particolare del movimento anarchico, che vantava una lunga tradizione di militanza in città; e, non in ultimo, la presenza del cardinale Pietro Maffi, protagonista della vita intra- ed extra-ecclesiale della prima metà del Novecento italiano.

Nato a Corteolona (Pavia) nel 1858, Maffi fu nominato arcivescovo di Pisa nel 1903. Divenuto cardinale nel 1907, promosse lo sviluppo del movimento cattolico e instaurò rapporti cordiali con i Savoia, approfittando della prossimità della residenza reale di San Rossore. Ciò aumentò grandemente il suo prestigio in seno all’episcopato, al punto da sfiorare l’elezione al conclave del 1914. Durante la Prima guerra mondiale Maffi divenne il simbolo dell’unione tra fede e patria nell’Italia grigioverde, esortando i pisani all’obbedienza e contribuendo a contenere il malcontento attraverso iniziative di carattere assistenziale come la ricerca di informazioni sui militari dispersi o prigionieri negli Imperi centrali.

La ripresa della conflittualità politica e sociale dopo la fine del conflitto lo indusse a lanciare un appello alla pacificazione, auspicando un ritorno alla società cristiana; ciò detto, basta sfogliare «Il Messaggero toscano» – il quotidiano da lui fondato nel 1913 – per rendersi conto che, agli occhi del cardinale, il pericolo maggiore era costituito dal socialismo ateo. Non a caso, quando furono i cattolici a subire attacchi e intimidazioni da parte delle camicie nere Maffi tenne un profilo generalmente basso, cercando di calmare gli animi e di trovare un terreno d’intesa con l’aggressore nella celebrazione della memoria “eroica” dei caduti della Prima guerra mondiale: così accadde nel novembre 1921, durante la cerimonia per il Milite ignoto, e nel maggio 1924, con l’inaugurazione del monumento ai caduti nel cortile della Sapienza. I fascisti, però, volevano restare gli unici padroni della scena pubblica e nel gennaio 1925 distrussero la tipografia che stampava i fogli cattolici distribuiti a Pisa, Lucca, Livorno, Pontremoli e La Spezia. Il danno considerevole spinse Maffi a mutare registro, indirizzando prima un telegramma di protesta al ministro dell’Interno («Vescovo ne ho pianto, italiano ne ho arrossito»), poi una lettera pastorale ai pisani. Dedicata al quinto comandamento, essa conteneva frasi durissime contro chi si era macchiato di omicidio nei recenti scontri politici: «Guai alla mano che gronda sangue! Guai ai piedi che urtano in un cadavere! Oh, la dinastia di Caino! Continua puro; ma lo senta che, dove mancano gli uomini, Dio arriva, Dio che ai colpevoli non dà tregua e incessante li persegue e sopra di loro grida e sentenzia: Maledetto, maledetto! Maledetto nel tempo! Maledetto nell’eternità! Maledictus eris!».

Pietro_Maffi_cardinaleDavanti al pericolo di perdere il sostegno di uno dei membri più illustri dell’episcopato, le cose iniziarono a mutare. Complici la fine della faida tra Bruno Santini e Filippo Morghen e l’ascesa di Guido Buffarini Guidi, l’atmosfera andò rasserenandosi e le relazioni tra Chiesa e fascismo entrarono in nuova fase. Nel maggio 1926, lo stesso Mussolini venne in città per assistere all’inaugurazione del restaurato pergamo di Giovanni Pisano nella cattedrale e si lasciò fotografare al fianco del cardinale, quasi a proclamare alla cittadinanza la ritrovata armonia tra le due autorità. L’evento fu un brutto colpo per i fascisti più ostili a Maffi, che dovettero rassegnarsi. Negli anni successivi, nessun incidente turbò i rapporti tra cattolici e camicie nere, che celebrarono insieme la memoria “eroica” del 1915-1918. Ad esempio, nel novembre 1928 il decennale della vittoria fu celebrato in duomo all’insegna della continuità tra guerra mondiale e fascismo: Buffarini lesse il bollettino della vittoria, l’ex cappellano militare Ezio Barbieri celebrò la messa e Maffi benedisse il tumulo imbandierato e circondato da soldati e fascisti; tutti intonarono infine la Marcia reale, l’Inno del Piave e Giovinezza.

Come si vede, alla vigilia della conciliazione il cardinale non esitò a legittimare il regime che si voleva erede di Vittorio Veneto; il culto dei caduti, tuttavia, fu solo l’aspetto più evidente di una convergenza profonda che, come attesta il bollettino diocesano, si manifestò nell’approvazione delle misure varate dal governo per l’incremento della natalità, del numero delle questure sul territorio e, soprattutto, della produzione cerealicola, funzionale al ritorno alla vita “devota” dei campi.

Per quanto importanti, questi elementi impallidiscono di fronte a quello che, a buon diritto, può essere considerato il sogno di una vita: la conciliazione tra Stato e Chiesa del febbraio 1929, che segnò la fine dell’annosa «questione romana» e il culmine della parabola politico-religiosa di Maffi. Pur non avendo avuto parte attiva nei negoziati, egli volle manifestare la propria soddisfazione con tre lettere di ringraziamento dirette al papa Pio XI, al re Vittorio Emanuele III e al dittatore che «con mano sicura e forte» teneva le redini del Paese. Non si trattava di sentimenti affettati: nel comunicare la notizia al clero diocesano, infatti, il presule annunciò con toni trionfali la fine della vecchia Italia dominata da «massoneria, liberalismo, scuole atee e corruzione».

Gli ultimi anni furono ricchi di soddisfazioni per Maffi, chiamato a Roma nel gennaio 1930 per celebrare il matrimonio tra il principe ereditario Umberto e Maria José del Belgio a Roma. Nella circostanza, egli fu insignito del collare dell’Annunziata, che gli dava il titolo di cugino del re.

La morte lo colse nel marzo 1931, mentre la crisi tra regime e Azione cattolica entrava nella fase più acuta. A riprova delle tensioni mai del tutto sopite, il necrologio de «L’Idea fascista» (organo del fascio pisano) precisò che, al di là dei meriti innegabili acquisiti nel corso della sua carriera, lo scomparso non aveva compreso né apprezzato fin da subito l’importanza del fascismo. I detrattori, però, dovettero mordere il freno davanti alla solennità dei funerali che, oltre alla partecipazione di undici vescovi e del maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, ebbero l’adesione del re, del segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli e di Mussolini. Quest’ultimo plaudì in un telegramma all’«illustre cardinale Maffi che durante vita operosa seppe armonizzare religione, patria, scienza» e si fece rappresentare al rito dal sottosegretario di Stato al ministero di Giustizia e affari di culto Giuseppe Morelli. La resa dei conti, però, era solo rimandata. Ancora in ottobre, quando la tempesta sembrava ormai alle spalle, «L’Idea fascista» tornò ad accusare lo scomparso di antifascismo.

La presenza di una figura del calibro di Maffi, decisamente inusuale per una diocesi periferica e dalle dimensioni modeste come quella pisana, contribuì a dare agli eventi locali una risonanza notevole non solo nella penisola ma anche all’estero, facendo della Pisa degli anni Venti una sorta di osservatorio da cui scrutare i punti di forza e le criticità della politica ecclesiastica del fascismo. Soprattutto, la vicenda di Maffi evidenzia un dato cruciale. A dispetto di divergenze, tensioni, moniti, incidenti e intimidazioni, i responsabili ecclesiastici non smisero mai di cercare o, dopo il 1929, di difendere la conciliazione. Le leggi razziali causarono certamente un raffreddamento dei rapporti tra le due autorità, anche perché violavano le disposizioni concordatarie in materia di matrimonio; ciò detto, furono soltanto le sconfitte inanellate dall’esercito nel corso della Seconda guerra mondiale a segnare il distacco definitivo della Chiesa da un regime entrato ormai nella sua fase terminale.




Bagni di Casciana 1922: Gino Bonicoli, morte di un mezzadro

Morire a diciott’anni con una pallottola in testa. Per un fiore rosso portato con orgoglio all’occhiello. O per aver fischiettato Bandiera Rossa passeggiando per le strade del paese.

Piccoli gesti – apparentemente innocui – mossi dagli ideali, che si riveleranno fatali per Gino, perché considerati un affronto da coloro che stanno dalla parte opposta della barricata, resa ogni giorno più forte dall’arroganza che sfocia in violenza, dalla prepotenza che spazza via la ragione, lasciando sul campo una scia infinita di sangue. Date lontane un secolo, luoghi così vicini, scene maledettamente simili. Tanti nomi che oggi rischiano di ridursi a semplici elementi della toponomastica, legati a una via o a una piazza. Persone che hanno pagato con la vita il loro desiderio di libertà, per sé e per gli altri, finendo calpestati dallo squadrismo fascista. Quello di Gino Bonicoli, mezzadro ucciso per la sua fede comunista, non fu soltanto il frutto dell’esaltazione di un gruppetto di ragazzi, che se la presero con un coetaneo. Non fu solo la fredda esecuzione di un giovane che si ribellava alle nuove regole che si facevano strada seminando distruzione e violenza, sopraffazione. Esaltazione accompagnata dal tentativo di annientamento degli avversari politici.

Il libro “Gino Bonicoli. Morte di un mezzadro. Bagni di Casciana, 1° giugno 1922” (Tagete Edizioni, 2015), di Francesco Turchi, giornalista del Tirreno e scrittore per passione, ha l’obiettivo di ripercorrere una vicenda che rischiava di essere cancellata nella Memoria della comunità locale e non solo. L’autore ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti originali del tempo, raccolti negli archivi anche al di fuori dei confini regionali; verbali di consigli e giunte, informative prefettizie, sentenze. Ma anche articoli di giornale dell’epoca.

Quell’omicidio per essere compreso va inserito nel contesto storico nel quale maturò. Con un’Italia in ginocchio per le conseguenze della prima guerra mondiale.  Ed è qui che si inserisce il lavoro di Francesco Biasci, autore di una introduzione che prende il lettore per mano e lo porta indietro nel tempo, in un quadro ben definito sul piano economico, sociale e politico.

L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato, fatto di padroni e di servi che rivendicavano condizioni di vita migliori. In questo contesto, i fascisti, in un crescendo di violenza, prendono possesso dei paesi, fino a dominarli, soffocando qualsiasi opposizione. Minacciando, picchiando. Uccidendo. In tutta la provincia di Pisa come nel resto d’Italia. Con una frequenza terribile. Marzo 1921: a Barca di Noce viene ucciso Enrico Ciampi, fondatore della prima sezione comunista del Pisano. Il 13 aprile la stessa sorte tocca al maestro Carlo Cammeo, direttore del giornale socialista “L’Ora Nostra”, freddato nel cortile della scuola dove insegna a Pisa. Il 17 agosto viene ucciso Silvio Rossi, segretario comunale della giunta di sinistra a Palaia; un mese dopo vengono assassinati a Cascina i socialisti pontederesi Paris Profeti e Guido Bellucci. E ancora, nella primavera successiva, Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, socialista, assessore, viene ammazzato a Casteldelbosco mentre sta andando a Marti a una riunione sindacale. Il fuoco riduce in cenere sedi di partito e sindacati, i manganelli fanno il resto. E quando non bastano, entrano in scena le armi da fuoco.

Succede anche la sera del 1° giugno 1922 a Bagni di Casciana. Cinque mesi prima della marcia su Roma, Gino è vittima di un agguato mentre sta tornando a casa, nella campagna di Fichino. Non gli sono bastati avvertimenti e ultimatum. Continua a portare quel garofano rosso all’occhiello, ignorando le minacce. L’ha fatto anche la mattina stessa e poi la sera, “sorpreso” in un caffè quando invece gli era stato ordinato di starsene a casa. Nello Menicacagli, mugnaio di 21 anni e i due braccianti di poco più giovani, Alfredo Falchetti e Pietro Fabbri lo affrontano con una pistola. Menicagli spara, Gino muore. E morirà una seconda volta, poco tempo dopo, in un’aula di tribunale, quando al termine di un processo-farsa, gli imputati difesi dall’avvocato Guido Buffarini Guidi (sindaco di Pisa e poi podestà tra il 1923 e il 1933, futuro ministro della Repubblica sociale di Mussolini), ottengono l’assoluzione: «Hanno agito per legittima difesa», minacciati da Bonicoli. Che in realtà non ha mai avuto una pistola in vita sua, tanto meno quella sera maledetta. Ucciso due volte, umiliato una terza. Perché i suoi genitori fecero scrivere sulla lapide “vilmente assassinato mentre rincasava“. Nessun riferimento esplicito a mandanti (la cui esistenza non può essere esclusa ma non è mai stata provata) o esecutori. Ma tanto bastò per “invitare” i familiari a rimuoverla. Mamma Anna Maria, non obbedì, ma ordinò al marmista di girare la lapide. Per capovolgerla di nuovo e iniziare a riscrivere la verità, serviranno ventitré anni.

il cippo in memoria di G. BonicoliDopo la Liberazione e la fine dell’occupazione tedesca, i cascianesi rendono omaggio a Gino e poco dopo la Corte di Cassazione cancella il processo del 1922. Dodici mesi più tardi, il 19 giugno 1946 la Corte d’Assise di Pisa ristabilisce la verità su tutta la vicenda, condannando Alfredo Falchetti, l’unico rimasto in vita dei tre che tesero l’agguato a Bonicoli.

Ricordato, in questi giorni, nel centenario della sua morte,  con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione Comunale di Casciana Terme Lari, dalla sezione “Gino Bonicoli” dell’ANPI Valdera Colline, dal Circolo ARCI di Casciana Terme “Il proletario”, con la speranza che la Memoria non cancelli il suo sacrificio per la libertà.

Sono intervenuti alla commemorazione istituzionale di sabato 28 maggio il Sindaco di Casciana Terme Lari Mirko Terreni, il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo, Ivan Mencacci presidente della sezione Anpi Valdera Colline “Gino Bonicoli”, il responsabile Memoria e Antifascismo Arci Toscana Stefano Carmassi, l’Assessora Regionale alla Cultura della Memoria Alessandra Nardini. Con la partecipazione e i contributi degli alunni della scuola media di Casciana Terme, accompagnati dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Pizza.

Nel programma altre due  iniziative: il concerto del 1° giugno del Gruppo Musicale “La serpe d’oro”, e il 3 giugno una serata di musica e parole a cura di Guascone Teatro con la regia di Andrea Kaemmerle e la partecipazione del prof. Roberto Bianchi dell’Università di Firenze.




Le carte di “Lorenzo Gestri”: il fondo archivistico di un cultore degli archivi

Il mestiere dello storico – ha sostenuto di recente Adriano Prosperi – può essere descritto come una «deliberata immersione nelle profondità del dimenticato». Lo studioso di storia sarebbe quindi una sorta di sub, un palombaro che si avventura scendendo negli abissi oscuri per poi tornare in superficie e riportare alla luce reperti dimenticati o perduti, brandelli di realtà del passato.

In questa avventura nell’ignoto, diventa cruciale l’atto di scegliere, di individuare «ciò che si deve raccontare». Il momento della selezione è tanto importante in quanto ciò che si può trarre in salvo dall’oblio è appena una porzione infinitesimale rispetto a ciò che è destinato a rimanere sommerso: la storia è in realtà «una macchina per dimenticare», poiché «lo strato del ricordato e del ricostruito vi galleggia come una sottile zattera sull’oceano del dimenticato»[1].

Accostare l’oblio agli abissi oceanici è un luogo ricorrente. Ritroviamo una simile metafora marittima nella prefazione dell’ultima opera di Lorenzo Gestri, storico venuto a mancare esattamente venti anni fa. Le lotte legate all’«utopia igienista», ricostruite magistralmente da Gestri per il contesto pisano tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, rappresentavano una «sorta di Atlantide riemersa», una vicenda che aveva avuto in quegli anni «la forza trascinante di una grande prospettiva di palingenesi e resurrezione per l’intera umanità», ma che in seguito era stata dimenticata dagli storici, lasciata in disparte per concentrarsi su altre piste interpretative. «L’oblio – spiegava Gestri – ha radici diverse. Raggiunte le attese, trasformatesi le conquiste in prassi quotidiana, intervengono umanamente i meccanismi della memoria: il passato sgradevole viene lasciato cadere»[2].

Gestri_001La «macchina per dimenticare» tratteggiata da Prosperi veniva collocata nella riflessione di Gestri sul terreno delle grandi battaglie ideali e del conflitto sociale. Così facendo i contorni di alcuni degli ingranaggi dell’oblio si facevano più precisi: si dimentica perché non fa piacere né è utile tenere sempre davanti agli occhi le lacerazioni e gli scontri del passato, anche se questi hanno portato a un avanzamento positivo nella vicenda umana. Come «ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo», secondo la nota formula di Ernest Renan[3], è normale che ogni cittadino delle nostre travagliate democrazie dimentichi quanto il paesaggio sociale, politico e istituzionale che lo circonda sia frutto delle innumerevoli occasioni in cui i suoi antenati si sono trovati su fronti contrapposti a sostenere con veemenza diversi principî e ideali.

Salvare dall’abisso del dimenticato quei nostri antenati è stato uno dei compiti della vita – prematuramente interrotta – di Lorenzo Gestri. Nato nel 1943 a Piazza al Serchio, in provincia di Lucca, Gestri visse a Parigi parte dell’infanzia, per poi trasferirsi con la famiglia a Carrara. Figlio di insegnanti con ruoli dirigenziali e grande passione politica (il padre Leo, socialista, fu il primo sindaco rosso del comune apuano tra il 1956 e il 1961), ereditò e sviluppò sia l’amore per gli studi che l’impegno civile. Iscritto non appena maggiorenne al partito socialista nel 1961, l’anno seguente scelse di frequentare il corso di laurea in Lettere moderne dell’Università di Pisa, con l’idea di approfondire la conoscenza della grande tradizione del socialismo italiano, «il desiderio […] di “rivisitare” le origini del movimento, origini che, come sempre accade per tali fenomeni, sono pure, autentiche, “rivoluzionarie”, prima che il movimento, passando sul terreno dell’organizzazione strutturata e permanente, perda la sincerità delle sue fonti, iniziando appunto a “fare politica”, a secolarizzarsi»: «volevo affinare la mia preparazione storica, per avere più strumenti nelle scelte che ero chiamato a fare appunto nel presente», avrebbe scritto più tardi[4].

La passione per lo studio prese invece il sopravvento, e invece che intraprendere la carriera politica – pure intesa come una continuazione della storia con altri mezzi – Gestri intraprese la carriera accademica, intesa come una continuazione della politica con altri mezzi. Laureato nel 1969 con una tesi intitolata Il movimento operaio e socialista nella provincia di Massa-Carrara dal 1895 al 1905 (relatore Mario Mirri), divenne prima assistente ordinario presso la cattedra di Storia del Risorgimento, retta da Giorgio Candeloro con cui stringe un forte legame, poi titolare della cattedra di Storia del movimento operaio e sindacale. Un ricco profilo della produzione storiografica è rintracciabile in rete nella pagina a lui dedicata dalla Biblioteca Franco Serantini, con cui Gestri ebbe un rapporto intenso e appassionato. Sin dalla nascita infatti, scrive Franco Bertolucci, «non c’è stata iniziativa della biblioteca che non abbia visto in Gestri l’interlocutore naturale, attento, sempre pronto a offrire un consiglio per migliorare il nostro lavoro»[5].

Non è un caso quindi se la famiglia ha scelto di affidare le sue carte di studio alla Biblioteca Serantini, oggi anche Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pisa. Il fondo archivistico di Lorenzo Gestri è composto da 53 buste, 47 unità tra quaderni piccoli, agende, block notes, raccoglitori di appunti manoscritti, e 14 schedari a fogli mobili. Di questi solo 3 buste e 2 schedari, versati alla Biblioteca precedentemente, sono già inventariati; per le altre al momento esiste solo un elenco sommario curato da chi scrive. Le buste sono composte in gran parte da fotocopie di materiale archivistico e di pubblicazioni coeve, sistemate tematicamente attorno ad alcuni nuclei di ricerca. Di questi, solo alcuni hanno poi trovato uno sbocco in pubblicazioni compiute, come il libro già citato sulla cremazione a Pisa; altri invece rappresentano materiali preparatori per lavori da completarsi. Corposa la documentazione raccolta ad esempio sulla situazione sociale ed economica del centro portuale di La Spezia tra la seconda metà dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, che occupa quasi nove buste; oppure sull’emigrazione lunigianese a cavallo tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo, contenuta in tre buste, di cui lo stesso Gestri aveva segnalato di avere pubblicato «solo […] un primo contributo derivato da un lungo lavoro di spoglio delle fonti ufficiali a stampa, che comparirà in termini più esaustivi nell’ambito di uno studio più generale dedicato all’economia ed alla società della Val di Magra, al momento in attesa di pubblicazione»[6]. Nelle buste si trovano anche le tracce dell’attività culturale e politica di Gestri: la creazione dell’Istituto storico Apuo-Lunense nella seconda metà degli anni Settanta, la commemorazione di Giorgio Candeloro nel giorno del commiato, la presentazione alle elezioni politiche del 1994 con una lista socialista.

Sono impressionanti però soprattutto gli schedari e i raccoglitori, dove con una scrittura minuta e precisa Gestri ha registrato centinaia di nomi di militanti di base dall’esistenza oscura e di associazioni di lavoratori dalla vita spesso effimera, i cui riferimenti però erano stati rintracciati negli archivi, sia pubblici che privati, e nella stampa militante dell’epoca e di cui venivano annotati fino ai minimi riferimenti: gli indirizzi, le informazioni biografiche, le cariche ricoperte, le quote versate per le sottoscrizioni pubbliche. È un segno della passione per «quell’universo affascinante della storia dei “vinti” e degli “irreducibili” che sempre ha attirato la curiosità storica e la passione civile di Gestri»[7]. Di questa inclinazione alla ricostruzione meticolosa e certosina si trova prova in alcuni fascicoli dedicati a Pisa, dove a partire dagli elenchi elettorali del 1908 erano state tratte delle elaborazioni non conclusive, ma che sicuramente hanno contribuito ad arricchire la conoscenza profonda della realtà popolare pisana dello studioso. «La ricerca – ha scritto Gestri – comporta realmente vivere in lunghe frequentazioni con le ombre, ascoltarne le voci»[8]: a partire dalle voci che Lorenzo Gestri ha scelto di ascoltare nella sua carriera di storico, ha voluto selezionare nella sua personale immersione nell’oceano del dimenticato, è possibile apprezzare lo spessore di uno studioso profondo e sensibile, che molto ha lasciato alla storiografia del movimento operaio e sindacale e che ancora di più avrebbe potuto lasciare. Le sue carte sono oggi disponibili per chi voglia continuare a immergersi in quelle stesse acque.

[1] Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino 2021, p. 54.
[2] Lorenzo Gestri, Le ceneri di Pisa. Storia della cremazione. L’associazionismo laico nelle lotte per l’igiene e la sanità (1882-1939), Nistri-Lischi, Pisa 2001, p. 6.
[3] Ernest Renan, Che cos’è una nazione? Conferenza tenuta alla Sorbona l’11 marzo 1882, in Id., Che cos’è una nazione?, introduzione di Silvio Lanaro, Donzelli, Roma 2004, p. 8.
[4] Lorenzo Gestri, Lettera di dimissioni dal Partito Socialista Italiano (1992), in Id., Storie di socialisti. Idee e passioni di ieri e di oggi, a cura di Laura Savelli, Dipartimento di Storia moderna e contemporanea. Università di Pisa – Bfs, Pisa 2003, p. 174.
[5] Franco Bertolucci, Gestri, Lorenzo: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/99-gestri-lorenzo
[6] Lorenzo Gestri, Incombenze e tribolazioni accorse ad un propagandista libertario in un anno di grazia di fine ‘800, in Id., Storie di socialisti cit., p. 193.
[7] Bertolucci, Gestri, Lorenzo cit.
[8] Gestri, Le ceneri di Pisa cit., p. 13.




Franco Serantini cinquant’anni di memoria contro l’ingiustizia

Sono passati cinquanta anni da quel maggio del 1972 in cui Franco Serantini perse la vita. Morì due mesi prima dal compimento dei 21 anni. Viveva da semi-recluso nel Collegio Thouar di Piazza San Silvestro a Pisa, orfano ospite di una struttura semi-carceraria: una volta raggiunta la maggiore età avrebbe potuto finalmente lasciare il riformatorio per andare a vivere da solo (poco più tardi, nel 1975, il Parlamento avrebbe abbassato ai 18 la soglia per diventare maggiorenni). Oggi Franco di anni ne avrebbe avuti poco più di 70 e probabilmente si starebbe godendo la pensione, dopo una vita di lavoro. Impiegato per la IBM, questa era la sua idea: aveva imparato a preparare le schede perforate, in un’epoca in cui i personal computer non esistevano e l’automazione informatica si faceva strada attraverso dei biglietti di carta pieni di buchi.
Purtroppo il suo progetto non si realizzò mai, il percorso immaginato verso la libertà e l’autonomia si chiuse per sempre il 5 maggio di cinquanta anni fa. Quel pomeriggio, dopo essere stato alla sede della IBM dove faceva l’apprendistato, Serantini andò in strada per partecipare a una manifestazione, una delle tante di quegli anni finite con scontri, arresti e cariche della polizia. Come migliaia e migliaia di ragazzi e ragazze di quegli anni, sentiva che senza una dimensione collettiva, senza una ricaduta politica, non aveva senso la riuscita individuale. Le ingiustizie che aveva subito fino ad allora non erano state poche: Corrado Stajano avrebbe scritto che la sua era una storia ottocentesca, «ai limiti dell’invenzione settaria, priva di ogni luce, colma soltanto di miseria, di violenza, d’ingiustizia». Sardo “figlio di N.N.”, adottato da una coppia di siciliani, divenne anche orfano dopo la morte della madre adottiva. Riconsegnato alle strutture dello Stato, venne mandato a Pisa, dove maturò una forte sensibilità politica e dove in un’altra struttura dello Stato in cui non era mai stato prima trovò la morte.
Serantini tessera_ridottaIl tardo pomeriggio del 5 maggio 1972 fu picchiato con i manganelli, i calci di fucile, gli scarponi dei poliziotti della celere di Roma, mandati a Pisa per garantire che i comizi della campagna elettorale si svolgessero senza interruzioni. In una carica sul Lungarno Gambacorti, nella sponda meridionale del fiume, a pochi metri da quella che oggi è l’entrata di Palazzo Blu, luogo di esposizioni, Franco Serantini fu massacrato, poi caricato su una camionetta e portato in caserma, quindi al carcere Don Bosco. Qui fu interrogato da un giudice e passò la visita dal medico penitenziario, ma non ricevette le cure che il suo stato di salute avrebbe preteso. La vicenda di queste ultime drammatiche ore si può sovrapporre a quella vissuta decine di anni più tardi da Stefano Cucchi, ragioniere romano ucciso mentre era in stato di fermo di polizia nell’ottobre 2009. Le violenze esercitate dalle forze dell’ordine sui corpi di Franco Serantini e Stefano Cucchi sono diventate invisibili agli occhi dei funzionari statali che erano incaricati della loro custodia: medici e giudici si sono fatti ciechi di fronte agli ematomi e alle disfunzioni fisiologiche. Ma purtroppo le ferite non si riassorbirono da sole e i corpi delle vittime dei pestaggi cessarono di funzionare. Serantini morì all’alba del 7 maggio 1972, dopo un giorno e mezzo di agonia.

Cinquanta anni più tardi la vicenda processuale di Stefano Cucchi è arrivata alla giustizia: due carabinieri sono stati riconosciuti colpevoli in via definitiva lo scorso 4 aprile. Lo Stato è riuscito a processare se stesso in nome della trasparenza e della rettitudine. Per Serantini invece la vicenda si concluse con un nulla di fatto. Una battaglia civile determinata e intelligente riuscì a riconoscere le cause della morte, la realtà del linciaggio venne acclarata dai 55 rilievi eseguiti sul cadavere, ma non venne istituito nessun processo. Le indagini si chiusero con un non luogo a procedere per impossibilità di individuare i colpevoli, protetti dall’omertà dei corpi di polizia.

La memoria invece, al contrario delle indagini, non si è mai smarrita né fermata. Le modalità con cui le strutture carcerarie avevano tentato di occultare le ragioni del decesso avevano portato la città farsi carico della tutela post mortem di Serantini. Un funzionario del Comune di Pisa impedì il tentativo di seppellire il corpo senza un’autopsia. Esponenti antifascisti locali riuscirono a costituirsi parte civile per scoprire la verità. Il funerale di Serantini vide una intera città abbracciare quell’orfano che aveva perso la vita prima di trovarla pienamente. La memoria di quella morte aveva quindi da subito superato l’ambito personale di chi aveva conosciuto direttamente Serantini, e quello politico di chi militava nelle formazioni politiche a cui Serantini aveva aderito, in primo luogo il movimento anarchico, ma anche la formazione extraparlamentare di Lotta Continua a cui in precedenza aveva militato.
La memoria civile superò i confini locali e divenne un patrimonio diffuso nel paese grazie a un libro. Fu proprio lo sdegno suscitato dall’esito della vicenda giudiziaria nel 1975, a spingere Corrado Stajano – allora giornalista 45enne con alle spalle un libro e alcuni documentari con Ermanno Olmi – a dedicare un’inchiesta sulla figura di Franco Serantini. Il libro che ne risultò, Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini edito da Einaudi, divenne un best seller, arrivando a vendere diverse decine di migliaia di copie. A Torino una scuola media venne intitolata a suo nome, a Pisa una biblioteca, oggi diventata istituto per la storia della resistenza all’interno della Rete Parri, e una casa editrice.
Queste memorie continuano a essere attive oggi, a cinquanta anni dai fatti. Ma ancora vivono le memorie di chi per ultimo incontrò Serantini in salute, dei celerini suoi coetanei che in quel maggio 1972 «gli cercarono l’anima a forza di botte», come recitava una canzone di Fabrizio De André uscita pochi mesi prima, alla fine del 1971. Memorie mute, che non hanno mai parlato né rivelato ciò che successe sul Lungarno Gambacorti, protette dall’omertà dei corpi dello Stato.
Negli scorsi giorni, intanto, è stata resa pubblica una lettera aperta con la richiesta di una parziale giustizia, di dare il nome di Serantini alla piazza dove aveva trascorso gli ultimi anni di vita. In Piazza San Silvestro gli amici e i compagni di Franco, insieme a gran parte della città, lo avevano voluto ricordare con una targa sull’edificio dell’ex collegio Pietro Thouar posta nel 1972 e con un monumento di marmo inaugurato nel 1982. Da allora per la città di Pisa, quella è Piazza Serantini. La lettera è firmata da personalità autorevoli come Gian Mario Cazzaniga, Maria Valeria Della Mea, Ezio Menzione, Ilaria Pavan, Adriano Prosperi e Corrado Stajano, e chiede che anche le istituzioni riconoscano alla piazza il nome di Serantini. Intanto la città ricorderà la sua storia la prima settimana di maggio, grazie a tre iniziative organizzate dalla Biblioteca Franco Serantini. Il 3 maggio verrà proiettato il documentario di Giacomo Verde S’era tutti sovversivi; il 5 maggio sarà presentato il libro Cinquant’anni di memoria contro l’ingiustizia, il 7 maggio si terrà un presidio mobile da Piazza Venti Settembre per celebrare in strada la memoria di Serantini. Nella convinzione che la sua storia meriti di rimanere evidente nel corpo della città, attraverso un atto di giustizia simbolica, in mancanza di quella giudiziaria.