Leggere i manifesti di Oriano Niccolai

La Federazione del Partito comunista di Livorno aveva un grande grafico. Anzi un grandissimo grafico, Oriano Niccolai. L’Istoreco di Livorno gli ha dedicato, nel 2013 e poi di nuovo nel 2014, una bellissima Mostra con un altrettanto significativo Catalogo, dal titolo Rosso creativo.[1]  Le intenzioni dell’autrice di questo brano sono di cominciare, con questo intervento in rete, una sequenza di approfondimenti per raccontare come una visione politica si possa rappresentare graficamente e come si possa proporre una lettura della storia politica dell’Italia a partire dai colori, come suggerisce Maurizio Ridolfi [2], dalle scelte grafiche, dal testo che le accompagna. Perché i manifesti politici utilizzano una modalità polisemica per veicolare il loro messaggio. Parlano attraverso il colore, l’impaginazione, la grafica, le parole, la loro stessa dimensione e la tecnica di realizzazione.

Sez.2_18_0345Per favorire la comprensione di questa affermazione utilizzerò alcune esemplificazioni concrete, collocabili in un tempo ed uno spazio preciso, a partire dal manifesto del 1961 in occasione della vittoria di Castro a Cuba. Il manifesto è firmato lateralmente con un rinvio al committente, che è il Pci ma in particolare la Federazione giovanile comunista di Livorno. E noi sappiamo che per i manifesti della Fgci Oriano, come tutti gli altri grafici comunisti, aveva più libertà d’azione rispetto invece alle direttive che si ricevevano dalla direzione del Partito per quelli, in qualche modo, più ufficiali. Il colore che domina è il bianco dello sfondo. Secondo la lettura più ortodossa in cima al manifesto trionfa una scritta dove si ricorda che ha vinto non il leader, ma il “popolo” di Cuba che si è liberato del dittatore Fulgencio Battista. Poi il manifesto prosegue richiamando Castro e subito dopo ancora la rivoluzione cubana, ma aggiungendo a chiusura un richiamo alla pace. Qual è l’aspetto più significativo di questa comunicazione, della sua realizzazione grafica? Sicuramente festeggiare l’avvenuta presa del potere da parte di Castro. Quale l’intenzione che ci sta dietro? Allacciarsi al tema dell’internazionalismo in una cornice nella quale questo tema appassionava ancora milioni di uomini e di donne. Aver utilizzato l’immagine della bandiera cubana spezzata a cosa rinvia? Spezzata perché i cubani si sono liberati di un dittatore? Può darsi. Ma a mio parere ancora di più perché la bandiera cubana, ironia della sorte, è costruita con strisce blu su sfondo bianco e con una stella su sfondo rosso. Ricorda quasi in modo automatico la bandiera statunitense. Ed allora averla impaginata in questo modo, con le strisce “esplose” è un rinvio alla sconfitta degli Usa che in questa partita giocarono un ruolo decisivo ma pur sempre perdente. Non aver caricato il manifesto di “rosso” evita alla comunicazione di presentarsi come conforme ad una ortodossia comunista ancora molto forte agli inizi del decennio Sessanta, permette alla comunicazione di rimanere su un registro più “leggero”.

punto esclamativoPassiamo adesso ad un altro manifesto di quello stesso periodo, periodo contrassegnato anche dall’impegno militante di tutta la sinistra italiana a favore del popolo vietnamita in lotta contro gli Stati Uniti.  Nel manifesto di nuovo domina il bianco. Sembra impaginato con una disciplina grafica che risponde ad una direttiva artistica del “togliere” e non a quella dell’aggiungere. Il manifesto si può definire minimalista, quasi astratto. Un grosso punto esclamativo che produce un effetto “non centrato” rispetto al foglio, e che a causa di questa sua asimmetricità ha un impatto sul lettore ancora più efficace, produce un richiamo all’attenzione ma nello stesso tempo, e anzi ancora di più, rinvia alla traiettoria di una bomba che cade. La scrittura del testo che accompagna l’immagine, nelle realizzazioni di Niccolai sempre sintetica e mai aggiuntiva o sostitutiva, è collocata a sinistra e a destra della “bomba-punto esclamativo”.  Il messaggio invita ad un’azione di impegno contro la guerra, all’organizzazione di una Marcia della Pace dentro un quartiere periferico, a sud della città, una mobilitazione di quella che oggi potremmo chiamare la “società civile”. Un luogo decentrato nella città, nella sua periferia sud. Noi sappiamo che quel manifesto è uscito dalla Federazione del Partito comunista di Livorno e quindi ha una sua specifica e ben riconoscibile paternità politica, ma sappiamo anche l’originalità di questa composizione che rinvia senza mezzi termini alle avanguardie pittoriche più interessanti e alla migliore grafica italiana. Sappiamo che per Oriano fare il grafico era “l’arte del togliere”, e sappiamo che non l’aveva imparato da Calvino e dalla sua esigenza di leggerezza, ma dal suo maestro, Albe Steiner[3], il più grande e innovativo disegnatore/comunicatore del secondo dopoguerra italiano. E sappiamo[4] anche che quando sceglieva le parole per ogni manifesto, in testa gli giravano sia i racconti di Marcovaldo che le poesie del suo caro amico Gianni Rodari. Quel Rodari che si era ispirato a lui nella filastrocca “Giovannino perdigiorno”, che in primis doveva essere “Orianino perdigiorno[5]”. Perché? Perché Oriano aveva un aspetto minuto, quasi fanciullesco, con un’aria perennemente assorta e riflessiva, sembrava uno un po’ svagato che correva dietro alle nuvole immaginarie che si agitavano nella sua testa.  Chi lo ha frequentato lo ricorda così: concentrato sopra una pagina di giornale, taciturno, quasi assente, eppure Oriano era sempre assai presente, uno capace di ascoltare le richieste, farle proprie per poi trasformarle in un messaggio grafico e linguistico impeccabile, mai superfluo, mai retorico. Con le sue proposte, che difendeva con caparbietà e consapevolezza, riusciva ad interpretare i bisogni della Federazione, del Partito nel suo insieme, o delle singole parti di quella che era una macchina mastodontica, pesante, lenta. Ma nel farlo ogni volta si prendeva lo spazio di affermare la sua scelta grafica, libera e “leggera”, mai monumentale, mai ingombrante. Perché Niccolai metteva la sua capacità a disposizione del Partito non in modo mercenario o opportunista ma da appassionato militante quale si sentiva e voleva essere.

mollettaMolti anni dopo, ancora per un’altra occasione di mobilitazione per la ricerca di pace. Oriano Niccolai disegna un altro manifesto. Siamo nei primi anni Novanta. La guerra stavolta è quella del Golfo. I tempi sono cupi e Niccolai sceglie lo sfondo nero su cui troneggia la data dell’appuntamento politico e sotto, attaccata ad un filo, è sospesa una bomba tenuta ferma soltanto da una molletta per i panni, su un filo pesantemente curvato. La scritta successiva indica il cosa fare e come, rinvia all’appuntamento di una fiaccolata. La manifestazione quindi si fa in notturna e questo può anche aver ispirato Niccolai a fare lo sfondo nero. Ma lo sfondo è nero anche perché siamo entrati in un orizzonte più cupo, il mondo per un vecchio militante comunista non è più così chiaro, c’è già stata la caduta del muro di Berlino e il tentativo di golpe contro Gorbaciov, tutto si è fatto più incerto. Per chi osservava quel manifesto, quel nero e bianco della bomba erano molto più significativi delle tante immagini di orrore che già campeggiavano nella nostra percezione nonostante la volontà di anestetizzare quella guerra da parte dei suoi contendenti. La “bomba” di Oriano non è proprio la bomba “intelligente” della propaganda militarista. È una bomba sospesa che sta per cadere. Che sicuramente cadrà, così come è, appesa ad un filo. L’innocua molletta, oggetto umile, persino casalingo che la trattiene, non la può certo bloccare per molto ancora. Quindi il messaggio implicito ma non troppo è: partecipate numerosi, la pace è in pericolo e forse siamo già in ritardo. Pochi anni fa due giovani artisti livornesi, Valerio Michelucci e Stefano Pilato ispirandosi forse a questa bomba realizzarono una installazione in occasione del 70° bombardamento di Livorno, quello del 28 maggio del 1943, e ne fecero una finta, dipinta di color fucsia magenta, e la attaccarono sospesa ad un palazzo vicino al mercato di Piazza Cavallotti, luogo popolare, deputato a rappresentare la tradizione democratica e pacifista della città. Perché le proposte intelligenti e creative permettono anche questo, di essere riprese e aggiornate e, risultare, nonostante le loro radici nel passato, originali e intelligenti.[6]

[1] Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti (a cura di Margherita Paoletti), Debatte Editore, Livorno, 2013. I manifesti che risultano nel Catalogo corrispondono a quelli della Mostra che fu realizzata a Livorno dall’8 al 22 novembre 2013 presso Villa Henderson e replicata a Pisa l’anno successivo presso il Centro San Michele degli Scalzi. Sono oggi custoditi presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno e formano tutti insieme un fondo di circa duemila pezzi.

[2] Maurizio Ridolfi, L’Italia a colori Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Le Monnier, Bologna, 2015.

[3] Rosso creativo, cit., p. 15.

[4] L’espressione “noi sappiamo” non è legata a nessuna astuzia retorico-linguistica ma è giustificata dalle decine di ore di interviste e colloqui che prima di fare la Mostra e il Catalogo abbiamo avuto il piacere di realizzare all’interno dell’Istituto. In particolare Margherita Paoletti, che curò tutta l’operazione, costruì con Oriano Niccolai una specie di carta d’identità di ogni manifesto utilizzato.

[5] Rosso creativo, cit., p. 15.

[6] Purtroppo la bomba finta non c’è più. Fu realizzata nel 2013 e mai presa in carico dal Comune di Livorno. Distrutto uno dei fermi che la sostenevano, è stata tolta e mai più reinstallata.

Articolo pubblicato nel maggio del 2017.




Un quadro comunista: Natale Consorti

Quando mi è stato proposto di realizzare un libro-intervista con Natale Consorti (C come comunista. L’impegno di una vita, a cura di Alessandro Affortunati e di Luciana Brandi, Prato, Pentalinea, 2017) ho accettato subito molto volentieri perché Consorti, “Natalino” per i suoi concittadini vaianesi, è, a mio parere, una figura di grande interesse dal punto di vista dello storico in quanto rappresenta un tipo di quadro politico e sindacale molto diffuso nel secondo dopoguerra: di origine popolare, autodidatta, formatosi politicamente nel lavoro di partito e nella lotta quotidiana per affermare i diritti degli operai nella fabbrica, tale tipo di quadro ha saputo poi mettere a frutto, come amministratore, l’esperienza maturata e dare in tal modo un importante contributo allo sviluppo del Paese. È ad uomini come lui, semplici operai o contadini, che si deve la ricostruzione e la rinascita dell’Italia dopo la tragica e fallimentare esperienza del fascismo e della guerra.
Il testo dell’intervista è stato raccolto fra il dicembre del 2016 ed il gennaio del 2017: i quattro capitoli iniziali rispecchiano, a grandi linee, le varie fasi della vita dell’intervistato, mentre il quinto, abbandonando la dimensione locale, affronta il tema della crisi della sinistra.
Seguendo il filo dei suoi ricordi, Natale ci parla dunque della sua infanzia, dei momenti di serenità vissuti a casa degli zii nell’Osmannoro (e l’Osmannoro – rammenta – era allora “un paradiso”), ma anche della durezza della vita di fabbrica, quando, appena quattordicenne, cominciò, con altri ragazzi, a scegliere le bobine dal Forti, passando ore ed ore coi ginocchi in terra, su un pavimento di cemento, pieno di olio e di polvere, con le unghie che si consumavano, il callo che si formava sulle ginocchia e gli stinchi che si riempivano di bolle.
Sono l’esperienza diretta dello sfruttamento e la frequentazione, durante il ventennio, dell’ambiente laico e progressista della Pubblica assistenza vaianese che fanno maturare in lui una precoce coscienza di classe. Nel 1944, subito dopo il passaggio del fronte, Natale si iscrive al PCI ed alla CGIL. L’impegno nel partito e nel sindacato rappresenta per lui, come per tanti altri compagni, un momento di crescita non solo sul piano politico ma anche su quello personale, che lo porta a vincere la timidezza, ad acquisire piena coscienza dei propri diritti e ad affrontare senza alcun timore il padrone (come segretario della commissione interna della Forti, Natale ebbe un ruolo di primo piano nell’aspra vertenza che, nel periodo della smobilitazione delle fabbriche, si sviluppò negli stabilimenti della Briglia e dell’Isola).
In quel torno di tempo Natale vive anche, a fianco di Carlo Ferri, l’esperienza della costituzione del Comune di Vaiano. Con la nascita del Comune comincia la sua lunga esperienza di amministratore, prima come consigliere comunale e poi come sindaco dal 1975 al 1978, quando dovette dimettersi per ragioni di salute. Fra le realizzazioni dell’amministrazione da lui presieduta vanno ricordate almeno l’adesione di Vaiano al Consiag (la metanizzazione portò ad un notevole risparmio sul costo del riscaldamento sia per uso industriale che per uso domestico) e la ristrutturazione della scuola materna di Sofignano. Natale fu poi presidente della Comunità montana della Val di Bisenzio e consigliere provinciale a Firenze ed a Prato.
Dall’intervista emerge chiaramente anche l’importanza dell’impegno di Natale nel campo dell’associazionismo, un impegno concretatosi nell’inaugurazione della nuova Casa del popolo (20 settembre 1970) – che restituì finalmente agli operai un punto di riferimento, un locale dove ritrovarsi, dove poter discutere e godere di qualche momento di svago – e nella rinascita della Pubblica assistenza (1° marzo 2006), dopo l’acquisto della palazzina di via Braga da parte della Casa del popolo stessa e dalla Pubblica Assistenza “L’Avvenire” di Prato (Natale ha coperto la carica di presidente della Sezione vaianese della PA fino al 2010).
L’ultima parte dell’intervista è dedicata alla storia del PCI nel secondo dopoguerra ed alla crisi della sinistra in Italia. Una crisi che Natale riconduce all’abbandono di quei valori che da sempre hanno costituito il patrimonio ideale della sinistra politica, ad una progressiva perdita di identità che ha portato ad un continuo calo di consenso e di voti. Sulla base di queste considerazioni, chiaramente espresse nell’intervista ed in uno dei documenti riprodotti nel libro, egli si è quindi opposto alla liquidazione del PCI ed alla deriva che ha portato alla nascita del PDS-DS-PD. In sostanza – senza nessuna nostalgia per l’esperienza del cosiddetto “socialismo reale”, sul quale formula un giudizio di netta condanna –, egli mantiene vive le ragioni dell’essere comunista, non rinuncia al sale di una visione della storia imperniata sul concetto di lotta di classe.
Oggi Natale è un comunista senza tessera, che non ha perso né l’entusiasmo di una volta né la fiducia nella possibilità di realizzare una società diversa e migliore: “il mondo è sempre andato avanti – ci dice – ed avanti continuerà ad andare nella misura in cui noi saremo in grado di farlo progredire. Il compito della sinistra, oggi come ieri, è questo”.
Ed a Natale siamo riconoscenti anche per queste parole di speranza.

Articolo pubblicato nel maggio del 2017.




«Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano». La Resistenza di don Roberto Angeli

Livorno, aprile ’44. Nelle quattro stanze al pianterreno di una palazzina di via Micali 9, sono stipati circa 90 ebrei. Tra loro anche una ventina di profughi francesi di origine italiana, scampati non si sa come ai rastrellamenti nazisti di Parigi del ’40: un’odissea di mille chilometri per finire di nuovo nella bocca del leone. Tutti insieme (malati, vecchi, bambini e profughi) sono nascosti lì da cinque mesi. Da quando cioè l’ospedalino israelitico di via degli Asili è finito nella zona della città requisita dai tedeschi e quell’angelo in tonaca nera si è fatto in quattro per organizzare il nuovo rifugio. Quattro tocchi leggeri alla finestra, è il segnale. Raffaello Niss, interrompe il gioco coi bambini, circospetto si avvicina alla porta e gira il chiavistello. Con sollievo, pensa: «È ancora lui». Sul volto affilato di don Angeli si scalda un sorriso. Tra le mani tiene stretto il consueto fagotto: viveri, medicinali, indumenti, mille lire e la novità di un piccolo cartoccio: «Ecco la farina per il vostro Seder pasquale».

L’istantanea fotografa uno degli episodi più noti dell’opera di soccorso agli ebrei organizzata da don Roberto Angeli, figura di spicco della Resistenza toscana. Appena un mese dopo quel gesto di rara sensibilità il sacerdote livornese venne arrestato dalla Gestapo e internato per un anno in un’odissea che toccò i campi di Fossoli, Mauthausen, Gusen e Dachau. Oggi che l’interesse sul sacerdote, scomparso nel 1978, si va accrescendo (nel 2007 la diocesi livornese ha rieditato il suo Vangelo nei lager, studi e iniziative si moltiplicano) si comprende quanto complessa e estesa sia stata la trama della rete di assistenza organizzata in quei mesi.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

I LEGAMI CON LA SANTA SEDE. Dagli archivi emerge che l’opera del gruppo di don Angeli (sacerdoti e giovani laici provenienti dagli ambienti della Fuci) era legata a doppio filo non solo al movimento di resistenza militare della capitale ma anche alla rete clandestina vaticana di soccorso agli ebrei e ai prigionieri alleati. Don Angeli, fondatore del gruppo dei cristiano-sociali livornesi, comandava uno dei servizi informazione della divisione Giustizia e Libertà della Toscana e, grazie anche al supporto di suo padre Emilio (conosciuto nella Resistenza come il “nonnino”) aveva stabilito contatti personali con la marchesa Giuliana Benzoni, con la «primula rossa» monsignor Hugh O’Flaerty dell’ambasciata irlandese, col futuro cardinale Pietro Palazzini, oggi annoverato nel giardino dei Giusti di Gerusalemme. Attraverso questi canali dalla Santa Sede e dalle varie ambasciate arrivarono aiuti in denaro, indumenti, viveri, medicinali, documenti falsi per decine di ebrei e centinaia di prigionieri alleati nascosti in vari paesi della Toscana e dell’Emilia.

IN SOCCORSO DI 1600 PRIGIONIERI ALLEATI. Dopo l’8 settembre 1943 giunse ai cristiano-sociali la segnalazione di un gruppo di prigionieri alleati nella zona di Vinchiana (Lucca). Fu allora che don Angeli, che da tempo era addentro agli ambienti romani per i suoi studi alla Gregoriana, cercò e stabilì contatti con la marchesa Giuliana Benzoni, «ricevendone una prima somma di 20 mila lire – scrive Emilio Angeli in un relazione al Servizio Informazione Militare, l’intelligence italiana – per i bisogni più urgenti dei prigionieri lucchesi. Da allora le segnalazioni ed informazioni sui gruppi di prigionieri bisognosi di aiuto si moltiplicarono». Dal 10 novembre 1943 al 25 agosto 1944 il gruppo che faceva capo a don Angeli riuscì a correre in soccorso a un numero notevolissimo di persone. «1500-1600 militari alleati – scrive ancora il “nonnino” – senza dimora stabile, sprovvisti di tutto, dal vestiario ai viveri». Più difficile stabilire, allo stato attuale delle documentazioni, quanto furono gli ebrei nascosti e soccorsi in quei mesi.

LA MARCHESA BENZONI, L’EMINENZA GRIGIA IN GONNELLA. Giuliana Benzoni fu un personaggio di assoluto rilievo nella Roma occupata: dalla «generosa suola delle scarpe» della marchesa, scrive Fulvia Ripa di Meana, «escono permessi militari, congedi e false carte d’ identità». Per Maria José di Savoia, fu una sorta di “eminenza grigia in gonnella”, capace di introdurre la “regina di maggio” negli ambienti antifascisti romani e in diretto contatto col sostituto della segreteria di Stato vaticana, monsignor Giovanni Battista Montini. «Fra Badoglio, Bonomi, Croce, Sforza, De Nicola, Togliatti, Nenni, De Gasperi, Gonella, Saragat, La Malfa, Giorgio Amendola, generali ed eminenze vaticane, “gappisti” ed emissari alleati – scrive Nello Ajello – la Benzoni esaltò i suoi talenti. Era ora vivandiera dei partigiani e falsificatrice di carte annonarie, ora esperta in radio rice-trasmittenti e “crocerossina dell’ informazione”, ora addetta a nascondere prigionieri, ebrei, militari sbandati».

FIUMI DI DENARO BUONO DA ROMA. Pressappoco le stesse operazioni che riuscì a mettere in piedi il gruppo di don Angeli, in mezza Toscana: i bracci del soccorso livornese furono capaci di arrivare, oltre che nella provincia di Livorno, anche in quelle di Firenze, Pistoia, Grosseto, sulle Apuane e perfino nelle zone di Modena. Per il soccorso ai prigionieri alleati la sola Benzoni, scrive Emilio Angeli, «mi affidò complessivamente una somma di lire trecentocinquantamila». Ma non fu tutto: «Data l’insufficienza delle somme messe a disposizione dalla Benzoni – scrive il “nonnino” – col sopraggiungere delle esigenze invernali, mio figlio don Roberto si recò nuovamente a Roma, riuscendo a conferire direttamente con l’ambasciata Irlandese in Vaticano e l’ambasciata Jugoslava. Fu così che la situazione dei prigionieri alleati in Toscana fu fatta presente anche all’ambasciata inglese in Vaticano». Ai militari jugoslavi, nascosti nei pressi di Ponte a Moriano, venivano portati gli aiuti che provenivano da monsignor Nicola Moscatello, dell’ambasciata jugoslava.

Oflaherty

Hugh O’Flaerty, la “primula rossa” del Vaticano

AL LAVORO CON LA «PRIMULA ROSSA». Ma è con l’ambasciata irlandese e quella inglese che don Angeli riuscì a creare i contatti più preziosi: «L’ambasciata irlandese – scrive Emilio Angeli – fu in grado di assicurare che tutti i prestiti e le spese sostenute da chiunque per aiutare i prigionieri sarebbero stati restituiti dagli Alleati non appena il territorio fosse stato liberato. Questo data l’impossibilità da parte dell’ambasciata inglese di fornire al momento direttamente le somme occorrenti. All’ambasciata irlandese furono così portati nomi e messaggi dei prigionieri alleati da trasmettersi a Londra». Motore strategico dell’ambasciata irlandese era l’ecclesiastico del Sant’Uffizio, monsignor O’Flaherty. «L’azione dell’irlandese – scrive Andrea Riccardi – a cavallo tra immunità vaticane e coraggio personale, rappresenta una vicenda emblematica del clima di Roma in quei mesi». Il monsignore stazionava spesso nelle vicinanze della basilica di San Pietro, sulla piazza, e prendeva contatto con eventuali soldati alleati arrivati fin lì tra la gente. Vari ecclesiastici, preti antinazisti e diplomatici alleati erano collegati alla sua rete clandestina. Un contatto importantissimo che dette via libera all’attività di assistenza del gruppo livornese. «Dopo queste intese – scrive al Sim il “nonnino” – ci sentimmo autorizzati ad assicurare alle famiglie e a tutti coloro che sostenevano le spese per i prigionieri che le spese da loro sostenute, le somme versate e i danni materiali eventualmente subiti sarebbero stati loro rifusi a guerra finita. Su queste premesse si estese tutta la nostra attività di assistenza».

«DIO CREO L’UOMO, NON L’UOMO ARIANO». Quella di don Angeli, non fu soltanto una «resistenza operativa», ma anche, sottolineava, una «resistenza ideologica organizzata». A partire dal 1940 nel suo cenacolo di studi sociali presso l’Arciconfraternita di S. Giulia a Livorno tenne pubbliche conferenze in cui mostrava quanto la dottrina cristiana fosse antitetica alle tesi razziste: «Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano», esordì una volta. «Vi leggerò oggi -– proseguì -– alcune pagine scritte da Hitler e dal più notevole teorico del nazismo, Rosenberg. Da queste chiarissime citazioni, voi potrete capire perché il mondo oggi soffra la più terribile e sanguinosa tragedia della sua storia. Sono brani che non hanno bisogno di commento».

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

BATTESIMI E DOCUMENTI FALSI. Grazie anche a queste basi culturali, a Livorno l’opera dei cattolici in aiuto agli ebrei fu particolarmente intensa. Già immediatamente dopo la promulgazione delle leggi razziali del ’38 il vescovo di Livorno Giovanni Piccioni, buon amico del rabbino Alfredo Toaff (padre dell’ex rabbino capo di Roma, Elio), aveva dato precise disposizioni a clero e laici: i fratelli ebrei non dovevano essere lasciati soli. La comunità ebraica cittadina contava allora 2000 componenti (la quinta italiana in termini numerici dopo Roma, Milano, Trieste e Torino), di questi 116 furono catturati dalla Gestapo e solo 16 riuscirono a tornare. Presso la curia, sotto il diretto controllo del cancelliere don Amedeo Tintori, venne creato un ufficio per la concessione dei certificati di battesimo agli ebrei. «Io stessa – – raccontava Erminia Cremoni – – feci da madrina di battesimo e di cresima ad alcune giovani ebree». Presso le suore di S. Teresa ad Antignano fu costituto una sorta di «ufficio falsificazioni documenti»: i giovani dipendenti comunali Vincenzo Villoresi e Dino Lugetti si distinsero nella creazione di carte d’identità false.

L’OPERA DI DON ANGELI. Don Angeli si occupò personalmente del trasferimento di 24 ebrei dall’ospedalino israelitico prima in una palazzina di via Nardini, poi in via Micali. Il sacerdote, come testimoniò poi l’avvocato ebreo Giuseppe Funaro, «liberatosi dalla veste talare e rimboccatosi le mani, cominciò a fare opera di facchino. Quattro giorni durò il trasporto dei letti, dei bagagli e delle masserizie». Nei cinque mesi successivi e fino all’arresto il sacerdote, coadiuvato da padre Giuseppe Spaggiari, Erminia Cremoni, Paolo Brilli e altri giovani fece in modo che nulla mancasse ai circa 90 ebrei nascosti in via Micali. Insieme al giovane profugo Raffaello Niss, che a Parigi era a capo dell’Opera di protezione dei bambini ebrei, organizzò diversi viaggi clandestini per trovare nascondigli e protezione più sicuri man mano che i rastrellamenti nazisti si facevano più sistematici.

L’UNITÀ, DALLA COMUNE SOFFERENZA. «Noi crediamo -– commentava nel 1973 il sacerdote in un incontro organizzato dalla comunità ebraica livornese –- che Dio muova misteriosamente le forze profonde della storia per cui dal male può talvolta fiorire anche il bene». Nell’esperienza della clandestinità e del lager don Angeli, vide prepotenti i semi per superare secoli di inimicizia. «La lotta comune, la comune atroce sofferenza ci hanno avvicinato come non mai». E concludeva: «Non possiamo dunque che formulare un augurio, che questo avvicinamento progredisca in una sempre più profonda amicizia e rappresenti un reale contributo alla reciproca comprensione tra persone e gruppi di diversa religione o ideologia, tra popoli e comunità».

Gianluca della Maggiore è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa anche di cinema, Resistenza e movimenti politici. Ha pubblicato il volume Dio ci ha creati liberi. Don Roberto Angeli (2008).

Articolo pubblicato nell’aprile del 2017.




Albano Milani Comparetti: un notabile tra guerra e Liberazione

Viver qui è un purgatorio; ma è molto utile ch’io ci sia. Se no non ci resterebbe nessuno e tutto andrebbe perduto.

Il 12 luglio del 1944, Albano Milani Comparetti (1885-1947), padre del futuro don Lorenzo Milani, con queste parole risolute ma al contempo cariche d’inquietudine si rivolgeva in lettera alla moglie Alice Weiss (1895-1978). Si era allora a poche settimane dall’arrivo su Firenze del fronte di guerra, attestato in quei giorni a nord di Siena, e Albano dirigeva le sue parole alla consorte scrivendole da Gigliola, l’amata fattoria che i Milani possedevano dal 1914 nel comune di Montespertoli, pochi chilometri a sud-ovest del capoluogo regionale toscano.

Gigliola cartolina

La fattoria di Gigliola dei Milani Comparetti, nel comune di Montespertoli (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

 Luogo prediletto dalla famiglia e cornice cara all’infanzia e alla gioventù dei tre figli di Albano (Adriano, Lorenzo ed Elena), agli inizi degli anni Quaranta Gigliola era divenuta per necessità rifugio appartato dei Milani i quali, nel tentativo di sottrarsi alla minaccia dei bombardamenti e nella speranza di poter meglio proteggere Alice dai pericoli cui andava incontro in quanto appartenente a famiglia ebrea, lì si erano stabilmente trasferiti nel 1942. Nel loro buon ritiro immerso nella campagna fiorentina, i Milani avevano così cercato di blandire i disagi e ridurre i rischi di un conflitto allora lontano che però dopo l’8 settembre del 1943 e l’inizio dell’occupazione tedesca si era fatto sempre più presente. In particolare, a seguito della liberazione di Roma il 4 giugno del 1944 e della rapida avanzata del fronte di guerra in Toscana, la situazione era andata rapidamente mutando. Anche il comune di Montespertoli aveva assistito allintensificarsi della presenza tedesca e Gigliola era divenuta base di diversi reparti intenti a fare la spola tra la prima linea e le retrovie e dediti per lo più al saccheggio. Ai primi di luglio, perciò,  preoccupato per la sorte dei propri cari, Albano aveva disposto il loro allontanamento dalla fattoria di famiglia, oramai ritenuta non più sicura e prossima a essere fagocitata dall’arrivo del fronte in rapida marcia su Firenze.

Il 3 luglio, infatti, la moglie Alice partì da Gigliola alla volta di Firenze, seguita subito dopo da Lorenzo, allora giovane seminarista. Quest’ultimo, che il 19 giugno precedente aveva raggiunto i genitori a Gigliola a seguito della chiusura del Seminario fiorentino del Cestello, protetto dal suo abito talare il 4 luglio partì infatti alla volta di Firenze assieme alla sorella Elena, raggiungendo la madre a Bellosguardo, sulle colline circostanti Firenze, dove i Milani avevano in affitto una villa nella quale abitava già il primogenito Adriano, giovane studente di medicina allora inserito nella rete clandestina del Partito d’Azione. Rimasto solo a Gigliola in compagnia del fratello Giorgio, Albano Milani avrebbe assistito da quella posizione al devastante passaggio del fronte, facendone un dettagliato resoconto in una serie di lettere-diario che tra il 4 luglio e il 6 agosto 1944 egli scrisse alla moglie Alice.

A lungo rimaste inedite, queste ultime sono adesso pubblicate in un recente libro di Valeria Milani Comparetti – nipote di don Lorenzo – che con documentazione inedita e passione filologica per la prima volta ha ricostruito il rapporto che legava il futuro priore di Barbiana a suo padre Albano (si veda la locandina della presentazione del libro in  “Materiali Correlati”). In precedenza trascurata dalla storiografia, la figura di Albano – come ci suggerisce il racconto della nipote – appare invece centrale nella formazione culturale di Lorenzo e persino per il suo cammino di conversione, considerato in tal senso l’interesse che Albano – nonostante il clima agnostico e “scientista” della famiglia – dimostrò per il tema religioso e che lo avvicinò persino allo studio di testi dogmatici e teologici. Personaggio sicuramente ricco di talenti, studioso eclettico di letteratura, poliglotta, nonché imprenditore e attento amministratore dei possessi familiari, Albano nelle sue lettere scritte alla moglie nell’estate del 1944 ci offre uno spaccato inedito sulla storia della famiglia Milani, presentandoci un affresco composito dal quale risaltano al contempo i fatti terribili della guerra, dell’occupazione tedesca e del passaggio del fronte, i legami d’affetto nonché soprattutto il ruolo di pater familias e di possidente illuminato che in quei tragici eventi porta Albano a farsi carico sia dell’incolumità dei propri cari che di quella del piccolo microcosmo contadino di Gigliola che su di lui faceva affidamento: Sento il dovere di star qui con i nostri dipendenti che guardano a me come al loro capo e al loro protettore nella grande burrasca, avrebbe scritto non per nulla alla moglie.

Gigliola e il fattore

Alice Weiss in calesse davanti alla villa di Gigliola, 7 aprile 1920 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

Composta allora da più di venti poderi per cica 200 ettari di cui 150 di seminativo, la tenuta di Gigliola era stata acquistata nel giugno del 1914 dal padre di Albano, Luigi Adriano Milani, archeologo e numismatico di fama, il quale, rimasto vedovo l’anno precedente della moglie Laura Comparetti, figlia del filologo Domenico e della pedagogista russa Elena Raffalovich, aveva assegnato in via successoria quella produttiva azienda ai quattro figli (Albano, Giorgio, Piero ed Elisa) affidandone però la gestione al maggiore Albano. Quest’ultimo, in effetti, con la morte del padre avvenuta nell’ottobre del 1914 era divenuto amministratore e curatore dell’intero patrimonio familiare che all’epoca comprendeva diverse proprietà immobiliari, sia cittadine che rurali. Proprio attorno alla tenuta di Gigliola si sarebbero però concentrate le attenzioni di Albano.

Possidente del tipo paternalista, benché bonario, convinto dell’efficienza del sistema di fattoria e della bontà sociale della mezzadria – che non per nulla avrebbe difeso in un suo pamphlet del 1946 – a cavallo delle due guerre Albano si impegnò energicamente nell’ammodernamento della tenuta, sperimentando nuove varietà di colture e dedicandosi soprattutto alla viticoltura e alla produzione enologica, alla quale avrebbe applicato le conoscenze scientifiche che aveva acquisito nei suoi studi universitari di chimica,  dedicandovi poi saggi e pubblicazioni.

Podere Ulivello

Podere Ulivello. Albano Milani Comparetti al centro. Alla destra il fattore di Gigliola, Mattolini. 15 aprile 1922 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

La sua, in effetti, fu una gestione moderna dell’azienda che se pur guardava ancora con convinzione all’utilità dell’agricoltura mezzadrile, era però attenta al contempo alle nuove culture aziendali che si stavano affermando in Italia tra le due guerre, con particolare attenzione ai sistemi di organizzazione scientifica del lavoro di cui Albano diverrà peraltro sostenitore e promotore quando nel 1932 si trasferirà con la famiglia a Milano per impiegarsi nella Società Italiana Bedaux, un’azienda fondata nel 1927 da industriali del calibro di Agnelli e Pirelli allo scopo di diffondere l’omonimo metodo di organizzazione del lavoro.

D’altra parte, anche in quegli anni è sempre alla conduzione del possesso di Gigliola, caro alle gioie e agli affetti di tutta la famiglia, che Albano rimane particolarmente legato. Così, quando nella prima metà degli anni Trenta un’improvvisa crisi economica che colpisce i fratelli Milani e in modo particolare il secondogenito Giorgio sembrò mettere in dubbio la tenuta del patrimonio familiare e la conservazione della fattoria di Montespertoli, Albano si impegnò a preservarne l’integrità assumendosi il debito del fratello e facendo subentrare nella proprietà di Gigliola anche la moglie Alice Weiss. Arginato lo scompenso finanziario della famiglia, le quote proprietarie assunte da Alice sarebbero state poi recuperate da Albano nel 1939, quando cioè, a seguito della proclamazione delle leggi razziali, la situazione della consorte si fece molto delicata. Già in precedenza, i due coniugi, sposatisi nel 1919 con rito civile, avevano fatto di tutto per nascondere le origini ebraiche di Alice e salvaguardare la prole da possibili discriminazioni. Per prima cosa, nel 1934, proprio durante un soggiorno a Gigliola, avevano fatto battezzare i figli Adriano, Lorenzo ed Elena (nati rispettivamente nel 1920, 1923 e 1928) da don Viviani, pievano di S. Piero in Mercato e amico di famiglia, che ne aveva retrodatato i certificati al giorno della loro nascita. Nel 1938, poi, Alice, oltre a far domanda di recessione dalla Comunità Israelitica di Trieste, sua città natale, si era fatta battezzare in aprile dallo stesso don Viviani e il 30 novembre successivo aveva potuto celebrare con rito cattolico il matrimonio con Albano nella chiesa di S. Maria del Suffragio, a Milano. Proprio per sfuggire ai primi segnali di vessazioni antisemite, nel 1942 i coniugi Milani avevano lasciato il capoluogo lombardo, rifugiandosi a Gigliola.

Albano nei campi

Albano assieme a un contadino tra le spighe di grano. 13 giugno 1928 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

Anche qui, però, la minaccia di una possibile persecuzione si era presto ripresentata, lambendo la stessa rete familiare dei Milani. Il 30 dicembre del 1943, infatti, le autorità repubblichine di Montespertoli procedettero al sequestro dei beni della villa e fattoria di Trecento, di proprietà dell’ebreo triestino Giorgio Manni e di sua moglie Bianca Weiss sorella di Alice, che i due avevano acquistato nel 1933 proprio da Albano. Fortunatamente, l’arresto dei coniugi Manni fu scongiurato grazie a un anonimo benefattore che li preavvisò in tempo della minaccia, permettendo loro di mettersi al riparo. La tenuta di Gigliola non fu invece raggiunta da analogo provvedimento, perché a quella data Albano era già rientrato in possesso delle quote proprietarie di Alice che quindi non figurava più intestataria del bene. Quest’ultima poté così continuare a rimanere a Gigliola relativamente al sicuro, almeno sino a quando tra giugno e luglio del 1944 con l’avvicinarsi del fronte di guerra la presenza e il controllo dei reparti tedeschi aumentarono di numero e intensità. Fu allora, appunto, che fu deciso l’allontanamento di Alice e dei figli alla volta di Firenze.

Autunno 1928. La famiglia Milani di fronte ai locali di fattoria. A destra Alice con il piccolo Lorenzo sulle ginocchia. Alle loro spalle la finestra della stanza dove Albano e Giorgio vennero trattenuti dai tedeschi fra il 17 e il 23 luglio 1944

Autunno 1928. La famiglia Milani di fronte ai locali di fattoria. A destra Alice con il piccolo Lorenzo sulle ginocchia. Alle loro spalle la finestra della stanza dove Albano e Giorgio vennero trattenuti dai tedeschi fra il 17 e il 23 luglio 1944 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

Rimasto a Gigliola, Albano, nelle settimane in cui si compì il passaggio del fronte nella zona, si dette anima e corpo a cercare di mediare i difficili rapporti tra forze occupanti e popolazione locale, puntando sulla sua autorità sociale e soprattutto sfruttando la sua ottima conoscenza del tedesco, che in alcuni casi gli consenti in effetti di stemperare l’aggressività degli occupanti: Oggi alle 15 sotto il solleone – scrive il 13 luglio alla moglie – sono dovuto andare una volta e mezzo a Sazzipoli per intervenire presso militari tedeschi che volevano portar via i tre buoi rimasti, dopoché un paio di settimane fa, come sai ne avevano portato via uno. Siamo riusciti a far desistere. Uno dei due soldati era un berlinese, un bravo ragazzo che si è commosso a sentirmi parlare così bene tedesco e di Berlino.

Tuttavia, man mano che la prima linea avanza e i combattimenti si fanno più intensi, i tedeschi inaspriscono il proprio atteggiamento e anche Albano è costretto a subirne in prima persona le conseguenze. Il 17 luglio infatti un nuovo reparto prende possesso della villa di Gigliola e rinchiude Albano e il fratello Giorgio nei locali di fattoria, nei quali di fatto i due rimangono segregati per alcuni giorni. La notizia del fermo giunge sino a Firenze, da dove Lorenzo il 18 luglio decide di partire in soccorso del padre, intraprendendo un rischioso e coraggioso viaggio in solitaria sino a Gigliola. Non ci è noto il momento esatto in cui Lorenzo giunge a Gigliola, solo sappiamo che poco dopo il  rilascio di Albano e del fratello, avvenuto il 23 luglio, egli è presente e li coadiuva nel porre a riparo quel poco che si è salvato nei locali della villa, ripetutamente saccheggiata dagli occupanti. Oramai il fronte è a pochi chilometri e Gigliola è presa di mira dal fuoco incrociato dei due eserciti in lotta.

Il 24 luglio, un proiettile alleato centra il tetto della cameretta di Lorenzo, dove il seminarista era salito poco prima a mettere un po’ d’ordine: Se veniva un momento prima Lorenzo sarebbe morto, scrive Albano ad Alice lo stesso giorno. Nella notte tra il 25 e il 26 luglio, le ultime retroguardie tedesche si ritirano da Gigliola ma gli scontri con i reparti britannici e le truppe coloniali dell’VIII Divisione Indiana proseguono durissimi fino al 27, giorno in cui il capoluogo del comune viene liberato. Albano e Lorenzo, che hanno passato gli ultimi momenti al sicuro nelle cantine della fattoria, nei giorni seguenti la liberazione si danno un gran da fare per assistere la popolazione locale. Ad entrambi, che parlando inglese riescono perfettamente a farsi intendere dalle nuove autorità alleate, viene concessa una certa libertà nonché uno speciale lasciapassare che permette loro di muoversi in sicurezza. Lorenzo in particolare, nei giorni seguenti si recherà più volte ad assistere l’anziano don Viviani alla Pieve di S. Piero in Mercato che nei giorni del fronte ha accolto un gran numero di sfollati. Qui già il 27 luglio padre e figlio intervengono in appoggio a un gruppo di donne, impaurite dall’atteggiamento insubordinato di alcuni reparti indiani che avevano cercato di razziarle e usar loro violenza: abbiamo cercato di aiutare le profughe accompagnandole coi loro mezzi dal rifugio alla porta della Pieve e Lorenzo ed io abbiamo anche aiutato a trasportare le loro materasse fin fuori dove le donne si sentono più sicure, informava Albano il 28 luglio scrivendo ad Alice.

Montespertoli 44

Montespertoli, 27 luglio 1944. Fanti inglesi del 5° Royal West Kent ispezionano le macerie del paese appena liberato (Library and Archives, Canada)

Nel frattempo, mentre il fronte prosegue il suo cammino in direzione di Firenze, a Montespertoli la macchina burocratica alleata si attiva per ripristinare un governo locale provvisorio. Come loro consuetudine, gli ufficiali alleati preposti agli affari civili si rivolgono ai maggiorenti del comune. Uno dei primi a essere interpellato è proprio Albano che per il suo alto profilo e la sua conoscenza dell’inglese viene preso subito in considerazione per un posto di responsabilità, che per la verità lo lascia alquanto dubbioso: Qui vorrebbero farmi sindaco – comunica ancora alla moglie il 31 luglio – cosa che mi seccherebbe molto in questo momento, perché ci sono elementi pericolosi e la baraonda è grande ed io mi intendo troppo poco di queste cose. In effetti, il clima che si respira in quei giorni non è dei più distesi. La formazione della prima giunta della Liberazione, infatti, registra un duro braccio di ferro tra il governatore alleato e i partiti antifascisti del locale Comitato di Liberazione Nazionale che contro il parere dei militari vogliono imporre all’esecutivo il principio di rappresentanza partitica. L’accordo si raggiunge solo il 4 agosto con la formazione di una giunta formalmente apolitica, ma presieduta dal bracciante comunista Angelo Verdiani. Albano per il momento non ne entra a far parte, benché per la verità a quella data gli siano già stati affidati alcuni incarichi. Il 1° agosto, infatti, è stato convocato dal governatore alleato il quale lo ha affiancato all’ufficiale responsabile della polizia militare, il capitano Robertson.

Nel settembre del 1944, però, a seguito di una crisi municipale innescata da un ulteriore attrito sorto tra il CLN e il nuovo governatore alleato, si assiste a un rimpasto della giunta che porta all’ingresso di Albano nell’esecutivo e che permette un certo appeasement tra Alleati e componenti politiche antifasciste. Nella nuova giunta del Verdiani – riconfermato alla carica di sindaco –  Albano si interessa prevalentemente dell’istruzione scolastica del comune, compito questo che poi gli viene formalmente attribuito il 5 novembre. Il 13 ottobre 1944, inoltre, egli è nominato assieme alla moglie Alice Weiss membro della commissione comunale per la vigilanza e la tutela della pubblica istruzione, mentre nel febbraio del 1945 viene eletto anche presidente del consiglio di amministrazione del patronato scolastico. In questi mesi, nella sua veste di assessore alla pubblica istruzione, Albano si dedica soprattutto alla ricostituzione della Scuola secondaria di avviamento professionale di tipo agrario, un istituto comunale che aveva aperto a Montespertoli nell’anno scolastico 1942-43. Agli occhi di Albano per un municipio rurale quale quello di Montespertoli l’esistenza di una scuola che dopo le elementari consentisse ai figli del popolo un avviamento allo studio dell’agraria appariva un elemento di indubbia importanza per il miglioramento delle condizioni di vita locali. Non per nulla, l’esecutivo decise di porre l’affare nella propria agenda. A favore di questa realizzazione fu però Albano che più di tutti si diede da fare, intervenendo più volte nelle adunanze della giunta per sollecitare lo sblocco di quei fondi che sarebbero serviti all’impianto della scuola, nonché impegnandosi personalmente per dotarla di un corpo docenti idoneo e qualificato. Alla direzione dell’istituto, peraltro, fu insediata una cara amica di famiglia dei Milani, Clara Francese Foà, insegnante di matematica e laureata in Fisica all’Università di Firenze, che sarebbe rimasta alla guida dell’istituto sino alla fine del 1945. Nonostante le evidenti difficoltà finanziarie riscontrate dall’amministrazione comunale, grazie all’impegno di Albano e della moglie, la scuola di avviamento, nell’anno didattico 1944-1945 poté riscuotere un certo successo, registrando l’iscrizione di 57 tra alunni e alunne, ottenendo il riconoscimento del Ministero della Pubblica Istruzione e licenziando a fine anno 16 su 18 iscritti dell’ultima classe.

La Riforma Agraria

Lo studio che Albano Milani Comparetti dedica nel 1946 alla mezzadria e nel quale ne difende la conservazione (Tip. Giuntina, Firenze 1946)

L’esperienza di Albano Milani Comparetti nella giunta della liberazione di Montespertoli si sarebbe protratta sino alla fine del 1945, nonostante in questo lasso di tempo egli dovette subire una serie di accuse politiche che gli furono rivolte dal locale CLN. Quest’ultimo infatti, già nel dicembre del 1944 rese nota la precedente esperienza che Albano aveva avuto tra il 1924 e il 1927 nella giunta comunale fascista di Montespertoli e ne chiese per questo le dimissioni. Albano, in effetti, nel giugno del 1924 era stato eletto come assessore supplente nell’esecutivo di Montespertoli, anche se non vi aveva mai partecipato assiduamente. Il prefetto di Firenze, informato della cosa, il 6 marzo 1945 fece sapere d’aver già disposto per la sostituzione del Dr. Albano Milani in seno alla Giunta comunale di Montespertoli, a patto però che la notizia del suo incarico nell’amministrazione fascista venisse comprovata. Albano, in sua difesa redasse un breve memoriale, nel quale chiarì che allora la sua partecipazione alla giunta comunale non aveva avuto carattere politico, dato che vi era entrato come rappresentante degli interessi degli agricoltori, e che per di più nel 1924 non esisteva ancora la legge fascista Provinciale e Comunale ed il regime non era ancora intervenuto sul piano amministrativo. Inoltre, faceva notare Albano,  la sua iscrizione formale al PNF era avvenuta solamente nel 1933, ed egli non aveva neppure mai aderito al Partito Fascista Repubblicano, rifiutandosi per di più di far parte dell’esercito della RSI e respingendo ogni offerta di collaborazione che gli era stata offerta durante l’occupazione. Considerati i legami che la famiglia Milani aveva intessuto da tempo con il milieu antifascista fiorentino e con gli ambienti azionisti soprattutto, nelle cui file militava peraltro il figlio primogenito Adriano, Albano parlava sicuramente in buona fede quando qualificava la sua adesione al potere locale fascista come una mera questione di adattamento. Egli era stato un agrario, forse un poco paternalista, in fin dei conti un conservatore, eppur convinto della necessità di trovare una via che portasse al miglioramento economico e sociale delle classi subalterne e al conseguimento del massimo beneficio alla collettività; obiettivi che egli nel dopoguerra, come iscritto al partito liberale, andava ancora ricercando nell’idea liberale e nei potenziali benefici che il progresso tecnico e la razionalizzazione economica avrebbero potuto apportare alla società. Alla fine, comunque, il procedimento di accertamento politico non gli comportò alcuna conseguenza ed egli continuò indisturbato a espletare le sue funzioni di assessore, intervenendo alle adunanze della giunta di Montespertoli sino a quella del 22 settembre 1945. Una settimana più tardi, il 29, mentre si trovava a Gigliola, Albano fu colto da una grave crisi cardiaca che ne segnò irrimediabilmente la salute. Egli riuscì a intervenire un’ultima volta all’adunanza della giunta municipale del 21 novembre, dopo la quale, tuttavia cessò ogni funzione nell’amministrazione comunale di Montespertoli. Ritiratosi in famiglia, Albano si sarebbe spento a Firenze il 2 marzo del 1947.

L’articolo ripropone una sintesi del saggio di F. Fusi, “Albano Milani Comparetti: un notabile a Montespertoli tra guerra e Liberazione” contenuto nel libro di Valeria Milani Comparetti “Don Milani e suo padre. Carezzarsi con le parole. Testimonianze inedite dagli archivi di famiglia” Edizioni Conoscenza, Roma 2017. Si ringrazia Valeria Milani Comparetti per averne consentito la pubblicazione su ToscanaNovecento.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Mons. Giovanni Sismondo (1879-1957)

Nato a Brusasco (TO) da una famiglia di contadini, ordinato sacerdote nel 1905 a Casale Monferrato, Giovanni Sismondo è Vescovo di Pontremoli fra il 1930 e il 1954 e svolge un ruolo determinante nella città e nella diocesi.

Dopo l’8 settembre 1943 alla sua attività pastorale e affianca quella di infaticabile mediatore tra le parti in conflitto, sempre al fianco dei più deboli e bisognosi, non manca mai di schierarsi dalla parte dei prigionieri e dei condannati dal regime fascista e dal comando tedesco e non fa mai mancare una parola di conforto alle vittime.

mons_Sismondo_1Già il 21 settembre, non manca di esprimere la sua protesta per l’occupazione da parte dei tedeschi del Seminario vescovile, che diverrà poi la sede dei fascisti del battaglione S. Marco: la X Mas che nei mesi successivi utilizzerà quei locali anche per la detenzione di prigionieri spesso picchiati e torturati prima dell’esecuzione.
Porta il proprio conforto alle famiglie delle vittime ed offre sostegno morale come nel caso dei giovani catturati a Bagnone, sul Monte Barca, imprigionati e torturati dai fascisti in Seminario e poi fucilati a Valmozzola (PR) il 17 marzo 1944.
Mette i locali della diocesi di Pontremoli, l’orfanotrofio Leone XIII, il Galli Bonaventuri e l’istituto Cabrini a disposizione degli sfollati, soprattutto massesi.
Entra in contatto con il maggiore inglese Gordon Lett comandante del Battaglione Internazionale che combatte nelle vallate di Zeri e Pontremoli ed attraverso di lui ottiene che il minacciato bombardamento su Pontremoli della primavera del 1945 venga evitato.
Il vescovo protesta più volte contro le azioni di violenza, contro i rastrellamenti, contro le uccisioni e diviene un riferimento per tutti: prefetto, comando tedesco (che dal settembre 1944 con lo sfollamento di Massa era stato trasferito a Pontremoli), partigiani.
E così, salendo fino a Zeri, organizza scambi di prigionieri che contribuiscono a salvare molte vite umane.

Nell’imminenza dell’arrivo degli Alleati tra il 25 e il 27 aprile 1945, è ancora lui determinante: quando i partigiani intimano ai tedeschi la resa che viene rifiutata, egli invia una staffetta al comandante della “Beretta” invitandolo a non scendere a Pontremoli per evitare un inutile strage perché le pattuglie partigiane ben poco avrebbero potuto contro duemila tedeschi ben armati, disposti ormai a tutto.
Negli ultimi concitati giorni riesce a rintracciare, nascosti nella valle del Verde a nord di Pontremoli, due militari tedeschi disertori e recandosi di persona da loro si fa rilasciare una dichiarazione senza la quale i tedeschi avrebbero distrutto la città già in parte minata.
Il comandante tedesco, Bernard Kreussig, riconosce in lui un’autorità e un interlocutore e prima di lasciare Pontremoli, consegna al Vescovo quanto è custodito nei magazzini dei viveri e del vestiario per i poveri della città.

Alla fine della guerra Mons. Sismondo, a seguito delle dimissioni di Mons. Terzi, per un certo periodo regge anche la diocesi di Massa.
Nel 1948 gli viene assegnata la Medaglia d’Argento al Merito Civile.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Fernando Melani, un “incantatore di atomi”

Fernando Melani (1907-1985) fu artista pistoiese e ricercatore scientifico cosmopolita. Partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo portò avanti una ricerca creativa vicina a correnti come l’Arte Povera, l’Arte Concettuale e la Minimal Art, anticipandone in alcuni casi gli esiti. Molte sue opere oggi trovano sistemazione presso la casa-studio Fernando Melani a Pistoia.
Donatella Giuntoli, amica e studiosa di Fernando Melani, affermò che “Melani si poteva configurare nell’immaginario pistoiese come un manipolatore di particelle o un incantatore di atomi”. In questa frase è racchiusa l’essenza profonda di un uomo del Novecento che ha votato la sua vita alla sperimentazione sulla materia.

Melani passò gran parte della sua esistenza a Pistoia. Nacque a San Piero Agliana (PT), secondogenito di una famiglia borghese, il 25 marzo 1907 e morì a Pistoia nel marzo 1985. Nel 1937, di rientro da un’esperienza lavorativa a Novara, entrò in possesso dell’abitazione familiare in Corso Gramsci a Pistoia, dove abitò per tutta la vita con un’unica parentesi legata allo sfollamento per i bombardamenti del 1943/44.
Lo spartiacque del secondo conflitto mondiale cambiò drasticamente il modo di pensare di Fernando portandolo a una completa rielaborazione delle sue priorità, si dedicò all’arte e sposò un’assoluta essenzialità, sostituendo ogni suo abito con una tuta blu (accompagnata da una sciarpa gialla) ed eliminando ogni accessorio domestico dall’abitazione, compresi cucina e termosifoni. La casa di Corso Gramsci divenne così il luogo della creatività, lo studio, dove gli ‘atomi potessero essere liberi di vagare per le stanze’, mentre l’esterno acquisì una funzione legata alle necessità fisiche, gestite attraverso una rigorosa routine. Melani, infatti, mangiava sempre nel medesimo ristorante e frequentava regolarmente i soliti centri d’aggregazione.
Nell’“immaginario pistoiese”, un tessuto culturale ampio e variegato, Melani era inserito per analogia o contrasto, la sua era una socialità fatta di provocatorie discussioni e biunivoci rapporti di crescita. Lo si poteva incontrare al Cafè du Globe, al bar Piemontese o al bar Valiani, a pranzo e a cena alla trattoria Autotreni in Porta al Borgo, oppure a discutere animatamente presso la Libreria dello Studente di Giovanni Tellini. In questi ambienti era entrato in contatto con molte personalità (come Luigi Bruno Bartolini, Alfiero Cappellini, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Remo Gordigiani, Giulio Innocenti, Lando Landini, Antonio Nespoli, Renato Ranaldi, Giovanni Tellini); ma manteneva sempre un occhio vigile nei confronti di un macrocontesto, non strettamente locale, stringendo rapporti con figure importanti come Luigi Ardemagni, Ettore Bonessio di Terzet, Silvio Ceccato, Luciano Fabro, Ernesto Galeffi (in arte Chiò), Rosy Novella, Fiamma Vigo, Marisa Volpi.
Il suo essere Fernando, assieme al modo di esplicarsi verso l’esterno, è una diretta emanazione dei suoi valori scientifico-razionali, in questo le definizioni di “manipolatore di particelle” e “incantatore di atomi” tentano di inquadrare, a loro volta, il processo intellettuale melaniano in un sistema razionale. La sua attività non è semplicemente definibile in categorie standardizzate e univoche, infatti, se da un lato si può identificare come artista astratto, dall’altro vanno ricordati i suoi slanci di ricercatore scientifico, di scrittore, di teorizzatore, di fotografo e altri aspetti che il recente lavoro di sistemazione dell’archivio ha approfondito. Possiamo, quindi, concepire il suo lavoro come se fosse accomunato dall’unico obiettivo di analizzare la verità dell’universo, in altre parole l’atomo; il suo lavoro diviene così uno strumento e non il fine ultimo della ricerca. Solo in quest’ottica possiamo comprendere opere come le ‘macchine semplici’, meccanismi funzionali e funzionanti finalizzati alla sperimentazione sonora o fisica; oppure le riflessioni spaziali legate alle opere ‘bucato’ e ‘bandiera’; o ancora lo studio della casualità, opere nate dalla sedimentazione di materiale nel corso del tempo.
In questo rapporto tra materia, esistente e teoria risiede la ricerca artistico-scientifica di Fernando Melani. Dal 1950 comincia a esporre le prime opere già definibili ‘astratte’ e per più di quarant’anni continua la sua attività collaborando con vari centri d’arte pistoiesi come la Galleria Studio La Torre o la Galleria Vannucci; arriva anche a Firenze e a Milano grazie alla fruttuosa collaborazione con Fiamma Vigo; nel 1972 partecipa assieme a Luciano Fabro a ‘Documenta 5’ presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: Davanti alla pittura (1953), Addio Giulio! (1955), Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa (1956), Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester (1960), Astratto vecchio nuovo ed oltre (1963-64), Universo Evoluzione Arte (1979).
Oggi la sua eredità intellettuale e culturale è portata avanti dalla Casa-studio Fernando Melani, sita in Corso Gramsci 159, di proprietà del Comune di Pistoia e gestita dall’ U.O. Musei e Beni Culturali dello stesso comune. Nella casa-studio, accessibile su prenotazione, è possibile immergersi completamente all’interno di un ambiente creativo unico nel panorama culturale pistoiese e toscano.

Lorenzo Sergi ha conseguito la laurea magistrale in Archivistica con la prof.ssa Laura Giambastiani svolgendo una guida dell’Archivio di Fernando Melani. Collaboratore esterno per istituti di ricerca, ha svolto e svolge attività di valorizzazione culturale, per bambini e adulti, in enti e associazioni del territorio. Tra le sue pubblicazioni: SERGI L. (a cura di), Catalogo di mostra I 7 Antichi, le carte dell’Archivio Storico comunale di Monsummano Terme, in «Caffè Storico. Rivista di studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 2, Monsummano Terme, Istituto Storico Lucchese, 2016; Ricerca fotografica e fotografie in LOMBARDI M., PALANDRI A., SERGI L., Jorio raccontato ai bambini, Buggiano, Edizioni Vannini, 2013.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




“Inciampare” nel passato per capire il presente

Sono sempre inorridito ogni volta che incido i nomi, lettera dopo lettera. Ma questo fa parte del progetto, perché così ricordo a me stesso che dietro quel nome c’è un singolo individuo. [...] L’installazione di ogni Stolperstein è un processo doloroso ma anche positivo perché rappresenta un ritorno a casa, almeno della memoria di qualcuno. (Gunter Demnig)

Che l’arte abbia impressa nelle sue mille anime la sua brava dose di memoria, più o meno esplicita, più o meno varia e consapevole, è cosa palese per chi l’ama e la studia, anche da lontano. I tempi, le temperie culturali, la voglia di appartenere, o di distinguersi, di lasciare segni volti al futuro, che richiamino vissuti, esperienze, afflati o sofferenze singole e corali hanno contrassegnato la comunicazione artistica di tutti i tempi, di tutte le arti. Più espliciti e non scevri di retorica sono talvolta i molti monumenti che nelle piazze ricordano i caduti delle guerre, carichi anche di un’altra memoria forse più inconscia, ma non meno significativa, quella lasciata dalla mano di un artista imbevuto della cultura del suo tempo.

L'artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

L’artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

La riflessione di Gunter Demnig sulla memoria è intuizione geniale e azione artistica al tempo stesso. Ha scelto di fare della sua vita un’opera di memoria: dare un nome e una presenza a chi vide la propria vita tragicamente spezzata dalla deportazione, la propria identità depredata e negata, sostituita con un numero di matricola. Nel breve spazio di un sampietrino riluce l’ottone con un nome e una biografia sintetica. Inciampa la vista e accende la memoria, ma senza retorica, senza ricorrere a nessun stratagemma volto a commuovere o a commentare. È chi guarda a trovare la memoria e la storia come sua conquista personale, cercare e capire il senso di un vissuto, che è parte di un vastissimo mosaico, ad oggi comprendente 60.000 pietre d’inciampo sparse in tutta Europa ed in continuo incremento. Un’opera maestosa, quella di Gunter Demnig, forse mai realizzabile fino in fondo, e per questo coraggiosissima. E che si avvale necessariamente della collaborazione di altre persone nei paesi di origine per la ricostruzione delle biografie dei deportati razziali, politici, militari; una sorta di ritorno di chi in realtà non tornò mai alla sua casa, o vi tornò con la vita ormai segnata. Un ritorno dimesso, dignitoso, ma immenso e radicato nei tessuti delle città, nel selciato su cui il presente cammina.

Anche Grosseto il 13 di gennaio avrà le sue prime pietre d’inciampo e farà parte di questa opera incredibile: tre piccole pietre verranno poste nel cuore del centro storico a ricordare Albo Bellucci, Italo Ragni, Giuseppe Scopetani, tre deportati politici grossetani.

Questo è il simbolico atto in cui culmina un lavoro di ricerca didattico e divulgativo intrapreso ormai tre anni fa: “Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale”, un progetto realizzato con il contributo del CESVOT, che ha coinvolto 8 associazioni e 5 enti locali della Maremma: Provincia e Comune di Grosseto, Comuni di Manciano Magliano in Toscana e Roccastrada. In ogni Comune sono stati individuati segni della memoria: monumenti, toponomastica, tracce lasciate nei luoghi da eventi, che hanno contribuito a costruire la realtà sociale presente. L’obiettivo era quello di far dialogare memoria e storia, di porre segni di memoria del passato, di sollecitare nelle nuove generazioni un’elaborazione del passato e una consapevolezza delle responsabilità di lutti e violenze che hanno attraversato il Novecento. È stato fondamentale il coinvolgimento degli studenti, che, guidati dai ricercatori dell’Isgrec, hanno intrapreso in ogni comune un lavoro didattico sui segni di memoria, cercandone il profondo significato storico nell’ottica di un recupero e di una valorizzazione.

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell'atrio del Municipio

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell’atrio del Municipio

Significativo al riguardo è stato il lavoro dei ragazzi della IV B a.s. 2014-2015 del Liceo Artistico di Grosseto, indirizzo Arti figurative, che ha ricostruito la complessa vicenda del rilievo in gesso di Tolomeo Faccendi e della sua copia in Bronzo a Campospillo, di proprietà della famiglia Mazzoncini e donato alla città nel 2008, attualmente esposto nell’atrio del Municipio di Grosseto. Partendo dalla costruzione di laboratori sulle fonti storiche, i ragazzi hanno potuto ricostruire la genesi del monumento e la storia della deportazione politica grossetana da esso ricordata, collocando l’opera d’arte nel contesto storico e artistico della Maremma del Secondo Dopoguerra. Alla fine del percorso storico e critico hanno stilato i testi esplicativi confluiti nel sito Cantieri della memoria e richiamabili dal QR code posto nella targa recentemente collocata accanto al monumento.

In questo modo un tassello importante del rapporto arte-memoria è stato ricostruito e ricollocato scientificamente per una corretta fruizione storica sotto gli occhi della cittadinanza.

Ne è emersa la vitalità artistica di Tolomeo Faccendi, importante scultore attivo fino agli anni Settanta del Novecento in città, le sue relazioni di amicizia e condivisione con Tullio Mazzoncini, protagonista insieme a Scopetani e Bellucci della tragica vicenda che ne determinò la deportazione a Gusen e Mauthausen. Attraverso il potere evocativo del linguaggio artistico, che richiama classiche suggestioni, ricorrendo per certi versi addirittura alla maniera michelangiolesca nella rappresentazione del dolore in un lager, l’artista riesce a indurci ad una riflessione, a soffermarci per osservare, per capire. L’opera diventa quindi strumento di conoscenza e testimonianza storica, ma anche momento di crescita etica individuale.

Altro segno artistico legato alla memoria della deportazione nel grossetano è il monumento ai Martiri dell’Antifascismo e della Resistenza, posto nello spicchio di verde all’incrocio di via Giuseppe Scopetani e via Albo Bellucci alla Cittadella dello Studente. Il monumento si presentava mutilo della targhetta esplicativa della data e dell’autore. Anche le guide della città più informate non ne attribuivano la paternità. Un’appassionata ricerca dell’Isgrec, che, ancora una volta e non a caso, ha coinvolto il mondo della scuola, ha dapprima individuato i protagonisti del progetto della costruzione della Cittadella dello Studente, concepita come piccolo campus, luogo di studio e di lavoro, che rende omaggio alla Resistenza e ricorda i martiri dell’antifascismo finanche nella toponomastica, diventando essa stessa luogo di memoria. Si è potuti quindi giungere alla rievocazione della genesi del monumento, simbolicamente affidato alle nuove generazioni.

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Fu infatti l’allora studentessa del Liceo Artistico Maria Paola Mugnaini, vincitrice di un concorso tra i suoi coetanei indetto dall’Amministrazione Provinciale, a progettare la struttura con l’aiuto dei suoi insegnanti nel 1984. Il risultato è una struttura architettonica aperta a forma di piccolo tempietto moderno, struttura inclusiva che nell’alternanza di linee orizzontali e verticali spezzate utilizzate simbolicamente insieme alle linee curve, invita ad entrare sedersi e meditare in silenzio. L’uso dei materiali quali metallo e cemento nella libertà della composizione immersa nel verde ne sottolineano il ripudio della retorica a favore di una ricerca di un’intima e personale meditazione, ribadita dalla lettura del testo conservato su un’epigrafe all’interno del tempietto su cui si riporta una lettera di un condannato a morte della Resistenza.

Il confronto con i documenti fotografici dell’inaugurazione, la generosa testimonianza dell’autrice che abbiamo incontrato e intervistato, hanno contribuito ancora una volta alla comprensione di un pezzo di storia recente della città, nell’ottica delle diverse politiche della memoria, tutte oggetto imprescindibile di un doveroso studio critico.

In questa prospettiva si giunge coerentemente all’oggi, alla sensibilità nuova ed europea che pervade l’opera di Demning, in coerenza con le nuove visuali dettate dalla sensibilità contemporanea, nel rispetto della tendenza a ricostruire e a annoverare una per una, tutte le esperienze individuali; in questo solco si colloca la recente storiografia della deportazione, cifra che contraddistingue tante delle più recenti esperienze di ricerca storica (si pensi agli ultimi libri dei deportati o all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia), nella consapevolezza che la storia è fatta di tante infinite piccole storie personali, nell’intento di non dimenticare e di non lasciare nell’ombra nessuna vita, nessuna voce.

Questo spirito è lo stesso che chiede di cercare ancora, di indagare tra le carte e nelle memorie dei testimoni, come si è fatto per i nostri tre deportati grossetani, e che ha condotto a nuove interviste, nuove interpretazioni, nuovi scenari, perché la storia non è cosa morta, scritta una volta per tutte e poi dimenticata, ma essa vive e continua a pulsare in coloro che ogni giorno le sanno rivolgere ancora nuove domande, alla luce del presente, grazie anche al bagliore breve di un piccolo sampietrino.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




Mirella Scriboni

Mirella Scriboni ci ha lasciato l’8 gennaio 2017, un male incurabile se l’è portata via nell’arco di pochi mesi.

Nata a Viterbo nel 1950, si è laureata in Lettere all’Università di Pisa con una tesi discussa con il professore Silvio Guarnieri su Rocco Scotellaro. Negli anni giovanili degli studi universitari Mirella vive intensamente tutto il lungo periodo delle vicende della contestazione giovanile e studentesca e, tra gli anni 1969 e 1973, partecipa all’esperienza del Centro K. Marx di Pisa e poi quella dei collettivi femministi. Successivamente, per motivi di lavoro, inizia a viaggiare e a insegnare italiano all’estero in scuole e università (Limerick, Sydney, New York, Alessandria d’Egitto, Addis Abeba e infine, come a chiudere il cerchio, di nuovo in Irlanda a Galway). Lettrice e cinefila appassionata, durante gli anni di insegnamento inizia a interessarsi allo studio delle lotte di emancipazione femminile e delle donne scrittrici dell’Ottocento.
È a questo periodo che risalgono le ricerche che poi hanno dato vita ai suoi primi saggi pubblicati su riviste specialistiche tra i quali si ricordano: Dorothy Sayers: un centenario (1994), Cristina di Belgioioso (1994), «Se vi avessi avuto per compagna…». Incontri tra donne nelle lettere e negli scritti dall’Oriente di Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808-1871) (1994), Le rivali di Sherlock Holmes: donne e letteratura poliziesca nell’età vittoriana (1995), Da eroina a protagonista: l’affermazione del desiderio femminile nei racconti gotici di Luisa Saredo (1995), Il viaggio al femminile in Oriente nell’Ottocento: la Principessa di Belgioioso, Amalia Nizzoli e Carla Serena (1996), Immagini dell’harem nell’Ottocento (1998).
Sempre in quel decennio escono i volumi da lei curati per le edizioni Tufani: Un mestiere da donne. Racconti gialli di scrittrici dell’800 (1996); l’edizione italiana delle opere di Cristina Trivulzio di Belgiojoso: Emina (1997), Un principe curdo (1998), Le due mogli di Ismail Bey (2008); e Immagini-memoria di Alessandria d’Egitto in Ungaretti (e ‘dialogo’ con Kavafis) in L. Incalcaterra McLoughlin (a cura di), Spazio e spazialità poetica nella poesia italiana del Novecento, (2005).
Negli anni trascorsi all’estero Mirella, persona sensibile e attenta agli scenari geopolitici mondiali, di fronte all’esplodere dei conflitti e delle tragedie delle guerre matura una sua scelta “antimilitarista” e “nonviolenta”, che la porta a interessarsi delle tematiche pacifiste, sempre dal punto di vista della storia al femminile. In questi anni terribili Mirella – che da sempre sostenitrice della causa palestinese – non fa mancare il proprio appoggio a tutte quelle iniziative tese al dialogo e alla concordia tra i popoli.
Rientrata in Italia e stabilitasi definitivamente a Pisa, Mirella si occupa di storia delle donne in relazione alla guerra. Socia della Casa della donna di Pisa, sostenitrice del quotidiano «Il manifesto e dell’Assopace per la Palestina, diventa un’assidua lettrice e frequentatrice, nonché amica e generosa sostenitrice, della Biblioteca F. Serantini. Da questo rapporto nasce il progetto di un libro che esce nel 2008 edito dalla casa editrice della biblioteca. Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al primo conflitto mondiale (1896-1915) è un volume che attraverso un’antologia di testi dell’epoca, riporta alla luce l’opposizione delle donne italiane alla Grande guerra e alle guerre coloniali che la precedettero (la prima guerra d’Africa del 1896 e la guerra di Libia del 1911-’12). Un’opposizione che si espresse intensamente e con continuità sulla stampa emancipazionista, sui numerosi giornali redatti dalle donne socialiste e sui numerosi periodici socialisti e anarchici. Voci di donne che affiancavano, al ruolo di pubbliciste, la militanza nel movimento emancipazionista e pacifista, nel partito socialista e nel movimento anarchico. Dagli scritti emerge non solo il protagonismo delle donne nel più vasto arco di opinioni e pratiche che dichiararono “guerra al regno della guerra” nel corso di un periodo cruciale della storia italiana, ma anche la specificità, la ricchezza e la complessità di un “pensiero della differenza” ante litteram: il discorso femminile sul tema, allora più che mai tipicamente maschile, della guerra. Lei che anarchica non era, aveva sviluppato una forte sensibilità e approccio “libertario” alla ricerca e alla studio. Amante dei viaggi, che ha sempre effettuato fino a quando gli è stato possibile, ha continuato a lavorare fino all’ultimo, nel 2016 ha pubblicato Leda Rafanelli, libertaria e musulmana, giornalista e scrittrice, in «ToscanaNovecento» e partecipato con una relazione (Anarchiche e antimilitarismo in età giolittiana) al convegno Le donne nel movimento anarchico italiano tenutosi a Carrara il 27 febbraio 2016.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.