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Israele “Lele” Bemporad

I Bemporad erano una famiglia di ebrei toscani assai numerosa. Il ramo guidato da Riccardo si trasferì da Firenze a Pistoia a cavallo tra l’800 e il ‘900. Riccardo era il quarto di un gruppo di 6 tra fratelli e sorelle, e il nome di sua sorella minore, Italia, nata nel 1888, testimonia di per sé l’afflato patriottico e il grado di integrazione che la famiglia aveva raggiunto nel Paese. Benestanti, dediti al commercio dei tessuti e proprietari di una residenza di campagna con un attiguo appezzamento di terra dato a mezzadria nei pressi di Serravalle Pistoiese, fu per iniziativa del capofamiglia che venne eretta in quell’epoca, ancorché in stile medievale come suggerivano certi gusti del tempo, la Torre Bemporad, un edificio ben noto ai pistoiesi e che ancora oggi fa mostra di sé in pieno centro storico, all’ingresso di via del Can Bianco.

famiglia bemporad inizi 900_israele e  il quinto da destra in altoRiccardo Bemporad e sua moglie Ines Franco ebbero a loro volta 7 figli e figlie, di cui Israele era il sesto. Il motivo della scelta del nome resta a tutt’oggi ignoto, mancando anche nella memoria familiare informazioni che ci possano far comprendere se tale scelta fu dovuta a motivi prettamente religiosi o in omaggio al movimento sionista, anche se questa eventualità appare più remota dato che nessun discendente della famiglia è mai diventato un attivo sionista e nessuno ha scelto di compiere l’Aliyah, ovvero di trasferirsi a vivere in Israele. Tuttavia la scelta dei nomi di Riccardo e Ines rivela il permanere di un’identificazione patriottica – la terza figlia fu chiamata Margherita, come la regina – nonché l’apprezzamento per i nomi antichi o legati al medioriente, dato che le due primogenite furono chiamate rispettivamente Cesarina ed Egizia.

Nato il 27 giugno 1914, Israele condusse una tranquilla infanzia in città e fu poi avviato agli studi classici, dapprima presso il Liceo Forteguerri di Pistoia, per poi conseguire il diploma nel 1936 presso il Liceo Galilei di Pisa, dove si era trasferito presso Aldo Dello Strologo, che aveva sposato sua sorella Egizia. Nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Pisa, dove comunicò, come era obbligatorio fare, la propria presenza ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF) ed alla coorte autonoma universitaria della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). A Pisa Israele sostenne due esami di diritto romano e uno di diritto privato, per poi inoltrare domanda di trasferimento a Firenze nel novembre del 1937.
Ricominciando a frequentare Pistoia, nella primavera-estate del 1938 conobbe quella che sarebbe diventata la sua compagna per la vita, Dina Fontana, una ragazza di umilissime origini, figlia di emigrati provenienti dall’Emilia e di religione cattolica. Il fidanzamento tra i due giovani fu osteggiato dai genitori di Israele. Giocavano tanto la differenza religiosa che la marcata diversità di estrazione sociale.

Ma problemi ben più gravi erano in agguato.
Nello stesso periodo, infatti, il Fascismo si lanciava nella campagna antisemita, con la pubblicazione il 14 luglio del ’38 del Manifesto della razza, a cui seguirono nel settembre le Leggi razziali. La famiglia Bemporad veniva regolarmente censita con le altre 62 famiglie di ebrei della provincia di Pistoia. Nonostante le leggi proibissero le unioni “miste” tra gli italiani e gli “appartenenti alla razza ebraica”, ed introducessero gravi restrizioni nel campo dell’istruzione, fino all’espulsione, Israele perseverò tanto nel suo legame con Dina quanto nel suo impegno universitario. Il 3 novembre del 1938 fece formale domanda per essere iscritto al terzo anno della Facoltà di legge, costretto a dichiarare, in calce alla richiesta, che «Il sottoscritto è di razza ebraica e professa la religione ebraica, lui e la famiglia». Da quel momento sui verbali degli esami sostenuti, per i quali doveva fare richiesta di ammissione al Rettore, iniziò ad apparire la dizione di «studente di razza ebraica». Frattanto le maglie intorno agli ebrei si stringevano.
israele bemporad e dina fontanaNel febbraio del 1939 fu cancellato dalle liste di leva e sul certificato anagrafico appariva, di nuovo, il timbro con la dizione «di razza ebraica», mentre la famiglia iniziava a sfaldarsi, con suo fratello minore Roberto che riusciva a emigrare a New York, approdando ad Ellis Island. La carriera universitaria di Israele diventava sempre più precaria, fino al suo epilogo, sulle cui motivazioni la scheda nominativa della facoltà di Giurisprudenza non lascia dubbi, «Troncati gli studi perché di razza ebraica». Il legame con Dina invece reggeva, e diventava sempre più saldo. Un grande coraggio animava anche questa donna, che giovanissima – era nata nel 1919, aveva appena venti anni – continuò caparbiamente a coltivare il suo amore per Israele, nonostante il Fascismo, le discriminazioni, le persecuzioni, le differenze religiose e sociali, l’ostilità familiare.

Costretti a vivere in sordina, silenziosamente, gli ebrei pistoiesi condussero una vita appartata e impaurita, di cui sappiamo ben poco, fino all’8 settembre del 1943. Con l’occupazione nazista e la nascita della Repubblica Sociale Italiana i membri della famiglia si frammentarono ulteriormente per la Toscana, e si nascosero. I Bemporad pistoiesi trovarono riparo in montagna, nell’area di Cireglio, anche con l’aiuto dell’avvocato pistoiese Bianchi. I rapporti tra Israele e Dina entrarono in clandestinità, mentre la caccia agli ebrei era aperta. Nel pistoiese ne vennero arrestati 88, quasi tutti sfollati da altre zone o di passaggio, mentre il fratello di Riccardo, e zio di Israele, Amedeo, veniva inghiottito dalla Shoah. Arrestato e deportato da Firenze, non fece mai ritorno.

Lele_primo da sinistra_in via abbi pazienza a Pistoia il girono della LiberazioneÉ in questo clima che Israele matura la scelta resistenziale, a cui partecipa anche suo nipote, Giancarlo Piperno, che diventerà un medico di fama mondiale. Stanco di nascondersi, e determinato a costruirsi la propria via d’uscita, il 17 giugno del 1944 entra a far parte delle brigate Garibaldi nella formazione Ubaldo Fantacci. Dina aiuta come può, portando viveri con la propria bicicletta. L’attività partigiana di “Lele”, il nomignolo con cui tutti l’avevano sempre chiamato e che adesso diventa il suo nome di battaglia da partigiano, si racchiude nell’arco dell’estate del 1944, ma è intensa. Matura un orientamento socialista e a quanto sembra cura dei contatti con Radio Londra. Alla fine parteciperà attivamente alla Liberazione di Pistoia l’8 settembre del 1944, immortalato anche nelle storiche foto della Liberazione in alcune vie a due passi da quella che diventerà poi la sua casa, insieme alle sorelle Cecchi, e si guadagna in questi mesi la qualifica di partigiano combattente.

Dopo la Liberazione “Lele” riprese le fila spezzate della sua vita, che nel frattempo si erano arricchite. Nel 1945 nasceva la sua prima figlia, Miriam, fuori dal matrimonio perché le leggi razziali ancora in vigore lo impedivano – lui e Dina riusciranno a sposarsi solo nel 1947 –, una circostanza malvista nell’Italia del tempo. Nello stesso anno chiese di essere riammesso a Giurisprudenza, ma dovrà presto abbandonare gli studi per i sopraggiunti nuovi impegni familiari. Nel 1948 nasceva Sara, seguita poi da Laura. Sempre in questo periodo si impegnava nel partito socialista, per un periodo, e poi nell’ANPI, a cui rimarrà sempre iscritto, e nel sostegno ai lavoratori della cooperativa di trasporti SACA. “Lele” resterà sempre a vivere a Pistoia con la propria famiglia, dapprima fa il negoziante, poi apre il “bar dello studente”, punto di ritrovo per generazioni di giovani pistoiesi, senza clamori, ma con la grande dignità di chi si è ripreso tanto la città che la cittadinanza.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




Leda Rafanelli, libertaria e musulmana, giornalista e scrittrice

Della lunga vita (Pistoia, 1880-Genova,1971) di Leda Rafanelli, dedita fin dalla prima giovinezza non solo alla militanza nel movimento anarchico, ma anche all’attività di pubblicista e scrittrice, è impossibile dare in poco spazio una sintesi sia pure estrema. Ci si limiterà, qui, a concentrare l’attenzione sul periodo della sua formazione giovanile, in cui già si incontrano realizzati esempi della sua vulcanica poliedricità.

Leda si stabilisce a Firenze nei primissimi anni del ‘900, secondo la ‘vulgata’ (trasmessa dalla maggioranza di suoi biografi e critici) dopo essere rientrata da un soggiorno in Egitto, dove si sarebbe convertita contemporaneamente all’anarchismo e alla fede musulmana. Peraltro non vi è certezza che tale soggiorno sia effettivamente avvenuto e tanto meno che ad Alessandria d’Egitto la giovane Leda abbia avuto contatti con l’ambiente anarchico de “La Baracca Rossa” fondata da Enrico Pea. Se Leda rimase sempre molto sul vago a proposito di quel viaggio, fu lo studioso Pier Carlo Masini, a lungo suo amico, ad accreditare tale narrativa (si vedano: Iréos e Djali, in Luigi Fabbri, Studi e documenti sull’anarchismo tra Otto e Novecento, Pisa, BFS edizioni, 2005 e l’introduzione a Una donna e Mussolini, Milano, Rizzoli, 1946). Lo stesso Masini riporta la descrizione fatta da Leda (nell’inedito Pensieri del 1897) del proprio incontro, che sarebbe avvenuto in questa circostanza, con Luigi Polli.

Quello che invece è certo è che Leda incontrerà (nuovamente o per la prima volta) Luigi Polli, che sposerà nel 1902, nell’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze. In questo stesso contesto Leda incontra e stringe amicizia con gli “ultimi internazionalisti” (‘reduci’ della Prima Internazionale antiautoritaria) Giuseppe Scarlatti, Francesco Pezzi e la sua compagna Luisa Minguzzi, fondatrice della prima sezione femminile dell’Internazionale.

untitledA Firenze Leda, la cui scolarizzazione si era fermata alla seconda elementare, lavora come tipografa e pubblica il suo primo opuscolo “di propaganda”, Alle madri italiane (1901) con la Libreria editrice G. Nerbini. Qui Leda si riferisce ancora a se stessa come “socialista” e rivolge alle madri il messaggio di “noi socialisti”, propugnando l’idea seppure non del rifiuto totale della religione da parte delle madri credenti, di una religione spogliata dalle sovrastrutture ecclesiastiche.

Nel 1903 inizia la lunga e intensa collaborazione (che durerà fino al 1906) di Leda a «La Pace», il quindicinale antimilitarista di Genova diretto da Ezio Bartalini, giovane socialista dissidente. In quello stesso anno suoi versi e bozzetti in prosa che hanno per oggetto le ingiustizie della società e la persecuzione nei confronti degli anarchici, appaiono su «L’Agitazione», “periodico socialista anarchico” pubblicato a Roma. Dal 1904 in poi la sua firma è frequente su vari altri giornali: «Il Libertario» di La Spezia (dove molti degli articoli appaiono a firma del “Comitato pro-vittime politiche”, costituito nel 1904 insieme a Scarlatti e ai coniugi Pezzi), «La Voce della donna», «L’Allarme», «Il Grido della folla», «L’Aurora», «Energia»: periodico dei giovani socialisti, «La Donna socialista», «In Marcia», «La Protesta umana».

Lo stile giornalistico di Leda si distingue fin da ora per la sua versatilità: i temi che le stanno più a cuore, in particolare quelli dell’antimilitarismo e della lotta per la giustizia e la libertà, vengono affrontati non solo in articoli polemici, ma anche attraverso l’uso di versi e ‘bozzetti’.

Sempre degli anni fiorentini è l’incontro di Leda con importanti esponenti libertari: nel dicembre 1905, al convegno dei sindacalisti rivoluzionari di Bologna a cui partecipano Leda e Luigi Polli, sono presenti, tra gli altri, Luigi Fabbri, Oberdan Gigli, Armando Borghi e Pietro Gori. E del credito che Leda ormai godeva in campo libertario fa fede il fatto che proprio lei firma la prefazione allo scritto di Borghi del 1907, Il nostro e l’altrui individualismo.

È del 1906, poi, la fondazione da parte di Leda e di Luigi Polli (con la collaborazione di Scarlatti) del giornale «La Blouse», realizzato “da autentici lavoratori del braccio” per i “tipi Rafanelli-Polli”.

L’attività di collaborazione e fondazione di giornali non la porta a trascurare la scrittura di opuscoli di propaganda, come pure quella di racconti e romanzi: il 1907 è un anno di intensa produzione di pamphlet, stampati inizialmente dalla “Tipografia Ugo Polli” e poi dalla “Libreria editrice Rafanelli-Polli”. Di tale prolificità e varietà di generi dà conto il lungo elenco che si trova al fondo A l’Eva schiava di scritti precedenti “e che possono essere ordinati della stessa autrice”. Si tratta di: Un sogno d’amore; Le memorie di un prete; La caserma … scuola della nazione (dal diario di un soldato); Amando e combattendo; La bastarda del principe; Contro la scuola; Dal ‘Dio’ alla libertà; Società presente e società avvenire.

Nei pamphlet del 1907 è ormai chiaro il passaggio all’ideologia anarchica, dichiarata con orgoglio nell’enfatizzato “noi libertari”, insieme ad un accentuarsi dell’antimilitarismo e della critica della religione, con l’appello alle madri per richiamarle al loro dovere di educare i figli agli ideali di giustizia e libertà.

Il lungo e fecondo periodo fiorentino, insieme al matrimonio e sodalizio con Luigi Polli, si avviano a conclusione quando Leda incontra Giuseppe Monanni, un anarchico aretino che si era trasferito a Firenze nel 1907 e qui aveva fondato la rivista «Vir». A metà del 1908 la coppia si trasferisce a Milano dove inizia la collaborazione a «La Protesta umana» edita da Ettore Molinari e Nella Giacomelli.

A Milano inizia il successivo lunghissimo e sempre intensissimo capitolo della vita, militanza e attività di giornalista e scrittrice di Leda. E se dall’attività politica Leda si ritirerà progressivamente a partire dal 1919, quella di scrittrice prosegue invece fin quasi all’ultimo della sua lunga vita che si conclude a 91 anni, nel 1971, a Genova.




Il buon tedesco dell’Amiata

La storia di Abbadia San Salvatore, paese di origini longobarde che si trova sul Monte Amiata in provincia di Siena, nel secolo scorso si intrecciò nuovamente per due volte in modo significativo con la Germania ed i tedeschi e in entrambe le occasioni risultò per motivi diversi emblematica la presenza dell’ingegnere Carl Buckart.

All’inizio del secolo in paese fu avviata una importante attività mineraria con estrazione dal sottosuolo del cinabro e la sua trasformazione in mercurio. La “Società anonima delle miniere di Mercurio del Monte Amiata” proprietaria dell’impianto, era composta quasi esclusivamente da industriali, uomini d’affari e aristocratici tedeschi che avevano investito in questa attività vista l’alta redditività della vendita del mercurio sul mercato internazionale ed il suo insostituibile valore in campo bellico, quale elemento fondamentale per la costruzione dei detonatori delle bombe. Anche tutto lo staff tecnico che dirigeva la miniera e istruiva le maestranze locali totalmente prive di esperienza proveniva dalla Germania. Fu così che tra gli altri giunse per la prima volta ad Abbadia il giovane ingegnere elettromeccanico Carl Buckart. La dirigenza tedesca guidò anche l’ammodernamento del paese con l’apertura di una cooperativa di consumo, un pronto soccorso, la costruzione di case operaie. A fronte di queste innovazioni nel tessuto sociale, sul lavoro mantenne un atteggiamento più rigido, non cedendo quasi mai alle richieste di miglioramenti da parte dei minatori. Comunque, come ci ricorda anche Fortunato Avanzati nel suo libro “Gente e fatti dell’Amiata”, questi tecnici tennero generalmente nei riguardi della popolazione badenga un comportamento formalmente corretto ed alcuni di essi instaurarono amicizie in ambiente di lavoro, ma anche all’esterno che, come vedremo, si protrassero nel tempo. Proprio Buckart ed un altro ingegnere tedesco furono molto apprezzati dalle maestranze e dalla popolazione quando non esitarono ad entrare in una galleria invasa da gas tossico, esponendosi ad un rischio mortale pur di salvare la vita a due minatori rimasti storditi dalle esalazioni. Testimonianze orali ci raccontano poi come il giovane Buckart riuscì a farsi benvolere anche al di fuori dell’ambito minerario. In particolare viene ricordata l’amicizia con Giuseppe Contorni, soprannominato Peppelò, che di professione faceva il fabbro ed il costruttore di carri e calessi. Spesso la sera in bottega, davanti al fuoco, si soffermavano con altri amici a mangiare e a suonare la fisarmonica.

Nel 1914 con l’inizio della prima guerra mondiale i tedeschi cominciarono ad essere percepiti come nemici, ma rimasero al loro posto di lavoro fino all’anno dopo, quando anche l’Italia entrò nel conflitto mondiale e loro dovettero abbandonare la miniera che, al momento della loro partenza, era diventata la più moderna del mondo e la seconda per importanza per i volumi di produzione dopo quella spagnola di Almaden. Dello staff tecnico tedesco rientrato in patria, sappiamo con certezza che gli ingegneri Dausch e Buckart, dopo l’esperienza maturata in Italia, continuarono a dedicarsi all’estrazione del cinabro e alla produzione di mercurio in alcune piccole miniere a nord della Germania.

Foto tratta da http://www.museominerario.it

Foto tratta da http://www.museominerario.it

La presenza della Germania ad Abbadia San Salvatore si manifestò nuovamente dopo circa trent’anni in circostanze però più drammatiche. A partire dal Settembre 1943 la miniera, proprio per l’alto interesse strategico del materiale prodotto, fu costretta a lavorare sotto il controllo delle autorità militari tedesche. L’ingegnere Carl Buckart, allora sessantaquattrenne, ritornò ad Abbadia in qualità di controllore della miniera. Nonostante fosse al momento inquadrato nella Wermacht come maggiore e quindi facente parte delle odiate forze di occupazione, in ricordo degli anni trascorsi in paese all’inizio del secolo fu ben accetto dalla popolazione. Prova ne sia che anche il sopra citato Peppelò, di idee socialiste, riallacciò contatti di amicizia con lui. Così con altri tornarono ad incontrasi periodicamente per parlare ed ascoltare il suono della fisarmonica. Ma veramente importante sembra sia stata la sua presenza in miniera. Ricorda Luciano Segreto nel suo libro “Monte Amiata” che in quel momento all’interno della miniera agivano due diverse anime: quella politico-militare dei partigiani che aveva come obiettivo il sabotaggio della produzione e quella della direzione italiana che cercava di concordare con i lavoratori una produzione limitata e abilmente nascosta per concedere ai tedeschi la minor quantità possibile del materiale prodotto.

Entrambe riuscirono ad ottenere risultati tramite il sabotaggio da parte dei partigiani dei macchinari dei cantieri più bassi e quindi meno accessibili ai controlli e con il rallentamento della produzione da parte degli altri operai motivata anche dalla mancanza di materie prime come nafta, esplosivi, miccia, ecc. In questo quadro l’ingegner Buckart, secondo molte testimonianze, tenne un comportamento corretto ed evitò per quel che era in suo potere, che le truppe tedesche usassero la mano pesante. Fortunato Avanzati ci ricorda che fu Buckart a far liberare gli arrestati per la manifestazione antinazista che si era tenuta il 4 Dicembre 1943 e che poco dopo tentò di costituire una commissione interna con lavoratori non compromessi con il fascismo e anche con qualche comunista. Questo tentativo ebbe breve durata e sebbene fosse stato avviato forse con buone intenzioni, su di esso Avanzati getta qualche critica perché la sua riuscita avrebbe potuto smorzare la combattività della parte più politicizzata degli operai legata al movimento partigiano.

Tondi Domenico, dipendente della miniera come autista del direttore Masobello ed elemento di collegamento tra gli operai ed i gruppi partigiani operanti sul Monte Amiata, fa capire nella sua testimonianza riportata nel testo “Un’isola in terraferma” che anche tramite Buckart lui era venuto a conoscenza di un imminente rastrellamento che nel Marzo 1944 le truppe tedesche avrebbero svolto nei confronti dei partigiani presenti sul Monte Amiata. In questo modo Tondi poté avvertire il distaccamento partigiano che si spostò in Val d’Orcia. Ma a detta di molti il ruolo più importante Buckart lo svolse nell’imminenza dell’arrivo delle truppe alleate. I tedeschi decisero di far saltare in aria la miniera in modo che gli alleati non potessero usufruire del mercurio. Questo proposito fu fortemente ostacolato dai minatori e dai partigiani che smontarono e nascosero molte attrezzature meccaniche ed anche dallo stesso Buckart che, dicono, abbia indicato ai propri connazionali tra i macchinari della miniera da colpire alcuni desueti o non strettamente indispensabili. Furono così distrutti i forni Spirek, ma non quelli a torre e furono abbattuti i castelli dei pozzi, ma non furono minati i pozzi stessi, sabotaggio che avrebbe tenuta la miniera chiusa per anni. Al passaggio delle truppe francesi che liberarono Abbadia, un ufficiale ed ingegnere minerario si compiacque dei lievi danni subiti dall’impianto. Trascorso poco più di un mese si poté ricominciare la produzione. Sempre Domenico Tondi testimonia come, a causa del suo intervento Buckart, fosse stato denunciato da una segretaria del fascio repubblichino. Probabilmente a seguito di questa denuncia, gli fu tolto l’incarico ad Abbadia e venne immediatamente rimpatriato circa una settimana prima dell’arrivo degli alleati. Questo fatto avvalora il suo intervento in difesa della miniera, documentato attualmente solo da numerose fonti orali e che avrebbe necessità di uno studio approfondito e qualificato. Il rapporto tra Abbadia e l’ingegner Carl Buckart si concluse comunque negli anni cinquanta quando il tedesco tornò per salutare gli amici rimasti e si incaricò di portare personalmente dalla Germania all’allora direttore della miniera un’auto della Volkswagen per non fargli pagare le spese doganali.




Un Partigiano di nome Annibale

Nato a Pistoia (Santomato) il 19 gennaio 1922, figlio di Leonardo e Capponi Maria Ida, Annibale Trinci ottiene la licenza elementare, contadino poi elettricista e operaio alla fabbrica pistoiese San Giorgio dall’ottobre del 1939, iscritto alla CGIL dove si compie la sua educazione di classe, in quella che negli anni ‘40 era una fucina di militanti operai comunisti. Nel 1941 Trinci è chiamato alle armi all’Elba a Portoferraio nel genio foto elettricisti; partecipa dal 18 novembre 1942 al 21 gennaio 1943 alle operazioni di guerra svoltesi nel Mediterraneo con la 105a Compagnia mista genio mobilitato e poi dal 7 febbraio 1943 al luglio 1943 e dal 9 agosto 1943 all’8 settembre 1944 nelle operazioni nel Mediterraneo per la difesa della patria a copertura costiera con la 105a Compagnia Mista Genio Mobilitato.

Dal 22 marzo 1944 per ordine della dirigenza della San Giorgio è trasferito nella sede di Cambiano, vicino Torino, da lì inizia la sua esperienza da partigiano con il nome di battaglia “Marco Polo”. È a Cambiano che Annibale incontra Giordano Bruschi e Olga Arcargioli. Giordano, di origine pistoiese, si era diplomato in ragioneria a Genova ed era stato assunto a 19 anni alla San Giorgio di Cambiano, introdotto dallo zio, il primo settembre 1944 come impiegato contabile per i settori della mensa e del magazzino; nonostante la giovane età diverrà ben presto, con il nome di battaglia “Giotto” commissario politico della 30a Brigata delle SAP “Capriolo”. Olga, in fabbrica dal primo luglio 1943 come impiegata stenodattilografa, anche lei diciannovenne, si ritrova nel tumulto della guerra e diventa una fida staffetta.
A Cambiano s’incontrano due classi operaie: una proveniente da Pistoia, l’altra da Sestri Ponente. I pistoiesi erano diretti da Trinci e Niccolai, impiegato originario di San Marcello. Il gruppo genovese era un nucleo storico nato in seno all’esperienza di “Soccorso Rosso” nel 1936 che aveva dato vita alla solidarietà ai compagni impegnati nella guerra civile in Spagna. La fabbrica genovese aveva una peculiarità: non aveva dirigenti fascisti, ma due ebrei, che non avevano mai fatto discriminazioni nell’assunzione di antifascisti. A Cambiano, fabbrica di armi di precisione, i BGS, arrivano quindi operai già politicizzati.

annibale e amiciDal 1o settembre 1944 Annibale Trinci s’iscrive al Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà nel comitato regionale Piemontese, nella sezione di Torino, VI zona, la zona delle Langhe. In seguito è garibaldino della XIV divisione del Piemonte della brigata d’assalto Garibaldi “Luigi Capriolo”, guidata dal Comandante Kin. In pieno accordo con i compagni del P.C.I. fu deciso di inviare Trinci presso una formazione “Giustizia e Libertà”, a Pino d’Asti, vicino Cambiano, precisamente nella IX G.L. al Comando del Maggiore Alberti, con il preciso compito di formare entro queste bande delle cellule del Partito Comunista, e intanto stabilire solidi collegamenti fra il Partito e i partigiani.
Nel novembre del 1944 si assiste a un rastrellamento nazifascista d’ingenti dimensioni, le divisioni se pur a conoscenza dell’imminente attacco subiranno perdite e feriti. Il 20 novembre 1944 Annibale Trinci combatte ed è ferito nella battaglia di Aramengo, vicino ad Asti sulle colline del Monferrato. Riconosciuto combattente partigiano dalla commissione regione Piemonte, Annibale Trinci ha partecipato dal 3 settembre 1944 al 8 maggio 1945 in territorio metropolitano astigiano con la qualifica di Sergente Maggiore Capo con la formazione partigiana IX divisione “Giustizia e Libertà” comandata dal capitano Oreste Gastone Alberti, dal 6 settembre 1944 (già combattente nel Veneto nelle formazioni “Giustizia e Libertà” e della 1a divisione alpina) Divisione Pedro Ferreira, nella III “Brigata Montano”, nello specifico nella colonna “Biz”(Luigi), e sulla brigata “Domenico Tamietti”. Tra il febbraio e il marzo 1945, fa parte anche di gruppo gappista che si occupava di far saltare i binari della ferrovia, nella zona di Villa Stellone, una stazione a circa tre chilometri da Trofarello. Il 18 aprile 1945, durante lo sciopero, Trinci occupa militarmente Trofarello e Cambiano e arrestando i fascisti armati. Il 21 maggio 1945, riconosciutagli l’attestazione di buona condotta dal prefetto, è ammesso come volontario nella Polizia del Popolo. Trinci era stato anche nominato capo della polizia interna alla fabbrica per garantire l’integrità della fabbrica, a causa di furti nello stabilimento, e successivamente di preparare il materiale sui vagoni merci diretti a Genova e Pistoia.

Nell’ottobre del 1945 riprende servizio alla fabbrica San Giorgio di Pistoia. Nel 1950 Annibale si sposa con Roberta Giannini, dalla quale avrà le figlie Manuela e Tamara. Il 29 novembre 1951 a causa di un infortunio sul lavoro durante un cantiere in Abruzzo perde una gamba; inizia questa volta una lotta con l’ingiustizia burocratica per il riconoscimento dell’infortunio, tanto che si occuperà del caso anche il sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio. Nel 1955 è licenziato dalla fabbrica essendo considerato “non adatto ai lavori di stabilimento”. Per la sua passione e attività nel dopoguerra ricopre varie cariche, è dirigente dell’ANPI di Pistoia, dirigente dell’Associazione invalidi di Pistoia, dirigente PCI della sezione di Porta Lucchese. Muore il 1 agosto 1981.

Alice Vannucchi è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia, è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.




Gronchi e il “caso” Livorno

Luglio 1955, a due mesi dalla sua elezione alla Presidenza della Repubblica, Giovanni Gronchi scelse Livorno come una delle prime città italiane da omaggiare con una visita ufficiale. In quell’occasione il consiglio comunale gli conferì la cittadinanza onoraria. «Di fronte a questo gesto di grata amicizia che l’Amministrazione Comunale livornese a nome dell’intera cittadinanza mi ha rivolto, – affermò Gronchi nella sala consiliare del Municipio – forse qualcuno si è domandato perché io ho avuto in questi anni per Livorno un affetto che talvolta ha superato quello dei suoi stessi cittadini. Gli è che Livorno rappresenta per me una somma di ricordi a cui ritorno ogni volta con una specie di compiacente ed intima commozione. Livorno mi ha visto ragazzo, piuttosto povero, in malo arnese, non per cattiva volontà della mia famiglia, ma per assoluta insufficienza di mezzi determinata e dalla salute di mio padre e da molte sfortunate coincidenze. Ebbene, Livorno mi accoglieva per la benevolenza dei parenti come un’oasi di tranquillità».

1955

Il “Tirreno” nel giorno della visita di Gronchi a Livorno nel luglio 1955

LIVORNO, CITTA’ D’ADOZIONE… Basterebbero solo queste parole a descrivere la peculiarità del rapporto che Gronchi, originario di Pontedera, instaurò con Livorno lungo l’arco del suo percorso biografico e politico. Per il Capo dello Stato la città aveva rappresentato in effetti il luogo degli affetti: qui risiedevano gli zii materni, i Giacomelli, che da ragazzo lo avevano accolto nella loro casa in piazza Magenta. «Ed allora – continuava significativamente Gronchi nel discorso del luglio 1955 – Livorno si è mescolata fin da quell’epoca alle vicende della mia adolescenza e della mia giovinezza ed è diventata una specie di città di adozione».

…E LABORATORIO POLITICO. Eppure nella storia politica di Gronchi, Livorno rappresentò anche una sorta di laboratorio in cui testare – anche in contrapposizione all’altro deputato Dc pontederese Giuseppe Togni con cui si contendeva la piazza – il suo metodo e le sue idee politiche in un contesto che nel dopoguerra presentò caratteri di eccezionalità. Nella sua visita ufficiale da Presidente della Repubblica, egli enucleò in poche pennellate il significato politico del suo rapporto con la città. «Finita la lunga parentesi fascista, – affermò Gronchi – […] io vidi Livorno così mutilata nei suoi organismi vitali, nelle sue fabbriche e nelle sue strade, e fu come se mi si presentasse un nuovo campo di esperienza umana e politica insieme legato alle sorti di questa città e fui condotto a darle collaborazione e assistenza […] e sentirla come una città intimamente vicina al mio spirito. Da questa è nata quella collaborazione che ebbe un nome in quel momento e in quel periodo che io amo ricordare, quello del sindaco Diaz che portò, con un concorde sforzo, a far non tutto, ma molto per la resurrezione di questa nostra città. Mi parve allora che si realizzasse quella provvidenziale collaborazione tra Stato ed enti locali, che, quando, si manifesta così piena e senza riserve, non va a vantaggio dell’una o dell’altra parte politica, ma del più vero ed effettivo bene comune».

GUERRA E PACE (FREDDA). Nel primo decennio postbellico a Livorno grazie soprattutto alle «reciproche aperture intellettuali» (come le definì il suo biografo Gianfranco Merli) tra Gronchi e il sindaco comunista moderato Furio Diaz (1944-1954), trovarono così terreno di coltura quelle “parallele convergenze” tra democristiani e comunisti che significarono anche un’anomala alleanza di governo Pci-Dc in consiglio comunale protrattasi fino al 1951, ben oltre la rottura a livello nazionale (per un’analisi di dettaglio si veda il contributo già pubblicato su ToscanaNovecento). Ma sotto la liscia superficie della «provvidenziale collaborazione tra Stato ed enti locali» il quadro si delineava ben più complesso: la sintonia tra mondi politici distanti appariva anche come il frutto di precisi tatticismi politici e reciproche strumentalizzazioni e, soprattutto, veniva completamente a sfaldarsi in ambiti meno appariscenti nei quali, nel confronto tra le due mobilitazioni di massa, cattolici e comunisti si contendevano l’egemonia sulla società proponendo modelli radicalmente alternativi. Nei primi anni della guerra fredda la Livorno elettoralmente dominata dai comunisti e città simbolo del potere “rosso”, divenne così per Gronchi una partita da giocare su più tavoli, alternando diverse strategie d’azione.

gronchi guano togni angeli

Giuseppe Togni, Giovanni Gronchi, Emilio Guano e don Roberto Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

SENZA RISERVE PER LIVORNO. Non ci sono dubbi sul fatto che Gronchi agì senza riserve per aiutare Livorno a risollevarsi dai disastri bellici. Negli anni in cui fu Ministro dell’Industria (1944-1946) e poi Presidente della Camera come deputato eletto nella circoscrizione in cui ricadeva Livorno (1948-1955), si possono elencare tutta una serie di suoi interventi risolutivi per lo sblocco di leggi e finanziamenti specifici per la città. Dalla sua azione in favore degli accordi tra il Comune di Livorno e l’Inail per la concessione di mutui per la costruzione di case popolari, alla pressione attuata sul governo per lo sblocco della legge per la ricostruzione del centro storico, fino alla soluzione del difficile finanziamento dell’opera pubblica più ambiziosa e onerosa affrontata negli anni Cinquanta dall’amministrazione livornese, l’acquedotto del Mortaiolo (circa 900 milioni ai valori del 1953).

INVASIONI DI CAMPO (A SINISTRA). Ma questi interventi lo videro agire spesso su Livorno in “amichevole concorrenza” con  Giuseppe Togni, dal quale si distingueva, com’è noto, per idee politiche affatto coincidenti. Al radicale anticomunismo di Togni, Gronchi contrapponeva una strategia mirante a erodere terreno ai comunisti sul loro stesso campo. Nel decennio postbellico il futuro Capo dello Stato probabilmente aveva visto proprio in Livorno anche un terreno ideale per sperimentare nel piccolo la sua proposta politica: la sua critica ponderata al centrismo degasperiano si fondava sul mito della democrazia sociale e mirava a battere gli avversari politici “a sinistra”, puntando sulle riforme strutturali capaci di eliminare alla base i motivi dell’opposizione social comunista. In questa strategia Gronchi ebbe su Livorno molti alleati, tra cui il più importante fu, senza dubbio, il sacerdote don Roberto Angeli (per un profilo si veda questo contributo) che dalle colonne del suo settimanale «Fides», fedele al suo passato cristiano-sociale, appoggiò con evidenza l’azione del politico democristiano. Non a caso era stato lo stesso sacerdote, insieme al presidente diocesano di Ac, Dino Lugetti, a scrivere un accorato appello a Vittorino Veronese, presidente della giunta nazionale, quando alla vigilia delle cruciali elezioni del 18 aprile 1948 sembrava che Gronchi non venisse inserito nella Circoscrizione elettorale livornese. «Pensiamo che l’assenza di Gronchi nella lista della nostra circoscrizione diminuisca il credito del partito e metta in pericolo molti simpatizzanti», avevano esternato con chiarezza don Angeli e Lugetti. «Occorre ricordare – aggiungevano – che la nostra zona è, per antica tradizione, repubblicana e progressista: un nome come Gronchi attira molte simpatie e consensi anche fuori dalle nostre file. Gli avversari, ne siamo certi, si avvantaggerebbero assai della cosa e griderebbero ai quattro venti che la “D.C. ha messo in pensione i suoi uomini più progressisti e si è sbandata a destra”».

pontificia commissione assistenza

Il pulmann del Cla (archivio Centro Studi R. Angeli)

STRATEGIE ALTERNATIVE. Eppure l’azione politica di Gronchi per Livorno ebbe, come anticipato, anche altre facce molto meno evidenti e conosciute. Proprio grazie al «rapporto di fiducia e stima» che lo legava a don Angeli (per usare ancora parole di Gianfranco Merli), Gronchi elaborò una strategia che gli permise di appoggiare massicciamente le opere assistenziali cattoliche senza prestare troppo il fianco a polemiche ideologiche, riuscendo così ad erodere consenso sociale ai comunisti in un settore cruciale della battaglia politica. Nel settembre 1948 nacque infatti il Comitato Livornese Assistenza (Cla), un’associazione a carattere provinciale, presieduta da don Angeli e appoggiata da Gronchi – fin da subito – nel ruolo di «Alto Patrono». Crescendo a ritmo esponenziale, tra il 1948 e il 1955 il Cla  portò assistenza a più di 61mila persone in tutta la provincia costruendo asili, doposcuola, colonie estive e invernali, refettori per indigenti. Alla base della nascita del Cla, oltre all’urgenza evangelica di operare a favore dei più sofferenti, c’era anche l’idea di togliere ai comunisti il primato sulle opere d’assistenza alla popolazione e sull’educazione all’infanzia. L’accorgimento ideato da Gronchi e don Angeli fu quello di federare in un organismo unitario la Pontificia Commissione Assistenza, il Centro italiano femminile, l’Ac e le Acli, in modo – si legge in una relazione del 1961 – da consentire «una coordinazione perfetta nel lavoro» ed «eliminare doppioni e concorrenze» che altrove «avevano procurato un grave danno comune». Configurandosi come ente civile il Cla nasceva poi svincolato da «rapporti “giuridici” di dipendenza dalle Autorità ecclesiastiche», fattore che eliminava burocrazie di qualsiasi tipo e permetteva «di ricevere larghi aiuti finanziari, morali, ecc. dagli organi governativi». Come scriveva don Angeli nella citata relazione del 1961 il nuovo ente livornese ebbe così subito «l’appoggio delle Autorità governative» che videro in esso «il mezzo per togliere ai comunisti il primato che essi avevano nel campo assistenziale». Soprattutto, come veniva rilevato, era la «situazione locale che consigliava di non presentarsi al pubblico con una etichetta troppo prettamente ecclesiastica», per cui si mirò a dare al Cla un «aspetto ufficiale laico» per «penetrare in ambienti altrimenti refrattari».

LA BATTAGLIA DELLA CARITA’. I documenti conservati presso l’Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo, svelano il sistematico flusso di aiuti che Gronchi riuscì a far arrivare al Cla dal 1948 alla fine degli anni Cinquanta. Uno schema relativo al 1950 attesta, ad esempio, che in quell’anno l’allora presidente della Camera si adoperò perché al Cla giungesse dal Ministero dell’Interno un contributo straordinario di 27 milioni oltre ad una serie di aiuti in medicinali e razioni alimentari. Ecco perché don Angeli, in un appunto del 1955, poté scrivere che la formula federativa e i buoni uffici di Gronchi, come presidente della Camera prima e della Repubblica in seguito, consentirono in una delle province più “rosse” d’Italia, «di eliminare praticamente i comunisti dal campo assistenziale» e di convogliare verso le opere del Cla «quasi la totalità dei contributi statali per l’assistenza pubblica». In un ambito così strategico della mobilitazione politica per conquistare le masse, anche per il «progressista» Gronchi la ricercata «provvidenziale collaborazione» tra forze politiche contrapposte, veniva a rompersi in nome delle superiori esigenze della guerra fredda.

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno tra innovazioni pastorali e reti di assistenza (1943-1944), in Spaesamenti. Antifascismo, deportazione e clero in provincia di Livorno, a cura dell’Istoreco Livorno, Ets, Pisa 2015.




Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.




Vittorio Meoni, la ricerca continua della libertà

Vittorio Meoni è nato l’11 dicembre del 1922 da una famiglia di insegnanti. La prima fase della sua vita fu segnata dai continui spostamenti dei genitori. A Colle di Val d’Elsa, città del padre, a Siena, a Prato, a Firenze per l’Università di Scienze Politiche. La sua storia è conosciuta, forse soprattutto, per il drammatico episodio che lo ha visto tra i protagonisti dell’eccidio di Montemaggio. Tuttavia, l’intera vita di Vittorio merita di essere osservata con attenzione, poiché è attraversata senza interruzione da un filo sottile ma evidente, quello della ricerca della libertà. Molte volte ha avuto la possibilità di parlare dell’esperienza da partigiano, dell’impegno politico, della Cremona, del carcere.

In più di un’occasione ha voluto mettere le sue memorie nero su bianco, ma il racconto più compiuto è probabilmente quello riportato in maniera chiara e lineare in La libertà è come l’aria (Effigi edizioni). Qui è Vittorio stesso a parlare, senza vergogna, della sua adesione ai GUF (Gruppi Universitari Fascisti), dai quali però venne espulso in seguito a un’osservazione fatta a voce alta all’Università e a un interrogatorio dal quale venne congedato “per assoluta e dichiarata mancanza di fede fascista”. Abbracciò pienamente l’antifascismo, interprete del forte risentimento e dalla povertà che mordeva la popolazione. Fu per lui una “vera e propria rivoluzione culturale, maturata nell’ambiente cattolico fiorentino, caratterizzato dalla presenza e dall’opera di alcuni sacerdoti e di personaggi-simbolo come Giorgio La Pira”. Anche durante il secondo convegno giovanile alla Casa fiorentina della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), Vittorio non mancò di manifestare pubblicamente il proprio dissenso. Prese infatti la parola, criticando il sistema corporativo e la sua antidemocraticità. Questa volta le conseguenze furono più gravi, poiché, dopo un altro interrogatorio poliziesco, venne trasferito al carcere delle “Murate”, dove rimase per circa due mesi. Non fu l’unica esperienza di detenzione. Anche dopo la notizia della caduta del fascismo, nel 25 luglio del 1943, Vittorio venne preso e torturato a “Villa Triste” e di nuovo trasferito al carcere delle “Murate”. Intanto, i tedeschi avevano cominciato anche a Firenze il rastrellamento sistematico degli ebrei.

Vittorio Meoni oggi

Vittorio Meoni in una foto recente

Una volta libero, decise di darsi alla macchia, scelta di cui mise al corrente soltanto il padre, con cui condivideva gli ideali antifascisti: “Pensai che l’unico modo di raggiungere una formazione partigiana era quello di andare a Colle, dove sapevo che c’erano amici e persone che si stavano organizzando per iniziare la lotta armata contro la Repubblica Sociale. […] Partimmo in tre: con me c’erano Mauro Rolandi e un certo Bargi (detto Ciclamino)”.

Sotto la guida di Velio Menchini (detto “Pelo”), Vittorio fece le sue prime azioni partigiane a Casole d’Elsa e a Montieri (in entrambi i casi vennero assalite le caserme dei carabinieri, per procurarsi le armi necessarie), poi sul Montemaggio (per compiere azioni di sabotaggio sulla via Cassia e sulla linea ferroviaria Siena-Firenze). Fu in quest’ultimo luogo che i repubblichini uccisero con un plotone d’esecuzione diciannove compagni. Era il 18 marzo del 1944. Di quella triste pagina della nostra storia Vittorio è l’unico sopravvissuto, anche se gravemente ferito, per essere scappato appena prima che i fascisti riuscissero a premere il grilletto. Ne ha scritto dettagliatamente nella Memoria su Montemaggio (Anpi Siena, 1975).

Di nuovo dietro le sbarre, venne fatto uscire quando la Liberazione di Roma spinse i repubblichini impauriti a scarcerare decine di detenuti politici. Si mise dunque a disposizione del Corpo di Spedizione Francese che liberò Colle. A quel punto, aveva provato sulla sua pelle cos’era la paura e il freddo e la lontananza dagli affetti. Nonostante la Toscana fosse finalmente libera dall’oppressione fascista, sempre per quel filo di cui dicevo all’inizio, si arruolò come volontario nell’esercito di liberazione italiano. In particolare, prese parte al Gruppo di Combattimento “Cremona”, che operava in Romagna, a fianco dell’VIII Armata Britannica, un’esperienza che può essere attentamente letta in Dal fazzoletto rosso alle stellette. 1944-1945: l’esperienza dei volontari senesi nei Gruppi di Combattimento (Nuova Immagine, 2005).

Vennero in seguito il trasferimento a Roma per partecipare alla Commissione di Direzione Nazionale del PCI, il rientro a Siena, le drammatiche giornate del ’48, i processi che la Resistenza senese dovette subire, la difficile scelta di non accettare la candidatura a sindaco. Anche in questi casi, per usare le parole di Ivan Tognarini, “Vittorio è stato (ed è, auguriamoci ancora per tanti e tanti anni) uno spirito libero, una coscienza critica, una persona che, senza mai scadere nell’alterigia, nella boria, nella tracotanza, è stata ed è rimasta rigorosamente e coraggiosamente coerente con le proprie idee”.

Oggi, all’età di quasi 93 anni, il suo impegno e la sua grande partecipazione non sono ancora finiti. È infatti il Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea, nonché dell’Anpi provinciale di Siena. Con mente lucida, nel 2015 come allora, non perde occasione per raccontare la sua storia e insegnare a tutti che “la libertà è come l’aria, ne apprezzi tutto il valore quando ti manca”.




Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)