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A sinistra del PCI di fronte all’89: memorie di un “eretico” demoproletario

Eugenio Baronti (Capannori, 1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di DP dal 1980, del quale è uno dei membri fondatori a Lucca; nel 1991 aderisce al PRC, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente per il comune di Capannori, nonché assessore regionale con delega alla ricerca, all’università e al diritto alla casa.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia Proletaria?

Mi sono avvicinato a DP fin dall’inizio della sua costituzione come cartello elettorale della sinistra extraparlamentare per le elezioni amministrative del 1975 e poi per le politiche del giugno 1976. Io militavo allora nella Lega dei comunisti, e per me quella fu una campagna elettorale che vissi con grande entusiasmo e un estenuante impegno quotidiano. Nel mio paese a Lammari, dove c’era un bel nucleo forte, riuscimmo a organizzare la prima festa politica nella sua storia di paese rurale, democristiano e conservatore – la Festa d’Estate, a sostegno della lista. Un evento straordinario, costruimmo il villaggio con le nostre mani lavorandoci fino a notte: una grande festa e un gran successo, l’unica a livello lucchese. Alla fine lasciammo la struttura ai compagni del PCI, che vi tennero la prima festa dell’Unità.

Il risultato elettorale fu pessimo, un magrissimo 1,5% che però bastò a eleggere un piccolo drappello di 6 deputati. Fu una grande delusione, mi servì qualche settimana a metabolizzarla. Subito dopo aderii alla costituente del partito, obiettivo per la quale mi impegnai molto, non senza scontri politici interni. Il 13 aprile 1978 ero tra i fondatori al cinema Jolly di Roma dove nacque DP.

Perché proprio DP e non il Partito comunista? Quali ragioni hanno guidato questa tua scelta di militanza?

Perché DP e non il grande e potente PCI? Semplice: la mia militanza movimentista, il mio antimilitarismo, la mia innata riluttanza a ogni autoritarismo, non mi lasciava alternativa. Il PCI era industrialista, sviluppista, nuclearista, molto arretrato in materia di diritti civili. Inoltre non sono mai stato filosovietico: Breznev e tutti quei burocrati e militari impataccati sulla Piazza rossa il 1° Maggio mi sembravano delle insopportabili mummie, fuori dal tempo.

Veniamo agli anni ’80: quale ruolo ricoprivi allora in DP? In che condizioni si trovava il partito in Lucchesia in quel momento?

Essendo stato tra i fondatori nella provincia di Lucca, fui eletto già al I congresso di federazione segretario provinciale, ed ero nel comitato politico regionale e in quello nazionale. La seconda metà degli anni ’80 furono per DP sicuramente i migliori in termini di impegno politico e risultati.

All’inizio del 1984 aprimmo la sede federale in via S. Tommaso in Pelleria, avviando un processo di strutturazione a livello provinciale in tutte le aree geografiche della nostra provincia, e una più limitata presenza istituzionale. Avevamo però una grande capacità di mobilitazione e una buona visibilità politica: in sede avevamo una offset con la quale stampavamo il Quaderno di Dippì, che inviavamo a iscritti e simpatizzanti.

Nell’86 la sede si trasferì in via Fillungo 88, dove tenemmo il I congresso provinciale, aperto da una mia relazione introduttiva dal titolo “Al bivio del 2000. Idee e progetti per l’alternativa”. Erano anni di grandi battaglie sulle questioni nazionali (dall’impegno antinuclearista alle 35 ore lavorative) e locali (la denuncia del malaffare nella gestione dei rifiuti industriali, culminata con l’occupazione del consiglio provinciale, e la vittoriosa lotta referendaria per la chiusura delle Mura urbane e del centro storico al traffico), che alle elezioni dell’87 – dove ero candidato alla Camera – portarono a DP i migliori risultati elettorali: 5.372 voti in provincia, in città siamo al 3,5%, nonché buoni risultati in tanti comuni della Versilia e della Garfagnana. Poi nel 1988, al VI congresso nazionale, si consumò la rottura fra Mario Capanna e quei dirigenti che lasceranno il partito per fondare i Verdi Arcobaleno.

La scissione e l’89 segneranno la fine del progetto di DP, la cui eredità ha avuto però un vasto impatto sulla sinistra italiana. Una formazione marxista eretica e antisovietica, che ha portato nel dibattito politico tematiche fino ad allora inesistenti: la critica radicale dell’idea della crescita infinita e del nostro modello di consumi e sviluppo; le battaglie per i diritti civili e sociali tenuti inscindibilmente assieme; le campagne antinucleariste (quando tutti erano affascinati dalle prospettive dell’energia nucleare); la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – lavorare meno e lavorare tutti, tratto distintivo di DP.

Ripensando a quella bella esperienza non posso che rilevare che era un piccolo partito elitario, zeppo di personalità, competenze e intelligenze, un bel numero di militanti con livelli di cultura politica estremamente elevati, molto superiori alla media dei militanti delle altre forze compreso il PCI. Per me DP è stata prima di tutto una scuola di vita e una straordinaria opportunità di crescita culturale e politica.

DP si è sempre posta criticamente nei confronti dei paesi del socialismo reale: quali erano le tue posizioni in materia? E come hai reagito di fronte al crollo del Muro nell’89? Quali ricordi hai di quella giornata, e quali riflessioni ha scatenato in te?

Nessuno allora pensava che un giorno sarebbe crollato il Muro di Berlino, sconvolgendo gli equilibri politici usciti da Yalta e che alla mia generazione sembrava dovessero durare per sempre1, il cui superamento per decenni è rimasto un’utopia perseguita da piccole e istituzionalmente marginali minoranze come DP, che osavano immaginare, per il continente europeo, un futuro non più fondato sull’equilibrio del terrore atomico. Quegli accadimenti storici si incaricarono di ricordare a tutti che niente in questo mondo è eterno, tutto ha un inizio e prima o poi anche una fine.

Fra il 1989 e il 1991 illustri ed entusiasti opinion leader – colti di sorpresa dall’evento – sostennero che la Storia era finita poiché “l’impero del male” sovietico era finalmente caduto, aprendo all’umanità prospettive di pace e benessere globali. Sciocchezze colossali, affermate senza il minimo pudore nei dibattiti pubblici che affollavano i palinsesti radiotelevisivi e le colonne dei giornali. Altro che pace! Di lì a poco, nel cuore dell’Europa, si sarebbe scatenata una delle più cruente guerre civili che trasformò l’intera Jugoslavia in un grande teatro di guerra. Parliamoci chiaro, nessun osservatore aveva allora previsto niente di tutto ciò che sarebbe accaduto.

Quella sere del 9 novembre 1989 una folla festosa di uomini e donne presero a picconate e martellate quel muro simbolo di un’Europa divisa in due, che aveva tenuto forzatamente separato un popolo; famiglie costrette a salutarsi a distanza, oltre le reti e i fili spinati, guardandosi con potenti cannocchiali, su versanti opposti e distanti, oltre la maestosa porta chiusa e proibita di Brandeburgo. Io l’ho vista da turista e ho sentito dentro di me tutto il peso soffocante e oppressivo di quel muro. La cosa che più mi amareggiò fu vedere che quei regimi crollarono indecorosamente lasciando dietro di sé una montagna di rovine e miserie a livello culturale e sociale.

Quali furono le reazioni interne al partito a livello locale, fra i tuoi compagni di militanza, di fronte all’89 e alla fine dell’esperienza comunista dell’Est?

Intanto una precisazione: noi di DP non abbiamo mai considerato socialisti e tantomeno comunisti quei regimi, che con la loro presenza infangavano l’immagine stessa del comunismo. DP era una forza antistalinista, antiautoritaria, in sintonia con quel filone marxista “caldo”, non riduzionista e meccanicista come il marxismo ufficiale che pensava che una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbero nati di conseguenza la società e l’uomo nuovo socialista. Pochi giorni dopo quelle vicende si svolse il 3° congresso della federazione lucchese, aperto da una mia relazione che non poteva non iniziare con un’analisi di ciò che stava avvenendo a Est:

“Gli sconvolgenti avvenimenti che stanno maturando in questi giorni nell’Est europeo sono stati da noi auspicati e desiderati fin dall’inizio della nostra storia. Essi costituiscono la fine di un’ambiguità e di una mistificazione che volevano identificati il socialismo e il comunismo in regimi che si sono caratterizzati per l’onnipotenza della burocrazia di partito e della polizia segreta, per le deportazioni di massa e dei carri armati utilizzati come mezzo di risoluzione dei conflitti sociali al proprio interno e nei confronti dei paesi alleati.”

Il giudizio era estremamente positivo, consapevole che queste vicende avrebbero rimesso in moto la Storia ferma a Yalta. Avvertivo però il pericolo di una forte strumentalizzazione da parte delle destre e degli anticomunisti, allo scopo di dimostrare che il capitalismo era l’unico e il migliore dei mondi possibili.

Nello stesso anno anche il PCI imbocca un cammino che lo porterà a mutare profondamente la propria fisionomia. Cosa pensasti di quel cambiamento in atto, sfociato nella fondazione del PDS? E cosa guidò la tua adesione alla neonata Rifondazione comunista, nella quale DP confluisce nel 1991?

Il nostro giudizio sulla svolta della Bolognina fu duramente critico: le modalità e il dibattito politico di allora tendevano a gettare via il bambino con l’acqua sporca. In quegli anni in molti, anche dirigenti di primo piano, facevano a gara nel dire: mai stati comunisti. Un’indegna e vergognosa liquidazione di una storia che non è mai stata la mia, ma che mi infastidiva per le conseguenze negative che aveva su tutta la sinistra noi compresi, che all’inizio ci pensammo al riparo da quella rovinosa frana poiché venivamo da un’altra storia, radicalmente critica rispetto ai regimi dell’Est; ma come spesso avviene nella storia non si fanno troppe distinzioni, e lo smottamento non risparmiò nessuno. Il senso comune fu quello di dire: il comunismo ha fallito, non c’è alcuna possibilità di rifondarlo. Poi nacque Rifondazione, e siccome io sono sempre attratto dalle sfide impossibili, l’idea di rifondare una nuova cultura comunista per il XXI secolo mi coinvolse. C’era però un ostacolo enorme: quella parte del PCI che non aveva accettato la Bolognina era quella legata a Cossutta, la più conservatrice e filosovietica. Furono mesi di dubbi e perplessità: io in un partito insieme a Cossutta mai! Il pressing su di me a livello locale e nazionale fu estenuante: l’impegno era quello di entrare con la nostra visione per mutare profondamente una prospettiva ormai morta e sconfitta.

Eravamo un gruppo di militanti preparati e determinati, certi che una volta entrati avremmo potuto condizionare lo sviluppo di RC, dando una dimensione di massa al nostro progetto di una sinistra moderna alternativa al PDS. Pochi anni dopo, con la segreteria Bertinotti, si avviò effettivamente un grande processo di rifondazione culturale che integrò la nostra cultura pacifista e ambientalista: non ci divise la battaglia culturale ma, come sempre è avvenuto nella storia della sinistra, questo processo fu interrotto per una divisione profonda rispetto al ruolo del partito nei confronti del governo. Il calvario della sinistra fino ai giorni nostri, con l’ultima divisione consumatasi alle recenti elezioni regionali toscane.

1 Così ad esempio lo storico Robert Service: “Anche se il mondo comunista era percorso da profonde divisioni interne, gli Stati comunisti coprivano un terzo delle terre emerse del pianeta. La maggior parte delle persone dava per scontato che le cose sarebbero andate avanti così per molti anni.” (in Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 523)




ROSARIA BERTOLUCCI, romana di nascita versiliese d’adozione

Rosaria Ciampella nasce a Roma il 23 aprile 1927 da una famiglia borghese, riceve una formazione culturale essenzialmente umanistica dalla quale trae l’amore per la letteratura e la storia.

Di fronte alla drammaticità della guerra, al disastro italiano e allo shock del primo grande bombardamento di Roma, il 16 luglio 1943, che causò oltre tremila morti e undicimila feriti, la giovane Rosaria matura la propria scelta di vita, iscrivendosi al Partito socialista – anche se poi non militerà mai attivamente nell’organizzazione –[1]. All’ideale del socialismo è sempre rimasta fedele seppur negli anni della maturità si sia avvicinata anche alla cultura libertaria.

Nel novembre del 1944 supera, con un buon risultato, il concorso di ammissione alla Facoltà di Magistero di Roma per il corso in materie letterarie ma, la precarietà della situazione generale dovuta alla guerra che condiziona la vita della sua famiglia e il successivo precoce matrimonio, la costringeranno con rammarico ad abbandonare gli studi universitari.

Dunque, originaria di Roma ma ‒ come amava definirsi ‒ versiliese d’adozione, in questa terra approda nel 1946 quando si sposa con un giovane di Pietrasanta. Durante questi anni non abbandona la propria voglia di scrivere e di leggere; ne sono testimonianza alcune lettere a direttori di periodici e riviste a cui invia i propri lavori, tra questi lo scrittore Corrado Alvaro che esprime il proprio apprezzamento per la sua scrittura[2].

Nel 1969 approda a Carrara dove gestisce una libreria e dove inizia un’intensa attività culturale e giornalistica. In questi anni conosce e frequenta assiduamente molti esponenti della cultura e dell’arte di Carrara, della Versilia e non solo come il fotografo Ilario Bessi, lo scultore Carlo Sergio Signori, il pittore Mino Maccari, la pianista Pina Telara e lo scrittore Carlo Cassola[3].

Nel 1978 arriva il riconoscimento più importante, è il primo premio assoluto per la narrativa al Morganti di Viareggio per il suo lavoro su Enrico Pea[4], precedentemente il saggio era stato selezionato nella sezione saggistica opera prima al Premio Viareggio, all’epoca ancora diretto da Leonida Repaci[5].

Sibilla_Aleramo_006In pochi anni – dal 1978 al 1983 – pubblicherà cinque monografie di storia della letteratura, oltre a quella su Pea, un saggio su Tomasi di Lampedusa[6], un altro su Cardarelli[7], quello sullo pittore/scrittore viareggino Lorenzo Viani che riceverà poi il premio Montecatini (VII edizione)[8] e, infine, uno studio su Sibilla Aleramo[9].

Di quest’ultima opera si evidenzia, in una recensione pubblicata dalla redazione viareggina de «La Nazione», che la scrittrice “versiliese” ha voluto scegliere «una particolare angolazione» per analizzare l’opera della Aleramo indagando non solo l’aspetto intellettuale ma anche la «donna» e con uno stile asciutto e semplice ha stilato «un profilo squisitamente femminile, al tempo stesso immerso nei problemi contemporanei»[10]. Il testo è aperto da una  presentazione di Carlo Cassola che aveva letto e apprezzato il lavoro in bozze nella primavera/estate del 1980.

Questi saggi rappresentano il principale corpus di critica letteraria di Rosaria Bertolucci, scritti con una lingua ricca e fluida, alimentata da una tensione interna sì che molte sono le pagine in cui la prosa si rivela, a volte, autentica poesia, corredati da un’accurata documentazione, testimonianza tangibile dell’attenzione alla narrativa contemporanea.

In particolare il saggio dedicato a Viani scrittore riesce a ricostruire e reintegrare da un punto di vista storico tutto l’arco dell’esperienza umana del pittore viareggino, narratore e poeta di personaggi della cultura sotterranea e dei senza volto della Versilia.

Il libro verrà presentato alla biblioteca comunale Lorenzo Quartieri di Forte dei Marmi il 17 maggio 1980. Nell’occasione interverrà Vittorio Vettori, poeta, scrittore, critico letterario e dantista[11], che avrà parole di elogio, sottolineando come l’opera critica sullo scrittore Viani della Bertolucci è

un omaggio intelligente e affettuoso alla terra versiliese e all’estroso ed energico genius loci da cui essa è abitata. Chi infatti è più vicino di Viani a tale estro e a tale energia? E anzi si potrebbe dire che il vero genius loci della Versilia sia lui, Lorenzo Viani in persona, così come ci viene incontro dal mirabile monumento viareggino di Arturo Martini, così come – sopra tutto – possiamo sempre ritrovarlo e riscoprirlo nella drammatica galleria delle sue incisioni e delle sue tele non meno che nelle appassionate e appassionanti testimonianze della sua geniale presenza di singolarissimo outsider del Novecento letterario italiano. Rosaria Bertolucci si è accostata appunto al Viani scrittore, rinvenendone fin dal principio il tratto distintivo fondamentale: il colorismo espressionistico e quindi non descrittivo, ma tragico della «parola».
«Parola come colore», la formula critica adoperata dalla Bertolucci nel sottotitolo del suo libro, risulta felicemente indicativa e calzante, se la si intende, com’è ovvio, in rapporto alla speciale figuratività dell’arte di Viani pittore e incisore, in rapporto alla luce cruda e tagliente che si raggruma e si fa colorata espressione (o espressivo colore) in quell’arte[12].

Ma torniamo a Pea: il libro che esce a maggio del 1978[13], è forse quello più amato dalla Bertolucci non solo perché è il primo ma perché le permette di introdursi in punta di piedi nei salotti culturali versiliesi. È presumibile che l’idea del libro sullo scrittore versiliese sia nata qualche anno prima, grazie all’incontro con l’insegnante Emilio Paoli, un testimone attento dell’ultimo periodo di vita di Pea, suo estimatore e critico, autore di un prezioso volume sulla sua poetica[14].

Il volume viene presentato il 15 luglio a Forte dei Marmi, proprio al Quarto platano al caffè Roma di Piazza Garibaldi, luogo simbolo, cenacolo di artisti e scrittori della prima metà del Novecento[15]. Alla presentazione partecipano i figli di Pea, lo scrittore Rodolfo Doni[16], il professore Giovanni Scarabelli, Roberto Monciatti – presidente dell’ACREL di Viareggio – e i titolari della Libreria Internazionale che sono fra gli organizzatori[17].

Pea_Enrico_004L’interesse e gli studi su Pea fanno sì che la Bertolucci incontri l’editore Marco Carpena di Sarzana[18]. Quest’ultimo è stato fondatore tra il 1952 e il 1954, insieme con Renato Righetti e Giovanni Petronilli del premio Lerici, dedicato alla poesia inedita, ai quali si aggiunge poco dopo anche Enrico Pea. Nel 1958, alla morte dello scrittore versiliese e in suo ricordo, l’appuntamento letterario diventerà premio Lerici-Pea.

Dall’incontro con Carpena nascono due progetti editoriali nei quali la Bertolucci è coinvolta pienamente.

Il primo è un instant-book che prende vita proprio sull’onda dell’anniversario della scomparsa dello scrittore versiliese, Pea vent’anni dopo[19], che esce per i tipi di Carpena nel settembre del 1978 e che contiene ben sei interventi della Bertolucci che cura senza firmarla anche la bibliografia finale del volume[20].

Il secondo è collegato alle giornate di studio che si terranno a Viareggio nel mese di aprile del 1980[21]. Nell’occasione si svolge un’importante tavola rotonda cui partecipano oltre alla Bertolucci, i docenti dell’Università di Pisa, Carlo Quiriconi e Anna Barsotti, insieme a Silvio Guarnieri, autorevole critico letterario e titolare sempre presso l’ateneo pisano della cattedra di Storia della Letteratura italiana. Gli atti di quella tavola rotonda verranno editi da Carpena e ancora oggi sono un utile riferimento bibliografico per la conoscenza dello scrittore versiliese[22].

Nel 1979 esce Il principe dimenticato recensito positivamente dallo studioso Emilio Paoli nelle pagine del «La Nazione». L’opera della Bertolucci è considerata «uno studio serio e sereno su tutta l’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa» e propone «una rilettura» a tutto tondo dello scrittore siciliano rompendo il silenzio della critica a vent’anni dalla prima edizione del Gattopardo[23].

Anche lo studio su Vincenzo Cardarelli, che riceverà il 1° premio Casentino per la saggistica[24], è dedicato ad un aspetto poco conosciuto del poeta quello di pubblicista, soprattutto legato alla sua collaborazione giovanile al quotidiano socialista l’«Avanti!» dove inizia la propria attività come correttore di bozze. In queste cronache, studiate dalla Bertolucci e, allora, poco analizzate dalla critica, Cardarelli mostrava di essere un acuto osservatore del costume e dell’ambiente romano in un momento cruciale e delicato della storia del Paese e attraversato da mille inquietudini, quello che precedette il primo conflitto mondiale[25].

Parallelamente a queste attività dal 1977 la Bertolucci inizia a collaborare stabilmente con la stampa quotidiana locale, suoi scritti si ritrovano sia nella cronaca versiliese che in quella di Carrara de «La Nazione». La collaborazione a questo quotidiano, che si protrarrà per dodici anni consecutivi, verte essenzialmente su due ambiti: quello sociologico e quello storico/culturale cui dedica una produzione attenta di tipo divulgativo.

Per la Bertolucci capire la storia significava comprendere i rapporti causa-effetto che legavano il presente al passato. Per cogliere i frutti della storia, quindi, era necessario che questa fosse conosciuta il più approfonditamente e dal maggior numero di persone possibili. E per raggiungere questo obiettivo era fondamentale che la storia, oltre ad essere insegnata bene nelle scuole, venisse anche divulgata. È dunque soprattutto in questo senso che va letto il suo lavoro che mira alla divulgazione della storia politica, sociale e culturale del territorio attraverso un fiume prorompente di articoli e saggi sparsi su quotidiani, riviste e pamphlet. La scrittrice opera un’intelligente e originale sintesi dei diversi aspetti che connotano il profilo di una comunità, ricostruendo gli eventi in maniera rigorosa, ma non accademico, utilizzando lo stile, piano e ordinato, accattivante e fluido tipico dei divulgatori.

Negli oltre novecento articoli e scritti vari di quegli anni, ne spiccano un centinaio che – direttamente o indirettamente – trattano della storia sociale, economica, politica e culturale nella città del marmo e del territorio apuo-versiliese, ora in parte raccolti in un volume appena uscito[26]. Non sono banali articoli di cronaca, ma veri e propri saggi di ambito storico che il lettore di allora de «La Nazione» poteva leggere come capitoli di un libro in divenire.

L’azione svolta dalla Bertolucci tramite le pagine del giornale non passò inosservata tanto che due “anziani” militanti dell’anarchismo, come Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi, la vollero conoscere e coinvolgere nelle loro attività.

La Bertolucci aveva già iniziato da tempo un approfondito studio sulla storia di Carrara e del suo territorio. Ne sono testimonianza diversi articoli che escono nel 1978, sempre sulle pagine de «La Nazione», dedicati a figure locali e/o nazionali la cui storia si è intersecata con quella della città del marmo come Cesare Vico Lodovici, Giovanni Fantoni, Domenico Cucchiari, Gabriele D’Annunzio, Antonio Stoppani, Lorenzo Viani, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e Pellegrino Rossi.

Va ricordato che in questi anni la Bertolucci è un’assidua frequentatrice dell’Archivio di Stato di Massa e dei principali centri culturali del territorio come le Biblioteche civiche di Carrara e di Massa, l’archivio e la biblioteca dell’Accademia di Belle Arti, quella della Camera di Commercio di Carrara. Conosce e frequenta le raccolte private di alcune famiglie, come quella di Paolo Micheli Pellegrini[27] e di Cesare Vico Lodovici, di cui conosce e frequenta il fratello Renato o quella di esponenti politici come il comunista Antonio Bernieri che, proprio nel 1977, insieme a Lorenzo Gestri aveva fondato l’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense. Infine, conosce e studia materiali preziosi per la storia novecentesca della città, come il diario dattiloscritto, dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, di Augusto Ciaranfi, direttore della Banca Commerciale, succursale di Apuania, all’epoca ancora inedito[28].

Una prima prova delle capacità che la Bertolucci ha acquisito nella lettura integrata dei fenomeni sociali, culturali e politici si ha in occasione della pubblicazione di un’inchiesta storica sulla nascita e lo sviluppo della stampa periodica nella provincia che esce a puntate tra l’aprile e il giugno del 1979 nelle pagine di cronaca locale della «Nazione»[29].

Dunque, quando la Bertolucci incontra Mazzucchelli e Marzocchi, i due sanno benissimo chi hanno di fronte e capiscono che un accordo tra i tre è potenzialmente foriero di buone iniziative. Gli anziani militanti, ormai prossimi agli ottant’anni, hanno l’urgente bisogno di trasmettere alle future generazioni non solo la propria storia ma anche quella della loro generazione. Si mettono subito al tavolo di lavoro e l’intesa è ben presto trovata. È presumibile che la prima idea sia proprio quella di un progetto che riguarda un momento essenziale delle memorie dei due militanti: l’esperienza spagnola per Marzocchi e quella resistenziale per Mazzucchelli. Non sarà un caso, come vedremo, l’uscita nel 1988 della biografia di Ugo Mazzucchelli[30] mentre per quella di Marzocchi il progetto, a causa della malattia e poi della morte del protagonista nel giugno del 1986, non vedrà la luce.

Novantaquattro_003La creatività e lo spirito d’iniziativa la portano a travalicare l’accordo e a progettare, una storia romanzata del moti del ’94. Durante tutto il 1980 la Bertolucci lavora intensamente e nell’autunno consegna la bozza ai due militanti, che l’approvano senza esitazione, e nel febbraio del 1981 vede la luce Milleottocentonovantaquattro[31].

Nel volume emerge con forza la vene letteraria dell’autrice che, in una lettera di accompagnamento alla pubblicazione, nel rivendicare che i moti «sono un fenomeno carrarese e non genericamente della Lunigiana», avverte «di non aver scritto un testo di storia né tanto meno un saggio rivolto agli addetti ai lavori», ma di aver voluto semplicemente raccontare in forma prosastica ai più giovani quanto era avvenuto alla fine dell’Ottocento. L’aver scelto la «forma del racconto» non vuole minimamente sminuire il significato e la portata politica, sociale e storica di quei fatti ma tentare di «farli rivivere, intatti ed attuali», come un «frammento di storia locale umanamente vissuto sullo sfondo di un più vasto contesto» nazionale e internazionale[32].

Il libro viene presentato a Carrara il 6 aprile 1981 nella sala comunale con la partecipazione di storici come Lorenzo Gestri[33] e Nunzio Dell’Erba.

Contemporaneamente la Bertolucci ha avviato una ricerca riguardante la storia della ferrovia marmifera che, nonostante ormai fosse chiusa da quasi due decenni, continuava a far discutere la politica locale a causa della pratica di liquidazione dei suoi debiti pregressi, insomma, come in anni più tardi scriverà la scrittrice, tutta la storia di questa impresa rappresentava, con i suoi protagonisti e con le sue vittime, una tipica vicenda all’italiana.

Il saggio è il primo lavoro in assoluto che ricostruisce complessivamente tutta la storia di questa ardita arteria ferroviaria, inaugurata nella seconda metà dell’Ottocento, che collegava i bacini marmiferi con la stazione ferroviaria di Avenza e il porto marittimo di Marina di Carrara. Il lavoro venne pubblicato a puntate sulla rivista «Carrara marmi» del Centro studi del marmo del Comune, tra il 1980 e il 1982[34], poi successivamente è stato ripubblicato dal quotidiano «le Città», anche se in forma ridotta, e poi utilizzato per alcune lezioni tenute dalla Bertolucci  all’Università della Terza Età nel secondo biennio di attività dei corsi, tra il 1989 e l’inizio del 1990.

Dunque, la Bertolucci, è un’attenta e curiosa studiosa di storia locale e non manca di partecipare a ogni evento di ambito storiografico che si svolge in città. Nell’aprile del 1980 assiste al convegno organizzato dall’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense sulla resistenza in Apuania che vede la partecipazione di esponenti di rilievo nazionale tra i quali il senatore Leo Valiani, Leonetto Amadei, presidente della Corte costituzionale, lo storico Franco Catalano e Franco Francocivh, presidente dell’Istituto storico regionale della Resistenza. L’incontro, di cui la Bertolucci darà un puntuale resoconto dalle pagine de «La Nazione»[35], è un ulteriore stimolo allo studio della guerra civile che ha insanguinato il nostro paese prima nel biennio nero del 1921-’22 e poi tra il 1943-’45, e che aveva profondamente segnato la storia della provincia di Massa e Carrara.

L’argomento verrà trattato dalla Bertolucci in più di un’occasione e poi, come detto, troverà una sintesi nella biografia del partigiano anarchico Ugo Mazzucchelli.

In quello stesso anno il regista Luigi Faccini presenta il film Nella città perduta di Sarzana che viene poi proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia. Il film racconta un episodio drammatico della guerra civile, accaduto a Sarzana il 21 luglio 1921, tra fascisti e antifascisti dove i primi ebbero la peggio. Il film è strutturato sulla dettatura del rapporto da parte del prefetto Vincenzo Trani, incaricato dall’allora Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, di riportare la pace e l’ordine nella cittadina. Il film, che nell’estate dell’anno successivo verrà trasmesso in due serata anche dalla RAI, fu proiettato in diverse città italiane, tra cui Carrara, suscitando dibattiti e prese di posizione.

Anche la Bertolucci intervenne con un articolo pubblicato dalla «Nazione» in due parti ai primi di settembre. Lo scritto si soffermava in particolare sul ruolo del ras Renato Ricci, ricostruendone anche in parte la biografia. Ad analizzare l’articolo si comprende come la scrittrice tentasse di capire come fosse nata, anche in una città di provincia come Carrara, quella frattura nella società italiana, causata dalla guerra civile proclamata dal fascismo, che avrebbe avuto un seguito non solo nel 1943-’45 ma anche nefaste influenze nella storia repubblicana.

Successivamente si impegna nello studio della Resistenza a Carrara di cui un primo abbozzo viene pubblicato a puntate nella primavera del 1984 in sette puntate da «La Nazione» tra l’aprile e il maggio 1984. La ricerca, costruita sulla documentazione dell’archivio del CLN conservato a Firenze presso l’Istituto Storico Regionale della Resistenza, e su testimonianze dirette di alcuni protagonisti come lo stesso Mazzucchelli, Antonio Bernieri e altri.

Nell’autunno del 1988 esce l’ultima monografia della Bertolucci, quella dedicata proprio a Ugo Mazzucchelli, con la quale si completa il ciclo di studi avviato dieci anni prima sulla genesi dell’antifascismo locale e sull’esperienza resistenziale.

Il libro viene presentato sabato 19 novembre 1988 al Centro culturale Amendola di Avenza, con la partecipazione accanto all’autrice e a Ugo Mazzucchelli, degli storici Enzo Santarelli e Pier Carlo Masini. Per il primo il libro non vuole essere un saggio e nemmeno una semplice biografia e ha la sua ragion d’essere nell’«aria» di Carrara e nella figura particolare di Mazzucchelli, un anarchico ragionante. Mentre, per Masini il libro rappresenta bene lo spirito di questa terra «incline al radicalismo», come altri territori dell’Italia centrale, Umbria, Marche, Romagna e parte dell’Emilia, dove la «spinta verso forme politiche tese alla libertà e alla democrazia» è stata la principale risposta a lunghi anni di governi reazionari e repressivi.

Un’ampia recensione del libro viene pubblicata dal quotidiano «le Città» nel quale si sottolinea forse il pregio maggiore del libro che è quello di essere volutamente «divulgativo, scritto non per storici o per specialisti di storia locale, ma per far conoscere questa figura di uomo a tutti», al di là degli schieramenti precostituiti. Uno strumento utile per comprendere non solo la vita di Mazzucchelli, che l’editorialista definisce «costruttore di storia», ma anche le peculiarità di un movimento, come quello libertario, che ha avuto una storia così complessa e articolata nel territorio apuano. Un libro «dichiaratamente di parte» dove, inevitabilmente, la «Bertolucci subisce il fascino del personaggio» ma con uno stile giornalistico sa renderlo nella sua più piena dimensione umana e politica[36].

L’approccio biografico scelto dalla Bertolucci, per raccontare una pagina importante della storia novecentesca dell’anarchismo a Carrara, si inserisce bene sul piano storiografico in quegli anni nei quali il genere biografico si va affermando nella ricerca storica. Un approccio innovativo che mette al centro delle attenzioni del lettore l’individuo come entità al quale ricongiungere la ricostruzione storiografica. Una narrazione nella quale vengono coniugati oltre agli aspetti prettamente storico-politici anche quelli di natura sociologica, culturale, antropologica e psicologica, un approccio che troverà nei decenni successivi ampia fortuna nella storiografia dedicata al genere biografico. Una questione, quella dell’affermazione del genere della biografia nella storiografia contemporanea, che solleciterà Alceo Riosa, nei primi anni Ottanta, a interrogarsi sulla relazione tra la «crisi dello storicismo» e l’ingresso della biografia nel tempio di Clio:

La perdita della dimensione teologica della storia ha favorito una più larga attenzione verso gli agenti storici, gli uomini, le motivazioni delle loro scelte, non più riportabili allo Spirito del Mondo né più unicamente riferibili alle leggi della struttura economica. L’uomo nella storia certo, ma con una sua autonomia e relativa libertà di scelta[37].

Nel febbraio 1988 la Bertolucci è tra le promotrici dell’Università della Terza età organizzata dalla Comunità montana e dalla Circoscrizione 4 del Comune di Carrara. È titolare del corso di storia locale e, nell’estate del 1988 e in quella successiva, anche di un corso di latino per le prime classi dei licei e dei ginnasi sempre su incarico dell’amministrazione comunale.

Le forze iniziano a mancare: nella primavera del 1989, gli effetti della malattia si fanno più palesi e deve ridurre le sue attività, alla fine dell’anno chiude l’agenzia libraria e sospende le sue collaborazioni alle diverse testate giornalistiche. Ha ancora la forza per portare a termine le lezioni del secondo ciclo dell’Università della Terza Età e completare il suo ultimo libro, quello dedicato al fotografo Ilario Bessi, scomparso tre anni prima, testo che cura, come già accennato, con due dei colleghi giornalisti, Romano Bavastro e Vittorio Prayer, con cui ha condiviso dodici anni di professione e lavoro comune[38].

Una stagione unica e irripetibile crediamo, quella vissuta dalla scrittrice, nella quale la cultura locale trovò una persona sensibile, leale e generosa che ha fatto conoscere ad un ampio pubblico la storia sociale e politica del territorio apuo-versiliese e della città del marmo, una città – e con essa molti dei suoi cittadini –  che la scrittrice ha tanto amato e che l’ha resa felice. Per questo le siamo infinitamente grati e riconoscenti.

Rosaria Ciampella Bertolucci muore all’ospedale civile di Camaiore il 28 ottobre 1990.

Note

[1] Nell’archivio personale della Bertolucci è conservata la tessera n. 261300, anno 1945, della Sezione del rione Trevi di Roma. Nelle carte è conservato anche un biglietto/invito, con data 15 maggio 1945, della sezione ANPI III zona Monte Sacro indirizzato alla “partigiana Rosaria Ciampella” per una conferenza pubblica il 20 maggio del partigiano Riccardo Antonelli, in occasione dell’inaugurazione della Sezione partigiani del Circolo socialista. Quest’ultimo è stato il comandante della III zona, arrestato dai nazi-fascista il 16 maggio 1944 è torturato in via Tasso senza cedere ai suoi aguzzini. Durante gli anni dell’occupazione nazi-fascista di Roma è probabile che Rosaria abbia stretto vincoli sodali di collaborazione, soprattutto in ambito socialista, nella lotta antifascista e questo biglietto ne è una prova ma, per la sua giovane età e per la mancanza di ulteriore documentazione non possiamo stabilire una sua partecipazione diretta alla Resistenza.
[2] Archivio BFS, Carte R. Bertolucci, Corrispondenza, Lettera di C. Alvaro a R. Bertolucci, Roma, 28 agosto 1946.
[3] Carlo Cassola (1917-1987), antifascista, partigiano scrittore e saggista di fama internazionale, quando conosce la Bertolucci è particolarmente impegnato con il progetto della Lega per il disarmo unilaterale e nell’ambito di queste attività conosce e frequenta gli anarchici, in particolare Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi.
[4] Premio 1978 «A. Morganti». Resi noti i vincitori, «Il Tirreno» (cronaca di Viareggio), 12 lug. 1978.
[5] Viareggio, seconda rosa, «La Nazione», 2 giu. 1978; I concorrenti al «Viareggio» per l’opera prima, «Il Tempo», 2 giu. 1978.
[6] R. Bertolucci, Il principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979.
[7] R. Bertolucci, Cardarelli sconosciuto, Firenze, La Ginestra, 1980.
[8] Lorenzo Viani scrittore e Cardarelli pubblicista. Due nuovi libri di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 2 aprile 1980. Cfr. A Rosaria Bertolucci il premio Montecatini, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 28 novembre 1981.
[9] R. Bertolucci, Sibilla Aleramo, una vita, prefazione di Carlo Cassola, Viareggio-Avenza, Centro studi di letteratura contemporanea-Centro studi sociali e Sea, 1983.
[10] Fr. A., Saggio su Sibilla di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 25 set. 1983.
[11] Vittorio Vettori (1920-2004) originario del casentino ha vissuto tutta la sua vita a Firenze, è stato presidente dell’Accademia Pisana dell’Arte-sodalizio dell’Ussero, segretario generale dell’Associazione «Amici della Rassegna di Cultura e vita scolastica», Membre d’honneur della Société libre de poésie di Parigi e fondatore nonché direttore della «Lectura Dantis Internazionale» di Pisa.
[12] Il testo del suo intervento si può leggere in V. Vettori, Figuratività e scrittura di Lorenzo Viani, «Messaggero Veneto», 18 mag. 1980.
[13] Esce «Pea uomo di Versilia» nel ventennale della morte, «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 23 mag.1978; Un libro su Pea «uomo di Versilia», «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 24 mag. 1978.
[14] Cfr. E. Paoli, Pea: la poesia della malizia, Sarzana, Carpena, 1973.
[15] Cfr. R. Pellegrino, Vent’anni fa moriva Pea, oggi solenne commemorazione, «Il Tirreno» (cronaca regionale), 11 agosto 1978.
[16] Rodolfo Doni, nom de plume di Rodolfo Turco (1919-2011), è stato uno scrittore e banchiere considerato uno dei più rappresentativi intellettuali d’ispirazione cattolica del ’900.
[17] Ricordato Enrico Pea nel ventennale della morte, «La Nazione» (cronache della Versilia), 20 lug. 1978. In ricordo di Enrico Pea, «La Nazione» (cronache della Versilia), 14 lug. 1978; Commemorato E. Pea, «Il Tirreno» (Cronaca di Viareggio), 18 lug. 1978; Presentato al Forte il libro «Pea uomo di Versilia», «La Nazione» (cronache della Versilia), 21 lug. 1978. M.B., Incontro su «Pea uomo di Versilia», «L’Ariete», set. 1978, p. 19.
[18] Marco Carpena (1914-1985) è un noto animatore culturale soprattutto nei decenni Cinquanta-Settanta non solo nell’ambito editoriale.
[19] Pea vent’anni dopo, Sarzana, Carpena, 1978. Contiene interventi oltre che della Bertolucci di Emilio Paoli, Marco Carpena, Alfredo Catarsini, Danilo Orlandi, Eugenio Pardini, Giovanni Petronilli e Renato Santini. Si v. a proposito la recensione di A. Caggiano, Pea vent’anni dopo, «Giustizia nuova», 15 dic. 1978.
[20] Si tratta dei saggi: Nella libreria di Franceschi; L’amicizia con Ungheretti; Primo ritorno in patria; La capanna della Bohème; Confidenze in libreria, pp. 27-37; Sintesi biografica, pp. 69-71. La bibliografia delle opere di Pea, l’elenco dei racconti ed articoli per quotidiani e riviste e la rassegna hanno scritto su Enrico Pea, pp. 72-83.
[21] La settimana di studio su Enrico Pea si svolge a Viareggio dal 14 al 20 aprile 1980 con una mostra bio-bibliografica alla Biblioteca comunale, la tavola rotonda il 19 aprile e una rappresentazione del Maggio in Passeggiata di fronte a Piazza Mazzini. Cfr. Viareggio ricorda il «suo» Enrico Pea, «Il Popolo», 13 mag. 1980.
[22] Dedicato a Enrico Pea: settimana di studio, 14-20 aprile 1980, Biblioteca Comunale “Guglielmo Marconi”, Viareggio, curatori: O. De Ambris, M. Simoncini, A. Vannucci; tavola rotonda: A. Barsotti, R. Bertolucci, S. Guarnieri, A. Quiriconi, Sarzana, Carpena, 1980.
[23] E. Paoli, Scrittrice versiliese ripropone Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Principe dimenticato, «La Nazione» (cronaca della Versilia), 15 apr. 1979.
[24] A Rosaria Bertolucci il premio «Casentino» di saggistica, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 9 ago. 1979.
[25] Rosaria Bertolucci: due preziosi saggi, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 9 apr. 1980.
[26] R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ’800 e ’900, Pisa, BFS edizioni, 2020.
[27] Paolo Micheli Pellegrini (1924-2007), discendente di una famiglia aristocratica. persona di grande erudizione, nonché formidabile collezionista di documenti storici è stato nel 1994 tra i fondatori dell’Accademia Aruntica.
[28] Cfr. A. Ciaranfi, Diario della Banca commerciale italiana succursale di Apuania Carrara dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, Carrara, Edizione per il comune di Carrara a cura di Acrobat Media ed., 2005.
[29] L’inchiesta venne pubblicata su «La Nazione» (cronaca di Carrara) in cinque puntate.
[30] Cfr. R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, introduzione di P. C. Masini, Carrara, FIAP, 1988, ristampato poi con il titolo Ugo Mazzucchelli un anarchico e Carrara, Carrara, Società editrice apuana, 2005.
[31] R. Bertolucci, Milleottocentonovantaquattro storia di una rivolta, Carrara, Gruppo anarchici riuniti (G.A.R.), 1981.
[32] Cfr. Storia di una rivolta. Edito dai Gar è uscito un interessante saggio di Rosaria Bertolucci sui «moti» del 1894, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 11 mar. 1981.
[33] Lorenzo Gestri (1943-2002), docente di storia contemporanea presso l’Università di Pisa è stato un fine e profondo conoscitore della storia sociale e del movimento operaio carrarese e in generale della Toscana Nord-Occidentale.
[34] R. Bertolucci, La Ferrovia marmifera forse una storia (1a parte), «Carrara marmi», mar. 1980, pp. 16-21. 2a parte, mar. 1981, pp. 21-24; 3a parte, mar. 1982, pp. 17-24; 4a parte, giu. 1982, pp. 13-18; 5a parte, set. 1982, pp. 21-23.
[35] R. Bertolucci, Al convegno di studi storici. La Resistenza cominciò nel ’21, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 3 aprile 1980.
[36] Ugo Mazzucchelli costruttore di storia. È uscito il libro edito dalla SEA, «le Città», 3 nov. 1988.
[37] Cfr. Biografia e storiografia, a cura di A. Riosa, Milano, F. Angeli, 1983, p. 13.
[38] «Luci di marmo». Omaggio al maestro e alla sua città, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 10 dic. 1989.




Maria Luigia Guaita

Presentando la prima edizione de La guerra finisce la guerra continua Ferruccio Parri, il capo-partigiano “Maurizio” poi, nel giugno 1945, Presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ricorda Maria Luigia Guaita come «una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose» che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, una «donna della Resistenza» fidata, coraggiosa e capace.

Nata a Pisa l’11 agosto 1912 Maria Luigia Guaita trascorre l’infanzia a Torino per poi raggiungere Firenze nel 1926. Qui, grazie al fratello Giovanni, allora giovane studente, inizia a frequentare gli ambienti dell’antifascismo di estrazione liberalsocialista entrando in consuetudine con personaggi come Nello Traquandi, già tra gli animatori del periodico clandestino «Non mollare» e del Circolo di cultura politica di Borgo S. Apostoli, ed Enzo Enriques Agnoletti, uno dei principali esponenti dell’azionismo fiorentino durante la Resistenza.

Avvicinatasi al Partito d’Azione (PdA) la giovane Maria Luigia ne cura l’organizzazione dell’attività clandestina sfruttando, in un primo tempo, quel contatto giornaliero col pubblico – e, quindi, con altri antifascisti – consentitole dalle mansioni di impiegata di sportello presso una filiale fiorentina della Banca Nazionale del Lavoro. Durante la lotta di Liberazione, poi, opera come staffetta, contribuisce alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito.
Agli ordini del Comando militare azionista si adopera, inoltre, per il collegamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese garantendo un servizio – rileva Carlo Francovich – «particolarmente delicato e pericoloso», ma di fondamentale importanza ai fini dell’organizzazione tattico-strategica della lotta di resistenza e generalmente svolto «da giovani donne, la cui audacia era talvolta temeraria»: tra queste, oltre alla Guaita, si ricordano Orsola Biasutti, Anna Maria Enriques Agnoletti, Gilda Larocca, Adina Tenca, Andreina Morandi. Quest’ultima – sorella di Luigi Morandi, il radiotelegrafista del gruppo Co.Ra ferito a morte il 7 giugno 1944 durante l’irruzione dei tedeschi nell’appartamento in Piazza d’Azeglio, ultima sede della radio clandestina azionista –, nei mesi dell’occupazione germanica collabora con la Guaita e, anni dopo, ne ricorda mediante un curioso aneddoto la versatilità e l’instancabilità operativa: «[Maria Luigia Guaita] Non disdegnava nessun tipo di impegno; sapeva trasformarsi anche in vivandiera, come quando riuscì ad ottenere dal proprietario del famoso ristorante Sabatini due sporte piene di conigli, destinati (e purtroppo non arrivati per una serie di contrattempi) alla formazione di Lanciotto Ballerini, che operava dalle parti di Monte Morello» e, nel gennaio 1944, resterà ucciso nella battaglia di Valibona.
Nel quadro più ampio dell’impegno antifascista di Maria Luigia Guaita assume particolare rilievo l’attività di falsificazione di documenti, permessi e timbri in soccorso a partigiani e perseguitati politici alla quale viene iniziata da Tristano Codignola, uno dei più brillanti e capaci dirigenti azionisti: «Con Pippo [Codignola] – ricorda – sarebbe stato duro lavorare, pensavo, ma avrebbe capito e Pippo capì sempre la buona volontà di tutti noi. Ricercato dalla polizia, braccato dalle SS, riuscì a creare insieme a Rita [Fasolo] e a Nello [Traquandi] tutta l’organizzazione politica del partito. Attivo, infaticabile, riempiva le lacune, colmava i vuoti imprevedibili – e di giorno in giorno, d’ora in ora – sfuggiva alla cattura».
L’efficacia del servizio ricorre, altresì, nelle parole lette dallo stesso Codignola all’Assemblea regionale del PdA, tenutasi a Firenze nel febbraio 1945, con le quali rileva come, sotto la solerte guida di Traquandi, esso sia divenuto nel tempo «un magnifico strumento di resistenza, fornendo falsificazioni di ogni natura, tessere, fotografie, timbri, carte annonarie e via dicendo»: Maria Luigia, senza esitare nel mettere a disposizione la propria abitazione fiorentina di via Giovanni Caselli 4, coordina con perizia l’apprestamento e la distribuzione dei documenti falsi permettendo a tale attività di raggiungere un notevole grado di perfezione. Dopo la Liberazione, a riconoscimento dell’impegno resistenziale il Ministero della Guerra le riconosce la qualifica di partigiano afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”-Servizio Informazioni per il periodo compreso tra il 9 settembre 1943 e il 7 settembre 1944.

La primavera del 1945 segna l’avvio della rinascita democratica dell’Italia alla quale le donne, conquistato il diritto al voto, contribuiscono in prima persona. In Assemblea Costituente, ne sono elette 21: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste – tra le quali la toscana Bianca Bianchi – e una proveniente dalle file dell’Uomo qualunque. In Toscana nessuna delle candidate nelle liste del PdA – Olga Monsani, Margherita Fasolo, Eleonora Turziani – ottiene i voti necessari per l’elezione. Maria Luigia Guaita è tra quanti, nei primi anni di vita della giovane Repubblica, confidano nel disegno politico azionista e nel progetto di rinnovamento palingenetico delle strutture dello Stato e della società italiani. Tali aspettative non trovano, però, concretezza e nelle parole da lei consegnate al proprio libro di memorie emergono con forza la delusione per la fine prematura del PdA e l’amara percezione del progressivo appannamento dei valori e delle speranze che hanno animato le donne e gli uomini della Resistenza: «Se devo necessariamente adoperare le parole che esprimono i concetti di libertà e di giustizia, – scrive – ho un attimo di esitazione, spesso ricorro a una perifrasi. “Giustizia e Libertà” mi ha cantato troppo nel cuore, per tutti gli anni della lotta clandestina. Allora mi sforzavo soltanto di essere disciplinata, ma sempre con un sottile struggimento di non fare abbastanza, anche per le perdite dolorose di tanti compagni, i migliori; e ognuno di loro si portava via una parte di me. Venne la liberazione; affascinata da questa parola sperai nell’affermarsi delle forze socialiste. Poi le giornate di Roma, il congresso al Teatro Italia. Ricordo Ragghianti, che tratteneva Parri per la giacchetta, il volto duro e caparbio di Carlo, quello tagliente e tirato di Pippo, la dialettica di La Malfa: il crollo del Partito d’Azione. Pensavo che il sacrificio di tanti compagni (e così di nuovo mi bruciava nel cuore il dolore per la loro morte) sarebbe stato sufficiente a disciplinare le forze, attutire gli screzi, frenare le ambizioni». Ciò, come noto, non avverrà e il PdA si scioglierà nel 1947.

All’assenza dalla vita politica partecipata corrisponde un intenso impegno della Guaita in attività di natura culturale e imprenditoriale. Donna emancipata da sempre legata al mondo intellettuale non solo fiorentino, ella contribuisce a fondare e animare le Edizioni “U” di Dino Gentili cui si devono, grazie all’opera editoriale di Enrico Vallecchi, la pubblicazione di numerosi volumi proibiti sotto la dittatura fascista. Maria Luigia Guaita collabora, inoltre, con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fa parte dell’Associazione Liberi Partigiani Italia Centrale (A.L.P.I.C.) e, nel 1957, dà alle stampe quel libro di memorie che Roberto Battaglia ha paragonato al Diario partigiano di Ada Gobetti definendolo «una spregiudicata narrazione delle vicende d’una staffetta partigiana che si muove o corre dalla città alla montagna e viceversa», nel quale l’autrice «insieme ai toni scanzonati del bozzetto, sa trovare, specie nelle ultime pagine del libro, quelli tragici ed ardui dell’epica partigiana, allorché descrive l’impiccagione di italiani e sovietici a Figline di Prato».
Degno di rilievo si rivela, infine, l’impegno della Guaita nel campo dell’imprenditoria tessile nella Prato della ricostruzione nonché, sul finire degli anni Cinquanta, la fondazione a Firenze della Stamperia d’arte «Il Bisonte», cui segue l’apertura sulle rive dell’Arno di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Nel 1981, a riconoscimento di questo importante impegno imprenditoriale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di Commendatore.
Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007, all’età di 95 anni. Con lei, dirà il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, «scompare una delle personalità più rappresentative della nostra città»: una donna della Resistenza e un’indiscussa protagonista della vita imprenditoriale in Toscana, in Italia e all’estero.

Mirco Bianchi, dottore in Storia contemporanea, è responsabile dell’Archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




Ai mondiali noi non tifavamo Unione Sovietica

A Bologna il 12 Novembre 1989 Occhetto annunciò di voler cambiare nome al Partito comunista italiano, lei sapeva che lo avrebbe fatto?

Non sapevo che lo avrebbe fatto a Bologna e in quella circostanza, ma sapevo che avrebbe affrontato radicalmente la questione.

 

Quali furono le sue reazioni? Quali le speranze, quali i timori?

Soprattutto in Toscana e in Emilia il Pci era una forza socialista riformista. A Bologna, per esempio, c’era una delle amministrazioni più progressiste d’Europa, per questo l’idea di andare oltre il nome per me non era un trauma. Anche Berlinguer aveva riconosciuto la fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre. Sentivamo la necessità di andare oltre il Pci per salvare il meglio del suo patrimonio.

Il timore invece era che quegli elettori che avevano vissuto il partito come una forza progressista, che non aveva niente a che vedere con la realtà sovietica, non comprendessero la decisione di cambiare nome. Il problema più grande fu infatti far capire loro che non veniva messo in discussione quello che avevano fatto fino ad allora.

 

Quindi a Pistoia, per esempio, furono organizzate iniziative per spiegare la svolta ai militanti?

Non ci sono state differenze sostanziali tra le città toscane, i dibattiti furono organizzati ovunque. In Toscana ben il 35% degli iscritti non era d’accordo con la svolta. Per esempio, mi ricordo di un confronto che ebbi con Lido Romanelli, un personaggio storico pistoiese che ha costruito la Cooperazione agricola a Lamporecchio. Ci scrivemmo, «L’Unità» pubblicò le due lettere, una di fronte all’altra, e le differenze apparirono tanto chiare quanto nette. Fu un periodo quindi personalmente molto intenso, di scontro duro tra i vari orientamenti, nelle sezioni, tra iscritti e iscritti; però anche bello da un punto di vista politico, perché in Toscana ci fu una partecipazione tesa, ma molto ampia.

 

Cosa pensava chi era contrario al cambio di nome?

I contrari alla svolta pensavano che, cambiando nome, una parte del patrimonio del Pci venisse smarrita. «Se siamo diversi dall’Urss perché dobbiamo cambiare nome?» si chiedevano in molti, ritenendo la svolta come un’autocertificazione dell’omogeneità con l’esperienza sovietica, che invece non era stata la nostra.

 

Come fu gestita la svolta annunciata alla Bolognina?

Il partito non ha saputo darsi un’organizzazione nuova e ha perso del tempo. È venuta meno un’attenzione all’organizzazione che, anche se non può sostituire la politica, la deve accompagnare. Durante il secondo congresso, per esempio non ci si accorse che mancava il numero legale per la votazione del segretario: questo voleva dire aver perso il polso della situazione. Fu deciso di convocare un secondo congresso perché si ritenne il primo insufficiente, passarono così due anni che, sommati ai ritardi di prima, sono stati micidiali, non soltanto per il tempo trascorso, ma perché ci costrinsero a stare a discutere sul tema del nome, anziché discutere di quale progetto di società cercavamo, di quale organizzazione del partito volevamo. Fu clamoroso quando Occhetto propose di parlare di una carta di intenti del nuovo partito, ma non ne fu discusso perché tutto ormai era inchiodato solo sul nome.

E questa fu una responsabilità di chi era contrario alla svolta. Questi ritenevano infatti che la loro posizione si mantenesse più forte fintantoché si fosse rimasti a parlare solo del nome. Invece, se si fosse discusso dei valori, delle alleanze internazionali, dell’Europa, del progetto di società, la contrapposizione sul nome sarebbe stata superabile.

 

Il problema era quindi il rapporto con l’Unione Sovietica. Lei fu sindaco dopo Renzo Bardelli che già nel 1981 aveva rilasciato un’importante intervista a «La Repubblica» dove criticava duramente la situazione in Urss. Lei cosa pensò di quella presa di posizione pubblica?

La critica all’Unione Sovietica era giusta, forse però avrebbe potuto trovare parole diverse. Con Bardelli avevamo una diversa concezione della politica: lui riteneva giusto condurre una battaglia personale, convinto che gli altri avrebbero seguito; io pensavo invece che fosse necessario costruire un percorso per portare dalla nostra parte quante più persone possibili. La differenza tra noi due risiedeva in questo e non sulle posizioni che lui aveva esplicitato nell’intervista (anche se penso che di quell’articolo molto sia stato frutto della penna di Giampaolo Pansa che lo intervistava).

 

Esistevano quindi delle questioni aperte nel rapporto con l’Unione Sovietica?

La questione del rapporto con l’Unione Sovietica è stata sottovalutata: mi ricordo per esempio quando ero ragazzino che, nel paese de Le Grazie, dove sono cresciuto, durante i mondiali di calcio noi tifavamo Italia, ma alla Casa del Popolo eravamo solo due o tre, i ragazzi, la parte più matura invece, non quella di 80 anni, ma di 40, tifava Unione Sovietica.

Questo è stato il limite della nostra generazione. Per noi l’Unione Sovietica non era un problema, non era né un limite né un modello, per noi non esisteva. Quindi non avvertivamo la pesantezza di questo problema perché non si poneva. E questo è stato un grande errore di sottovalutazione.

A un certo punto ci siamo resi conto che ciò che per noi non era un problema, in realtà lo era, e che quella sovietica era una famiglia che condizionava la nostra credibilità nei confronti degli altri. Era un peso vero e bisognava affrontarlo. Ci rendevamo tutti conto che i paesi sovietici, oltre a non essere un modello, erano diventati qualcosa di profondamente negativo. Quando i carri armati entrarono a Praga ero entrato da pochi mesi nella direzione provinciale del Pci a Pistoia e, se non ci fosse stata una presa di distanza chiara, mi sarei dimesso. La presa di posizione ci fu, e fu quindi diverso rispetto al ‘56, ma, col senno di poi, anche quella del ‘68 non fu sufficiente. Il partito prese posizione ma non ruppe definitamente il vincolo con l’Urss.

 

È possibile dire che è stato anche un problema di “tempi”?

Si. Il momento giusto per prendere definitivamente le distanze dall’Unione Sovietica, per fare una forza unica di sinistra in Italia, era stato il 1956. Quello è stato l’errore più grande del gruppo dirigente di Togliatti.

Noi più giovani abbiamo la responsabilità di non aver percepito il problema e di aver pensato che non fosse un problema. Su questo aveva ragione Renzo Bardelli: già dalle vicende di Praga ci rendemmo conto del peso negativo, ma ci è voluto troppo tempo per rompere il vincolo con l’Urss, perché dal ‘68 all’89 son trascorsi vent’anni. Occhetto già percepiva il problema: «attenzione – diceva – il fallimento dei paesi dell’Unione Sovietica riguarda innanzitutto quei partiti che ne sono stati protagonisti, ma tocca anche noi che ci chiamiamo così, pur non avendo quelle responsabilità, e toccherà anche tutte le forze della sinistra europea». Durante quegli anni di passaggio sono stato convinto di due cose: bisognava andare oltre e la campana suonava per tutti.

 

Vannino Chiti, nato a Pistoia nel 1947, è entrato nel Pci a vent’anni. Nel 1989 era consigliere regionale del Pci, già sindaco di Pistoia dal 1982 al 1985, e futuro presidente della Regione Toscana dal 1992 al 2000. Eletto deputato nel 2001, è stato Ministro per le riforme istituzionali e i rapporti con il Parlamento dal 2006 al 2008. È stato eletto senatore nel 2008 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Senato dal 2012 al 2013.

 

Francesca Perugi collabora da anni con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e ha appena concluso un dottorato in storia del cristianesimo contemporaneo presso l’Università Cattolica di Milano. Si è occupata di storia repubblicana italiana e pistoiese. Tra le sue pubblicazioni: Racconti di vita e di lotta. Storie di mezzadri pistoiesi, in S. Bartolini, La mezzadria nel Novecento, Settegiorni 2015 e “Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «QF. ​Quaderni di Farestoria», I.S.R.Pt Editore, Pistoia, Anno XVI, n. 3, settembre-dicembre 2014,​ pp. 43-50​​.

 




L’Archivio di Paolo Barile

Figura di primo piano del diritto italiano, Paolo Barile (1917-2000) è stato non soltanto un illustre costituzionalista, ma anche un grande intellettuale, un uomo di cultura che fin dai giorni della militanza nella Resistenza e nel Partito d’Azione, e poi lungo più di cinquant’ anni di battaglie politiche e civili, ha fatto sentire la propria voce anche al di fuori dell’ambito strettamente giuridico di competenza, partecipando attivamente al dibattito politico-istituzionale e vivendo la propria carriera di magistrato, avvocato, docente universitario con uno spiccato senso di responsabilità civile.

Nato a Bologna nel 1917, Barile studia a Roma dove si laurea nel 1939 in giurisprudenza con Giuseppe Messina. Nel 1941 vince il primo posto del concorso in Magistratura ordinaria e prende servizio nel 1943 presso il Tribunale militare di Trieste, per poi passare a quello di Firenze e in seguito a quello di Pistoia. Dopo aver aderito nel 1941 al movimento liberalsocialista, nel 1943 entra nel Partito d’azione e, tornato a Firenze dopo l’8 settembre, partecipa attivamente alla Resistenza. Tra i dirigenti del Comitato militare del Comitato toscano di liberazione nazionale, nel novembre è catturato insieme agli altri membri del Comitato militare dalla polizia di Mario Carità; torturato e portato in ospedale per una pugnalata alla testa, è reclamato dal comando tedesco e trasferito nel carcere militare della Fortezza da Basso. Nonostante le insistenti richieste di fucilazione avanzate dai fascisti, i prigionieri sono rilasciati con l’obbligo di presentarsi settimanalmente; a questo punto Barile entra in clandestinità e nel maggio 1944 riprende la sua attività nella Resistenza fiorentina. Dopo la Liberazione è chiamato da Piero Calamandrei a lavorare nel suo studio e nel 1947 si dimette dalla magistratura per cominciare la libera professione di avvocato, che porterà avanti per decenni con il suo rinomato studio professionale. Inizia anche la carriera accademica: diventa assistente di Calamandrei all’università, consegue la libera docenza in Diritto costituzionale e in Istituzioni di diritto pubblico, dal 1954 ottiene la cattedra di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Siena e dal 1963 ricopre quella di Diritto costituzionale presso l’Università di Firenze, presso cui insegnerà fino al 1992. La sua carriera culmina con la carica di ministro per i rapporti con il Parlamento ricoperta nel governo Ciampi tra il 1993 e il 1994. Muore nel 2000 a ottantatré anni.

L’archivio di Paolo Barile è stato donato nel 2013 da Stefano Grassi (avvocato, docente universitario, stretto collaboratore di Barile), che ne era entrato in possesso dopo la morte del giurista, all’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, di cui Barile stesso era stato uno dei fondatori nel 1953 e presidente nel 2000 per pochi mesi prima della morte.

Il fondo è stato condizionato, ordinato ed inventariato, e dopo alcuni anni di lavoro è finalmente a disposizione degli studiosi. Al termine dell’intervento consta di più di 1200 fascicoli, contenuti in 250 buste circa, ed è articolato in 12 seguenti serie. L’arco temporale si estende dal 1960 al 2000 (con una sottoserie contenente esemplari a stampa di scritti di Barile dal 1944): purtroppo la maggior parte dei documenti antecedenti al 1966 è andata distrutta con l’alluvione di Firenze.

Nell’impossibilità di dare conto in dettaglio, in queste poche righe, del contenuto di ciascuna serie, proviamo a mettere in evidenza le potenziali ragioni di interesse per gli studiosi. L’archivio contiene corrispondenza, appunti, schemi e bozze degli scritti, ritagli stampa, opuscoli, materiale vario accumulato dal soggetto produttore nel corso della sua attività di professore universitario, di consulente, di ministro, insomma moltissimo materiale di studio relativo alle questioni di volta in volta trattate nell’ambito dei diversi incarichi. Gli scritti di Barile – riuniti sostanzialmente in tre serie, contenenti articoli in periodici specializzati e non, monografie, saggi, voci per enciclopedie, interventi a convegni e conferenze, interventi per trasmissioni radiotelevisive, pareri e audizioni per enti diversi – costituiscono una raccolta quasi completa della sua intensa produzione: dunque, anche se per la maggior parte editi, il loro valore risiede proprio nel fatto di permettere, nel loro complesso, di seguire l’evoluzione del pensiero del giurista, e in particolare la sua riflessione sui diritti di libertà. Allo stesso tempo, consentono di studiare, ripassare o approfondire numerosi argomenti inerenti alle fasi e alle modalità di attuazione della Costituzione, al percorso compiuto dai diritti nella storia dell’Italia repubblicana, a questioni politiche ed etiche che hanno animato il discorso pubblico. Anche altre serie possono richiamare l’interesse di studiosi del diritto e di storia contemporanea; ad esempio la consistente raccolta di ritagli stampa offre una carrellata di articoli di autori diversi su temi e vicende ampiamente dibattuti, come la legge sul divorzio, la legge 194, i rapporti tra Stato e Chiesa, il ruolo della magistratura, il rapporto tra poteri dello Stato, l’istituto del referendum.

Il materiale epistolare è per la maggior parte di tipo organizzativo; si trova in particolare in tre serie costituite da fascicoli per lo più tematici, che quindi riuniscono anche appunti, scritti, periodici e materiale di studio, e in una serie dedicata alla corrispondenza di tipo più personale, che contiene scambi epistolari con personalità anche di spicco del panorama giuridico, politico, intellettuale, principalmente nazionale. Pur nella netta predominanza del profilo pubblico rispetto a quello privato, la corrispondenza fa luce sulla personalità del soggetto produttore, sui suoi interessi, sul suo universo di valori, sulla sua fittissima rete di relazioni all’interno della società civile e di vari contesti politici e culturali.

Nel suo complesso, e in modo complementare ad altri fondi di giuristi conservati presso istituzioni giuridiche e universitarie, il fondo Barile può interessare un bacino di utenza non strettamente limitato al diritto costituzionale, supportando percorsi di ricerca su aspetti diversi della storia politica, istituzionale, sociale e culturale del nostro Paese nella seconda metà del secolo scorso.




«…tutto era cambiato, ma come fosse cambiato era tutto assolutamente da vedere…»

Con questa intervista a Giuseppe Matulli, Presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze, si apre su Toscana Novecento la nuova rubrica dedicata alla Storia e alla Memoria della “caduta del Muro” (https://www.toscananovecento.it/custom_type/una-nuova-rubrica-di-toscananovecento/). Un percorso di approfondimento e riflessione pensato in occasione del trentesimo anniversario del crollo del Muro di Berlino che proseguirà nei prossimi mesi con la pubblicazione di altre interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane che di quell’evento furono testimoni e, nei loro contesti di riferimento, a loro modo protagonisti.

 

[Avvertenza: nel trascrivere l’intervista si è cercato di mantenere il più possibile inalterato nei suoi aspetti formali ed espressivi il discorso parlato. Ove necessario, a scopo di chiarificazione si sono inseriti fra parentesi quadre brevi indicazioni e aggiunte al testo, rinviando invece ulteriori interventi di commento o spiegazione nelle note a piè di pagina. L’intervista è stata registrata il giorno 26 novembre 2019 presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze]

D. Presidente Matulli, può dirci intanto brevemente, lei che ruolo aveva nel 1989? Quali attività professionali e politiche svolgeva o aveva svolto sino ad allora?

R. Io mi sono occupato di politica fin da giovanissimo, militando nelle file della Democrazia Cristiana. Ero già stato vicesindaco del mio comune, Marradi, e consigliere regionale, eletto nel 1970 nella prima legislatura regionale. Fui poi eletto in Parlamento, nel 1987, dove sono rimasto fino al 1994. Dunque, nel 1989 ero parlamentare della DC[1].

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Giuseppe Matulli al tempo della sua deputazione parlamentare per la DC nella X e XI Legislatura (fonte:Wikipedia)

D. Presidente, come ha vissuto gli eventi che hanno portato alla caduta del Muro, il 9 novembre 1989? Aveva la percezione che qualcosa di quella portata potesse accadere? O invece è stato qualcosa di inatteso? Che emozioni e riflessioni le ha suscitato quell’evento? E inoltre, che tipo di impatto quei fatti ebbero sul piano politico, rispetto al suo ruolo e al partito cui apparteneva, ma anche nel suo contesto territoriale di riferimento?

R. La caduta del muro…quell’evento in realtà ci prese di sorpresa. Cioè, si capiva benissimo in quel periodo che la situazione si andava trasformando…sotto gli effetti della Glasnost’ e della Perestrojka avviate da Michail Gorbačëv[2]…ma il tipo di evento, per la sua portata e significato, lasciò scioccati tutti…c’è un episodio a tal riguardo particolarmente rivelatorio, che mi ricordo…quando De Mita era Presidente del Consiglio e fece un viaggio in Russia[3] prima della caduta del muro, si ebbero alcuni cenni di tensione con il nostro ambasciatore a Mosca, Sergio Romano, perché – almeno così pare – questi non ravvisava concretamente il segno di una radicale trasformazione in corso…riteneva che si trattasse [in riferimento alle politiche di ristrutturazione di Gorbačëv] prevalentemente di propaganda, senza nulla di sostanziale sotto…e quando De Mita gli chiese da cosa traeva queste conclusioni gli rispose che era la storia della Russia che gli faceva capire queste cose qui…evidentemente non aveva capito granché…le cose poi avrebbero rivelato tutt’altro…ma ciò è significativo del fatto che allora c’era questo processo difficile da decifrare…quali sarebbero state le conseguenze…

…certo qualcosa di nuovo c’era rispetto…non dico a Brežnev, ma anche rispetto ad Andropov o al suo successore[4]…ma non si riusciva a capire come si sarebbe risolto…quindi, la caduta del muro fu una sorpresa…che fu una sorpresa allora poi lo si vede anche nelle ricostruzioni del tempo…si pensi alla famosa domanda che il giornalista dell’Ansa rivolse alle autorità di Berlino est: “se è possibile [attraversare la frontiera], ma allora da quando è possibile?”…la risposta data dalle autorità fu addirittura sorprendente: “ci risulterebbe fin da questo momento”[5]…fu lì che esplose tutto, di fronte alle autorità tedesche dell’Est che praticamente dichiaravano il muro non più esistente, comunque non più una frontiera…

Ma come la vivemmo noi, in Italia…come un fatto che, in parte, era la conseguenza logica di quello che stava avvenendo con la presidenza di Gorbačëv…ma era una conseguenza logica difficile da prevedere, perché se era logico il movimento che veniva fuori…era difficile prevedere che le cose andassero così…erano movimenti, come dire, misteriosi, in un mondo altrettanto misterioso in cui si era visto di tutto…si era visto la Primavera di Praga, poi si era visto l’invasione…eran tutti colpi di scena che non consentivano, o almeno a noi, non consentivano di fare una valutazione…e quindi…si rimase così…sicuramente però fu un fatto enorme.

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12 novembre 1989. Achille Occhetto, segretario generale del PCI, intervenendo al rione Bolognina annuncia la “svolta” del partito che porterà poi nel febbraio 1991 al suo scioglimento (fonte: Wikipedia)

Naturalmente, cosa significava qui da noi, a livello locale, la caduta del muro…a livello locale, allora, il rapporto fra parlamentare e territorio era molto stretto, era difficilissimo passare un fine settimana senza avere un paio di incontri…ed era molto interessante andare a riflettere con la gente di questi avvenimenti, con tutte le incertezze…era sicuramente un fatto molto importante, talmente importante che poi qualche giorno dopo arrivò la Bolognina[6]….e ricordo che in Parlamento, una volta, mentre partecipavo ai lavori di una commissione, mentre si stava organizzando il calendario, dissi rivolgendomi a un collega: “voi del gruppo comunista…”. “Ma come” [mi sentii rispondere] “ma ci chiami ancora comunisti?!”…ma erano passati appena pochi giorni [dalla Bolognina]!!…[ilarità]…ecco c’era questa sensazione stranissima, ma non era una sensazione, che so io, che avesse dei connotati precisi…era una sensazione che tutto era cambiato, ma come fosse cambiato era assolutamente tutto da vedere…naturalmente, in periferia e in questi incontri, appunto…era molto interessante seguire i dibattiti, non solo per quanto mi riguarda nelle sezioni locali della DC, ma io ricordo di aver dibattuto molto con il segretario [regionale toscano del Partito Comunista Italiano], anche lui deputato, [Giulio] Quercini[7]…e gli dissi “d’accordo avete cambiato nome, ma avete aspettato che crollasse l’Unione Sovietica, o almeno che crollasse il muro”…sì, è vero…c’era questa sensazione di grande cambiamento…

Le conseguenze erano sicuramente rilevanti…io ricordo, come una mia impressione…non so se in occasione di una qualche ricorrenza della caduta del muro o di lì a poco nei primi anni Novanta…a me fece in qualche modo sorridere che la DC tirò fuori in quella particolare occasione un manifesto, facendo riferimento alla battaglia politica del 1948, un manifesto titolato “18 aprile 1948 dalla parte giusta” che era il modo più stupido di fare una cosa di questo genere[8]…che nel 1948 tu fossi stato dalla parte giusta lo dimostra ancora il fatto che ai primi anni Novanta eri ancora lì…ma non è che nei primi anni Novanta puoi avere vantaggio da una scelta fatta cinquant’anni prima…dà la sensazione di gente che pensava a una continuità che non ci poteva più essere…ma ecco, a parte questo, la percezione che non poteva più esserci la continuità, nel 1989, c’era…al punto tale che io qualche anno dopo partecipai a un seminario che fece a Berlino la Fondazione Adenauer sul processo di unificazione tedesca… qui siamo già successivamente al 1989, quando prese corpo il processo di unificazione tedesca….ma anche la partecipazione a questo seminario mi fece toccare con mano cose imprevedibili…

mi ricordo, a parte l’interesse di andare a vedere cosa accadeva là……ci portarono a vedere le vecchie zone della Germania dell’Est, Berlino Est…ma la cosa che mi fece più impressione, e che credo sia un fatto piuttosto significativo, è che…intanto la sensazione che si dice anche adesso, ma che non poteva essere che così…è stata un’unificazione o è stata un’annessione? Non poteva che essere un’annessione, perché la forza di quell’altra parte era crollata e quindi era inevitabile che succedesse questo…ma, tipico dei tedeschi – [perché] noi non saremmo mai riusciti a fare una cosa di questo genere – noi andammo a vedere l’esercito…l’unificazione dell’esercito era emblematica del sistema…tutti i corpi avevano il doppio comando…dall’inizio fu fatto così…un battaglione, una divisione eccetera era governato non da uno ma da due generali, uno di qua e uno di là [uno della Germania Ovest e uno della Germania Est]…due colonnelli…era tutto doppio, io rimasi allibito…è proprio la razionalità tedesca, per un certo periodo…non si fa la rivoluzione ma si fa l’unione, così si mettono tutti e due…vanno avanti alcuni mesi, dopodiché quelli della Germania dell’Est, ovviamente, vengono mandati in pensione, non è che vengono degradati o puniti…ecco…il fatto di vedere queste cose, in cui si vedevano due colonnelli che parlavano dell’unificazione delle forze armate era un fatto…che faceva un certo effetto.

Io per come la ricordo ora, almeno, fu proprio la sensazione di un enorme cambiamento, di questa vicenda incredibile dell’unificazione tedesca…anche un certo entusiasmo, il fatto che lo si considerava un fatto molto positivo…era la fine della guerra…la vera fine del dopoguerra…peraltro metteva in luce…la famosa battuta di Andreotti “ho tanta simpatia per la Germania che ne preferisco vedere due”[9]…che è una battuta…ma questo è un discorso che faccio ora naturalmente, e che non facevo allora…ma è una battuta significativa…a me viene in mente [per contrasto] Alcide De Gasperi…parlo di lui perché, per l’appunto, ho avuto recentemente la possibilità di studiarne aspetti di questo tipo[10]…quando De Gasperi è Presidente del Consiglio in Italia nel 1945…naturalmente il paese allora era del tutto isolato…lui approfitta immediatamente del fatto che i francesi, i quali erano e si consideravano – per certi aspetti anche meritoriamente nonostante il fatto che [nel 1940] fossero stati spazzati via immediatamente dai tedeschi – loro si consideravano gli unici vincitori continentali…e cosa succede, quando gli americani si organizzano con la cortina di ferro, si organizzano nel punto che loro ritenevano più delicato, cioè la barriera tedesca, e quindi…allora i francesi avevano tutto l’interesse per dire…guardate che la cortina di ferro arriva fino all’Italia…e quindi avere un fronte meridionale che fosse un po’ più importante…dunque dicevo, agevolato anche dal fatto che De Gasperi era persona stimata, peraltro era molto amico di Bidault[11] sul piano personale, e allora fecero subito…perché il primo uomo di stato che venne in Italia nel 1948 fu Bidault, il primo accordo internazionale che fece l’Italia fu l’unione doganale con la Francia, che non era cosa banale per rimettersi in moto…però…De Gasperi aveva anche questa caratteristica, un po’ perché era realista e sapeva che l’Italia non poteva andare a dettar legge in Europa…e quindi quando i francesi lo cercavano non gli pareva il vero…ma quando però i francesi gli dicono “si può fare tutto quel che si vuole [dell’Europa] ma i tedeschi vanno tenuti fuori”…e lui [De Gasperi] ha il coraggio di dire fin dall’inizio “finché i tedeschi non avranno riacquistato la sovranità piena il dopoguerra non sarà finito”…e il dopoguerra finiva di fatto, appunto, con l’unificazione tedesca…come dicevo prima, il dopoguerra finiva con il crollo del muro…e da lì in poi infatti cambia tutta la politica…

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Il diario di Giuseppe Matulli dei suoi due viaggi compiuti a Praga nel marzo 1989 e nel gennaio 1990, prima e dopo la caduta del Muro di Berlino.

…quanto ci fosse la consapevolezza allora di questo cambio di paradigma, io dubito molto…devo dire a livello personale…dopo che il  Partito Comunista Italiano era diventato PDS…[anche] la DC si trasformò…ritornò ad assumere il nome di Partito Popolare…ecco, quella era una finzione, perché le forze politiche rimanevano le stesse, ma si sentivano talmente inadeguate al loro tempo che cambiavano nome, però era una presa in giro…di se stessi, della storia, dell’opinione pubblica…perché rimanevano sempre quelli…io non partecipai, nonostante allora fossi sottosegretario alla pubblica istruzione, quando durante questo periodo ci fu la formazione del Partito Popolare Italiano, perché la cosa non mi convinceva per due motivi…il primo perché, nonostante il processo fosse guidato da un personaggio che godeva di stima universale quale Martinazzoli[12], il fatto di scegliere il 18 gennaio [1994] come data di fondazione, la stessa data in cui nel 1919 era stato fondato il Partito Popolare, era una cosa ridicola…il fatto poi che il partito era nato nel 1919 dall’appello agli “uomini liberi e forti” di Sturzo[13]….Martinazzoli aveva fatto un appello simile….cioè era uno scimmiottamento di una cosa avvenuta settant’anni prima che aveva del ridicolo, non aveva il senso della storia…naturalmente guardavano al passato…non aveva senso…e questo valeva anche per le trasformazioni del PCI…nelle sue varie metamorfosi…PDS, DS ecc. ecc…sia nell’uno che nell’altro caso, tutto fu fatto sulla base della caduta delle ragioni di contrapposizione fra due formazioni politiche che avevano cambiato nome…fu un processo tutto rivolto a guardare al passato, nel senso però di come rimediare al passato, senza però avere il coraggio di guardare al futuro…c’era quindi sempre questa sensazione che tutto era cambiato, ma che si faceva fatica a capire il cambiamento…

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La delegazione italiana a Praga è ricevuta dal dissidente ceco Jiří Hájek (al centro). Matulli è il primo sulla sinistra (fonte: G. Matulli, Praga prima e dopo…p.8)

Fu più o meno in contemporanea a questo processo che feci l’esperienza di un viaggio oltrecortina, a Praga[14]… l’idea del viaggio fu di Agrusti[15] di approfittare della vacanza del Parlamento per il congresso del PCI[16], siamo nel marzo del 1989, per andare a Praga al processo di appello al drammaturgo Havel[17] e prendere contatto con gli esponenti del movimento di “Charta 77”[18]. Jiří Pelikán che era in Italia[19] e Gilberto Bonalumi[20], un nostro amico ci davano una mano molto preziosa nella preparazione. Andiamo là e…mi ricordo cosa ci disse Hájek[21] che ci ricevette a Praga…ancora non era crollato il muro di Berlino ma era successo quello che era successo anche in tutti gli altri paesi del blocco sovietico…e Hájek ci disse; “certo che avverrà anche qui…[Matulli legge un passo del suo diario]…”sui marciapiedi della via lungo la Moldava dove abitava Havel, Hájek ci dice di non essere pessimista, ma, aggiunge: nei tempi della storia non in quelli della cronaca”…e questo in risposta alle nostre domande che gli chiedevamo cosa stesse succedendo….era significativo…dopo quando lo ritrovammo per il nostro secondo viaggio a Praga [vedi nota a piè di pagina numero 14] e gli ricordammo “ma lei ci aveva detto così…” [alludendo alla previsione rivelatasi sbagliata di  Hájek]…risultò chiaro che era perché nessuno, neppure Hájek poteva immaginare che lo Stato fosse praticamente un castello di carta e che bastasse dire “si vorrebbe” perché crollasse…quindi…io ho vissuto  questa esperienza…

…tutte queste novità, sì, ma si viveva in un’atmosfera talmente diversa che non si riusciva a dire che cosa sarebbe successo…c’era questa grande sorpresa e questa grande difficoltà che ancora oggi stiamo pagando…della incapacità di capire cos’era successo…forse oggi si ha la sensazione che buona parte…anzi…addirittura…noi lo capimmo solo quando si stava per andar via da Praga, per tornare in Italia… persino Jiří Pelikán e il nostro ambasciatore a Praga [Giovanni Castellani Pastoris], che pure tenevano rapporti con Dubček[22] e con Hájek, avevano cioè rapporti col movimento di dissenso al regime…nemmeno loro lo capivano, solo alla fine…cioè che i dissenzienti, che noi nel nostro viaggio a Praga andavamo a trovare nascosti nelle loro case, facendo finta di niente e non dicendo nulla a nessuno [per timore del regime]…e invece noi ci dimostrammo fuori dal mondo, dei “deficienti”…perché loro avrebbero voluto che noi…tre parlamentari italiani, certo non chissà quali autorità, ma comunque…loro avrebbero voluto che noi che si arrivava nella Praga di allora (prima cioè della caduta del muro) avessimo fatto una conferenza stampa con loro…perché questo significava dare forza a loro, far vedere che non erano dimenticati…e invece noi…non avevamo capito assolutamente niente di quello che succedeva là…è una riflessione che ho fatto dopo naturalmente[23]. Al punto tale che poi, al ritorno in Italia, qualcuno che si occupava di politica estera ci aveva detto che questi dissidenti erano velleitari, tanto che si ventilava la possibilità di accordi col regime di Husák, perché questi dissidenti erano dei velleitari…li chiamavano poi infatti “i poeti”…dopodiché, dopo tornati in Italia, i “poeti” invece avevano fatto la rivoluzione e avevano vinto…in questa rivoluzione….che però loro non volevano, giustamente, che si chiamasse “di velluto”…lo sapevano loro che cosa essa aveva significato…sacrifici…in tal senso ci sono anche molti aneddoti che ci raccontarono alcuni intellettuali…ci sono episodi anche carini, simpatici per così dire…ce ne è uno in particolare favoloso…[Matulli si prodiga a ritrovare l’esempio che vuol raccontare nelle pagine del suo diario del viaggio]…c’erano intellettuali che venivano posti [dal regime] a fare lavori non intellettuali perché sennò potevano essere pericolosi…e sicché, c’è il racconto…ecco…[Matulli cerca di ritrovare nel proprio diario il punto in cui si rievocano i casi dei due dissidenti Voclav Benda e Martin Paulosh, entrambi laureati in scienze e filosofia, ma costretti dal regime comunista cecoslovacco a lavorare come fuochisti di una caldaia, non trovandolo cerca di rievocare a mente le parole di Paulosh]: “…per mandare avanti una caldaia eravamo in tre ed avevamo cinque lauree”[24]…è bellissima questa…

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23 marzo 1989: Alexander Dubček (al centro) incontra la delegazione italiana. Matulli è alla sinistra di Dubček mentre alla destra vi sono Agrusti e Castagnetti (fonte: G. Matulli, Praga prima e dopo…p.31)

D. Presidente Matulli, so che lei ha fatto altri viaggi oltrecortina, in Polonia se non erro. Che ricordo ne ha, anche rispetto al ruolo che ebbe in quel contesto il cattolicesimo rispetto ai movimenti dissidenti?

R. Questo è un discorso a mio avviso molto difficile…perché, dunque io sono stato due volte in Polonia, la prima volta mi pare nel 1966 o 1967, poi dopo ci sono tornato qualche anno dopo…e in Polonia, intanto c’è un dato pacifico…la Polonia era un paese cattolico per un fatto nazionale…la religione era più importante della lingua, di tutto, perché si distingueva dagli ortodossi russi e dai protestanti tedeschi…un polacco non poteva che essere cattolico…questo dato identitario ha un’importanza enorme nella gestione del mondo comunista, perché il partito comunista anche nel periodo del potere stalinista non poteva fare a meno di tenere rapporti di un certo tipo con la Chiesa. La cosa singolare è che nella società polacca, e forse non solo nella società polacca, ma almeno lì il dato era evidente, c’erano divisioni…tre gruppi almeno di cattolici polacchi…io ne ricordo almeno due di posizioni più radicali…un gruppo che era praticamente collaborazionista col partito comunista e l’altro, che si chiamava Znac, “Il segno” in polacco…questo gruppo, associazione, pubblicava una rivista dal titolo Tygodnika Powszechnego, in italiano “Settimanale Universale” con sede a Cracovia…a Cracovia io incontrai il direttore Jerzy Turowicz[25] un intellettuale non da ridere, il quale, pur non avendo mai studiato l’italiano ma avendo studiato il francese e lo spagnolo parlava correttamente anche l’italiano…Turowicz, ci diceva che…la censura allora non scherzava…Turowicz…ecco purtroppo questa è una cosa che non si può più accertare…ma Turowicz era molto amico di Papa Wojtyla [Giovanni Paolo II] che allora era arcivescovo di Cracovia…ma Turowicz era un uomo di una laicità straordinaria, tanto è vero che durante il Concilio [Concilio Vaticano II, 1962-65] lui venne a Roma e io lo portai a Firenze, dove fece una conferenza…poi andò a parlare con La Pira [Giorgio La Pira] e quando lo riportai a Roma in macchina lui mi parlò dell’integralismo di La Pira, in termini…cioè, con molto rispetto perché La Pira è La Pira…ma La Pira aveva una visione che era più profetica che politica e quindi…poi La Pira lo dice addirittura nell’intervento alla Costituente, che lo Stato laico non ha nessun senso…e lui invece [Turowicz] era profondamente laico e quindi da questo punto di vista era abbastanza diverso anche da Wojtyla…

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Giiovanni Paolo II durante il suo primo viaggio in Polonia nel 1979 (foto di Barbara Bartkowiak, via Wikipedia Commons – CC)

…io non lo so, l’ho sempre sentito dire…tutti celebrano il peso determinante del papato di Wojtyla [nella caduta del comunismo]…dunque, però io, lo dico molto sinceramente, confesso di non averlo capito questo tipo di meccanismo…certo capisco benissimo che uno va…poi va in Polonia…in Polonia succede quel che succede[26]…ma Solidarnoś[27] succede per effetto del Papa oppure succede per effetto della Storia che crea questo…questa specie di bolla per cui si può essere al massimo cattolici e comunisti, ma non si può essere comunisti…?…cioè…la posizione del comunista anticattolico [in Polonia] è una minoranza estrema, insomma…per cui non lo so…io vedo più il crollo della capacità di [tenuta dell’Unione Sovietica]…

…perché l’Unione Sovietica secondo me…c’è una continuità storica impressionante nella storia della Russia…recentemente ho letto uno studio sui Gulag…i Gulag non sono niente di nuovo, cioè sono quelli che c’erano ai tempi dello Zar…la politica estera, al di là di tutte le affermazioni della Russia come stato guida del comunismo internazionale eccetera…ma anche nella diatriba interna al comunismo sovietico tra Stalin e Trockij… Trockij voleva predicare il comunismo in tutti i paesi del mondo e Stalin fa la politica di potenza, fin da quel momento, e la fa…e tutti gli avvenimenti gli consentono di fare esattamente quello che avrebbe fatto lo Zar…ed è esattamente quello che sta facendo ora Putin…cioè c’è una continuità impressionante…ed è in questa continuità che fallisce…cioè fallisce…ha fatto anche troppo devo dire [Stalin]…ha fatto anche troppo a reggere fin quanto ha retto…però alla fine, gli si è disgregato in mano tutto quanto….quindi in conclusione io credo che sia molto più la inconsistenza delle politiche sovietiche [la ragione del crollo del muro]…anche perché, la Russia è un paese ricco e il comunismo era riuscito a impoverirlo…

…ma forse anche questo è un elemento di continuità…un paese ricco, lo Zar lo gestiva con una mano di ferro da far paura, violentissima…tutta la gestione precedente della storia russa è violentissima…e quindi, cosa faceva [Stalin]…faceva quello che avevano fatto gli altri prima di lui…quel che facevano prima, lui [Stalin] lo faceva in nome del popolo invece che in nome della nazione, dello Stato ecc.…dopodiché, vedere in questo quadro un paese [la Polonia] che emerge all’attenzione mondiale, perché, prima il Papa…e questo Papa che ha anche un suo successo…certo, che si tratta di un fatto psicologicamente, simbolicamente enorme…ma insomma, quando va in Polonia…è un fatto che sicuramente contribuisce, ma contribuisce in una situazione che era già pregiudicata…ma comunque, tornando a Turowicz, questo intellettuale molto avanzato…lui diceva molto chiaramente, il cattolicesimo polacco è stato rinforzato dal comunismo…ma comunque il cattolicesimo polacco è anzitutto un fatto identitario nazionale…lo si vede anche oggi, come si è saldato di nuovo al nazionalismo in quel paese…ma io credo che le ragioni del crollo [del comunismo] siano assai più complesse di quelle legate a questo solo aspetto religioso…

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[1] Giuseppe Matulli (Marradi, 5 dicembre 1938), laureato in economia e commercio presso l’Università degli Studi di Firenze, ha svolto per lunghi anni attività amministrativa e politica, rivestendo importanti incarichi sia a livello locale che nazionale. Assessore e vicesindaco del proprio comune di nascita (Marradi) e Presidente della Comunità Montana dell’Alto Mugello, è stato consigliere regionale della Toscana dal 1970 sino al 1987. Sindaco di Marradi dal 1985 al 2002 è stato anche vicesindaco di Firenze dal 2002 al 2009. Esponente della Democrazia Cristiana, ne è stato segretario regionale per la Toscana dal 1983 al 1987. Eletto alla Camera dei Deputati nel 1987 per la X Legislatura e poi riconfermato sempre nelle file della DC alle successive elezioni del 1992, ha rivestito l’incarico di sottosegretario della Pubblica Istruzione nei governi Amato e Ciampi. Nel marzo 2019 è stato eletto Presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze.

[2] Glasnost’ (convenzionalmente, “trasparenza”) e Perestrojka (“ricostruzione”) indicano come noto l’insieme di riforme che caratterizzarono il nuovo corso politico di Mikhail Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito Comunista Sovietico, e che innescarono la catena di eventi che portò alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

[3] Ciriaco De Mita, politico, segretario nazionale della DC e Presidente del Consiglio dal 13 aprile 1988 al 22 luglio 1989. Nell’ottobre del 1988 De Mita, assieme al Ministro degli Esteri italiano Giulio Andreotti, si recò a Mosca in visita ufficiale a Michail Gorbačëv.

[4] Leonid Brežnev, Jurij Andropov e Konstantin Ustinovič Ĉernenko, in ordine i tre segretari generali del Partito Comunista Sovietico prima di Mikhail Gorbačëv.

[5] Matulli si riferisce qui alla famosa domanda che il giornalista italiano dell’ANSA Riccardo Ehrman pose il 9 novembre 1989 nel corso di una conferenza stampa a Berlino Est a Günter Schabowski, portavoce del governo della DDR circa l’entrata in vigore del nuovo regolamento di transito tra le due Germanie; regolamento dibattuto nei giorni precedenti dalle autorità tedesche orientali e nel quale erano contemplate graduali aperture nella legge che impediva l’espatrio ai cittadini della DDR. Al quesito di Ehrman, se cioè il regolamento valesse anche per il transito da Berlino Est a Berlino Ovest e se sì da quando, Schabowski rispose inavvertitamente “a quanto ne so, da subito”. La notizia, rilanciata da tutta la stampa, fu letta come il preavviso della decisione delle autorità della Germania dell’Est di aprire il confine tedesco e spinse un ingente numero di persone a radunarsi presso il muro

[6] Il 12 novembre 1989, il segretario del Partito Comunista Italiano Achille Occhetto durante la commemorazione del 45° anniversario della battaglia di Porta Lame tenutasi a Bologna nella sala comunale di via Pellegrino Tibaldi, nel rione della Bolognina del quartiere Navile, annunciò l’apertura (da cui, la “svolta della Bolognina”) del processo politico che porterà il 3 febbraio 1991 allo scioglimento del Partito.

[7] Giulio Quercini (Siena, 16 dicembre 1941), consigliere regionale dal 1980 al 1987, segretario federale toscano del Partito Comunista italiano e deputato alla X Legislatura.

[8] Matulli qui allude al cartello-manifesto che aprì il Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana del 18 aprile 1990 nel quale campeggiava accanto alla foto di De Gasperi e sopra lo scudo crociato la scritta: “18  APRILE 1948 18 APRILE 1990 DALLA PARTE GIUSTA”

[9] Matulli allude alla famosa frase pronunciata in occasione della riunificazione tedesca da Andreotti: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”

[10] Giuseppe Matulli, Alcide De Gasperi: quando la politica credeva nell’Europa e nella democrazia, Prefazione di Enrico Letta, Clichy, Firenze 2018.

[11] Georges Bidault, Presidente del Governo provvisorio della Repubblica francese dal giugno 1946 al dicembre 1946 e poi Presidente del Consiglio francese dall’ottobre 1949 al giugno 1950

[12] Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario nazionale della Democrazia Cristiana e promotore della fondazione, il 18 gennaio 1994, del nuovo Partito Popolare Italiano di cui divenne Segretario generale.

[13] Si allude al manifesto (L’Appello ai liberi e forti) redatto nel 1919 dalla Commissione provvisoria guidata da Don Luigi Sturzo al momento della fondazione del Partito Popolare Italiano

[14] Tra il 19 e il 24 marzo 1989, Matulli, assieme ai colleghi parlamentari Luigi Castagnetti e Michelangelo Agrusti, compì un viaggio oltrecortina a Praga, dove ebbe la possibilità di entrare in contatto con alcuni dei principali dissidenti storici del regime comunista cecoslovacco, tra i quali Alexander Dubček, Václav Havel e Jiří Hájek. Successivamente, compì un secondo viaggio a Praga tra il 2 e il 5 gennaio 1990, dopo cioè la caduta del Muro di Berlino, incontrando nuovamente i dissidenti, protagonisti nel frattempo della “Rivoluzione di velluto” che tra il novembre e il dicembre 1989 aveva portato alla dissoluzione del regime comunista cecoslovacco. Di entrambi questi viaggi, Matulli pubblicò un breve diario, cfr. G. Matulli, Praga prima e dopo. Diario di un viaggio in due stagioni, Centro Toscano di Documentazione Politica, supplemento gratuito, A. IV, n. 3, marzo 1990.

[15] Michelangelo Agrusti, politico e parlamentare DC

[16] XVIII Congresso nazionale del PCI che si svolse a Roma tra il 12 e il 22 marzo 1989.

[17] Václav Havel, politico e drammaturgo ceco, dissidente e perseguitato politico sotto il governo comunista della Cecoslovacchia. Dopo la “Rivoluzione di velluto” fu tra il 1989 e il 1992 l’ultimo Presidente della Cecoslovacchia e nel 1993 primo Presidente della neocostituita Repubblica Ceca.

[18] Movimento di dissenso  costituito in Cecoslovacchia nel 1977 da alcuni eminenti esponenti dell’intellettualità e della cultura, tra cui lo stesso Václav Havel, il diplomatico Jiří Hájek, il filosofo Jan Patočka, il drammaturgo e poeta Pavel Kohout

[19] Jiří Pelikán attivista cecoslovacco, tra i sostenitori e promotori della “Primavera di Praga”, dopo la repressione sovietica del governo di Dubček trovò riparo in Italia.

[20] Gilberto Bonalumi, giornalista e parlamentare DC

[21] Jiří Hájek, diplomatico ceco e ministro degli Esteri di Dubček durante la Primavera di Praga, denuciò all’ONU l’invasione sovietica del paese e per questo fu arrestato e incarcerato. Tra i fondatori del movimento di dissenso “Charta 77”, Hájek nel marzo 1989 ricevette la delegazione italiana di cui faceva parte Matulli, facendo loro da interprete. Come appuntò nel suo diario lo stesso Matulli, Hájek, professore di storia contemporanea e di diritto internazionale “parla correttamente russo, francese, inglese, tedesco, italiano, spagnolo”, cfr. B. Matulli, Praga prima e dopo, cit., p. 7.

[22] Alexander Dubček, segretario del Partito Comunista cecoslovacco e artefice all’inizio del 1968 del tentativo di riforma e di liberalizzazione del sistema politico cecoslovacco (“Primavera di Praga”) poi brutalmente represso nell’agosto successivo dall’intervento delle forze armate sovietiche.

[23] Ma già nel suo diario Matulli aveva però annotato la delusione del dissidente Voclav Benda, raggiunto nel suo piccolo appartamento praghese, che gli aveva confessato: “sentiamo l’Italia lontana, la più lontana fra tutti i paesi europei. Vi siamo grati per questa visita ma l’incontro sarebbe stato più significativo se si fosse svolto nella ufficialità dell’ambasciata (come ha fatto Mitterand)”, cfr. G. Matulli, Praga prima e dopo, cit., p. 20.

[24] “Attorno alla stessa caldaia eravamo tre ed avevamo cinque lauree”, si può leggere in effetti nel diario di Matulli, cfr. Id., Praga prima e dopo, cit., p. 20. Rafforza il concetto anche un’ulteriore annotazione dell’incontro col dissidente Benda al quale – ricorda Matulli – “attualmente gli è impedito anche il lavoro manuale, per cui dice, sorridente e ironico, che la sua attuale professione è quella di “donna di casa”, ibidem.

[25] (1912-1999) Giornalista cattolico polacco, editore di numerose testate polacche, in particolare diresse dal 1945 sino alla sua morte nel 1999 il settimanale di cultura cattolica Tygodnika Powszechnego. Il periodico era stato sospeso nel 1953 per non aver voluto pubblicare il necrologio di Stalin, riprendendo le pubblicazioni a partire dal 1956.

[26] Matulli allude al primo viaggio in Polonia compiuto nel giugno 1979 da Giovanni Paolo II, il cui successo parve assestare un colpo durissimo al governo comunista polacco.

[27] Il sindacato autonomo nato nel settembre 1980 in seguito agli scioperi dei lavoratori dei cantieri navali di Danzica e guidato dal futuro Premio Nobel per la Pace Lech Wałsa, artefice del processo di dissoluzione del regime comunista in Polonia.




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

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Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

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La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

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La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.




Quella “storia ottocentesca” di un figlio di N.N.

Si ringrazia Franco Bertolucci della Biblioteca “Franco Seratini”1 per il tempo messo a disposizione e l’intervista concessa all’autore.

Chiunque abbia vissuto – o anche solo frequentato – per qualche tempo in una città universitaria ricorda certamente, pur senza esservisi soffermato attentamente, il ricco campionario di affissioni, scritte e adesivi che ne coprono i muri: autentica testimonianza di quel caratteristico underground di associazioni, circoli, collettivi e centri sociali vicini all’estrema sinistra e al movimento anarchico, questi veri e propri archivi murali sono particolarmente ricchi nei pressi dei dipartimenti universitari, e la città di Pisa non fa eccezione. In quella che fu una delle capitali italiane del ’68 non c’è angolo dove non ci si imbatta in qualcuno di questi “reperti”: in via Padre Bruno Fedi, dietro al polo universitario Porta Nuova, “A” stilizzate, simbolo dell’anarchia, disegnate con una bomboletta spray a coprire croci celtiche fasciste; scritte nere contro i “ricercatori di morte” e la pratica della sperimentazione animale; adesivi contro la TAV e a sostegno del Rojava, del movimento “Non una di meno” e del recente sciopero mondiale per il clima tenutosi il 15 marzo; in piazza San Frediano, la cui chiesa un tempo ospitava messe in suffragio di Mussolini, svetta una grande falce e martello nera; infine, in via Pietro Toselli, non lontano da Palazzo Gambacorti, sede dell’amministrazione comunale, il volto in bianco e nero di un giovane con i capelli ricci, che ricorda un poco – salvo l’assenza di barba – la celebre fotografia di Che Guevara scattata da Alberto Korda a L’Avana nel 1960. È lo stesso volto la cui fototessera correda una scheda dell’AVIS, che sorride con il pugno alzato sulla prima pagina del settimanale anarchico Umanità Nova – “la polizia ha assassinato un altro nostro compagno”, recita il titolo – e che campeggia sulla copertina della prima edizione del libro di Corrado Stajano “Il sovversivo”, edita da Einaudi nel 1975, a tre anni dalla morte di quel giovane dai capelli ricci che ne era il protagonista.

Cantava il Canzoniere Pisano che “Era il sette di maggio, giorno delle elezioni | e i primi risultati giungan dalle prigioni | c’era un compagno crepato là | era vent’anni la sua età”: le prigioni sono quelle del carcere “Don Bosco” di Pisa, dove il “compagno” ventenne, il giovane anarchico Franco Serantini – questo il nome del giovane “sovversivo”, protagonista dell’omonima ballata del Canzoniere e di molte altre – muore alle 9.45 del 7 maggio 1972, a seguito delle violente percosse subite per mano dei reparti della celere, che hanno caricato il corteo di protesta organizzato da Lotta Continua contro il comizio del parlamentare Giuseppe Niccolai del Movimento Sociale Italiano. Corteo al quale Serantini non aveva partecipato se non nelle sue fasi finali, senza mai unirsi al resto dei manifestanti, dopo aver passato il pomeriggio alla sede del circolo AVIS del quale era socio, vicino alla piazzetta dove Niccolai sta tenendo il proprio comizio: il ragazzo, poco più che uno spettatore isolato, è facile preda dei poliziotti, le cui manganellate provocheranno una emorragia cerebrale fatale per il giovane, nato a Cagliari il 16 luglio 1951 da genitori ignoti (“figlio di nn”), un’infanzia passata fra il brefotrofio, due famiglie adottive e tre diversi istituti: l’ultimo di questi è il riformatorio “Pietro Thouar” di Pisa, dove il giovane viene mandato nel 1968, dopo una breve permanenza presso l’Istituto per l’osservazione dei minori di Firenze. La sua è una “storia ottocentesca”, ha scritto Stajano “ai limiti dell’invenzione settaria”, quella di un giovane “alla ricerca di qualcosa che lo compensi di ciò che non ha mai avuto” e finisce per trovarlo – come molti suoi coetanei – nel gusto dell’attivismo politico, avvicinandosi inizialmente alle organizzazioni giovanili di PCI e PSI, poi a Lotta Continua e infine aderendo al gruppo anarchico “Pinelli” di Pisa alla fine del 1971. Soltanto pochi mesi dopo Franco avrebbe trovato la morte, vittima di una intera catena che va ben oltre i poliziotti che l’hanno massacrato in Lungarno Gambacorti, e passa per le guardie e il personale medico del carcere fino al procuratore generale Mario Calamari, che cerca di ostacolare le indagini sull’accaduto: Serantini entra suo malgrado in quella genealogia di vittime delle forze dell’ordine – e di uno Stato venuto meno al proprio ruolo, sancito dalla Costituzione – che arriva fino ai giorni nostri: la Scuola Diaz, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi.

Fin dai giorni immediatamente successivi alla sua morte, quella del giovane anarchico figlio di nn – fa notare Franco Bertolucci, ideatore della biblioteca “Franco Serantini” e fondatore della BFS edizioni – è una memoria che divide profondamente la città: una parte di essa, la Pisa conservatrice della borghesia e dei baroni universitari, già ostile alle istanze studentesche e operaie di fine anni ’60 – bollate in toto come “violente”, nonostante la violenza sia soprattutto quella delle forze dell’ordine – “non ha voluto condividere la memoria di Serantini per una scelta di classe, di opposizione a quelle rivendicazioni giudicate “moralmente nefaste”, che mettevano in discussione poteri e privilegi acquisiti a cui non si voleva rinunciare”. Contro questa damnatio memoriae si erge però tutta quella parte della società che vuole invece conservare e tenere vivo il ricordo di Franco: una memoria, sottolinea ancora Franco Bertolucci, nella quale si possono riconoscere tre livelli: uno intimo e personale; uno collettivo e laico; infine uno di natura politica. “Il caso Serantini”, afferma Bertolucci, “coinvolge persone, amici e conoscenti di Franco, fortemente colpiti da questa tragedia e che negli anni, individualmente, hanno cercato di mantenere vivo questo ricordo attraverso gesti “anonimi” che testimoniano questo affetto: […] i mazzi di fiori, i bigliettini e le poesie lasciati sulla tomba o nei pressi del monumento, ma anche alcune lettere inviate nel tempo alla nostra stessa biblioteca e/o a riviste”.

Su questo primo livello se ne innesta un secondo “laico e civile, di quella parte della città che ha adottato Serantini post mortem, perché resasi conto della grave ingiustizia da egli subita, e facendo sì che la sua memoria non restasse nel libro dei ricordi di una comunità ristretta”: è l’opera di tutta quella parte della società civile che si impegna per la verità giuridica (nel 1974 gli avvocati Massei e Sorbi promuovono la costituzione di un “Comitato giustizia per Franco Serantini”) e per valorizzare gli ideali e le utopie di Franco, tramite la ricchissima produzione intellettuale di scrittori, artisti e musicisti nel corso degli anni, da Franco Fortini a Costantino Nivola fino allo stesso Stajano, il cui libro permette di far conoscere la vicenda in Italia e all’estero. La stessa Biblioteca Serantini, fondata nel 1979, è un importante tassello di questo mosaico, che negli anni ha promosso tante iniziative nel ricordo di Franco, contribuendo all’inaugurazione del monumento che ancora oggi si trova in piazza San Silvestro (o, come la chiamano ancora oggi i militanti anarchici e della sinistra radicale, “piazza Serantini).

Da ultimo si situa il livello politico della memoria del Serantini militante rivoluzionario, anarchico e antifascista: una memoria entrata fin da subito nel patrimonio dei circoli libertari e dell’estrema sinistra, della quale il nostro piccolo adesivo seminascosto in via Toselli non è che una testimonianza. Ancora oggi le organizzazioni che popolano l’underground della sinistra pisana rivendicano questa memoria, ciascuno secondo le sfumature della propria formazione politico-culturale. Un esercizio della memoria che dura tuttora, e che, ricorda ancora Bertolucci, è parte di una più vasta battaglia: non più giuridica – in quasi cinquant’anni nessun rappresentante istituzionale ha mai riconosciuto l’ingiustizia inflitta a Serantini – ma storica, nel momento in cui questa battaglia assume, oggi più che mai, una valenza che è anche politica.

1La Biblioteca “Franco Serantini” ha lanciato una campagna nazionale di sottoscrizione per l’acquisto di una nuova sede: tutte le informazioni a questo link.