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Roberto Goldoni, comunista non pentito

L’articolo che vi presentiamo su Roberto Goldoni – collaboratore del deputato Luigi Salvatori, attivista antifascista e membro del Cln – è tratto dal volume Antifascisti Lucchesi nelle carte del casellario politico centrale, edito nel 2018 da Maria Pacini Fazzi con la curatela di Gianluca Fulvetti (docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di civiltà e forme del sapere dell’università di Pisa) e Andrea Ventura (direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Lucca). L’opera rappresenta il frutto dell’impegno di due anni di quattordici studiose e studiosi, e raccoglie oltre un centinaio di schede biografiche realizzate a partire dalle carte del Casellario politico centrale, istituito nel 1894 e i cui fondi sono custoditi presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma.

L’autore: Stefano Bucciarelli, attualmente presidente dell’ISRECLU, è stato docente di storia e filosofia e poi preside nei Licei, nonché docente a contratto presso le università di Pisa e Firenze alla Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario. Ha pubblicato numerosi saggi e libri su protagonisti e vicende della storia politica e culturale della Toscana del Novecento.

Nato a Perugia il 23 febbraio 1899, G. consegue nel dopoguerra l’impiego di fattorino telegrafico presso la sede postale di Viareggio. Qui partecipa attivamente alle agitazioni sociali di quegli anni, legandosi al deputato socialista Luigi Salvatori, con il quale aderisce alla scissione comunista. Con lui è la compagna Giuseppina Baldini, di Viareggio, la cui attività risulta ben documentata, al pari di quella di G., nella corrispondenza sequestrata a Bordiga in occasione del suo arresto. Nel 1921 G. partecipa al tentativo (fallito) di dar vita ad una formazione di Arditi del Popolo. Personalità comunque ben in vista, finisce tra gli imputati per la “sfida di piazza Grande”, scontro avvenuto il 16 maggio tra fascisti e simpatizzanti di sinistra, conclusosi con la morte di due esponenti di questo secondo schieramento: Pietro Nieri e Enrico Paolini. Il processo vede alla sbarra ventuno imputati delle due parti; tra essi però sono solo i dodici antifascisti ad essere accusati del duplice omicidio, secondo la teoria platealmente di parte che Nieri e Paolini sarebbero stati uccisi per errore, vittime di fuoco amico. G. è in particolare accusato di aver sparato sulla folla dall’ufficio telegrafico che si affaccia appunto sulla piazza. Per loro c’è l’assoluzione per insufficienza di prove […]. Sull’altra accusa, connessa alla partecipazione alla rissa, G. viene invece rinviato a giudizio, ma poi amnistiato. Dove non può il tribunale, interviene l’Amministrazione statale che, nel 1923, ne opera il trasferimento punitivo a Sassari. Il 24 ottobre G. parte da Viareggio verso la città isolana, insieme con Giuseppina […]. A Sassari, i due riprendono la loro attività politica, sì che un allarmato rapporto di prefettura denuncia come il «fervente comunista» svolga intensa propaganda; con frequenti ordinazioni di libri e di opuscoli sovversivi, che distribuisce tra i compagni, trasforma la casa sua e di Giuseppina in una vera biblioteca circolante. Ne viene informato il Ministero delle Comunicazioni e così G. perde il lavoro, licenziato con un provvedimento di “dispensa”, che la legislazione allora vigente nell’impiego pubblico rende possibile con la semplice motivazione che essa risultasse «necessaria nell’interesse del servizio». Fa così ritorno a Viareggio all’inizio del 1926 e la stretta di fine anno si abbatte anche sul suo capo: in novembre viene spedito al confino di polizia e assegnato, condividendo la destinazione di Salvatori, alla colonia di Favignana. L’iniziale condanna di quattro anni è ridotta a due. Fa in tempo ad essere trasferito, il 30 marzo 1927, ad Ustica, l’isola da cui Gramsci è stato appena allontanato, ma dove Bordiga ha consolidato una rete clandestina comunista […] e una vera e propria scuola di partito. G. ne diventa uno dei principali partecipanti ed è perciò arrestato e […] tradotto in carcere a Palermo a disposizione del Tsds. Il processo, che coinvolge per le medesime accuse altri ventidue compagni, in primo luogo lo stesso Bordiga, si conclude l’anno dopo, nel novembre 1928, con un non luogo a procedere. Nel frattempo G., provvisoriamente scarcerato nell’agosto 1928 e trasferito da Ustica a Ponza, ha qui terminato di scontare il periodo di confino. Rientrato a Viareggio, rimane attentamente vigilato. Entra a gestire l’esercizio commerciale di frutta e verdura avviato nel frattempo dalla moglie […]. Una richiesta di poter usufruire delle agevolazioni dell’abbonamento ferroviario per seguire le sue attività commerciali è respinta, per la preoccupazione politica che i suoi movimenti nascondano una attività di organizzazione e propaganda. La domanda viene più volte rinnovata, con toni che non divengono mai servili e non rinnegano mai il passato: G. rivendica anzi di aver «appartenuto al Partito Comunista dalla sua costituzione al suo scioglimento», di aver patito due anni di confino, e si appella al suo diritto di campare la vita col suo lavoro, al pari di quanti «se anche non sono fascisti sono degli onesti cittadini». Il permesso giunge nel 1935. Intanto sono peggiorate le sue condizioni familiari, per la grave malattia della moglie, che muore nel 1939. Nel 1941 G. passa a nuove nozze con Alfreda Cinquini. Rimasto in contatto con la struttura clandestina del Pcdi, durante la Resistenza è tra i primi a rimettersi in moto e fa attivamente parte del Cln. Nel dopoguerra continua la sua attività politica, risultando nel 1946 eletto nel Consiglio comunale di Viareggio, nel gruppo comunista che esprime il sindaco Alessandro Petri. G. muore a Viareggio l’11 febbraio 1973.




Il grossetano Marino Magnani: dalla militanza socialista all’ingresso nel Pcd’I

Magnani, nato a Sasso d’Ombrone presso Cinigiano, l’11 gennaio 1883, già giovanissimo studente a Siena aveva avviato il suo impegno politico aderendo al Circolo socialista “Figli di operai”. Entrò nel PSI a 17 anni, poi fece parte del circolo giovanile socialista di Grosseto, di indirizzo sindacalista rivoluzionario: era presente alla fine del 1912 fra i relatori al convegno dei giovani socialisti rivoluzionari grossetani, incaricato di trattare il terzo punto all’odg “La gioventù rivoluzionaria di fronte al PSI”.1 Sebbene la sua scheda personale del Casellario politico dichiarasse che «in pubblico frequenta poca la compagnia dei suoi correligionari», il comunista grossetano Aristeo Banchi lo ricorda presente all’inaugurazione del monumento a Francisco Ferrer di Roccatederighi, nel settembre 1914, realizzata grazie a una sottoscrizione popolare. In seguito, Magnani si allontanò dai sindacalisti per rientrare nel PSI, dove diede impulso alla diffusione dei circoli giovanili legati al partito.2

Nel 1915 risultava già schedato nel Casellario politico, sebbene non avesse ancora ricoperto cariche pubbliche, per la sua militanza socialista e come «fervente propagandista» contro la guerra. Forte infatti il suo impegno antinterventista, legato alla mobilitazione crescente in Maremma: «durante i primi mesi del 1914 si organizzò infatti una vasta campagna fatta di scritti su “Il Risveglio” e di manifestazioni a favore del soldato Massetti (feritore del proprio colonnello per protesta contro la guerra di Libia), richiuso in manicomio militare», nella quale si distinse il giovanissimo Magnani, insieme a Emilio Zannerini. Ricordano infatti Carlo Cassola e Luciano Bianciardi che in Maremma, «nel complesso del partito prevalse una forte coscienza antimilitarista che aveva nei giovani la propria punta di diamante. Questi convocarono un proprio congresso provinciale il 6 ottobre, ove il rifiuto della guerra continuò a essere al centro del dibattito».3

L’imponente e rapido sviluppo del movimento giovanile socialista maremmano è in effetti legato direttamente alla mobilitazione contro la guerra: l’affermazione dei giovani socialisti, fra cui Magnani, è da mettere in relazione con l’intensa attività di propaganda antimilitarista che essi svolsero a partire dal 1914. È probabilmente da ascriversi a questo clima l’opuscolo La nostra guerra che Marino Magnani pubblicò per la Federazione giovanile socialista grossetana nell’ottobre 1914; l’opuscolo, stampato a Siena, finì in distribuzione nel 1916, quando si era in pieno conflitto bellico, provocando un ulteriore interessamento delle autorità nei confronti di Magnani: sequestrato il libello, fortemente antinterventista, il Procuratore del Re presso il Tribunale del Regno di Grosseto, sollecitato da Siena dove l’opuscolo era stato stampato, non ritenne tuttavia che offrisse serie basi per un procedimento penale, in quanto antecedente all’ingresso in guerra e quindi più «raccolta di dottrine» che tentativo diretto di «turbare la compagine dello Stato nel momento presente».4

L’attività della Federazione giovanile socialista di Grosseto, di cui Magnani era nel frattempo diventato segretario, continuò poi, dal 1915, con l’azione per la costituzione dei circoli socialisti infantili e della federazione femminile della provincia. Un’azione in cui Marino Magnani fu direttamente implicato, già a partire dalla riunione dei dirigenti indetta per promuoverli nel gennaio 1916, così come nei successivi sviluppi sul territorio (ad esempio, a Montepescali «tentava, ma con esito negativo per lo scarso numero di adesioni, di costituire una Sezione femminile socialista»). Un impegno rilevato anche dalle segnalazioni su di lui prodotte dalle autorità giudiziarie che pure nel 1915 notavano che, «malgrado l’attività spiegata», la costituzione di associazioni femminili «non ebbe felice risultato».

Nel gennaio dell’anno successivo, tuttavia, in qualità di segretario della Federazione giovanile socialista grossetana, Magnani portava l’adesione incondizionata delle Sezioni giovanili e dei Fasci giovanili al XV Congresso provinciale socialista tenutosi a Follonica e nella primavera, l’8 aprile, al I Congresso femminile socialista tenutosi a Follonica assisteva alla costituzione della Federazione femminile della Maremma di cui era stato uno degli organizzatori. Di li a poco i giovani socialisti grossetani poterono convocare il I Congresso regionale femminile socialista toscano, contribuendo così a dare una forte spinta al movimento delle donne socialiste della regione; ancora nel 1919, infatti, nel II Congresso regionale, su 16 sezioni rappresentate, ben 9 appartenevano alla provincia di Grosseto.5Cattura

Magnani era contemporaneamente impegnato nel “Comitato del soldo al soldato” e ad opera sua vennero organizzate a Grosseto collette per i soldati più poveri. Continuò nel frattempo anche la sua attività di collaborazione con “Il Risveglio” e, nel dicembre 1916, divenne direttore di un nuovo foglio periodico, “Il grido dei giovani”, organo della Federazione giovanile. Con la guerra però arrivarono anni di flessione per il movimento giovanile socialista maremmano. Scrive il fratello di Magnani, Manfredi, su “Il Risveglio”: «le continue chiamate alle armi hanno assottigliato in modo impressionate le nostre forze che trovasi adesso ridotte ai minimi termini nel significato più vasto e completo dell’espressione. E siamo quindi in pochi!»6 Del 1917, quindi, è il trasferimento di Magnani a Milano, poi a Brescia dove, debitamente sorvegliato dalla polizia, iniziò a lavorare come segretario alle dipendenze della Lega metallurgica.

Occorre però chiarire che le carte di polizia che via via lo segnalano sembrano spesso confondere la sua attività con quella per alcuni versi parallela del fratello Manfredi,7 classe 1885, anch’egli schedato come propagandista rivoluzionario, attivo nella Sezione giovanile socialista di Grosseto. Anche Manfredi pubblicava articoli su “Il Risveglio” (dove ai due ci si riferisce talvolta come ai «fratelli Magnani») e svolgeva propaganda antimilitarista; venne inoltre segnalato al Congresso giovanile socialista toscano tenutosi a Pisa nel luglio 1918, designato come a capo del movimento giovanile e femminile in Toscana, insieme ad altri tre “sovversivi” di Firenze. A quella data entrambi i fratelli Magnani risultavano trasferiti nel Nord Italia: a Milano e poi a Torino Manfredi; a Milano e poi a Brescia Marino, ma entrambi incaricati come segretari della Federazione nazionale metallurgici. Al di là del dubbio sulla confusione relativa a queste vicende, resta da rilevare un dato interessante proprio nell’attivismo politico del contesto familiare.

A Marino e Manfredi, infatti, si aggiunge un terzo fratello, Mantilio,8 macchinista ferroviere residente ad Antrodoco (in provincia di Rieti), anch’esso schedato nel Casellario politico perché «prima dell’avvento del fascismo professò apertamente idee comuniste, prendendo parte a tutti i movimenti e gli scioperi ferroviari propugnati dal Sindacato rosso». I tre fratelli, del resto, parevano alle autorità «seguire i principi politici del proprio padre», Michele Magnani,9 classe 1858, descritto nel suo fascicolo del CPC come «uno dei più ferventi e accaniti comunisti residenti in questo luogo e mai ha tralasciato di fare propaganda sovversiva, sia pure spicciola, specialmente fra i contadini che egli ha facile occasione di avvicinare per la sua professione di causidico». Nel 1922 anch’egli, avvocato dei poveri, fu aggredito dai fascisti grossetani, che lo caricarono, seppur settantenne, di pugni e bastonate, ferendolo a un occhio; e ciò nonostante, nel suo fascicolo personale, veniva ammonito nel 1926 «per l’azione deleteria che ha compiuto e continua a compiere con pertinace ostinatezza in odio all’azione dei poteri dello Stato» e nel 1935 per le autorità era da considerarsi «ancora di idee sovversive».

Non stupisce quindi il crescente impegno politico del figlio Marino, accompagnato da un radicalizzarsi delle sue posizioni: è della primavera del 1919, un articolo su “Il Risveglio”, intitolato Massimo e Minimo, in cui, in vista del XVI Congresso provinciale socialista di Follonica, Magnani scriveva: «noi siamo contro le fisime riformistiche di molti nostri compagni, anche se illustri, i quali non sanno rinunciare al loro sogno di un socialismo di maniera, buon ragazzone tutto lindo, computo e agghindato il quale batta con le nocche delle dita debitamente inguantate alle porte della società borghese chiedendo sommessamente e con tutta umiltà il permesso di entrare. Noi, invece, (e gli insegnamenti ci vengono da Marx e da Engels) sappiamo che il nostro “scopo non potrà essere raggiunto che colla caduta violenta di tutti gli ordinamenti sociali finora esistenti”».10 Nel frattempo, apprezzandone vivamente l’attività fra gli operai, il segretario della Federazione Impiegati Operai Metallurgici (FIOM), Bruno Buozzi, lo aveva chiamato a far parte della Segreteria nazionale. Ruolo che Magnani preferì, con una precisa scelta di campo verso il sindacato, rispetto alla contemporanea offerta, caldeggiata da Costantino Lazzeri, dell’incarico di Segretario nazionale della Federazione giovanile socialista.11

La guerra aveva sconquassato le organizzazioni sindacali, in particolare le strutture di coordinamento provinciale ed era il momento di ricostruirne la trama organizzativa. La prima categoria a rimettersi in movimento in tal senso era stata in Maremma quella dei minatori con la nascita della Federazione interprovinciale, che raccoglieva, oltre a rappresentanze toscane e umbre, entrambi i bacini minerari della provincia, quello massetano-gavorranese e quello amiatino. In occasione del Convegno del 6 aprile 1919, i delegati di 2500 operai aderenti alla Federazione giunsero alla formulazione di un Memoriale unico, contenente gli obiettivi per i quali i minatori avrebbero combattuto nei mesi successivi, e stabilirono l’adesione della Federazione alla FIOM.12 La direzione della Federazione fu assunta da Pietro Ravagli, un vecchio socialista di Roccatederighi, e dallo stesso Magnani. Quando l’agitazione in Maremma aumentò a causa dell’irrigidimento delle posizioni della Società Montecatini, che aveva il controllo di quasi tutti gli impianti maremmani, fu proprio Magnani, quindi, che un nuovo Convegno dei minatori inviò a Roma per tentare un accordo con i rappresentanti delle società minerarie. Al fallimento di quel tentativo in extremis seguirono tre mesi di mobilitazione e di scioperi, dai quali il movimento uscì, se non completamente vittorioso, in ogni caso estremamente rafforzato.

L’anno successivo vide la nascita della Federazione italiana Addetti alle Miniere (FIAM), la cui Federazione regionale, con sede a Grosseto, fu costituita nell’agosto 1920. Alla segreteria fu chiamato Marino Magnani, che nel frattempo era impegnato anche sul piano più strettamente politico del dibattito interno al partito socialista, aderendo alla frazione Marabini Graziadei, favorevole alla fondazione del Partito comunista. Scrivono Cassola e Bianciardi che «forse la separazione fra “uomini ugualmente cari” risultò ancor più drammatica a Grosseto, allorché la battaglia politica all’interno del PSI vide contrapporsi massimalisti e comunisti, unitari e scissionisti, mentre i pochi riformisti rimasero ai margini del dibattito. Comunque, la radicalità espressa dal movimento nei mesi precedenti ebbe come manifestazione politica la massiccia adesione al Partito comunista d’Italia di tutta la nuova leva dei quadri della Federazione giovanile e il 26 per cento degli iscritti in precedenza al Psi».13 Fra le organizzazioni sindacali più importanti, si dichiararono comunisti Primo Lessi, segretario della Camera del lavoro di Grosseto, e Marino Magnani, per la FIAM. Magnani divenne fin da subito segretario della Sezione di Grosseto e collaborò quindi all’organizzazione del I Congresso provinciale comunista di Grosseto.

In data 13 marzo 1921, il Congresso vide la presenza dei circoli giovanili di quasi tutta la provincia; le sezioni sul territorio, infatti, a quella data erano già 31 e altre se ne stavano formando. Segretario fu nominato Magnani, mentre Enrico Ferrari assunse la presidenza del Congresso che dichiarò costituita la Federazione comunista provinciale, con un direttivo composto fra gli altri da Marino Magnani per Grosseto. Ed è ancora Magnani a occuparsi del movimento giovanile e di quello femminile: rammenta che 55000 giovani su 60000 sono entrati nella Federazione comunista e osserva che «se in provincia scarseggiano gli elementi adatti [all’opera di consolidamento delle sezioni], vi è però una gran fede in tutti».14 Magnani, che da poco è diventato direttore del nuovo giornale “L’Idea comunista”, organo del neo-nato partito grossetano, si occupa poi della questione della stampa, richiamando i compagni al dovere di garantire anche nella provincia la vita di un foglio «di propaganda e di battaglia per sostenere e diffondere le nostre idealità».

Ulteriore momento di confronto, fondamentale, fu quello del Consiglio generale delle Leghe della Camera del Lavoro che si tenne a Grosseto il successivo 20 marzo, quando con 9800 voti contro 5600 venne decisa l’adesione alle posizioni comuniste e confermata la scelta della segreteria. In quell’occasione Magnani dichiarava, come comunista, di essere «incondizionatemente per l’unità proletaria» e riaffermava la «ferrea volontà» di rimanere «a viva forza, magari con i denti, attaccati alla Confederazione generale del lavoro». Parole rafforzate dal manifesto della Camera del Lavoro di Grosseto, affidato sul “Il Risveglio” del 6 febbraio 1921 alle parole di Primo Lessi, che ribadiva alle leghe, ai sindacati, alle cooperative: «nei nostri sindacati c’è posto per tutti. Abbiamo un concetto larghissimo delle libertà di opinione politica. Questa dovrebbe essere una garanzia per convincere tutti a lavorare per l’unità sindacale».15

idea comunistaDi li a poco, però, anche in provincia di Grosseto dilagò la violenza squadrista. Su “L’Idea comunista” del 27 marzo 1921 Magnani consapevolmente scriveva che «il Partito comunista, pur essendo contro la violenza individuale e la guerriglia a base di incendi e distruzione, ha semplicemente sostenuto e sostiene che la massa si prepari (spiritualmente e materialmente) per l’urto finale e decisivo». Una violenza che, ovviamente, si rivolse proprio contro Magnani: durante la “conquista” squadrista di Grosseto, quando numerosi antifascisti furono obbligati a sottoscrivere dichiarazioni di sottomissione che venivano affisse ai muri, «fu pure affisso un manifesto diffamatorio contro il dirigente sindacale Magnani».16

Nel luglio, però, dopo che la spedizione squadrista contro Roccastrada aveva suscitato lo sdegno di tutta Italia, la situazione divenne più incerta. Anche a Grosseto ci fu chi aderì al tentativo di sottoscrivere un “patto di pacificazione” e fra coloro che partecipavano agli incontri finalizzati a tale iniziativa c’era Marino Magnani, in qualità di rappresentante della FIAM. Ma l’accordo, sottoscritto il 2 agosto a Roma, per Grosseto rimase lettera morta. Da quel momento, quindi, la situazione locale per i “sovversivi” si fece complessa e incerta e moltissimi antifascisti si trasferirono nelle grandi città. Magnani fu invitato a dimettersi da segretario della FIAM e dal Pcd’I; al suo rifiuto fu costretto a prendere la via dell’esilio. Obbligato ad abbandonare la Maremma, Magnani si rifugiò inizialmente a Torino, dove scrisse qualche articolo su “L’Ordine nuovo” e strinse amicizia con Gramsci. Rientrò poi in Toscana per tentare di riorganizzare Sezioni di partito, ma fu nuovamente costretto ad allontanarsi: si rifugiò a Tivoli e a Roma dal 1924, dove fu uno dei militanti più attivi del Comitato dei profughi comunisti. E’ probabilmente lui il “buttero maremmano” che narra la cronaca delle ripetute violenze fasciste sulle colonne de “Il comunista”, nuovo quotidiano del Pcd’I edito a Roma, di cui risulta corrispondente.

Fu arrestato infine a Roma, il 16 dicembre 1926: il 5 gennaio successivo cominciava per lui la lunga e drammatica vicenda del confino (condannato a 5 anni), prima alle Tremiti, poi a Ustica, quindi a Lipari.17 Solo nell’agosto 1929, in occasione della morte del fratello Mantilio, poté fruire di una breve licenza per tornare a Grosseto. Nell’ottobre dello stesso anno, infine, fu liberato condizionalmente e fatto accompagnare a Grosseto, ma, “attenzionato” dalla Questura, lasciò poco dopo la città per traferirsi a Roma dove trovò lavoro come impiegato in una società privata. Seppur continuamente vigilato, da quel momento in poi non parve dar luogo a rilievi per la condotta morale e politica.

In seguito, invece, Magnani partecipò attivamente alla lotta di Liberazione, prendendo parte all’azione di Torpignattara, forse quella in cui venne ucciso il commissario Stampacchia, ritenuto il maggior responsabile del clima di terrore che i tedeschi hanno imposto alla popolazione e alle organizzazioni resistenti. Nel 1944 rientrò a Grosseto dove all’unanimità «i lavoratori della provincia, grati a lui per la coraggiosa e instancabile attività, per l’atteggiamento dignitoso e coerente tenuto di fronte al fascismo, lo elessero segretario della Camera confederale del lavoro».18 Fu anche consigliere comunale e assessore dal 1946 al 1950. Candidato nelle liste del Partito comunista nel collegio XVII ( Siena-Arezzo-Grosseto), fu eletto all’Assemblea costituente con 6.796 voti e proclamato il 7 giugno 1946.

l'unità 08.06.1946

l’unità 08.06.1946

Alcune sue interrogazioni riguardarono fatti della provincia di Grosseto, cui continuava a essere rivolto il suo sguardo, con un’attenzione per tematiche a lui molto vicine: un’interrogazione scritta per il rifiuto del Questore del capoluogo maremmano di concedere licenza d’affissione a manifesti della Federazione comunista; un’altra circa il trasferimento imposto a un funzionario dell’Ufficio elenchi nominativi dei lavoratori e per i contributi agricoli unificati, misura dovuta per Magnani al fatto di aver svolto attività sindacale. Un intervento, inoltre, su una questione locale molto nota: la revisione della condanna a morte di Ivo Turchi emessa dal Tribunale militare alleato di Livorno per aver commesso atti che, in occasione del tragico bombardamento alleato su Grosseto del giorno di Pasqua del 1943, avevano provocato la morte di un aviatore il cui apparecchio era stato abbattuto dalla contraerea.19

Nel ricordo che fece di lui l’on. Tognoni alla Camera si legge che «successivamente, anche per le privazioni, per le percosse subite, per le difficoltà incontrate nella vita durante il periodo fascista, l’onorevole Magnani cominciò a perdere le proprie capacità di lavoro e di attività: il suo fisico era minato dalla malattia, che poi l’ha portato alla morte».20 Conclusasi nel gennaio 1948 l’esperienza parlamentare, Magnani si ritirò dall’attività politica di primo piano. Diresse il movimento cooperativo nella provincia di Grosseto e fu Segretario provinciale dell’Associazione nazionale perseguitati politici antifascisti. Morì il 23 settembre 1964.


BIBLIOGRAFIA:

Ivano Tognarini, “Marino Magnani”, in I deputati toscani all’assemblea costituente. Profili biografici, a cura di Pier Luigi Ballini, Consiglio regionale della Toscana, 2018.

Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.

Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.

Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.

Adriano Arzilli, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo: situazione socio-economica, mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti, Editrice Il mio amico, Roccastrada 1998, p. 190.

AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988

Il Risveglio

L’idea comunista

A. Dal Pont, S. Carolini, L’Italia al confino: le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, Milano 1983, ad indicem

ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani

ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo

ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio

ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele


NOTE:

1 Sulla complessa questione locale del rapporto fra PSI e sindacalismo rivoluzionario, cfr. Fabrizio Boldrini, Minatori di Maremma. Vita operaia, lotte sindacali e battaglie politiche a Ribolla e nelle Colline metallifere (1860-1915), Effigi, Roccastrada 2006.

2 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
3 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.
4 ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani.
5 Adriano Arzilli, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo: situazione socio-economica, mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti, Editrice Il mio amico, Roccastrada 1998, p. 190.
6 Manfredo Magnani, Nel movimeno giovanile socialista. SERRIAMO LE FILE, in “Il Risveglio” del 21 luglio 1918.
7 ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo.
8 ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio.
9 ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele.
10 Marino Magnani, Massimo e Minimo, in “Il Risveglio” del 2 marzo 1919.
11 Ivano Tognarini, “Marino Magnani”, in I deputati toscani all’assemblea costituente. Profili biografici, a cura di Pier Luigi Ballini, Consiglio regionale della Toscana, 2018, p. 393.
12 AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988, p. 118.
13 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, cit.
14 Congresso provinciale comunista di Grosseto, in “L’Idea comunista” (anno 1 n. 2) del 27 marzo 1921.
15 Movimento sindacale, Camera confederale del Lavoro di Grosseto e provincia: Alle leghe! Ai sindacati! Alle cooperative!, in “Il Risveglio” del 6 febbraio 1921.
16 Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.
17 Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L’Italia al confino: le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, La Pietra, Milano 1983.
18 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, in Camera dei deputati, IV legislatura, Discussioni, Seduta del 29 settembre 1964, p. 10056.
19 Il 26 aprile 1943, lunedì di Pasqua, Grosseto subì il suo primo bombardamento aereo durante la seconda guerra mondiale. Ne avrebbe subiti altri 18, ma questo sarà sempre ricordato per il tragico prezzo di vite civili che costò. Morirono infatti 134 grossetani, tra cui decine di bambini uccisi mentre stavano giocando sulle giostre di un Luna Park situato appena fuori Porta Vecchia (cfr. La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del lunedì di Pasqua del 1943, in www.grossetocontemporanea.it/la-ricerca-storica-sul-bombardamento-del-lunedi-di-pasqua/).
20 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, cit., p. 10057.

 




Note di Memoria: il pianoforte di Maria Einstein

Il suono del pianoforte Blüthner è la colonna sonora armoniosa della casa colonica di Quinto, borgo alle porte di Firenze sulla strada di Sesto fiorentino, dove vivono i coniugi Paul e Maria Winteler, sorella di Albert Einstein. Proprio il noto scienziato le ha fatto dono del prezioso strumento musicale nel 1931, conoscendone bene l’intesa passione per la musica che, peraltro, condivide. Nonostante la lontananza fisica i due Einstein (lui in Germania, lei in Italia) sono infatti profondamente legati ed Albert non esita a sostenere ed aiutare la sorella nella vita semplice scelta per amore del suo Paul, avvocato svizzero, “ritirandosi” nella campagna fiorentina. Arte e cultura riempiono le giornate dei coniugi, lui dedito alla pittura lei alla musica, che allietano così i loro ospiti a partire da Albert nelle sue visite e soprattutto Hans-Joachim Staude giovane pittore tedesco.

 Nei turbolenti anni Trenta, segnati dal crescente rimbombare di  inni e rumori di guerra, in un’Italia in camicia nera, inquadrata dal regime fascista, l’abitazione pare una “bolla”, impermeabile all’esterno, definita non a caso da Maja “Samos”, quasi fosse una’incantata isola greca sottratta al tempo e allo spazio reale.

Ma anche le bolle prima o poi esplodono. La prospettiva bellicista e la svolta razzista del razzismo rendono sempre difficile astrarsi dalle preoccupazioni del presente e, infine, impossibile la loro stessa permanenza. A seguito dell’entrata in vigore della legislazione razzista contro gli ebrei varata dal governo fascista nell’autunno del ‘38, gli ebrei stranieri che non abbiano contratto matrimonio con cittadini italiani devono lasciare il Regno entro il 12 marzo 1939. Per Maria non ci sono alternative. Per la sola colpa di essere ebrea deve lasciare il proprio “paradiso terrestre”. Sollecitata dal fratello Albert che, fortemente preoccupato dall’evoluzione della politica tedesca dopo l’avvento al potere di Hitler e del nazismo, già nel 1933 era rimasto negli Stati Uniti al termine di un soggiorno di studi, non tornando più in Germania, anche Maria si decide a raggiungerlo. Ma prima di partire si preoccupa di mettere in salvo il suo pianoforte. Lo strumento, assai prezioso, non può correre i rischi di un viaggio, né può essere lasciato all’incuria di una casa abbandonata. Decide così è di affidarne la custodia a Staude, l’amico più caro, che lo conserva presso il proprio studio-abitazione nel cuore di Firenze. Poi Maja deve abbandonare la sua isola e congedarsi anche dal marito che intende prima tornare in Svizzera, iniziando così un viaggio che non avrà ritorno.

Ma la scelta si rivela, anche inconsapevolmente, perfetta. Infatti, negli anni successivi, quando divampa la seconda guerra mondiale – e lo stesso Staude deve arruolarsi per combattere per il Reich suo malgrado -, e, dopo l’8 settembre 1943 – armistizio italiano – i nazisti occupano la penisola,  l’essere nell’appartamento di un cittadino “ariano” salva il prezioso strumento sia dalle mire di questi che da quelle dei fascisti che, sotto l’autorità della repubblica sociale italiana, si scatenano in una feroce caccia agli ebrei e ai loro beni.  Proprio i pianoforti, così come ogni strumento musicale, sono peraltro fra i beni più ambiti dai nazisti che hanno costituito un vero e proprio comitato di esperti per valutarli e spedirli nelle destinazioni più opportune, a partire da uffici ed abitazioni dei vertici del partito, dello Stato e degli stessi campi di concentramento. A Firenze in particolare gli uomini del maggiore Carità e un fitto reticolato di apparati di sicurezza e di “gente comune” si specializza delle denunce e nei saccheggi delle abitazioni di ebrei, catturati e condotti sui vagoni destinati ad Auschwitz. Li fronteggia la rete di protezione voluta dal cardinale Elia Dalla Costa e da esponenti della Comunità ebraica e delle forze antifasciste: una vera e propria resistenza civile che, con consapevolezza diversa da parte dei suoi protagonisti riafferma, nell’ora più buia, il valore universale della fraternità umana. Nell’ora dell’indicibile e delle scelte supreme che interpellano la coscienza di ciascuno, tace il pianoforte di Maja, non è il tempo dell’armonia, ma del dolore, delle grida e del pianto.

Ma il pianoforte si salva: supera il pericolo di furti e saccheggi e rimasto illeso anche dal drammatico passaggio del fronte che investe Firenze nell’estate del 1944, con la decisione dei nazisti di minare i ponti e parte del centro storico per fare della città una trincea sulla quale rallentare l’avanzata nemica. E nel dopoguerra, dal ritorno dalla prigionia britannica, Saude può così ritrovarlo e sedervisi per ascoltarne le armonie, anche se ormai da solo.

Oggi il suono del pianoforte di Maja, deceduta a Princeton presso il fratello nel 1951, risuonano ancora sulla collina di Arcetri, presso l’Osservatorio astrofisico, grazie auna scelta illuminata della famiglia Staude, restituendo anche a noi le sue note di incantevole armonia, messaggere di memorie tragiche, di vite spezzate, di grandi passioni e ideali civili, monito per il presente e il futuro.

Il libro di Valentina Alberici  Il pianoforte di Einstein guarda le stelle non solo svela i dettagli di questo esito sorprendente della vicenda del pianoforte, ma soprattutto, con agilità e delicatezza, ripercorre, attraverso la storia dello strumento, qui richiamata, le tragiche esperienze degli Einstein segnati dalle persecuzioni e dalle terribili violenze perpetrate negli anni del conflitto. Accanto a Maria, si delinea quindi la tragica storia di suo cugino Robert, con il quale erano frequenti i contatti, risiedendo con la famiglia prima a Firenze poi presso la Villa del Focardo dove ha il suo drammatico epilogo. Attenta a richiamare con puntualità e correttezza il contesto storico, l’autrice sa restituire con efficacia l’atmosfera della casa dei coniugi Winteler, evidenziando così tutto il valore e la forza universale dell’arte, superiore ad ogni prova, sia pur pagando prezzi altissimi. Una lezione e un monito validi per l’oggi, che rendono opportuna oltre che piacevole e interessante la lettura di questo piccolo racconto.




Luigi Salvatori: fra militanza politica, impegno antifascista e persecuzione

L’articolo che vi presentiamo su Luigi Salvatori – importante dirigente socialista e poi comunista della Versilia, confinato a Ventotene durante il fascismo – è tratto dal volume Antifascisti Lucchesi nelle carte del casellario politico centrale, edito nel 2018 da Maria Pacini Fazzi con la curatela di Gianluca Fulvetti (docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di civiltà e forme del sapere dell’università di Pisa) e Andrea Ventura (direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Lucca). L’opera rappresenta il frutto dell’impegno di due anni di quattordici studiose e studiosi, e raccoglie oltre un centinaio di schede biografiche realizzate a partire dalle carte del Casellario politico centrale, istituito alla fine dell’800 in un’Italia che comincia a fare i conti con le sempre più diffuse e radicate organizzazioni del movimento operaio. Il progetto di ricerca dal quale nasce quest’opera è stato possibile grazie ad un finanziamento della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, e si propone di andare a colmare quella lacuna che negli anni si è venuta a creare sul tema (anche per una produzione scientifica, come sottolinea Gianluca Fulvetti nel saggio introduttivo al volume, “sbilanciata sugli anni della guerra e della Resistenza”).

L’autore: Stefano Bucciarelli, attualmente presidente dell’ISRECLU, è stato docente di storia e filosofia e poi preside nei Licei, nonché docente a contratto presso le università di Pisa e Firenze alla Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario. Ha pubblicato numerosi saggi e libri su protagonisti e vicende della storia politica e culturale della Toscana del Novecento.

S. è la figura più rilevante del socialismo e poi del comunismo versiliese nella prima metà del xx secolo. Nato a Querceta il 22 febbraio 1881, studente di giurisprudenza a Pisa, si avvicina al socialismo impegnandosi nelle prime organizzazioni operaie: la Società di Mutuo Soccorso di Seravezza, le leghe di Querceta, Vallecchia, Seravezza. Con l’incoraggiamento di Narciso Fontanini, diventa presidente dell’Unione socialista “K. Marx” e redattore di Versilia Nova. Completa gli studi fino alla laurea a Genova, dove si trasferisce dal 1905. Qui collabora a La Pace, uno dei più importanti periodici dell’antimilitarismo italiano. E qui si lega a Carolina Annoni, anche lei militante politica socialista, dirigente milanese. Da lei avrà quattro figli […]. Al rientro in Versilia, apre uno studio legale a Viareggio. La sua attività di avvocato è ricordata per gli importanti processi che sostiene (come quello in difesa dei sindacalisti parmensi che si svolge a Lucca), per la sua trascinante eloquenza e per la generosità con cui difende sempre i più deboli. I giudici fascisti che lo rinviano al Tsds1 descrivono il suo percorso politico: «fu prima socialista rivoluzionario, poi socialista ufficiale e quindi passò al comunismo». Prima della guerra, la sua attività ha il suo punto più alto nel periodico Versilia, da lui fondato. Vi confluiscono le sue posizioni politiche, lungo la linea di un socialismo laico, non ortodosso, aperto al dialogo col sindacalismo che da Carrara proietta la sua egemonia in Versilia. Vi trovano spazio le sue battaglie amministrative, sostenute come consigliere comunale e provinciale, nonché come assessore della giunta di sinistra di Pietro Marchi, che vince nel 1910 le elezioni a Seravezza. Vi ha ospitalità tutta l’intellettualità più in vista: da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, animatore della “Repubblica di Apua”, a Lorenzo Viani, da Enrico Pea a Giuseppe Ungaretti, da Luigi Campolonghi a Alceste De Ambris, a testimonianza di una competenza, di una passione e di una indipendenza culturale […]. Gran parte degli amici intellettuali “apuani” non lo seguono però in vista della Grande Guerra, quando S. è neutralista combattivo ed intransigente. Al Convegno socialista per quadri dirigenti di federazione svoltosi a Bologna (16 maggio 1915) propone – voce isolata – «l’immediato sciopero generale politico-rivoluzionario» contro l’intervento. S. non parte militare, essendo stato riformato per gli esiti di una poliomielite. Nel dopoguerra, la sua carriera politica acquista risonanza nazionale nel socialismo “ufficiale”. Al xv Congresso di Roma del Psi presenta la mozione della maggioranza massimalista di condanna al gruppo parlamentare che aveva sostenuto il governo Orlando. Proposto per la direzione del partito, rifiuta l’incarico. Candidato alle elezioni politiche del 1919, viene eletto deputato nel collegio di Lucca-Massa Carrara. Nell’infuocato clima del dopoguerra, l’onorevole S. è il dirigente più autorevole. Difende le “giornate rosse” di Viareggio (maggio 1920) contro lo stato d’assedio imposto dal governo con provvedimenti che bolla come «anticostituzionali, antiopportuni, antiseri», pur riconoscendo la mancanza di sbocchi di quella rivolta. Interviene in Parlamento denunciando le violenze organizzate dai fascisti a Lucca contro il comizio di Ventavoli. Nel 1921 aderisce alla scissione comunista di Livorno e da allora lo scontro con i fascisti si fa più duro. Il suo nuovo periodico, La Battaglia comunista, è presto costretto a chiudere. Fino al 1926, come incaricato del Soccorso Rosso del Pcd’i, cura la distribuzione dei sussidi ai detenuti politici delle carceri di Lucca, l’invio di aiuti alle vittime della persecuzione fascista, organizzando inoltre a Viareggio la colonia marina per i figli di comunisti morti in guerra o imprigionati. Il 31 ottobre 1926 subisce un’aggressione da parte dei fascisti, che lo riducono in gravi condizioni. Ricoverato all’ospedale di Pietrasanta, riesce a sfuggire a nuove violenze riparando nella sua casa di Viareggio, dove però il 20 novembre viene arrestato. Gli sono inflitti cinque anni di confino ed è trasferito a Favignana, dove rimane fino al 1928, quando è tradotto a Roma, in una cella di “Regina Coeli”, a disposizione del Tsds. Condannato a quattro anni di reclusione, li sconta a Pesaro, a Poggioreale e a Ponza, per essere poi nuovamente confinato, questa volta a Ventotene, per terminarvi il periodo di detenzione. Rientrato in Versilia, continua ad essere sottoposto a sorveglianza speciale fino alla caduta del fascismo, e gli è permesso, seppur con molte restrizioni, di riprendere l’attività di avvocato. Le sue condizioni fisiche peggiorano sempre di più. Rimane per gli antifascisti e per i resistenti, che avrebbero continuato a cercarlo, prezioso e autorevole consigliere. Dopo la Liberazione, il Cln lo designa sindaco di Pietrasanta, ma le sue gravi condizioni di salute non gli consentono di accettare, né è possibile dar corso alla proposta di candidarlo per le elezioni della Assemblea Costituente. Muore a Pietrasanta nel 1946.




ROSARIA BERTOLUCCI, romana di nascita versiliese d’adozione

Rosaria Ciampella nasce a Roma il 23 aprile 1927 da una famiglia borghese, riceve una formazione culturale essenzialmente umanistica dalla quale trae l’amore per la letteratura e la storia.

Di fronte alla drammaticità della guerra, al disastro italiano e allo shock del primo grande bombardamento di Roma, il 16 luglio 1943, che causò oltre tremila morti e undicimila feriti, la giovane Rosaria matura la propria scelta di vita, iscrivendosi al Partito socialista – anche se poi non militerà mai attivamente nell’organizzazione –[1]. All’ideale del socialismo è sempre rimasta fedele seppur negli anni della maturità si sia avvicinata anche alla cultura libertaria.

Nel novembre del 1944 supera, con un buon risultato, il concorso di ammissione alla Facoltà di Magistero di Roma per il corso in materie letterarie ma, la precarietà della situazione generale dovuta alla guerra che condiziona la vita della sua famiglia e il successivo precoce matrimonio, la costringeranno con rammarico ad abbandonare gli studi universitari.

Dunque, originaria di Roma ma ‒ come amava definirsi ‒ versiliese d’adozione, in questa terra approda nel 1946 quando si sposa con un giovane di Pietrasanta. Durante questi anni non abbandona la propria voglia di scrivere e di leggere; ne sono testimonianza alcune lettere a direttori di periodici e riviste a cui invia i propri lavori, tra questi lo scrittore Corrado Alvaro che esprime il proprio apprezzamento per la sua scrittura[2].

Nel 1969 approda a Carrara dove gestisce una libreria e dove inizia un’intensa attività culturale e giornalistica. In questi anni conosce e frequenta assiduamente molti esponenti della cultura e dell’arte di Carrara, della Versilia e non solo come il fotografo Ilario Bessi, lo scultore Carlo Sergio Signori, il pittore Mino Maccari, la pianista Pina Telara e lo scrittore Carlo Cassola[3].

Nel 1978 arriva il riconoscimento più importante, è il primo premio assoluto per la narrativa al Morganti di Viareggio per il suo lavoro su Enrico Pea[4], precedentemente il saggio era stato selezionato nella sezione saggistica opera prima al Premio Viareggio, all’epoca ancora diretto da Leonida Repaci[5].

Sibilla_Aleramo_006In pochi anni – dal 1978 al 1983 – pubblicherà cinque monografie di storia della letteratura, oltre a quella su Pea, un saggio su Tomasi di Lampedusa[6], un altro su Cardarelli[7], quello sullo pittore/scrittore viareggino Lorenzo Viani che riceverà poi il premio Montecatini (VII edizione)[8] e, infine, uno studio su Sibilla Aleramo[9].

Di quest’ultima opera si evidenzia, in una recensione pubblicata dalla redazione viareggina de «La Nazione», che la scrittrice “versiliese” ha voluto scegliere «una particolare angolazione» per analizzare l’opera della Aleramo indagando non solo l’aspetto intellettuale ma anche la «donna» e con uno stile asciutto e semplice ha stilato «un profilo squisitamente femminile, al tempo stesso immerso nei problemi contemporanei»[10]. Il testo è aperto da una  presentazione di Carlo Cassola che aveva letto e apprezzato il lavoro in bozze nella primavera/estate del 1980.

Questi saggi rappresentano il principale corpus di critica letteraria di Rosaria Bertolucci, scritti con una lingua ricca e fluida, alimentata da una tensione interna sì che molte sono le pagine in cui la prosa si rivela, a volte, autentica poesia, corredati da un’accurata documentazione, testimonianza tangibile dell’attenzione alla narrativa contemporanea.

In particolare il saggio dedicato a Viani scrittore riesce a ricostruire e reintegrare da un punto di vista storico tutto l’arco dell’esperienza umana del pittore viareggino, narratore e poeta di personaggi della cultura sotterranea e dei senza volto della Versilia.

Il libro verrà presentato alla biblioteca comunale Lorenzo Quartieri di Forte dei Marmi il 17 maggio 1980. Nell’occasione interverrà Vittorio Vettori, poeta, scrittore, critico letterario e dantista[11], che avrà parole di elogio, sottolineando come l’opera critica sullo scrittore Viani della Bertolucci è

un omaggio intelligente e affettuoso alla terra versiliese e all’estroso ed energico genius loci da cui essa è abitata. Chi infatti è più vicino di Viani a tale estro e a tale energia? E anzi si potrebbe dire che il vero genius loci della Versilia sia lui, Lorenzo Viani in persona, così come ci viene incontro dal mirabile monumento viareggino di Arturo Martini, così come – sopra tutto – possiamo sempre ritrovarlo e riscoprirlo nella drammatica galleria delle sue incisioni e delle sue tele non meno che nelle appassionate e appassionanti testimonianze della sua geniale presenza di singolarissimo outsider del Novecento letterario italiano. Rosaria Bertolucci si è accostata appunto al Viani scrittore, rinvenendone fin dal principio il tratto distintivo fondamentale: il colorismo espressionistico e quindi non descrittivo, ma tragico della «parola».
«Parola come colore», la formula critica adoperata dalla Bertolucci nel sottotitolo del suo libro, risulta felicemente indicativa e calzante, se la si intende, com’è ovvio, in rapporto alla speciale figuratività dell’arte di Viani pittore e incisore, in rapporto alla luce cruda e tagliente che si raggruma e si fa colorata espressione (o espressivo colore) in quell’arte[12].

Ma torniamo a Pea: il libro che esce a maggio del 1978[13], è forse quello più amato dalla Bertolucci non solo perché è il primo ma perché le permette di introdursi in punta di piedi nei salotti culturali versiliesi. È presumibile che l’idea del libro sullo scrittore versiliese sia nata qualche anno prima, grazie all’incontro con l’insegnante Emilio Paoli, un testimone attento dell’ultimo periodo di vita di Pea, suo estimatore e critico, autore di un prezioso volume sulla sua poetica[14].

Il volume viene presentato il 15 luglio a Forte dei Marmi, proprio al Quarto platano al caffè Roma di Piazza Garibaldi, luogo simbolo, cenacolo di artisti e scrittori della prima metà del Novecento[15]. Alla presentazione partecipano i figli di Pea, lo scrittore Rodolfo Doni[16], il professore Giovanni Scarabelli, Roberto Monciatti – presidente dell’ACREL di Viareggio – e i titolari della Libreria Internazionale che sono fra gli organizzatori[17].

Pea_Enrico_004L’interesse e gli studi su Pea fanno sì che la Bertolucci incontri l’editore Marco Carpena di Sarzana[18]. Quest’ultimo è stato fondatore tra il 1952 e il 1954, insieme con Renato Righetti e Giovanni Petronilli del premio Lerici, dedicato alla poesia inedita, ai quali si aggiunge poco dopo anche Enrico Pea. Nel 1958, alla morte dello scrittore versiliese e in suo ricordo, l’appuntamento letterario diventerà premio Lerici-Pea.

Dall’incontro con Carpena nascono due progetti editoriali nei quali la Bertolucci è coinvolta pienamente.

Il primo è un instant-book che prende vita proprio sull’onda dell’anniversario della scomparsa dello scrittore versiliese, Pea vent’anni dopo[19], che esce per i tipi di Carpena nel settembre del 1978 e che contiene ben sei interventi della Bertolucci che cura senza firmarla anche la bibliografia finale del volume[20].

Il secondo è collegato alle giornate di studio che si terranno a Viareggio nel mese di aprile del 1980[21]. Nell’occasione si svolge un’importante tavola rotonda cui partecipano oltre alla Bertolucci, i docenti dell’Università di Pisa, Carlo Quiriconi e Anna Barsotti, insieme a Silvio Guarnieri, autorevole critico letterario e titolare sempre presso l’ateneo pisano della cattedra di Storia della Letteratura italiana. Gli atti di quella tavola rotonda verranno editi da Carpena e ancora oggi sono un utile riferimento bibliografico per la conoscenza dello scrittore versiliese[22].

Nel 1979 esce Il principe dimenticato recensito positivamente dallo studioso Emilio Paoli nelle pagine del «La Nazione». L’opera della Bertolucci è considerata «uno studio serio e sereno su tutta l’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa» e propone «una rilettura» a tutto tondo dello scrittore siciliano rompendo il silenzio della critica a vent’anni dalla prima edizione del Gattopardo[23].

Anche lo studio su Vincenzo Cardarelli, che riceverà il 1° premio Casentino per la saggistica[24], è dedicato ad un aspetto poco conosciuto del poeta quello di pubblicista, soprattutto legato alla sua collaborazione giovanile al quotidiano socialista l’«Avanti!» dove inizia la propria attività come correttore di bozze. In queste cronache, studiate dalla Bertolucci e, allora, poco analizzate dalla critica, Cardarelli mostrava di essere un acuto osservatore del costume e dell’ambiente romano in un momento cruciale e delicato della storia del Paese e attraversato da mille inquietudini, quello che precedette il primo conflitto mondiale[25].

Parallelamente a queste attività dal 1977 la Bertolucci inizia a collaborare stabilmente con la stampa quotidiana locale, suoi scritti si ritrovano sia nella cronaca versiliese che in quella di Carrara de «La Nazione». La collaborazione a questo quotidiano, che si protrarrà per dodici anni consecutivi, verte essenzialmente su due ambiti: quello sociologico e quello storico/culturale cui dedica una produzione attenta di tipo divulgativo.

Per la Bertolucci capire la storia significava comprendere i rapporti causa-effetto che legavano il presente al passato. Per cogliere i frutti della storia, quindi, era necessario che questa fosse conosciuta il più approfonditamente e dal maggior numero di persone possibili. E per raggiungere questo obiettivo era fondamentale che la storia, oltre ad essere insegnata bene nelle scuole, venisse anche divulgata. È dunque soprattutto in questo senso che va letto il suo lavoro che mira alla divulgazione della storia politica, sociale e culturale del territorio attraverso un fiume prorompente di articoli e saggi sparsi su quotidiani, riviste e pamphlet. La scrittrice opera un’intelligente e originale sintesi dei diversi aspetti che connotano il profilo di una comunità, ricostruendo gli eventi in maniera rigorosa, ma non accademico, utilizzando lo stile, piano e ordinato, accattivante e fluido tipico dei divulgatori.

Negli oltre novecento articoli e scritti vari di quegli anni, ne spiccano un centinaio che – direttamente o indirettamente – trattano della storia sociale, economica, politica e culturale nella città del marmo e del territorio apuo-versiliese, ora in parte raccolti in un volume appena uscito[26]. Non sono banali articoli di cronaca, ma veri e propri saggi di ambito storico che il lettore di allora de «La Nazione» poteva leggere come capitoli di un libro in divenire.

L’azione svolta dalla Bertolucci tramite le pagine del giornale non passò inosservata tanto che due “anziani” militanti dell’anarchismo, come Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi, la vollero conoscere e coinvolgere nelle loro attività.

La Bertolucci aveva già iniziato da tempo un approfondito studio sulla storia di Carrara e del suo territorio. Ne sono testimonianza diversi articoli che escono nel 1978, sempre sulle pagine de «La Nazione», dedicati a figure locali e/o nazionali la cui storia si è intersecata con quella della città del marmo come Cesare Vico Lodovici, Giovanni Fantoni, Domenico Cucchiari, Gabriele D’Annunzio, Antonio Stoppani, Lorenzo Viani, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e Pellegrino Rossi.

Va ricordato che in questi anni la Bertolucci è un’assidua frequentatrice dell’Archivio di Stato di Massa e dei principali centri culturali del territorio come le Biblioteche civiche di Carrara e di Massa, l’archivio e la biblioteca dell’Accademia di Belle Arti, quella della Camera di Commercio di Carrara. Conosce e frequenta le raccolte private di alcune famiglie, come quella di Paolo Micheli Pellegrini[27] e di Cesare Vico Lodovici, di cui conosce e frequenta il fratello Renato o quella di esponenti politici come il comunista Antonio Bernieri che, proprio nel 1977, insieme a Lorenzo Gestri aveva fondato l’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense. Infine, conosce e studia materiali preziosi per la storia novecentesca della città, come il diario dattiloscritto, dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, di Augusto Ciaranfi, direttore della Banca Commerciale, succursale di Apuania, all’epoca ancora inedito[28].

Una prima prova delle capacità che la Bertolucci ha acquisito nella lettura integrata dei fenomeni sociali, culturali e politici si ha in occasione della pubblicazione di un’inchiesta storica sulla nascita e lo sviluppo della stampa periodica nella provincia che esce a puntate tra l’aprile e il giugno del 1979 nelle pagine di cronaca locale della «Nazione»[29].

Dunque, quando la Bertolucci incontra Mazzucchelli e Marzocchi, i due sanno benissimo chi hanno di fronte e capiscono che un accordo tra i tre è potenzialmente foriero di buone iniziative. Gli anziani militanti, ormai prossimi agli ottant’anni, hanno l’urgente bisogno di trasmettere alle future generazioni non solo la propria storia ma anche quella della loro generazione. Si mettono subito al tavolo di lavoro e l’intesa è ben presto trovata. È presumibile che la prima idea sia proprio quella di un progetto che riguarda un momento essenziale delle memorie dei due militanti: l’esperienza spagnola per Marzocchi e quella resistenziale per Mazzucchelli. Non sarà un caso, come vedremo, l’uscita nel 1988 della biografia di Ugo Mazzucchelli[30] mentre per quella di Marzocchi il progetto, a causa della malattia e poi della morte del protagonista nel giugno del 1986, non vedrà la luce.

Novantaquattro_003La creatività e lo spirito d’iniziativa la portano a travalicare l’accordo e a progettare, una storia romanzata del moti del ’94. Durante tutto il 1980 la Bertolucci lavora intensamente e nell’autunno consegna la bozza ai due militanti, che l’approvano senza esitazione, e nel febbraio del 1981 vede la luce Milleottocentonovantaquattro[31].

Nel volume emerge con forza la vene letteraria dell’autrice che, in una lettera di accompagnamento alla pubblicazione, nel rivendicare che i moti «sono un fenomeno carrarese e non genericamente della Lunigiana», avverte «di non aver scritto un testo di storia né tanto meno un saggio rivolto agli addetti ai lavori», ma di aver voluto semplicemente raccontare in forma prosastica ai più giovani quanto era avvenuto alla fine dell’Ottocento. L’aver scelto la «forma del racconto» non vuole minimamente sminuire il significato e la portata politica, sociale e storica di quei fatti ma tentare di «farli rivivere, intatti ed attuali», come un «frammento di storia locale umanamente vissuto sullo sfondo di un più vasto contesto» nazionale e internazionale[32].

Il libro viene presentato a Carrara il 6 aprile 1981 nella sala comunale con la partecipazione di storici come Lorenzo Gestri[33] e Nunzio Dell’Erba.

Contemporaneamente la Bertolucci ha avviato una ricerca riguardante la storia della ferrovia marmifera che, nonostante ormai fosse chiusa da quasi due decenni, continuava a far discutere la politica locale a causa della pratica di liquidazione dei suoi debiti pregressi, insomma, come in anni più tardi scriverà la scrittrice, tutta la storia di questa impresa rappresentava, con i suoi protagonisti e con le sue vittime, una tipica vicenda all’italiana.

Il saggio è il primo lavoro in assoluto che ricostruisce complessivamente tutta la storia di questa ardita arteria ferroviaria, inaugurata nella seconda metà dell’Ottocento, che collegava i bacini marmiferi con la stazione ferroviaria di Avenza e il porto marittimo di Marina di Carrara. Il lavoro venne pubblicato a puntate sulla rivista «Carrara marmi» del Centro studi del marmo del Comune, tra il 1980 e il 1982[34], poi successivamente è stato ripubblicato dal quotidiano «le Città», anche se in forma ridotta, e poi utilizzato per alcune lezioni tenute dalla Bertolucci  all’Università della Terza Età nel secondo biennio di attività dei corsi, tra il 1989 e l’inizio del 1990.

Dunque, la Bertolucci, è un’attenta e curiosa studiosa di storia locale e non manca di partecipare a ogni evento di ambito storiografico che si svolge in città. Nell’aprile del 1980 assiste al convegno organizzato dall’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense sulla resistenza in Apuania che vede la partecipazione di esponenti di rilievo nazionale tra i quali il senatore Leo Valiani, Leonetto Amadei, presidente della Corte costituzionale, lo storico Franco Catalano e Franco Francocivh, presidente dell’Istituto storico regionale della Resistenza. L’incontro, di cui la Bertolucci darà un puntuale resoconto dalle pagine de «La Nazione»[35], è un ulteriore stimolo allo studio della guerra civile che ha insanguinato il nostro paese prima nel biennio nero del 1921-’22 e poi tra il 1943-’45, e che aveva profondamente segnato la storia della provincia di Massa e Carrara.

L’argomento verrà trattato dalla Bertolucci in più di un’occasione e poi, come detto, troverà una sintesi nella biografia del partigiano anarchico Ugo Mazzucchelli.

In quello stesso anno il regista Luigi Faccini presenta il film Nella città perduta di Sarzana che viene poi proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia. Il film racconta un episodio drammatico della guerra civile, accaduto a Sarzana il 21 luglio 1921, tra fascisti e antifascisti dove i primi ebbero la peggio. Il film è strutturato sulla dettatura del rapporto da parte del prefetto Vincenzo Trani, incaricato dall’allora Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, di riportare la pace e l’ordine nella cittadina. Il film, che nell’estate dell’anno successivo verrà trasmesso in due serata anche dalla RAI, fu proiettato in diverse città italiane, tra cui Carrara, suscitando dibattiti e prese di posizione.

Anche la Bertolucci intervenne con un articolo pubblicato dalla «Nazione» in due parti ai primi di settembre. Lo scritto si soffermava in particolare sul ruolo del ras Renato Ricci, ricostruendone anche in parte la biografia. Ad analizzare l’articolo si comprende come la scrittrice tentasse di capire come fosse nata, anche in una città di provincia come Carrara, quella frattura nella società italiana, causata dalla guerra civile proclamata dal fascismo, che avrebbe avuto un seguito non solo nel 1943-’45 ma anche nefaste influenze nella storia repubblicana.

Successivamente si impegna nello studio della Resistenza a Carrara di cui un primo abbozzo viene pubblicato a puntate nella primavera del 1984 in sette puntate da «La Nazione» tra l’aprile e il maggio 1984. La ricerca, costruita sulla documentazione dell’archivio del CLN conservato a Firenze presso l’Istituto Storico Regionale della Resistenza, e su testimonianze dirette di alcuni protagonisti come lo stesso Mazzucchelli, Antonio Bernieri e altri.

Nell’autunno del 1988 esce l’ultima monografia della Bertolucci, quella dedicata proprio a Ugo Mazzucchelli, con la quale si completa il ciclo di studi avviato dieci anni prima sulla genesi dell’antifascismo locale e sull’esperienza resistenziale.

Il libro viene presentato sabato 19 novembre 1988 al Centro culturale Amendola di Avenza, con la partecipazione accanto all’autrice e a Ugo Mazzucchelli, degli storici Enzo Santarelli e Pier Carlo Masini. Per il primo il libro non vuole essere un saggio e nemmeno una semplice biografia e ha la sua ragion d’essere nell’«aria» di Carrara e nella figura particolare di Mazzucchelli, un anarchico ragionante. Mentre, per Masini il libro rappresenta bene lo spirito di questa terra «incline al radicalismo», come altri territori dell’Italia centrale, Umbria, Marche, Romagna e parte dell’Emilia, dove la «spinta verso forme politiche tese alla libertà e alla democrazia» è stata la principale risposta a lunghi anni di governi reazionari e repressivi.

Un’ampia recensione del libro viene pubblicata dal quotidiano «le Città» nel quale si sottolinea forse il pregio maggiore del libro che è quello di essere volutamente «divulgativo, scritto non per storici o per specialisti di storia locale, ma per far conoscere questa figura di uomo a tutti», al di là degli schieramenti precostituiti. Uno strumento utile per comprendere non solo la vita di Mazzucchelli, che l’editorialista definisce «costruttore di storia», ma anche le peculiarità di un movimento, come quello libertario, che ha avuto una storia così complessa e articolata nel territorio apuano. Un libro «dichiaratamente di parte» dove, inevitabilmente, la «Bertolucci subisce il fascino del personaggio» ma con uno stile giornalistico sa renderlo nella sua più piena dimensione umana e politica[36].

L’approccio biografico scelto dalla Bertolucci, per raccontare una pagina importante della storia novecentesca dell’anarchismo a Carrara, si inserisce bene sul piano storiografico in quegli anni nei quali il genere biografico si va affermando nella ricerca storica. Un approccio innovativo che mette al centro delle attenzioni del lettore l’individuo come entità al quale ricongiungere la ricostruzione storiografica. Una narrazione nella quale vengono coniugati oltre agli aspetti prettamente storico-politici anche quelli di natura sociologica, culturale, antropologica e psicologica, un approccio che troverà nei decenni successivi ampia fortuna nella storiografia dedicata al genere biografico. Una questione, quella dell’affermazione del genere della biografia nella storiografia contemporanea, che solleciterà Alceo Riosa, nei primi anni Ottanta, a interrogarsi sulla relazione tra la «crisi dello storicismo» e l’ingresso della biografia nel tempio di Clio:

La perdita della dimensione teologica della storia ha favorito una più larga attenzione verso gli agenti storici, gli uomini, le motivazioni delle loro scelte, non più riportabili allo Spirito del Mondo né più unicamente riferibili alle leggi della struttura economica. L’uomo nella storia certo, ma con una sua autonomia e relativa libertà di scelta[37].

Nel febbraio 1988 la Bertolucci è tra le promotrici dell’Università della Terza età organizzata dalla Comunità montana e dalla Circoscrizione 4 del Comune di Carrara. È titolare del corso di storia locale e, nell’estate del 1988 e in quella successiva, anche di un corso di latino per le prime classi dei licei e dei ginnasi sempre su incarico dell’amministrazione comunale.

Le forze iniziano a mancare: nella primavera del 1989, gli effetti della malattia si fanno più palesi e deve ridurre le sue attività, alla fine dell’anno chiude l’agenzia libraria e sospende le sue collaborazioni alle diverse testate giornalistiche. Ha ancora la forza per portare a termine le lezioni del secondo ciclo dell’Università della Terza Età e completare il suo ultimo libro, quello dedicato al fotografo Ilario Bessi, scomparso tre anni prima, testo che cura, come già accennato, con due dei colleghi giornalisti, Romano Bavastro e Vittorio Prayer, con cui ha condiviso dodici anni di professione e lavoro comune[38].

Una stagione unica e irripetibile crediamo, quella vissuta dalla scrittrice, nella quale la cultura locale trovò una persona sensibile, leale e generosa che ha fatto conoscere ad un ampio pubblico la storia sociale e politica del territorio apuo-versiliese e della città del marmo, una città – e con essa molti dei suoi cittadini –  che la scrittrice ha tanto amato e che l’ha resa felice. Per questo le siamo infinitamente grati e riconoscenti.

Rosaria Ciampella Bertolucci muore all’ospedale civile di Camaiore il 28 ottobre 1990.

Note

[1] Nell’archivio personale della Bertolucci è conservata la tessera n. 261300, anno 1945, della Sezione del rione Trevi di Roma. Nelle carte è conservato anche un biglietto/invito, con data 15 maggio 1945, della sezione ANPI III zona Monte Sacro indirizzato alla “partigiana Rosaria Ciampella” per una conferenza pubblica il 20 maggio del partigiano Riccardo Antonelli, in occasione dell’inaugurazione della Sezione partigiani del Circolo socialista. Quest’ultimo è stato il comandante della III zona, arrestato dai nazi-fascista il 16 maggio 1944 è torturato in via Tasso senza cedere ai suoi aguzzini. Durante gli anni dell’occupazione nazi-fascista di Roma è probabile che Rosaria abbia stretto vincoli sodali di collaborazione, soprattutto in ambito socialista, nella lotta antifascista e questo biglietto ne è una prova ma, per la sua giovane età e per la mancanza di ulteriore documentazione non possiamo stabilire una sua partecipazione diretta alla Resistenza.
[2] Archivio BFS, Carte R. Bertolucci, Corrispondenza, Lettera di C. Alvaro a R. Bertolucci, Roma, 28 agosto 1946.
[3] Carlo Cassola (1917-1987), antifascista, partigiano scrittore e saggista di fama internazionale, quando conosce la Bertolucci è particolarmente impegnato con il progetto della Lega per il disarmo unilaterale e nell’ambito di queste attività conosce e frequenta gli anarchici, in particolare Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi.
[4] Premio 1978 «A. Morganti». Resi noti i vincitori, «Il Tirreno» (cronaca di Viareggio), 12 lug. 1978.
[5] Viareggio, seconda rosa, «La Nazione», 2 giu. 1978; I concorrenti al «Viareggio» per l’opera prima, «Il Tempo», 2 giu. 1978.
[6] R. Bertolucci, Il principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979.
[7] R. Bertolucci, Cardarelli sconosciuto, Firenze, La Ginestra, 1980.
[8] Lorenzo Viani scrittore e Cardarelli pubblicista. Due nuovi libri di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 2 aprile 1980. Cfr. A Rosaria Bertolucci il premio Montecatini, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 28 novembre 1981.
[9] R. Bertolucci, Sibilla Aleramo, una vita, prefazione di Carlo Cassola, Viareggio-Avenza, Centro studi di letteratura contemporanea-Centro studi sociali e Sea, 1983.
[10] Fr. A., Saggio su Sibilla di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 25 set. 1983.
[11] Vittorio Vettori (1920-2004) originario del casentino ha vissuto tutta la sua vita a Firenze, è stato presidente dell’Accademia Pisana dell’Arte-sodalizio dell’Ussero, segretario generale dell’Associazione «Amici della Rassegna di Cultura e vita scolastica», Membre d’honneur della Société libre de poésie di Parigi e fondatore nonché direttore della «Lectura Dantis Internazionale» di Pisa.
[12] Il testo del suo intervento si può leggere in V. Vettori, Figuratività e scrittura di Lorenzo Viani, «Messaggero Veneto», 18 mag. 1980.
[13] Esce «Pea uomo di Versilia» nel ventennale della morte, «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 23 mag.1978; Un libro su Pea «uomo di Versilia», «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 24 mag. 1978.
[14] Cfr. E. Paoli, Pea: la poesia della malizia, Sarzana, Carpena, 1973.
[15] Cfr. R. Pellegrino, Vent’anni fa moriva Pea, oggi solenne commemorazione, «Il Tirreno» (cronaca regionale), 11 agosto 1978.
[16] Rodolfo Doni, nom de plume di Rodolfo Turco (1919-2011), è stato uno scrittore e banchiere considerato uno dei più rappresentativi intellettuali d’ispirazione cattolica del ’900.
[17] Ricordato Enrico Pea nel ventennale della morte, «La Nazione» (cronache della Versilia), 20 lug. 1978. In ricordo di Enrico Pea, «La Nazione» (cronache della Versilia), 14 lug. 1978; Commemorato E. Pea, «Il Tirreno» (Cronaca di Viareggio), 18 lug. 1978; Presentato al Forte il libro «Pea uomo di Versilia», «La Nazione» (cronache della Versilia), 21 lug. 1978. M.B., Incontro su «Pea uomo di Versilia», «L’Ariete», set. 1978, p. 19.
[18] Marco Carpena (1914-1985) è un noto animatore culturale soprattutto nei decenni Cinquanta-Settanta non solo nell’ambito editoriale.
[19] Pea vent’anni dopo, Sarzana, Carpena, 1978. Contiene interventi oltre che della Bertolucci di Emilio Paoli, Marco Carpena, Alfredo Catarsini, Danilo Orlandi, Eugenio Pardini, Giovanni Petronilli e Renato Santini. Si v. a proposito la recensione di A. Caggiano, Pea vent’anni dopo, «Giustizia nuova», 15 dic. 1978.
[20] Si tratta dei saggi: Nella libreria di Franceschi; L’amicizia con Ungheretti; Primo ritorno in patria; La capanna della Bohème; Confidenze in libreria, pp. 27-37; Sintesi biografica, pp. 69-71. La bibliografia delle opere di Pea, l’elenco dei racconti ed articoli per quotidiani e riviste e la rassegna hanno scritto su Enrico Pea, pp. 72-83.
[21] La settimana di studio su Enrico Pea si svolge a Viareggio dal 14 al 20 aprile 1980 con una mostra bio-bibliografica alla Biblioteca comunale, la tavola rotonda il 19 aprile e una rappresentazione del Maggio in Passeggiata di fronte a Piazza Mazzini. Cfr. Viareggio ricorda il «suo» Enrico Pea, «Il Popolo», 13 mag. 1980.
[22] Dedicato a Enrico Pea: settimana di studio, 14-20 aprile 1980, Biblioteca Comunale “Guglielmo Marconi”, Viareggio, curatori: O. De Ambris, M. Simoncini, A. Vannucci; tavola rotonda: A. Barsotti, R. Bertolucci, S. Guarnieri, A. Quiriconi, Sarzana, Carpena, 1980.
[23] E. Paoli, Scrittrice versiliese ripropone Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Principe dimenticato, «La Nazione» (cronaca della Versilia), 15 apr. 1979.
[24] A Rosaria Bertolucci il premio «Casentino» di saggistica, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 9 ago. 1979.
[25] Rosaria Bertolucci: due preziosi saggi, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 9 apr. 1980.
[26] R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ’800 e ’900, Pisa, BFS edizioni, 2020.
[27] Paolo Micheli Pellegrini (1924-2007), discendente di una famiglia aristocratica. persona di grande erudizione, nonché formidabile collezionista di documenti storici è stato nel 1994 tra i fondatori dell’Accademia Aruntica.
[28] Cfr. A. Ciaranfi, Diario della Banca commerciale italiana succursale di Apuania Carrara dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, Carrara, Edizione per il comune di Carrara a cura di Acrobat Media ed., 2005.
[29] L’inchiesta venne pubblicata su «La Nazione» (cronaca di Carrara) in cinque puntate.
[30] Cfr. R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, introduzione di P. C. Masini, Carrara, FIAP, 1988, ristampato poi con il titolo Ugo Mazzucchelli un anarchico e Carrara, Carrara, Società editrice apuana, 2005.
[31] R. Bertolucci, Milleottocentonovantaquattro storia di una rivolta, Carrara, Gruppo anarchici riuniti (G.A.R.), 1981.
[32] Cfr. Storia di una rivolta. Edito dai Gar è uscito un interessante saggio di Rosaria Bertolucci sui «moti» del 1894, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 11 mar. 1981.
[33] Lorenzo Gestri (1943-2002), docente di storia contemporanea presso l’Università di Pisa è stato un fine e profondo conoscitore della storia sociale e del movimento operaio carrarese e in generale della Toscana Nord-Occidentale.
[34] R. Bertolucci, La Ferrovia marmifera forse una storia (1a parte), «Carrara marmi», mar. 1980, pp. 16-21. 2a parte, mar. 1981, pp. 21-24; 3a parte, mar. 1982, pp. 17-24; 4a parte, giu. 1982, pp. 13-18; 5a parte, set. 1982, pp. 21-23.
[35] R. Bertolucci, Al convegno di studi storici. La Resistenza cominciò nel ’21, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 3 aprile 1980.
[36] Ugo Mazzucchelli costruttore di storia. È uscito il libro edito dalla SEA, «le Città», 3 nov. 1988.
[37] Cfr. Biografia e storiografia, a cura di A. Riosa, Milano, F. Angeli, 1983, p. 13.
[38] «Luci di marmo». Omaggio al maestro e alla sua città, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 10 dic. 1989.




Maria Luigia Guaita

Presentando la prima edizione de La guerra finisce la guerra continua Ferruccio Parri, il capo-partigiano “Maurizio” poi, nel giugno 1945, Presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ricorda Maria Luigia Guaita come «una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose» che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, una «donna della Resistenza» fidata, coraggiosa e capace.

Nata a Pisa l’11 agosto 1912 Maria Luigia Guaita trascorre l’infanzia a Torino per poi raggiungere Firenze nel 1926. Qui, grazie al fratello Giovanni, allora giovane studente, inizia a frequentare gli ambienti dell’antifascismo di estrazione liberalsocialista entrando in consuetudine con personaggi come Nello Traquandi, già tra gli animatori del periodico clandestino «Non mollare» e del Circolo di cultura politica di Borgo S. Apostoli, ed Enzo Enriques Agnoletti, uno dei principali esponenti dell’azionismo fiorentino durante la Resistenza.

Avvicinatasi al Partito d’Azione (PdA) la giovane Maria Luigia ne cura l’organizzazione dell’attività clandestina sfruttando, in un primo tempo, quel contatto giornaliero col pubblico – e, quindi, con altri antifascisti – consentitole dalle mansioni di impiegata di sportello presso una filiale fiorentina della Banca Nazionale del Lavoro. Durante la lotta di Liberazione, poi, opera come staffetta, contribuisce alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito.
Agli ordini del Comando militare azionista si adopera, inoltre, per il collegamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese garantendo un servizio – rileva Carlo Francovich – «particolarmente delicato e pericoloso», ma di fondamentale importanza ai fini dell’organizzazione tattico-strategica della lotta di resistenza e generalmente svolto «da giovani donne, la cui audacia era talvolta temeraria»: tra queste, oltre alla Guaita, si ricordano Orsola Biasutti, Anna Maria Enriques Agnoletti, Gilda Larocca, Adina Tenca, Andreina Morandi. Quest’ultima – sorella di Luigi Morandi, il radiotelegrafista del gruppo Co.Ra ferito a morte il 7 giugno 1944 durante l’irruzione dei tedeschi nell’appartamento in Piazza d’Azeglio, ultima sede della radio clandestina azionista –, nei mesi dell’occupazione germanica collabora con la Guaita e, anni dopo, ne ricorda mediante un curioso aneddoto la versatilità e l’instancabilità operativa: «[Maria Luigia Guaita] Non disdegnava nessun tipo di impegno; sapeva trasformarsi anche in vivandiera, come quando riuscì ad ottenere dal proprietario del famoso ristorante Sabatini due sporte piene di conigli, destinati (e purtroppo non arrivati per una serie di contrattempi) alla formazione di Lanciotto Ballerini, che operava dalle parti di Monte Morello» e, nel gennaio 1944, resterà ucciso nella battaglia di Valibona.
Nel quadro più ampio dell’impegno antifascista di Maria Luigia Guaita assume particolare rilievo l’attività di falsificazione di documenti, permessi e timbri in soccorso a partigiani e perseguitati politici alla quale viene iniziata da Tristano Codignola, uno dei più brillanti e capaci dirigenti azionisti: «Con Pippo [Codignola] – ricorda – sarebbe stato duro lavorare, pensavo, ma avrebbe capito e Pippo capì sempre la buona volontà di tutti noi. Ricercato dalla polizia, braccato dalle SS, riuscì a creare insieme a Rita [Fasolo] e a Nello [Traquandi] tutta l’organizzazione politica del partito. Attivo, infaticabile, riempiva le lacune, colmava i vuoti imprevedibili – e di giorno in giorno, d’ora in ora – sfuggiva alla cattura».
L’efficacia del servizio ricorre, altresì, nelle parole lette dallo stesso Codignola all’Assemblea regionale del PdA, tenutasi a Firenze nel febbraio 1945, con le quali rileva come, sotto la solerte guida di Traquandi, esso sia divenuto nel tempo «un magnifico strumento di resistenza, fornendo falsificazioni di ogni natura, tessere, fotografie, timbri, carte annonarie e via dicendo»: Maria Luigia, senza esitare nel mettere a disposizione la propria abitazione fiorentina di via Giovanni Caselli 4, coordina con perizia l’apprestamento e la distribuzione dei documenti falsi permettendo a tale attività di raggiungere un notevole grado di perfezione. Dopo la Liberazione, a riconoscimento dell’impegno resistenziale il Ministero della Guerra le riconosce la qualifica di partigiano afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”-Servizio Informazioni per il periodo compreso tra il 9 settembre 1943 e il 7 settembre 1944.

La primavera del 1945 segna l’avvio della rinascita democratica dell’Italia alla quale le donne, conquistato il diritto al voto, contribuiscono in prima persona. In Assemblea Costituente, ne sono elette 21: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste – tra le quali la toscana Bianca Bianchi – e una proveniente dalle file dell’Uomo qualunque. In Toscana nessuna delle candidate nelle liste del PdA – Olga Monsani, Margherita Fasolo, Eleonora Turziani – ottiene i voti necessari per l’elezione. Maria Luigia Guaita è tra quanti, nei primi anni di vita della giovane Repubblica, confidano nel disegno politico azionista e nel progetto di rinnovamento palingenetico delle strutture dello Stato e della società italiani. Tali aspettative non trovano, però, concretezza e nelle parole da lei consegnate al proprio libro di memorie emergono con forza la delusione per la fine prematura del PdA e l’amara percezione del progressivo appannamento dei valori e delle speranze che hanno animato le donne e gli uomini della Resistenza: «Se devo necessariamente adoperare le parole che esprimono i concetti di libertà e di giustizia, – scrive – ho un attimo di esitazione, spesso ricorro a una perifrasi. “Giustizia e Libertà” mi ha cantato troppo nel cuore, per tutti gli anni della lotta clandestina. Allora mi sforzavo soltanto di essere disciplinata, ma sempre con un sottile struggimento di non fare abbastanza, anche per le perdite dolorose di tanti compagni, i migliori; e ognuno di loro si portava via una parte di me. Venne la liberazione; affascinata da questa parola sperai nell’affermarsi delle forze socialiste. Poi le giornate di Roma, il congresso al Teatro Italia. Ricordo Ragghianti, che tratteneva Parri per la giacchetta, il volto duro e caparbio di Carlo, quello tagliente e tirato di Pippo, la dialettica di La Malfa: il crollo del Partito d’Azione. Pensavo che il sacrificio di tanti compagni (e così di nuovo mi bruciava nel cuore il dolore per la loro morte) sarebbe stato sufficiente a disciplinare le forze, attutire gli screzi, frenare le ambizioni». Ciò, come noto, non avverrà e il PdA si scioglierà nel 1947.

All’assenza dalla vita politica partecipata corrisponde un intenso impegno della Guaita in attività di natura culturale e imprenditoriale. Donna emancipata da sempre legata al mondo intellettuale non solo fiorentino, ella contribuisce a fondare e animare le Edizioni “U” di Dino Gentili cui si devono, grazie all’opera editoriale di Enrico Vallecchi, la pubblicazione di numerosi volumi proibiti sotto la dittatura fascista. Maria Luigia Guaita collabora, inoltre, con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fa parte dell’Associazione Liberi Partigiani Italia Centrale (A.L.P.I.C.) e, nel 1957, dà alle stampe quel libro di memorie che Roberto Battaglia ha paragonato al Diario partigiano di Ada Gobetti definendolo «una spregiudicata narrazione delle vicende d’una staffetta partigiana che si muove o corre dalla città alla montagna e viceversa», nel quale l’autrice «insieme ai toni scanzonati del bozzetto, sa trovare, specie nelle ultime pagine del libro, quelli tragici ed ardui dell’epica partigiana, allorché descrive l’impiccagione di italiani e sovietici a Figline di Prato».
Degno di rilievo si rivela, infine, l’impegno della Guaita nel campo dell’imprenditoria tessile nella Prato della ricostruzione nonché, sul finire degli anni Cinquanta, la fondazione a Firenze della Stamperia d’arte «Il Bisonte», cui segue l’apertura sulle rive dell’Arno di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Nel 1981, a riconoscimento di questo importante impegno imprenditoriale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di Commendatore.
Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007, all’età di 95 anni. Con lei, dirà il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, «scompare una delle personalità più rappresentative della nostra città»: una donna della Resistenza e un’indiscussa protagonista della vita imprenditoriale in Toscana, in Italia e all’estero.

Mirco Bianchi, dottore in Storia contemporanea, è responsabile dell’Archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




Alberto Torricini

Alberto Amilcare Torricini nacque a Prato il 9 marzo 1906. Di professione impiegato, poi rappresentante di commercio, aderì giovanissimo al Partito Comunista (quasi tutte le notizie su di lui, contenute in questo articolo, sono desunte dal fascicolo del Casellario politico centrale che lo riguarda).

Nella primavera del 1932 Torricini, che non aveva all’epoca alcun precedente, fu colpito da mandato di cattura in quanto membro di un’organizzazione comunista clandestina attiva a Prato. Rifugiatosi a Lione, il 30 giugno 1932 fu denunciato in stato di latitanza al Tribunale speciale per la difesa dello stato. Venne inoltre iscritto nel Bollettino delle ricerche e nella Rubrica di frontiera per il provvedimento di arresto.

In seguito, per incarico del PCI e sotto falso nome, si stabilì a Milano, dove continuò l’attività antifascista.

Il 22 maggio 1936 fu arrestato e denunciato nuovamente al Tribunale speciale dall’ispettore generale di PS Francesco Nudi. Torricini, si legge nella denuncia, “Sottoposto a ripetuti interrogatori […] ha ammesso […] la sua qualifica di emissario comunista, precisando di essere stato incaricato nel marzo 1936 dai dirigenti del partito comunista all’estero di venire nel Regno […] per […] diffondere la stampa. Ha dichiarato però di non voler fare alcuna rivelazione”. Dalle dichiarazioni di altri arrestati, risultò però che Torricini li aveva incaricati di spedire giornali e materiale di propaganda.

Sulla base di queste accuse, Torricini venne condannato, con sentenza emessa l’11 dicembre 1936 a ben 21 anni di reclusione (che iniziò a scontare a Fossano, Civitavecchia e Sulmona). Autodidatta avido di letture, egli chiese, durante gli anni trascorsi in carcere, di essere autorizzato ad acquistare numerosi libri: è interessante osservare che fra questi figurava anche La democrazia in America, di Alexis de Tocqueville, che il Ministero della cultura popolare (Direzione generale per il servizio della stampa italiana) giudicò, naturalmente, inadatto ad un condannato politico. Liberato nell’agosto 1943 per un “atto di Sovrana clemenza”. Torricini fece ritorno a Prato. Attivo nelle file della Resistenza, fu l’artefice della riorganizzazione dei sindacati e, dopo la liberazione, venne scelto dal CLN come segretario della ricostituita Camera del lavoro.

Negli anni successivi – stabilitosi in una casa di via Machiavelli, dove è stata poi collocata una lapide che lo ricorda – egli continuò l’attività politica, coprendo numerosi incarichi: consigliere comunale per il PCI fino al 1970, fu anche dirigente dell’ANPPIA e consigliere della Croce d’oro.

Morì a Prato il 10 dicembre 1981.




“Affinché la memoria diventi coscienza”. In ricordo di Vera Michelin Salomon

Lo scorso 27 ottobre 2019, a quasi 97 anni, è mancata Vera Michelin Salomon, una grande persona, un’importante testimone della deportazione politica. Era presidente onoraria dell’ANED nazionale. Per ricordarla pubblichiamo un suo breve profilo biografico

Di origini valdesi, Vera nasce il 4 novembre 1923 a Carema, in Piemonte. I genitori fanno parte dell’Esercito della Salvezza e la educano ad un assoluto rigore morale.  Per un periodo la famiglia vive a Milano ma Vera, nel 1941, si trasferisce a Roma, per lavorare nella segreteria di una scuola.

famiglia Michelin Salomon

La famiglia Michelin-Salomon

Entra presto in contatto con l’antifascismo capitolino e dopo l’8 settembre 1943 inizia a collaborare attivamente con i gruppi studenteschi che si prodigano nella distribuzione di materiale di propaganda contro l’occupante nazista. Infatti, Vera fu una dei “ragazzi di Via Buonarroti”, dove iniziò la sua maturazione etica, culturale e politica. Ricorderà più tardi Vera di quel periodo romano:

Ero abbastanza giovane e non avevo idee precise. Del fascismo sapevo quello di cui ci avevano imbottito sui banchi di scuola, dell’antifascismo non sapevo niente. Ero venuta a diciotto anni a Roma perché avevo voglia di uscire dalla famiglia, una famiglia molto rigida: non direi fascista, anche se la mamma, per qualche ricordo contro i comunisti in sciopero, li tollerava, ma era una famiglia sicuramente rigida. Sa che non ero mai andata al cinema? A Roma c’erano alcune cugine e mi fu offerto di lavorare come segretaria in una scuola. Ne approfittai. Finii improvvisamente in un ambiente completamente diverso. Cugini e amici appartenevano già ad un gruppo di amicizia e militanza a cui partecipavano Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli ed altri antifascisti che già erano stati in carcere.[1]

La vicenda di Vera e dei giovani compagni e compagne di lotta antifascista viene spesso accostata a quella della “Rosa bianca” dei fratelli Scholl a Monaco di Baviera, anche se non è così che viene ricordata nella memoria italiana.

Vera Michelin Salomon a 19 anni

Il 14 febbraio 1944 Vera viene arrestata insieme agli altri componenti del gruppo clandestino di giovani attivisti di cui fa parte: la cugina Enrica Filippini-Lera, il fratello Cornelio, il cugino Paolo Buffa e Paolo Petrucci che sarà poi ucciso alle Fosse Ardeatine. Vera viene condotta con gli altri a Via Tasso, sede del comando e delle carceri tedesche, poi a Regina Coeli e messa sotto processo da un tribunale militare tedesco. Vera ed Enrica sono condannate a tre anni di carcere duro da scontarsi in Germania nel Frauenzuchthaus di Aichach.  Tradotta in Germania, prima di giungere ad Aichach, conosce l’orrore di Dachau dove è  trattenuta per qualche tempo. Ricorderà Vera:

Siamo arrivati a Monaco la mattina e fino a sera siamo stati in stazione. Per fortuna era un po’ prima dei grandi bombardamenti. A Dachau abbiamo dormito nelle docce. Lì ho visti i cani con la gualdrappa nera e l’SS ricamata sopra. E poi c’era questo urlare continuo in tedesco. Urlavano se dovevi uscire, urlavano se dovevi entrare. E noi non sapevamo il tedesco. Ci hanno dato una zuppa. C’erano anche altri prigionieri. Poi con un mezzo pubblico siamo stati spostati fino a Stadelheim, un carcere dove ancora funzionava la ghigliottina. Le italiane erano poche. C’erano polacche e francesi: anche loro penso deportate politiche.

Quindi, infine, ad Aichach:

[era] un carcere duro dove c’erano anche tra le ergastolane moltissime tedesche finite in prigione per reati comuni. E poi altre straniere, trecento almeno: greche, jugoslave, altre dall’Alsazia. Le celle erano per una persona ma le dividevamo in tre. C’erano anche altre italiane. E c’erano anche alcuni soldati americani, forse paracadutisti. Non so come erano finiti lì. Quando passavamo, la guardia copriva con il suo corpo la grata per non farci parlare. La domenica non si lavorava e rimanevamo chiuse dentro con un pasto solo. Dopo un po’ di mesi ci fu data la possibilità di avere un libro […] lavoravamo ad un piccolo tavolino che la sera dovevano ripiegare e mettevamo fibbie alle ghette. Allora non c’erano stivali contro la neve. Il vitto era quello dei lager, veramente schifoso. Ma almeno lavoravamo al riparo di quattro mura e questo ci aiutò a preservare il nostro fisico.

Vera ed Enrica, saranno liberate dalle truppe statunitensi da Aichach il 29 aprile 1945, lo stesso giorno della liberazione di Dachau. Ricorderà Vera di quel momento:

Facemmo una festa con i fiori di lilla. Ogni prigioniera parlava nella sua lingua, senza magari capirci granché se non il francese che sapevamo. Poi abbiamo cantato l’Internazionale, l’unico canto che tutti conoscevamo…

Vera Michelin Salomon durante l’intervista per il Treno della Memoria 2015

Rientrata in Italia, nel dopoguerra Vera ha lavorato come bibliotecaria e ha trasmesso a chi le è stato vicino il grande amore per la lettura. E’ stata una donna sempre lucida fino ad età avanzata, di esempio a molti nel trasmettere la memoria storica con rigore scevro da ogni retorica. Questo il suo insegnamento e il suo lascito per le generazioni future:

Ora è importante che la memoria diventi coscienza. Le testimonianze dirette stanno finendo, ma ci sono molti libri. Che vanno letti e conosciuti. Coscienza vuol dire sapere, conoscere e indagare, coscienza vuol dire andare indietro nel tempo e soprattutto vedere le ragioni di quello che accade.

[1] Estratto dalla video intervista di Walter Fortini a Vera Michelin Salomon rilasciata in occasione del Treno della Memoria 2015. Da qui si traggono anche le successive citazioni. (https://www.toscana-notizie.it/-/vera-dopo-la-liberazione-cantammo-tutti-insieme-l-internazionale-?redirect=http%3A%2F%2Fwww.toscana-notizie.it%2Fspeciali%2Ftreno-della-memoria-2015%3Fp_p_id%3D101_INSTANCE_wfEhCnYinG94%26p_p_lifecycle%3D0%26p_p_state%3Dnormal%26p_p_mode%3Dview%26p_p_col_id%3D_118_INSTANCE_hB6kjIrDte54__column-2%26p_p_col_pos%3D4%26p_p_col_count%3D7)