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Adolfo Zerboglio e la Prima guerra mondiale*

«L’on. Adolfo Zerboglio si dichiara interventista»: così il 26 marzo 1915 apriva in prima pagina «Il Popolo d’Italia» diretto da Benito Mussolini, che ancora si dichiarava «quotidiano socialista». Venivano poi riportate le parole dell’onorevole:

Il mio interventismo non è motivato da ragioni peregrine da me scoperte: io sono interventista in forza di motivi, che pesano sulla coscienza di coloro che ritengono la guerra necessaria, per una seconda pace ulteriore, per il raggiungimento dei fini nazionali e per la necessità che l’Italia non perda ogni influenza e ogni simpatia, nell’avvenire, per la libertà[1].

Zerboglio criticava le posizioni neutraliste del Partito socialista, considerate «negazione di ogni aspirazione ideale, visione miope dell’oggi, senza orizzonti un po’ remoti» e concludeva affermando che «la guerra mi sembra però destinata a creare i mezzi e l’ambiente per mutazioni profonde dei rapporti economici, politici quali finora non ci ha dato il socialismo»[2], considerazione che evidenziava il distacco dell’esponente politico dal mondo socialista, maturato sin dalla crisi della Guerra italo-turca.
Una postilla redazionale ricordava infine le differenze di posizioni tra Zerboglio e la corrente rivoluzionaria che faceva capo al giornale. Si riconosceva che la presa di posizione «fra i più autorevoli e geniali rappresentanti del pensiero socialista in Italia», tra i «migliori» a entrare nel movimento interventista, non era in contraddizione con le «teorie socialiste» nel «sostenere la necessità che l’Italia intervenga nel conflitto europeo»[ 3].

Zerboglio_Adolfo_deputato

Adolfo Zerboglio, nato nel 1866, d’origine piemontese ma toscano di adozione, era allora un giurista di fama internazionale: libero docente prima presso l’Università di Pisa, poi per un breve periodo a Roma e infine a Urbino – terminerà la sua carriera all’Università di Macerata -, era rappresentante di quel socialismo giuridico che ebbe tanta fortuna tra la fine dell’Ottocento e l’età giolittiana. Autore di numerosi volumi è promotore insieme a Alfredo Pozzolini e Eugenio Florian dei periodici, la «Rivista di diritto penale e sociologia criminale» e la «Rivista di diritto e procedura penale»[4]. Eletto deputato al Parlamento nel collegio di Alessandria per la prima volta nel 1904, collaboratore de la «Critica sociale» e di molti altri periodici socialisti nonché di molti quotidiani nazionali d’informazione, era uno dei riformisti più in vista del gruppo di Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, amico personale di Cesare Battisti di cui condivideva in pieno gli ideali irredentisti[5].
Il 15 maggio 1915, pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, a Pisa un gruppo di studenti e professori universitari dopo aver votato un ordine del giorno contro il «traditore Giolitti» tentò d’inscenare un corteo diretto verso la prefettura; furono fermati e dispersi da una moltitudine di proletari e militanti socialisti e anarchici. La città in quei giorni viveva in stato d’assedio, con pattuglie di carabinieri e militari a presidiare i punti nevralgici e i palazzi del potere. Nonostante il divieto di una manifestazione antinterventista e antimilitarista convocata per il 19 maggio e impedita dall’intervento delle forze dell’ordine[6], le iniziative dei neutralisti si moltiplicavano in tutta la provincia, con comizi e cortei spontanei a rimarcare la netta separazione tra il mondo popolare e proletario e le élites «guerrafondaie» arroccate tra i docenti e studenti dell’università, i ceti commercianti, gli imprenditori della media e alta borghesia e i gruppi di nazional-patriottici. Al fronte interventista portava la propria benedizione anche il Cardinale Pietro Maffi[7], già sostenitore in precedenza della guerra italo-turca del 1911: alle posizioni espresse dal prestigioso prelato si adeguò l’intero mondo dell’associazionismo cattolico[8].
Come è stato rilevato dalla ricerca storica, profonda fu la frattura tra la «città patriottica» e la «città proletaria» e nella prima, grazie al prezioso intervento extra istituzionale dell’Università, si andava coagulando «un nuovo blocco politico-sociale», che sulla scelta bellicista auspicava una rinnovata forza politica d’ordine[9]. Zerboglio non fu il solo socialista riformista seguace di Bissolati in Toscana a scegliere decisamente di aderire al fronte interventista: anche altri “storici militanti” si schierarono per la guerra, come ad esempio il volterrano Arnaldo Dello Sbarba, il fiorentino Carlo Catanzaro[10], il senese Vittorio Meoni[11], il lucchese Quirino Nofri[12] e il pistoiese Pompeo Ciotti, allora segretario nazionale del Partito socialista riformista italiano[13]. Erano militanti della “vecchia guardia”, che avevano contribuito in maniera sostanziale alla genesi e alla storia del PSI in Toscana.
Lo spostamento in blocco di gruppi di intellettuali e militanti politici di lungo corso verso l’interventismo era un fenomeno sostanzialmente nuovo dal punto di vista politico, che però aveva radici lontane ben impiantate in alcuni settori del mondo culturale italiano. Questi gruppi svolsero un compito specifico, quello di “popolarizzare” la guerra, darle una forma ideale che poi si radicherà nell’immaginario collettivo dei decenni successivi[14].
Zerboglio, dunque, in questa scelta non era isolato: l’Università di Pisa, come ricordato, fin dall’inizio fu in gran parte schierata per l’intervento. Il rettore dell’Università, David Supino, già ai primi di maggio del 1915 aveva inviato al presidente del Consiglio Antonio Salandra una lettera di piena adesione alle scelte del governo[15]. Il coinvolgimento dell’Ateneo nella mobilitazione e partecipazione al conflitto fu impressionante: 37 furono i docenti e 68 gli aiuti e assistenti richiamati al fronte, 34 gli amministrativi, tecnici e inservienti, ma il grosso degli arruolati era composto dagli studenti, su 1.501 iscritti sono 1.484 coloro che vennero battezzati dal fuoco delle battaglie[16].
Come ricordò Ivanoe Bonomi, uno dei leader del socialismo riformista di destra, nonché volontario nel primo anno di guerra e che verrà dal primo ministro Boselli nel giugno del 1916 incaricato della gestione del ministero dei lavori pubblici, «i cinque anni di conflagrazione mondiale sono stati il periodo di educazione e di coltura della nuova gioventù italiana, e le lezioni della nostra guerra sono stati il solo libro della loro vita»[17]. Nell’aprile del 1917 anche il secondogenito di Zerboglio, Vincenzo comunemente chiamato Enzo, giovane studente universitario della facoltà di giurisprudenza poco più che diciottenne, partiva volontario[18].
Fu poi nei mesi successivi alla rotta di Caporetto, nell’autunno 1917, che Zerboglio maturò con ogni probabilità il suo definitivo distacco dall’area socialriformista, come testimonia una sua intervista rilasciata al «Nuovo giornale» nel dicembre del 1917. Il quotidiano aveva lanciato in quelle settimane un’inchiesta sulla situazione elettorale e politica, considerato che le ultime elezioni si erano tenute nel 1913. Era stato inviato un breve questionario ai deputati toscani per avere notizie sulla situazione del loro collegio, dei programmi dei loro partiti e sulle loro idee circa la Guerra di Libia, il Trattato di Losanna e la situazione internazionale.
Il giurista piemontese apriva la sua breve lettera dichiarando di non essere candidato di «nullo collegio», di aver abbandonato il partito socialista e non aver aderito a quello riformista, e, ormai di essere lontano dalla «politica militante». Si domandava poi con amarezza:

chi voterebbe per un originale, che crede antidemocratica una gran parte della odierna democrazia, in sé e nei suoi propositi? Che è tanto anticlericale da esserlo anche in confronto dei clericali… Rossi? Che odia la tirannide borghese, ma non ama la tirannide proletaria? Che mentre ha i suoi riveriti dubbi, così sulla utilità sociale come sulla efficienza sostanzialmente rivoluzionaria, di buon numero di moti operai, cari agli agitatori di professione, ritiene che sarebbe davvero benefica per tutti, e per la classe lavoratrice in specie, una lotta assidua contro i parassiti che si annidano nello stato ed intorno allo stato? Che considera primo obbligo di un deputato, sia quello di rifiutarsi al servizio di pressioni, di raccomandazioni presso il governo, che vincolando la sua libertà, moltiplica le ingiustizie, ed aumenta impiegati, funzionari ecc. a carico della collettività? Che …: ma questo sarebbe il programma per collegio che non esiste e che non nominerà mai a proprio rappresentante il di Lei dev.mo Adolfo Zerboglio[19].

Non ci fu in quei mesi iniziativa o dibattito a Pisa che non vedesse la partecipazione di Zerboglio, come durante la campagna lanciata dal governo per il prestito nazionale per finanziare le già esauste casse statali e sostenere lo sforzo bellico. Il docente, insieme ad altri colleghi, fece sentire la propria voce a sostegno delle scelte governative definendo il prestito un «buon affare» e la sua sottoscrizione una «buona azione patriottica» per garantire la «vittoria» e una «pace giusta»[20]. Questo ruolo, di attivista del fronte interno, propagandista e organizzatore portò il docente piemontese in tante località nel difendere la scelta interventista e nel sostenere lo sforzo bellico, anche con numerosi articoli su quotidiani e periodici. Più volte si recò al fronte portando aiuti alle truppe, soprattutto quando si trattava di ricordare e sostenere i propri studenti, vera avanguardia mobilitata in difesa della patria.
Con la fine della guerra e l’annuncio della vittoria, Adolfo Zerboglio, in qualità di presidente del Comitato di Resistenza, inviò un telegramma di congratulazioni al generale Diaz:

A Voi degnissimo duce di impareggiabili soldati, per la fede nei destini della Patria che serbammo incrollabile, in questi giorni di continuate, grandi, giuste vittorie, inviamo il più fervido omaggio di un’ammirazione infinita e di una gratitudine eterna[21].

Il 3 novembre 1918, in una Pisa imbandierata e festante, partecipò all’imponente manifestazione di giubilo per la vittoria indetta dalle associazioni combattentistiche che attraversò la città in un tripudio di folla e al suono della marcia reale, applaudendo la regina e il principe ereditario affacciatisi nel frattempo dal balcone del Palazzo Reale. Zerboglio, acclamato più volte, prese la parola, ogni intervento della manifestazione terminava con un corale «viva la Patria, viva il Re, viva l’esercito italiano», tanto che il «Messaggero toscano» scriveva di «deliranti dimostrazioni di Pisa per la vittoria e l’armistizio»[22].
Qualche giorno dopo, per Zerboglio e la sua famiglia l’entusiasmo per la vittoria venne funestato dalla notizia della morte dell’amato figlio Enzo. Il docente Italo Giglioli, nel commemorare il figlio dell’amico, sottotenente del Battaglione degli alpini «Aosta», caduto «eroicamente» il 26 ottobre 1918 sul Monte Solarolo, scriveva del legame ideale tra la sua morte a quella dei patrioti risorgimentali: egli era «l’ultimo della lunga serie (oltre un centinaio) degli studenti dell’Università di Pisa morti in questa guerra; la quale segna l’ultimo trionfo lontano dei combattenti di Curtatone e Montanara».
E parlando del padre e del figlio entrambi definiti «combattenti» rammentava che l’uno, vecchio lottatore per la giustizia sociale; ma non mai dimentico della patria e di quei principii di elevamento sociale, i quali nella solidarietà di patria e di razza, come nella santità e negli affetti della famiglia, hanno non crollabile fondamento. L’altro, giovane combattente dell’ora, puro volenteroso olocausto nella guerra immane per la libertà e il progresso sociale di Europa.
«Non vi parlo dalla casa di un morto, ma da quella di un vivo: di uno che mai fu tanto vivo come oggi» – diceva Adolfo Zerboglio nell’ultimo discorso di questi giorni al popolo pisano, adunato, nell’entusiasmo del trionfo nazionale, innanzi alla casa dove spirò Giuseppe Mazzini. L’oratore non sapeva che in quell’ora stessa, la parte più cara della propria vita, delle speranze, dei suoi più intimi affetti, non viveva più quaggiù, ma giaceva spento presso il Grappa glorioso[23].

La morte del figlio fu una cesura irreversibile per il giurista piemontese. Da questo momento in poi Zerboglio farà del ricordo del figlio[24] e dei valori della patria, rappresentati dalla guerra vittoriosa contro l’Austria, la bussola che orienterà ogni sua successiva azione politica[25]. Il figlio verrà insignito l’anno successivo della medaglia d’oro, sarà lo stesso Re in persona, in Piazza d’armi a Pisa, a consegnare al padre l’onorificenza[26].
Alcuni anni più tardi Zerboglio dedicherà al figlio un commosso ricordo, accostando il suo nome a quello di Enrico Toti, un altro «valoroso combattente» della Grande guerra . Verso la memoria del figlio, il docente piemontese avrà sempre una devozione inconsolabile che lo accompagnerà fino alla morte. Ogni anno, durante i giorni dell’anniversario della scomparsa, egli tornerà con la famiglia nei luoghi del Carso e sulla tomba del figlio nel cimitero di Crespano del Grappa, in una specie di rito laico familiare, un ritiro spirituale nel quale mantenere ad perpètuam rèi memòriam la figura del giovane Enzo.

* Questo articolo fa parte di un più ampio lavoro di ricostruzione della biografia intellettuale di Adolfo Zerboglio avviato dal alcuni anni dalla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. L’on. Adolfo Zerboglio si dichiara interventista, «Il Popolo d’Italia», 26 marzo 1915.
  2. Ivi.
  3. Ivi.
  4. Cfr. Sul socialismo giuridico si v. M. Sbriccoli, Elementi per una bibliografia del socialismo giuridico italiano, Milano, Giuffrè, 1976. All’interno del saggio, alle pagine 137-144, vi è una prima essenziale bibliografia delle opere di Adolfo Zerboglio edite tra il 1889 e il 1914.
  5. Si v. in proposito A. Zerboglio, Martirio di Cesare Battisti. Patriotta socialista. Commemorazione tenuta il 16 gennaio 1917 al Conservatorio G. Verdi di Milano per iniziativa del Circolo Trentino di Milano, Milano, Sede dell’Unione Generale degli Insegnanti italiani Comitato Lombardo, 1917.
  6. L’agitazione dei neutralisti pisani. Numerosi arresti, «Il Messaggero Toscano», 20 maggio 1915.
  7. Cfr. P. Maffi, Fede e patria. Discorsi patriottici per una più grande Italia, Pisa, Libreria Ecclesiastica, 1915. Inoltre, G. Cavagnin, La diocesi e il cardinale Maffi di fronte alla guerra, in I segni della guerra. Pisa 1915-1918. Città e territorio nel primo conflitto mondiale, a cura di A. Gibelli, G.L. Fruci, C. Stiaccini, Pisa, ETS, 2016, pp. 40-45.
  8. Il dovere dei giovani cattolici nel supremo cimento della Patria, «L’Eco del Popolo», Pisa, 23 maggio 1915.
  9. Sul dibattito e lo scontro tra neutralisti e interventisti a Pisa e provincia si v. C. Di Scalzo, Il dibattito in margine alla grande guerra a Pisa nei mesi della neutralità italiana, Tesi di laurea, Università di Pisa, a.a. 1978-79, relatore L. Gestri. Cfr. inoltre. G.L. Fruci, Pisa, in Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, a cura di F. Cammarano, Firenze, Le Monnier, 2015, pp. 433-445. Id., La strana disfatta dell’interventismo pisano, in I segni della guerra. Pisa 1915-1918, cit., pp. 32-39. Cfr., anche. P. Nello, A chi la città? Pro e contro la guerra nella città “proletaria”, in La Toscana in guerra. Dalla neutralità alla vittoria, 1915-1918, a cura di S. Rogari, Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2019, pp. 125-135.
  10. Cfr. F. Taddei, Catanzaro Carlo, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1975, t. 1, p. 538.
  11. Cfr. T. Detti, Meoni Vittorio, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1977, t. 3, cit., pp. 427-428.
  12. Cfr. L. Guerrini, Nofri Quirino, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1977, t. 3, pp. 692-695.
  13. Cfr. M. Figurelli, Ciotti Pompeo, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1976, t. 2, pp. 45-47. Ciotti muore l’11 ottobre 1915, nell’agosto è stato sostituito nell’incarico di segretario generale da Mario Silvestri.
  14. Cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, v. 4, Dall’Unità a oggi, t. 2, p. 1313. Si v. anche Gli intellettuali e la Grande guerra, a cura di M. Mori, Bologna, Il mulino, 2020.
  15. Archivio storico dell’Università di Pisa, Lettera del Rettore D. Supino al presidente del Consiglio A. Salandra, Pisa, maggio 1915.
  16. Archivio storico dell’Università di Pisa, Fascicoli vari riguardanti le chiamate alle armi dei docenti e studenti per gli anni 1915-1918. Si v. anche Nella vigilia del cimento, «Il Ponte di Pisa», 23 maggio 1915.
  17. Cfr. I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Roma, A.F. Formíggini, 1924, p. 124.
  18. Cfr. P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto, in Archivio Biblioteca F. Serantini, p. 27.
  19. Nostra inchiesta sulla situazione elettorale e politica. Il pensiero dei parlamentari toscani, «Il Nuovo giornale», 19 dicembre 1917.
  20. La concordia di Pisa per il Prestito Nazionale, «Il Ponte di Pisa», 2-3 febbraio 1918. Già l’anno precedente Zerboglio aveva partecipato alla raccolta dell’oro per le casse esauste del governo con la donazione delle sue due medaglie di deputato ottenute per la XXI e XXIII legislatura. Cfr. Offrite l’oro alla Patria, «Il Messaggero Toscano», 30 marzo 1917.
  21. Cfr. Omaggi al generale Diaz e all’esercito, «Il Messaggero toscano, 3 novembre 1918, 2. ed., p. 3.
  22. Cfr. Le deliranti dimostrazioni di Pisa per la vittoria e l’armistizio, «Il Messaggero toscano, 4 novembre 1918, p. 2. V. anche Le imponenti dimostrazioni di ieri. I reali nuovamente acclamati dal popolo, «Il Messaggero toscano, 5 novembre 1918, p. 2.
  23. I. Giglioli, Un eroe: Enzo Zerboglio, «Il Fronte interno», 11-12 novembre 1918, p. 2.
  24. La notizia della morte del figlio di Zerboglio, il 105° tra gli studenti universitari di Pisa, viene comunicata ai pisani anche dal periodico «Il Ponte di Pisa» con una breve nota nel numero del 10 novembre 1918. Altri ricordi del giovane sottotenente si possono leggere nel numero successivo, quello del 16 novembre, del periodico pisano (Cfr. A. di Vestea, Enzo Zerboglio, e M. Razzi, In memoria di Enzo Zerboglio).
  25. Il giurista firmerà il principale articolo della prima pagine de «Il Ponte di Pisa» in occasione dell’annuncio della vittoria. Cfr. A. Zerboglio, La vittoria, «Il Ponte di Pisa», 10 novembre 1918.
  26. Cfr. P. Zerboglio, [Memorie familiari], cit., p. 30. Si v. anche Per non dimenticare, «Il Giornale della donna», 20 novembre 1920.
  27. Cfr. A. Zerboglio [a cura di], Medaglie d’oro: Enzo Zerboglio, Enrico Toti, Milano, Imperia, 1923.



Armando Turinelli

Il 31 luglio del 1922, l’Alleanza per il Lavoro (una coalizione tra CGdL, USI, UIL[1], FILM)[2] proclamò lo “sciopero legalitario” contro i soprusi e le violenze dei fascisti, finanziati dagli agrari e dagli industriali (con la complicità della Chiesa e della monarchia) per contrastare “il pericolo rosso”. «La Parola dei Socialisti» del 11 giugno 1922 aveva già accusato la borghesia di avere “allevata in seno una serpe” e di non essere più in grado di gestire quel movimento che aveva incoraggiato, credendo di poterlo manovrare a suo vantaggio.[3] Anche a Livorno, come nelle altre città, le squadracce delle camice nere, si muovevano (indisturbate) per la città in cerca di cittadini da malmenare e conti da regolare[4]. Con la proclamazione dello sciopero, partì la mobilitazione fascista: centinaia di squadristi da tutta la Toscana si ritrovarono a Livorno nella sede di via Goldoni per stroncare la “città rossa”. I fascisti devastarono la Camera del Lavoro, i circoli socialisti, le sedi delle organizzazioni “sovversive”. Alcune sparatorie ci furono in via Garibaldi, in piazza Carlo Alberto (attuale piazza della Repubblica), in via della Pina d’Oro. Scontri a fuoco tra comunisti e fascisti anche in via dell’Oriolino. In via Solferino, quasi all’imboccatura di piazza XI maggio ed al quadrivio di via della Campana, furono feriti con colpi di rivoltella due fascisti. Altri scontri in via Santa Fortunata, dove un facchino che strappava i manifesti fascisti, dopo una colluttazione con un cittadino, fu aggredito da alcuni fascisti che attaccavano in zona i manifesti; ancora ad Ardenza Terra, in via ed in piazza Vittorio Emanuele (attuali via e piazza Grande), in zona Ponte Arcione[5] (Pontarcione, tra via Provinciale Pisana ed il ponte sull’Ugione), dove perse la vita Filippo Filippetti. Furono aggrediti anche rappresentanti del Consiglio e della Giunta comunale. Vennero uccisi l’assessore Luigi Gemignani e il consigliere Pietro Gigli, insieme al fratello Pilade.

Il 3 agosto, un migliaio di camice nere circondarono il palazzo comunale. Costanzo Ciano e il marchese Perrone Compagni minacciarono il sindaco Mondolfi che, costretto dalla violenza, rassegnò le dimissioni. Il Comune andò in mano ai fascisti ma in città continuano per le vie non gli scontri. Vengono devastate le sedi del Partito Socialista e quella del Partito Comunista (via Santa Fortunata). Scontri avvengono anche in via Tranquilli, sul Voltone, in via Palestro, in via San Luigi e in via Cairoli. Nel pomeriggio del 4 agosto le squadracce fasciste organizzano delle retate e tra gli arrestati, insieme al vicesindaco di Livorno Adolfo Minghi, c’è anche Armando Turinelli[6].
Con la vittoria del fascismo, insieme alle Camere del Lavoro, alle Case del popolo, alle sedi di partiti e di cooperative, vengono costrette a chiudere anche le sedi delle associazioni anticlericali compreso il Gruppo antireligioso “Pietro Gori”.
Nel 1922, a causa dell’attività politica, Turinelli viene licenziato. Non troverà più un’occupazione fissa ed inizia un periodo difficile per tutta la famiglia. Affittato un magazzino in via Provinciale Pisana[7], riprende a svolgere il vecchio mestiere di impagliatore di damigiane e fiaschi di vino.
La casa del Turinelli diventa luogo di incontro di sovversivi

di giorno vengono gli amici del babbo vestiti con i panni da lavoro, hanno sempre fretta e parlano a voce così bassa che non è facile capirli; arrivano e partono senza salutare, senza prendere mai né un bicchiere d’acqua né una tazza di cicoria.[8]

Durante il regime, Armando sarà vittima di aggressioni fisiche e di azioni punitive con irruzioni nella notte nella propria abitazione alla ricerca di materiale sovversivo. Talvolta viene prelevato con la forza e portato nei locali della Fortezza Vecchia dove viene percosso. Nonostante i soprusi, Turinelli rimane fedele ai suoi ideali: “Volete che mi vesta da fascista? Io mi vesto però l’abito è vostro ma dentro sono mio”[9]. Alle elezioni politiche, per le quali era prevista la sola possibilità di approvare o respingere un’unica lista di deputati sostenitori del fascismo Armando si presenta al seggio con la sciarpa rossa e vota no “e siccome il voto non è affatto segreto, torna a casa pesto e sanguinante”[10].
Racconta poi la figlia Lenina che ogni volta che c’è una parata o che a Livorno arrivano personaggi importanti del Regime, il padre viene prelevato e portato in caserma[11]. Una volta all’uscita trova un manipolo di fascisti intenti a purgare i dissidenti con il famigerato olio di ricino. Turinelli rientra al Commissariato e al questurino incredulo che gli chiede il perché del suo ritorno risponde seccamente: io alla purga preferisco la galera.[12]

Nel periodo della guerra, i Turinelli trovarono riparo presso una casa a “Campo al Melo” (una frazione di Livorno nell’entroterra dopo Cisternino) e si guadagnano da vivere vendendo in città il raccolto della campagna. Durante il giro in città, Armando si allontanava dai familiari per incontrarsi clandestinamente con gli antifascisti livornesi.

Finita la guerra e sconfitto il fascismo, riprendono le attività pubbliche e dall’agosto 1945, ricompare il Gruppo Antireligioso Pietro Gori. Il 21 marzo 1946, esce il primo numero de «Il Corvo», giornale anticlericale edito dallo stesso gruppo. Turinelli è confermato Presidente del Gruppo (lo sarà fino alla scomparsa[13]) e scrive articoli per il giornale.

Armando Turinelli muore il 23 gennaio 1951, il giorno dopo la scomparsa di Ilio Barontini (morto nella mattina del 22 gennaio in seguito ad un incidente stradale insieme ai compagni di partito Frangioni e Leonardi[14]), al quale era stato al fianco fin dal 1921. Al suo funerale saranno presenti i soci del Gruppo anticlericale ed un migliaio di amici e compagni con numerosi vessilli rossi[15].
Turinelli è stato tra i fondatori del PCd’I e negli anni venti, Segretario provinciale della Fiom CGdL di Livorno[16].

NOTE

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_Italiana_del_Lavoro_(1918-1925) – (Da non confondere con il sindacato omonimo fondato nel 1950 ed esistente tutt’oggi).
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Alleanza_del_Lavoro.
  3. http://www.comune.livorno.it/_cn_online/index02b2.html?page=default&id=554&lang=it.
  4. Paola Ceccotti, Il Fascismo a Livorno – dalla nascita alla prima amministrazione podestarile, Empoli, Ibiskos Editrice, 2006, p. 101.
  5. Da «Il Telegrafo» del 3 agosto 1922 (i giorni precedenti il 3 agosto, il giornale non esce in edicola per l’adesione allo sciopero indetto dall’Alleanza del Lavoro).
  6. Memorie dell’Antifascismo Livornese, (a cura dell’ANPPIA di Livorno), Pisa, Industrie Grafiche d Pacini, 2000, pp. 14, 20.
  7. Marco Susini, “MILITANTI” Personaggi e Storie della sinistra livornese, Pontedera, Bandecchi &Vivaldi, 2002, p. 105.
  8. Rosalba Risaliti “Le cinque domande di Cesarina”, https://anppia.it/l-antifascista/leggi-anche-tu/ .
  9. https://www.facebook.com/anppiantifascista/photos/a.1443457072608570/2745214389099492/?type=3
    Racconto del figlio Spartaco.
  10. M. Susini “MILITANTI”… cit. 105.
  11. Ibidem.
  12. Ibidem p. 106.
  13. «Il Corvo» (anno VI n.15) 1 maggio 1951 p.4.
  14. https://archivio.unita.news/assets/main/1951/01/23/page_001.pdf.
  15. «Il Corvo» (anno VI n.15) 1 maggio 1951 p.4.
  16. https://necrologie.repubblica.it/necrologi/2004/439054-turinelli-armando?nome=turinelli+armando.



Armando Turinelli

Questo ritratto che proponiamo di un militante antifascista si colloca nella cornice della tradizione anarco-comunista di Livorno ma soprattutto in quella dell’anticlericalismo labronico. Non si tratta di un personaggio di primissimo piano ma può essere utile a rappresentare attraverso un percorso biografico sintetico, una vicenda molto più estesa e significativa.
Di origine lombarda (Milano), Armando nasce a Noceto in provincia di Parma il 16 aprile 1886. La famiglia è parte di una compagnia teatrale.
In cerca di un lavoro più redditizio, Armando abbandona l’attività teatrale e si stabilisce a Livorno, nota città anticlericale e sovversiva. Troverà occupazione presso una ditta che riveste le damigiane per il vino.
Fin dai primi anni si impegna in attività politiche e sindacali. Contrario al dogma religioso ed al potere della Chiesa, la sera del 4 agosto del 1910[1] Turinelli promuove, insieme ad un gruppo di Compagni del quartiere Stazione (Vannucci, Andreucci, Cerrai, Ficini, Giovannetti, Serri, Tucci, Falleni, Pampana, Filippetti), in antitesi alla costruzione di una nuova chiesa, la costituzione di un’associazione antireligiosa chiamata “Gruppo Antireligioso di viale Carducci” (successivamente assumerà il nome di Gruppo Antireligioso Pietro Gori[2]) del quale sarà Presidente.
Nel primo ventennio del ‘900, Turinelli scrive articoli per quotidiani politici tra i quali l’«Avanti!»[3] e ricopre ruoli di responsabilità in diversi giornali. Diviene gerente de «La Parola dei Socialisti»[4], settimanale socialista fondato da Giuseppe Emanuele Modigliani (diventato poi voce delle correnti rivoluzionarie). Nel 1913 è gerente responsabile de «Il Razionalista» – giornale quindicinale di battaglia razionalista e anticlericale fondato a Livorno[5]. Nel 1915 è gerente responsabile de «Il Fascio socialista» (organo della Federazione socialista Livorno-Elba e dei collegi di Volterra e Lari)[6].

Nel 1914 entra nel Comitato Federale del PSI[7]. Si dedica poi a studiare le opere di Lenin.
Nelle pause di lavoro, com’era tradizione dei livornesi del periodo, pranzava presso la Antica Fiaschetteria Civili (oggi conosciutissimo Bar Civili) dove conosce e poi sposa Gina, la nipote del proprietario del locale. (La coppia avrà sette figli: Comunardo, Spartaco, Lenina[8], Oreste, Eleonora, Cesarina, Glauco).
Negli anni a seguire, troverà occupazione come operaio presso la Società Metallurgica Italiana (SMI)ed entrerà a far parte della Commissione Interna.
Su posizioni massimaliste, Turinelli sosterrà l’adesione delle Organizzazioni Sindacali alla III Internazionale[9].
Con l’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto mondiale, la situazione economica si aggrava. La linea politica della Camera del Lavoro di Livorno (CdL) era tendenzialmente quella moderata indicata dai socialisti riformisti e dai repubblicani. La FIOM invece sosteneva la necessità di una mobilitazione più radicale. Quando ci furono le prime agitazioni degli operai alla SMI, Turinelli (uno degli organizzatori della lega aderente alla FIOM) sottolineava il fatto che, anche se era difficile, occorreva tentare una mobilitazione ed era sbagliato negare pregiudizialmente ogni appoggio all’agitazione…[10] Nonostante le divergenze, la CdL e la FIOM concordarono sulla linea da seguire. Alla fine la CdL dette un parziale contributo alla risoluzione della vertenza sostenendo la lotta dei metallurgici e Turinelli acquistò e distribuì 600 copie del giornale della Confederazione tra gli operai della SMI. Per la FIOM fu un grande successo: gli operai approvarono l’operato degli organizzatori sindacali con “un voto di plauso” e circa 1.000 nuove adesioni. Gli operai iscritti alla FIOM, restarono comunque lontani dalla CdL, visto che all’interno prevaleva una linea moderata, considerata avversa[11].
Nel secondo semestre del 1919 ci furono le elezioni per il rinnovo degli organi dirigenti della CdL. Nonostante l’attacco dei repubblicani e l’intervento del deputato socialista Modigliani che suggeriva una politica più riformista, i risultati (grazie anche all’euforia per la rivoluzione in Russia) videro vincitrice la linea massimalista che aprì le porte della Segreteria a Zaverio Dalberto. Tra gli 11 eletti è presente anche Armando Turinelli[12].

Il 1 febbraio 1920 la Federazione Anarchica Livornese e la Federazione Giovanile Socialista organizzano un comizio unitario al Teatro San Marco alla presenza di Errico Malatesta, una delle più importati figure del movimento anarchico. Aderirono diverse realtà del mondo sovversivo provenienti da Pisa e Livorno: socialisti, anarchici, repubblicani, sindacalisti. Turinelli rappresenta la Camera del Lavoro di Livorno[13].
Il 5 novembre 1920, Turinelli (facente parte del Comitato di Agitazione) presiede un’assemblea per discutere la proclamazione di uno sciopero generale in seguito agli annunci degli industriali metalmeccanici livornesi di voler ridurre i salari[14].
Con la partenza di Dalberto nell’agosto del 1920, diviene Segretario Ugo Sereni, socialista riformista. In seguito ai primi licenziamenti tra il 1920 e il 1921, all’interno del movimento operaio si concretizzano due posizioni: quella guidata dal segretario della CdL confederale e quella anarco-comunista della Camera sindacale del Lavoro dell’USI (Unione Sindacale Italiana) appoggiata dall’ala comunista della CGdL (Confederazione Generale del Lavoro) nel frattempo ufficializzata con la scissione al Congresso del PSI di Livorno del 21 gennaio.
Il 15 febbraio del 1921, presso la CdL sindacale il comunista Turinelli presentò un ordine del giorno per lo sciopero generale cittadino di protesta contro i licenziamenti, da effettuarsi anche se la dirigenza della CdL (confederale) non fosse stata d’accordo. Il giorno successivo, alla adunanza del Consiglio delle Leghe alla CdL confederale, i comunisti e i sindacalisti intervennero in massa, e praticamente imposero lo sciopero[15]. Fu un successo, non solo per la massiccia adesione ma anche perché i fascisti (nonostante i rinforzi giunti da fuori Livorno) non riuscirono a contrastarlo.

NOTE:

  1. Molto probabilmente nella bottega di via del Vigna angolo viale Carducci.
  2. «Il Corvo» (anno I n.4) 31 agosto 1946 p.1.
  3. Testimonianza della figlia Lenina.
  4. http://www.fondazionemodigliani.it/node/31243.
  5. http://www.fondazionemodigliani.it/node/31675.
  6. https://www.fondazionemodigliani.it/node/31244
  7. Nicola Badaloni, Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno, 1900-1926, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 113.
  8. Comunardo, Spartaco, Lenina, saranno poi ribattezzati dal regime con nomi più graditi: Bruno, Luigi, Arnalda, tutti nomi di parenti di Benito Mussolini – vedi anche: Rosalba Risaliti “Le cinque domande di Cesarina”, https://anppia.it/l-antifascista/leggi-anche-tu/.
  9. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e …. cit., p. 113.Luigi Tomassini, Le voci del Lavoro. 90 anni di organizzazione e di lotta della Camera del Lavoro di Livorno, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990, (a cura di Ivan Tognarini e Angelo Varni), p. 197.
  10. Ibidem p. 198.
  11. Ibidem p. 226.
  12. Tobias Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno. Lotta politica e sociale (1918-1922), Milano, Franco Angeli editore, 1991, p. 60.
  13. Ibidem p. 194.
  14. L. Tomassini, Le voci del Lavoro. 90 anni di organizzazione…, cit, p. 261.



Giorgio Alberto Chiurco: un intellettuale militante nel regime fascista.

Giorgio Alberto Chiurco (1895-1974) è noto soprattutto come cronista ufficiale della rivoluzione fascista, autore di una delle più celebri opere edite sul tema negli anni del regime mussoliniano. Nato a Rovigno d’Istria ma trasferitosi presto in Toscana per motivi di studio, egli fu uno dei protagonisti della fascistizzazione delle province senese e grossetana. Ma non solo: medico e squadrista della prima ora, poi parlamentare, ufficiale pluridecorato, docente universitario e scienziato razzista, Chiurco fu un attore molto attivo nella vita politica e intellettuale del regime. Finora, il suo percorso biografico era stato soltanto parzialmente esplorato dalla storiografia ma il volume di Borri, esito di un’approfondita ricerca negli archivi nazionali e internazionali, si propone di fornire una ricostruzione complessiva delle vicende politiche e culturali del personaggio, che si intrecciano su più livelli con la storia italiana del Novecento.

Riportiamo di seguito un estratto del volume, dedicato al ruolo svolto da Giorgio Chiurco, come medico e intellettuale fascista, nella creazione di un nuovo prototipo di italiano, il cosiddetto «Uomo Nuovo» fascista inteso come modello di un’umanità superiore, destinata a fare le fortune dell’Italia e del regime.

 

Un intellettuale militante

V’è una cultura della rivoluzione che si esprime attraverso la polemica pubblicistica di uomini come Maccari e Malaparte. Ve ne è un’altra che parla per anatemi e per invettive ma che, andando al sodo, serve unicamente nei momenti di pericolo […]. V’è, infine la cultura della rivoluzione che ha avuto per cronisti Gorgolini e Chiurco, e che ha per storici Volpe ed Ercole. La prima cultura, della polemica pubblicistica, impedisce che le porte della rivoluzione si chiudano […]. La seconda cultura, quella degli oltranzisti, è sempre richiamabile in servizio, al primo segno del temporale. La terza cultura, quella dei cronisti della rivoluzione, rimane l’anima di ogni processo storico da istruirsi a carico di quei nemici che, rimasti nascosti durante il nostro cammino, tentano di uscire allo scoperto per sbarrarci, al momento che sembrerà loro opportuno, la strada.

Era in questi termini che Mussolini descriveva a Yvon De Begnac[1] l’attivismo politico racchiuso nell’opera degli intellettuali fascisti. Chiurco trovava posto nel gotha culturale fascista non tanto per meriti scientifici, ma come cronista del periodo rivoluzionario, a dimostrazione della forte impronta ideologica che ne caratterizzò il lavoro, come pure della pluralità di ambiti su cui tale operato si estese. L’eclettismo dell’istriano può leggersi come riflesso del pluralismo culturale sperimentato dal regime, inteso come sovrapposizione fra correnti e programmi diversi nei campi delle arti e della scienza, destinati però a convergere nella mobilitazione in favore della rivoluzione fascista.[2] La celebrazione totalitaria del primato della politica su ogni espressione della vita delle masse rappresenta probabilmente la sintesi più efficace per spiegare tale pluralità, senza con questo voler ridurre la cultura fascista alla sua sola funzione strumentale.[3]

Mario Isnenghi distingueva tra intellettuali militanti, produttori di senso, e intellettuali funzionari, organizzatori e propagandisti, rinviando alla funzione svolta dagli attori culturali nella società fascista. L’attenzione di Isnenghi non era rivolta alla sola conoscenza alta, ma all’organizzazione culturale latamente intesa, comprendendo quindi insegnanti, giornalisti, oratori i quali, per motivi e in modi diversi, portarono la dottrina fascista tra le masse.[4] Le convergenze e sovrapposizioni riscontrabili tra tali figure e funzioni,[5] lungi dallo sminuirne l’efficacia, riconfermano la pluralità di livelli su cui si mossero gli agenti culturali del fascismo, seppur all’interno della cornice tracciata dal regime. Anche intellettuali intransigenti come Chiurco, contrari a mediazioni che limitassero la forza rinnovatrice fascista, distinsero la propria attività per un doppio crisma culturale e politico, conoscendo convergenze e divergenze rispetto alle correnti dominanti.[6] Non ci sono soltanto opportunismo e spirito conformista nelle proposte del medico istriano, pronto a formulare idee e difendere le proprie posizioni, se ritenute meritevoli, anche quando difformi dagli orientamenti del regime. A rendere Chiurco un intellettuale militante, nel significato più letterale del termine, è la natura totalizzante della sua adesione al regime, che ne fa uno scienziato, medico e autore vissuto nel fascismo e del fascismo, criticandone talvolta decisioni e orientamenti, ma condividendone il progetto complessivo.

La produzione letteraria dell’istriano può essere ricompresa nelle due macrocategorie degli scritti scientifici e delle opere a carattere cronistico-letterario dedicate al fascismo rivoluzionario e ai suoi martiri. Una distinzione – come vedremo – comunque non priva di punti d’incontro, riflesso tanto del ricordato eclettismo dell’autore, quanto del progressivo prevalere del Chiurco politico rispetto allo scienziato. Gli scritti razzisti degli anni Trenta, piegati alle necessità della pseudoscienza di regime, sono in tal senso indicativi della politicizzazione di tutta la produzione letteraria dell’istriano, il quale appartenne alla cosiddetta «industria culturale» tratteggiata da Gabriele Turi, formata dall’insieme degli intellettuali di regime. Al centro di tale produzione, indipendentemente dalle singole aree di interesse, rimasero sempre la costruzione dello Stato nuovo e di una nuova generazione di italiani, i «fascisti integrali» evocati da Mussolini.[7] Il concetto dell’italiano nuovo ricorre tanto negli scritti scientifici, quanto nella produzione cronistico-letteraria del medico istriano, sempre attento a temi quali l’educazione dei giovani, lo sport, l’eugenetica, la salvaguardia della sanità razziale.

Nell’ottica del regime, le nuove generazioni dovevano essere innanzitutto numerose, in salute e fisicamente prestanti, motivo per cui la medicina divenne una pratica «con etichetta nazionalistica e marchio fascista», come scritto da Giorgio Cosmacini.[8] Il regime sottopose la disciplina all’influenza dell’autorità politica, facendo dei medici i “sacerdoti” del progetto mussoliniano di ingegneria sociale, incaricandoli di salvaguardare la salute fisica e morale della popolazione, di «abituare gli italiani al moto, all’aria libera, alla ginnastica ed anche allo sport».[9] Nel 1921, Chiurco vedeva negli squadristi i protagonisti di una nuova era, «gli eletti, gli aristocratici del pensiero e dell’azione predestinati al comando da Dio e dalla patria». Per un corretto sviluppo dei giovani risultava fondamentale la «forza, equilibrio, volontà, disciplina che solo una razionale educazione fisica può dare».[10]

L’evoluzione del concetto di uomo nuovo ricalca nel pensiero di Chiurco la cronologia tracciata da Emilio Gentile, per cui a cavallo tra gli anni Venti e Trenta l’attenzione si concentra sul potenziamento fisico e demografico della popolazione, con l’emergere dell’imperialismo e del razzismo quali fattori di rilievo nel dibattito. Nel Manuale di cultura fascista del 1930, l’autore inseriva le politiche demografiche tra «i principi basilari del Fascismo nei riguardi della tutela fisica e morale della razza», vedendo nella crescita della popolazione «uno dei mezzi più efficaci per la sua valorizzazione ed espansione materiale e spirituale nel mondo».[11] Al numero doveva seguire la qualità, assicurata dallo sviluppo di qualità fisiche e mentali, favorite da politiche volte ad «accrescere la validità, l’energia e la resistenza morale e fisica del giovane», facendone un «cittadino soldato» e un cittadino-produttore.[12] Con la proclamazione dell’impero alla metà degli anni Trenta, alla formazione delle nuove generazioni si aggiunse il problema della loro protezione dal rischio di incroci genetici con le popolazioni indigene, la mescolanza con le quali rappresentava «sia per ragioni sanitarie e biologiche, che per la dignità della razza, un grave pericolo per il popolo italiano colonizzatore». Per questo motivo, diventava «un dovere della nostra dignità imperiale» la «formazione di una coscienza razziale per difendere la razza italica da qualsiasi imbastardimento», ricorrendo a leggi che «impediscono il mescolamento di italiani con indigeni».[13]

Al problema della preservazione si affiancava quello dell’educazione. Per questo motivo, il regime varò dagli anni Venti quello che Luca La Rovere ha definito «il più importante esperimento di pedagogia politica di massa mai tentato nella storia nazionale italiana».[14] L’educazione morale doveva riguardare il senso di disciplina e la fedeltà all’idea, per cui sui fascisti, secondo i postulati di Arnaldo Mussolini, incombeva «il dovere di essere, nella vita nazionale, sempre i primi, vigili contro gli avversari» ma anche pronti «a volgarizzare i postulati», a «tesserli ed a viverli nelle manifestazioni di ogni giorno».[15] Fascismo, aggiungeva Chiurco, significava «soprattutto spirito di abnegazione ed assoluta e cieca disciplina», poiché «il fascista deve essere in prima linea puro e senza macchia».[16] Nei manuali scolastici curati tra il 1930 e il 1934, l’istriano dedicò ampio spazio ai «doveri del cittadino verso la famiglia e verso la patria», sostenendo che ogni buon italiano «sentirà, e praticherà, prima di ogni altro, il dovere dell’ordine e della disciplina», poiché «dall’uno e dall’altra scaturiscono il rispetto delle leggi, il sentimento della gerarchia, l’ossequio all’Autorità».[17]

È infine evidente l’intento educativo della Storia della rivoluzione fascista. Non a caso, Mussolini medesimo, nel proprio Invito alla lettura, incluse tra i principali destinatari dell’opera «i giovani delle più fresche generazioni», che attraverso l’opera «impareranno a venerare i segni del Littorio e a rispettare i veterani che fecero la Guerra e la Rivoluzione».[18] La funzione didattica della Storia fu sottolineata da numerose riviste del tempo, con Carlo Capasso che la definì «una vera scuola per le generazioni nuove»,[19] mentre il periodico del ministero della Pubblica Istruzione, Accademie e Biblioteche d’Italia, inserì i volumi del Chiurco tra le opere che «inizieranno il giovine alla meditazione degli avvenimenti storici».[20] Pure i fuoriusciti antifascisti intuirono l’intento pedagogico di quella che definirono «una storia del fascismo ad uso dei balilla», e pur criticando l’opera e lo stile prolisso dell’autore, riconobbero come il poter disporre di «un’organizzazione di massa, inquadrata da migliaia di cavalier Chiurco» costituisse un punto di forza dell’Italia mussoliniana.[21]

Tramite l’apparato propagandistico fascista, la Storia divenne un testo importante per il progetto di rinnovamento nazionale, una presenza immancabile tra gli scaffali di biblioteche, circoli di lettura, scuole di ogni grado e tipologia, nonché dono per gli studenti che maggiormente si fossero distinti nell’apprendimento, i quali «nell’esempio dei pionieri della rigenerazione della patria» avrebbero trovato «i migliori esemplari per la loro formazione spirituale».[22]

 

[1] F. Perfetti (a cura di), Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 402-3.

[2] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2011, p. 225.

[3] E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2008 (ed. orig. 1995). In generale, R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2000.

[4] M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino 1979.

[5] S. Luzzatto, The Political Culture of Fascist Italy, in Contemporary European History, vol. 8, 2, 1999, p. 322.

[6] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, cit., pp. 86-89, 228-29.

[7] G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 21. Sul tema, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 235-64; P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo. La costruzione di un progetto totalitario, Viella, Roma 2017.

[8] G. Cosmacini, Medici e medicina durante il fascismo, Pantarei, Milano 2019, p. 65. In riferimento al ruolo dei medici nel regime, R. Maiocchi, Scienza e fascismo, Carocci, Roma 2004, pp. 140-54.

[9] Discorso ai medici del novembre 1931, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera Omnia, vol. 25, La Fenice, Firenze 1956, pp. 58-62. Circa la funzione educatrice dello sport, P. Dogliani, Educazione fisica, sport nella costruzione dell’«uomo nuovo», in P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo, cit., pp. 143-55.

[10] Lo squadrista incarnò il mito fascista dell’italiano nuovo, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 245-48. Per le citazioni cfr. L’inchiesta fascista sui fatti di Roccastrada, in L’Era Nuova, 30 luglio 1921; Fascismo ed educazione Fisica, in La Scure, 24 giugno 1922.

[11] G.A. Chiurco, Manuale di cultura fascista, Morano, Napoli 1930, pp. 89-90.

[12] Id., L’educazione fisica nello Stato fascista. Fisiologia e patologia chirurgica dello sport, San Bernardino, Siena 1935, p. 7. Il modello di “cittadino-soldato” è posto al centro della pedagogia totalitaria del regime dalla seconda metà degli anni Venti.

[13] Id., La sanità delle razze nell’Impero italiano, Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Roma 1940, pp. 1049-50.

[14] L. La Rovere, Totalitarian Pedagogy and the Italian Youth, in J. Dagnino, M. Feldman, P. Stocker (a cura di), The “New Man” in Radical Right Ideology and Practice. 1919-1945, Bloomsbury Academic, London 2018, p. 21. La traduzione è mia.

[15] A. Mussolini, Fascismo e civiltà, Hoepli, Milano 1937, pp. 134-35.

[16] G.A. Chiurco, Comandamento del fascista: onestà e disciplina, in Il Popolo Senese, 3 gennaio 1929.

[17] Id., Elementi di cultura fascista, Morano, Napoli 1934, p. 94.

[18] B. Mussolini, Invito alla lettura, in G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, vol. 1, Vallecchi, Firenze 1929, pp. VII-VIII.

[19] C. Capasso, Storia della rivoluzione fascista di G.A. Chiurco, in Bibliografia fascista, 7, 1929, pp. 1-3. Capasso fu docente scolastico, studioso di didattica e professore universitario.

[20] G. Ruberti, Libri per una vita intera, in Accademie e Biblioteche d’Italia, 1, 1929, pp. 50-58.

[21] S. T., Una storia del fascismo ad uso dei balilla, in Lo Stato Operaio, 8, 1929, pp. 706-11.

[22] La citazione è di Ruggero Romano, deputato fascista dal 1924 al 1939, durante una cerimonia ufficiale a Noto, cfr. C. Sgroi (a cura di), R. Liceo-Ginnasio «A. Di Rudinì» di Noto. Annuario Scolastico 1929-1930, Studio Editoriale Moderno, Catania 1931, p. 22.




Il partigiano Beppe e la Resistenza nel Volterrano

La vicenda partigiana di Vinicio Modesti (Beppe) è una storia esemplare per comprendere la Resistenza nella provincia di Pisa. Sono qui presenti, infatti, molti degli elementi fondamentali per cogliere le specificità della lotta di liberazione nel Volterrano, l’area di maggiore attività partigiana a livello provinciale.

L’irrequietezza e l’insofferenza delle generazioni più giovani rappresentano il punto di partenza senza il quale non sarebbe neanche pensabile una partecipazione armata alle attività clandestine antifasciste e antitedesche. Vinicio era nato a Volterra nel 1924: dopo l’8 settembre, poco più che studente e appena approdato all’insegnamento tecnico, organizzò con un paio di amici un piccolo nucleo di cospiratori. Un membro del locale Cln li invitò però ad aspettare, per «non turbare la pace del paese». Intanto, a partire dal novembre 1943, la pace dei maschi nati tra il 1923 e il 1925 fu turbata dalla chiamata alle armi delle autorità militari della neocostituita Repubblica di Salò. Da qui la scelta di sparire e unirsi ai partigiani.

I tentativi di avere contatti con la rete antifascista si rivolsero inizialmente verso Firenze, poiché altrove in Toscana l’organizzazione clandestina era ancora debole e poco strutturata, ma senza esito. Alcuni gruppi di uomini alla macchia si erano formati più a sud, attorno a Massa Marittima, comandati da Velio Menchini ed Elvezio Cerboni; i primi di novembre l’incarico di organizzare una formazione partigiana venne affidato a Mario Chirici, comandante repubblicano antifascista molto noto nella zona e appena tornato dalla Jugoslavia. Erano molti i collegamenti con il Volterrano e la Val di Cecina, aree collinari e boscose unite da una fitta rete di strade comunali: nel giro di pochi giorni i ragazzi che insieme a Vinicio Modesti volevano unirsi ai partigiani trovarono i contatti giusti per raggiungere il campo base della banda di Chirici, all’Uccelliera, tra Monterotondo e Massa Marittima. Vinicio però arrivò in un momento particolarmente infelice: la formazione si era appena spostata per sfuggire a un rastrellamento e senza essere riuscito ad agganciare nessuno il giovane decise di rientrare a Volterra.

Non appena rientrato, i militi repubblichini, ben informati dei suoi movimenti, lo andarono a cercare a casa, in Piazza dei Priori; all’ultimo un vicino generoso lo nascose permettendogli di fuggire. Nascosto da coloni in mezzo al bosco, tratteneva rapporti epistolari con la famiglia, che nel frattempo subiva la persecuzione fascista: il negozio venne chiuso, i genitori e le sorelle furono costretti a lasciare Volterra. Nel mese di gennaio del 1944 Vinicio si spostò di nuovo verso sud, nel grossetano, dove riuscì finalmente a incontrare i partigiani di Mario Chirici. In pochi giorni venne nominato capo squadra e vide la graduale crescita degli effettivi armati dai 15 iniziali agli 80 circa.

A metà febbraio, tuttavia, la vita della formazione venne bruscamente interrotta dal rastrellamento del Frassine, il maggior trauma nell’esperienza resistenziale della zona, motivo di una profonda frattura che non si sarebbe mai più rimarginata. La sera del 15 febbraio, partirono da Follonica e da Massa Marittima dei camion carichi di militi fascisti locali, a cui si aggiunsero altri provenienti da Grosseto, in direzione dell’area dove avevano base i partigiani: prima dell’alba del 16 febbraio, tre colonne di repubblichini comandate dagli ufficiali Giovanni Nardulli di Massa Marittima, Monti di Grosseto e Pini di Castelpiano, conclusero l’operazione di rastrellamento della formazione, che venne presa totalmente alla sprovvista. La maggior parte degli uomini riuscì a scappare, un piccolo gruppo si asserragliò in una casa colonica, da dove ingaggiò una lunga sparatoria con gli assedianti. Dopo qualche ora i partigiani si arresero: cinque vennero trucidati, gli altri furono condotti in prigione.

Molti uomini che avevano gravitato intorno a Chirici decisero di allontanarsi e proseguire la loro attività più a nord-est, tra le province di Pisa e di Siena, in particolare nell’area tra il bosco delle Carline, Radicondoli e il bosco di Berignone, dove si era formata una squadra sotto il comando di Elvezio Cerboni. Qui con la guida di Guido Stoppa e di Alberto Bargagna l’organizzazione militare e i rapporti con il territorio si fecero più solidi e strutturati, le bande si svilupparono in maniera efficiente e dai primi di marzo riuscirono a darsi un livello operativo coordinato e coerente. Le azioni a Belforte e Montieri, nel marzo 1944 sancirono l’inizio di una nuova fase.

Il diario del partigiano Beppe, datato aprile 1944, è stato di recente ristampato insieme a un racconto successivo dello stesso Vinicio Modesti. L’attività da lui svolta dopo la guerra come scultore e insegnante hanno lasciato una memoria viva nel territorio; meno invece si sapeva della sua esperienza partigiana. Sia il diario che il racconto si chiudono però con la primavera del 1944, tranne un accenno alla vicenda della sorella Rossana che si prolunga fino a giugno. Le vicende partigiane vissute nel maggio e nel giugno non appaiono. Si tratta di una scelta singolare, che merita una riflessione. La maggior parte delle azioni partigiane di questa area avvennero proprio a partire dal maggio del 1944, quando con lo sfondamento della Linea Gustav e la ripresa dell’avanzata alleata sul territorio italiano, le speranze di una liberazione imminente spinsero a una crescita esponenziale della presenza e della forza resistenziale nella provincia di Pisa. Molti si unirono solo in questa ultima fase, tra la primavera e il passaggio del fronte.

Di questi mesi, che pure furono i più ricchi di colpi riusciti e di consenso da parte della popolazione, Vinicio Modesti tace. Forse perché altri potevano raccontare, mentre lui solo avrebbe potuto testimoniare ciò che accadde prima, i lunghi itinerari inconcludenti, le sconfitte, gli «odiosi attendismi». Forse perché considerava la parte precedente quella più autentica e sofferta dell’esperienza partigiana, più solitaria e imprevista, dura e dagli esiti imprevisti. Impossibile arrivare ora a una risposta certa; rimane il fascino irrisolto per una testimonianza ricca e vitale, irrequieta e intensa come lo sa essere solo lo spirito di un ragazzo che «era giovane ma [che] i suoi diciannove anni li aveva vissuti così intensamente che in certe cose pareva un saggio».




Faccia a faccia con Gaetano Salvemini

Il breve testo di Maria Pichi offre un frammento di memoria su Gaetano Salvemini, “fotografato” negli ultimi anni del suo insegnamento dalla cattedra di Storia, presso l’Ateneo fiorentino. Siamo agli inizi degli anni ’50 a Firenze. Salvemini è da qualche anno rientrato dall’esilio cui l’aveva costretto il regime fascista. Dai ricordi dell’autrice affiora un inconsueto ritratto dell’anziano professore, colto in una situazione particolare. E’ al tempo stesso un piccolo spaccato di un’Italia che oggi non c’è più, dove poteva accadere che un protagonista della storia dell’antifascismo e della cultura militante potesse ricevere gli studenti in camera da letto – a causa di una indisposizione – e in tale inusitata sede svolgere la sessione di esame, pur di evitar loro di finire “fuori corso”. Sullo sfondo compaiono fugacemente, in veste di assistenti, due protagonisti della cultura fiorentina (e italiana) del dopoguerra, come Ernesto Ragionieri (all’autrice non particolarmente simpatico) ed Eugenio Garin.

Faccia a faccia con Salvemini

Gaetano Salvemini rivide l’Italia nel 1947: ne era espatriato da clandestino vent’anni prima e tornò a Firenze all’Università, quella stessa che allora lo aveva espulso dalla cattedra di storia moderna. La sua esistenza era stata sconvolta radicalmente per ben due volte: nel terremoto di Messina aveva perduto l’intera famiglia, moglie e sei figli, poi il regime fascista lo aveva messo in carcere e privato prima dell’insegnamento e poi della nazionalità.
Nel ritorno alla sua sede universitaria di quest’uomo anziano e provato dalla vita come non ammirare la capacità di resilienza? Ma, realisticamente, questo ritorno dovette creare qualche imbarazzo nel mondo accademico fiorentino: la cattedra di Storia Moderna era occupata lecitamente e degnamente dal professor Carlo Morandi. Su quella di Storia Medioevale (Salvemini aveva titoli anche per essa) sedeva Nicola Ottokar, che proprio con Salvemini, all’inizio del secolo, aveva avuto dei vivaci dissensi a proposito di Magnati e popolani nella Firenze del Duecento! Forse pesavano ancora? Certo è che Ottokar era ormai un signore malandato quanto al fisico e impigrito dal punto di vista didattico: della gioventù aveva conservato unicamente l’accento russo e un bastone col pomo d’avorio dono dello zar. Tuttavia non era collocabile a riposo.
Le difficoltà furono superate dotando la Facoltà di Lettere di una nuova disciplina: Storia del Risorgimento. La materia non era curriculare, ma solo facoltativa e le lezioni del professor Salvemini, va detto, non furono molto frequentate. Confesso con rimpianto – ed un certo disagio – di averne ascoltata una sola anch’io e fu ben più vivace, ben più interessante di quelle che certi colleghi tenevano nelle aule adiacenti. Infatti alcuni assolvevano alla funzione docente spesso declamando passi del libro che avevano dato loro fama anni prima: li sapevano a memoria e li recitavano con sentimento. Ne ricordo un altro che borbottava le sue riflessioni a testa bassa, tra sé e sé: noi studenti non ci guardava mai in faccia.
Stando così le cose nell’autunno del 1949, poiché per me cominciava il terzo anno di lettere, andai a chiedere la tesi al professor Morandi: al primo esame mi aveva dato trenta e disse di sì. Quanto a me accettai senza batter ciglio di studiare Romagnosi e presi a frequentare assiduamente varie biblioteche. In piazza San Marco non ci andavo mai. Probabilmente non avrei mai più avuto occasione di trovarmi faccia a faccia con Salvemini se nella primavera del ’50 il professor Morandi non fosse stato stroncato da un infarto.
Intorno alla nomina del successore, nella persona di Delio Cantimori, la facoltà di lettere si divise tra sostenitori e avversari. La lotta, che durò un anno intero, fu un episodio minimo della guerra fredda, o, per dirlo all’italiana, dell’opposizione al “fattore K”, perché Cantimori era un docente prestigioso della Normale di Pisa, ma anche un noto intellettuale comunista.
E diciamo pure che nel contesto generale fu un episodio minimo, ma certamente non fu sentito come tale da un certo numero di studenti che dovevano assolutamente sostenere l’esame di storia moderna entro l’anno solare 1950. Era la condizione sine qua non vuoi per ottenere l’esonero dalle tasse, vuoi per la conferma di borse di studio o per non finire fuori corso. E tra quelli c’ero anch’io.
Saltarono i due appelli di giugno e di luglio; saltò il primo appello autunnale e poiché noi interessati in fondo eravamo quattro gatti i nostri problemi non facevano notizia.
Quando si seppe che Salvemini era disposto a dare lui una mano era ormai la fine di novembre pioveva, faceva freddo e il medico gli aveva tassativamente prescritto di starsene ben riguardato, magari a letto, e di non uscire comunque da casa sua … che poi casa non era, ma la stanza di una pensioncina in via San Gallo.
Per farla breve, in un mattino uggioso di tardo autunno un gruppetto di studenti – ed io con loro – fra le otto e le nove si trovò nel corridoio di quella pensione. Dalle camere uscivano, e ci rientravano precipitosamente, le signore ospiti in vestaglia, con i bigodini in testa, sconcertate dalla nostra presenza. Eppure di goliardico non avevamo proprio niente, tutti composti, silenziosi, un po’ in ansia per la prova imminente.
Venne il mio turno ed ecco il colpo d’occhio: una cameretta in buona parte occupata da un letto e da due poltroncine ai lati della testiera, una per Ernesto Ragionieri, che era stato l’assistente del defunto Morandi, l’altra per il professor Eugenio Garin: era giovane allora, ma già molto autorevole.
Ai piedi del letto c’era giusto giusto lo spazio per lo sgabello destinato a me.
Si può avere un ricordo delizioso di un esame? Tra l’altro è un aggettivo che può avere qualcosa di melenso che non mi appartiene. Seduta sul mio panchetto, le mani sulle ginocchia, con le une e le altre sfioravo la peluria di un plaid, unica nota di confort e di colore in un ambiente dimesso. All’altro capo di quel plaid da “déjeuner sur l’erbe” emergeva dai cuscini il busto di Salvemini, con la barba bianca, lo sguardo ammiccante e gioioso di uno gnomo da favola.
Sì, si può avere un ricordo delizioso di un esame che fu anche serio perché Morandi esigeva dai suoi studenti una mole di letture notevoli e la commissione si attenne, senza fare sconti, al programma che egli aveva previsto.
Quell’anno vari testi riguardavano la Riforma e ricordo che il mio colloquio prese le mosse da un classico: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo del Weber. Poi toccò altri argomenti che non ricordo, finché nel discorso, ma non per mia iniziativa, entrarono la mia futura tesi e il Romagnosi, intorno alla cui prosa oscura avevo cominciato ad arrabattarmi.
Salvemini rideva e scherzava: che anch’io sembrassi fare capolino dal plaid in fondo al letto? Perfino le labbra sottili di Garin abbozzavano sorrisi. Ragionieri no: inespressivo, impassibile se non addirittura imbronciato, non traeva alcun piacere da quella situazione anomala. Ad Ernesto buonanima – voglio dirlo – mancava il senso dell’umorismo.
Ma c’è di più: quel mugugno, forse, non era solo caratteriale, forse era un microscopico gesto politico. Ragionieri, comunista di stretta osservanza, probabilmente sedeva “obtorto collo” su quella poltroncina riguardosa alla sinistra di Salvemini, che recentemente aveva avuto uno scontro vivace con Togliatti.
Salvemini aveva l’aria di divertirsi davvero ed è possibile che ridesse per via dell’assistente ostile e immusonito non meno che per la ragazza che faceva capolino in fondo al suo letto.
A me piace pensare che proprio l’atmosfera un po’ surreale di quell’esame abbia consentito a Gaetano Salvemini di concludere “in letizia” la sua lunga e movimentata carriera universitaria.
Di lì a pochi mesi, ormai pensionato, commemorò solennemente Carlo e Nello Rosselli e lasciò Firenze. Avrebbe trascorso a Sorrento i suoi ultimi anni.
A me aveva dato trenta … o non fu forse trenta e lode ?

Maria Pichi in Lauretta *

Roma, 15 marzo 2023

* Maria Pichi in Lauretta è nata a Torino il 6 novembre 1928. Ancora bambina seguì la famiglia a Firenze, presso la cui Università si laureò in Storia, nell’anno accademico 1952-53, con Delio Cantimori, discutendo una tesi sul pensiero di Gian Domenico Romagnosi. Per decenni ha insegnato italiano in vari istituti superiori del Lazio e a Roma, dove ancora risiede.




Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.




Pier Carlo Masini (1923-2023)

A cento anni dalla nascita di Pier Carlo Masini (Cerbaia fraz. di S. Casciano Val di Pesa, 26 marzo 1923 ‒ Firenze, 19 ottobre 1998) si ricorda l’opera di un intellettuale che, tra tutti coloro che si sono occupati degli anarchici e delle radici “eretiche” del primo socialismo, è stato, se non il più importante, di certo uno degli storici più rigorosi e originali del Secondo Novecento. Masini, inoltre, non è stato solo un uomo di pensiero, ma anche un militante antifascista, condannato giovanissimo al Confino politico, vicesindaco di San Casciano Val di Pesa nei primi mesi della Liberazione, impegnato prima nelle fila del PCI poi in quelle dell’anarchismo e infine in quelle del socialismo democratico, oltre che un raffinato uomo di cultura e un bibliofilo competente e appassionato.

La passione per la storia in Masini ha radici lontane. Nell’autunno 1941 s’iscriveva alla facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. Tra i suoi docenti c’erano Giuseppe Maranini, che quell’anno teneva un corso sul costituzionalismo inglese; Pompeo Biondi, che proponeva il tema della sinistra hegeliana; soprattutto, Carlo Morandi, docente di Storia moderna, che svolgeva un corso sulla storia dei partiti politici italiani. Le lezioni di Morandi sono state importanti per la formazione e per l’approccio alla cultura storica del giovane Masini. In quel periodo Morandi era uno fra i più brillanti storici italiani, un innovatore del metodo della ricerca storica. Le sue ricerche sulle forze politiche moderate dell’Italia unita e sulle relazioni diplomatiche che legavano l’Italia all’Europa sin dall’inizio dell’età moderna, così come la sua opera più nota, I partiti politici in Italia dal 1848 al 1924, uscita pochi mesi dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, sono ancora oggi un punto di riferimento per gli studiosi. Tra i suoi allievi vanno ricordati, tra gli altri, Giampiero Carocci, Giuliano Procacci ed Ernesto Ragionieri.
Morandi aveva consigliato a Masini di leggere il libro di Giacomo Perticone, Linee di storia del comunismo, uscito nel 1942 per le edizioni dell’Istituto Studi Politici Internazionali di Milano. Dopo tale lettura, seguiva quella di Linee di storia del socialismo (pubblicato nel 1941), dello stesso Perticone, dove Masini aveva potuto leggere per la prima volta il testo degli appelli contro la guerra dell’internazionalismo socialista di Zimmerwald (1915) e di Kienthal (1916). In questa fase Masini stava vivendo una prima, breve esperienza politica che lo aveva portato dalle iniziali simpatie per il fascismo eterodosso alla scelta antifascista, scelta che aveva causato la sua condanna al Confino di polizia per due anni. Rientrato a Firenze nell’autunno del 1943, fino alla primavera del 1945 aveva studiato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze per preparare la sua tesi di laurea sulla diffusione del saintsimonismo in Toscana, approfondendo nel contempo le caratteristiche storiche e teoriche delle origini del socialismo [1].
Masini_Pier_Carlo_Anarchici_comunistiMasini fa parte a pieno titolo di quella giovane generazione di storici inquieti che, nel pieno della crisi politica, sociale ed economica italiana degli anni della guerra, sulle macerie lasciate dal fascismo e attraverso la sofferta strada della Lotta di liberazione, aveva maturato l’esigenza di ripensare la storia d’Italia attraverso lo studio del movimento operaio e del lavoro, facendola entrare nel panorama scientifico italiano come una nuova disciplina, con lo scopo di andare oltre le vecchie scuole storiografiche moderate, idealistiche e nazional-fasciste. La scelta di Masini non era diversa da quella compiuta anche da altri giovani intellettuali che si avvicinavano allo studio della storia e che nasceva, oltre che da un interesse culturale generale e dal percorso di studi, anche e soprattutto da una scelta di impegno etico politico [2].
L’intreccio tra storia e politica ha caratterizzato, come è stato più volte sottolineato in campo storiografico, la ricerca sulle origini del movimento socialista in Italia, diventando «il terreno prioritario» su cui si affermava «l’impegno della storiografia di sinistra». Si trattava di «una scelta politica precisa, volta a conferire dignità e legittimazione – entro l’ambito dello Stato democratico – al movimento operaio»[3].
Dopo una breve parentesi tra le fila comuniste durante la Resistenza, nell’estate del 1945 Masini sceglieva di schierarsi nel campo libertario. La sua adesione non era di tipo sentimentale. Egli si riconosceva in una definizione di Antonio Labriola, che distingueva con favore, all’interno dell’anarchismo, gli anarchici “ragionanti” dagli altri, precisando in tal senso la sua posizione nel solco del pensiero di Errico Malatesta, Luigi Fabbri, Francesco Saverio Merlino e Camillo Berneri, tracciando, di fatto, i lineamenti di una fisionomia umana e intellettuale che ha tutti i caratteri dell’autoritratto condotto ex post e fissato su carta soprattutto per sé:

Fin dal primo accostarmi all’anarchismo, ai profeti, esteti e poeti dell’anarchia preferii sempre gli anarchici positivi: quelli che sanno coniugare i principi di libertà con quelli dell’associazione e della solidarietà: che partono dall’individuo ma arrivano alla società; che sostengono le proprie ragioni ma che sanno ascoltare anche quelle degli altri e di ogni problema vedono, oltre la faccia visibile e certa, quella invisibile e controversa; che oltre i confini della propria parte ideologica, scoprono l’anarchismo, spesso inconsapevole, che pulsa per forza naturale, in uomini e gruppi di colore diverso, in un’area libertaria più vasta di quella professa e militante; che non si limitano alla protesta ma traducono l’utopia della vetta in proposte, programmi, progetti per cambiare il piano; che sono continuamente irrequieti, autoironici, insoddisfatti, autocritici del loro stesso anarchismo, che lo adoprano non come un metro per misurare e magari condannare gli altri, ma come una lente per leggere meglio in se stessi e nella società[4].

Masini_Pier_Carlo_EresieL’impegno politico di Masini in questi anni sarà totalizzante, coinvolgendolo a tempo pieno nella propaganda orale, nell’organizzazione di convegni e nella redazione di periodici, e facendone in breve uno dei principali leader giovanili del movimento libertario risorto dopo vent’anni di dittatura.
Masini si laureava nell’anno accademico 1945-1946 discutendo con Rodolfo De Mattei la tesi su I riflessi del santsimonismo in Toscana. Il suo interesse per Henri de Saint-Simon nasceva dalle ricerche sulle origini del moderno pensiero socialista e della storia risorgimentale italiana, temi tanto cari al professor Morandi.
Le indagini di Masini sull’Ottocento italiano erano finalizzate non solo a una più precisa ricognizione e messa a punto di momenti significativi dell’identità storico-politica dell’anarchismo italiano, ma anche alla rivisitazione della riflessione teorico-politica di quei momenti della storia italiana dell’800 nei quali si era posto il problema del cambiamento “rivoluzionario” della società. Va in questa direzione il suo saggio Dittatura e rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, in cui analizza il pensiero di Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Giuseppe Montanelli, Carlo Pisacane[5]. In questo lavoro Masini distingueva il doppio significato del termine “dittatura”: quello che si riferisce al ruolo dominante dello Stato piemontese, verso cui la ripulsa dei rivoluzionari ottocenteschi era comune, e quello che intendeva la “dittatura” come possibile momento o forma rivoluzionaria. Su questo punto le posizioni divergevano, generando polemiche. L’osservazione iniziale che, a questo proposito, viene fatta da Masini, è illuminante circa le sue posizioni al contempo storiografiche e politiche:

Fu un’inutile polemica, allora; ma ritorna utile oggi come una nuova vena cristallina che riverberi i suoi riflessi sulle lotte contemporanee e ci illumini una più moderna interpretazione del Risorgimento. Qui considereremo il pensiero di alcuni noti eretici dell’Ottocento, anche per suffragare una tesi che ci è cara: essere l’anarchismo italiano una genuina espressione delle secolari esperienze del nostro popolo, un prodotto della sua più libera tradizione culturale, e non già − se ne persuadano i malevoli per ignoranza − un isolato vaneggiamento d’asceti od un improvviso sproloquio di folla[6].

Il 1946 è stato un anno particolare non solo perché, dopo la fine del conflitto mondiale, si era svolto il referendum istituzionale dal quale era nata l’Italia repubblicana, ma anche perché cadeva il centenario della nascita di Cafiero. Sul piano storiografico l’anniversario era stato anticipato da un articolo di Aldo Romano sulla scoperta, presso l’Archivio di Stato di Napoli, di tre lettere di Friedrich Engels a Cafiero[7]. A guidare la curiosità e gli studi di Masini era stata, in questo periodo, la lettura di un saggio di Carlo Morandi, pubblicato su «Belfagor», dal titolo esemplificativo: Per una storia del socialismo in Italia. Nel suo intervento Morandi sottolineava la necessità, per la nuova storiografia, di avviare un’indagine seria e rigorosa sulla storia del socialismo in Italia abbandonando fini apologetici e polemici. Lo storico scriveva che era necessario non solo studiare gli aspetti teorici della diffusione delle idee del socialismo, la “città del sole”, ma in particolare «raccogliere lo sguardo attento sulla “città dell’uomo”». Era un richiamo esplicito a indagare a fondo, andando alle radici della storia sociale e politica del movimento operaio, nelle città e nelle campagne, fin nelle più piccole località, dove si era espressa l’esperienza ideale e pratica del moderno socialismo in tutte le sue correnti. Nell’articolo, tra i vari argomenti e personaggi, veniva fatto riferimento alle correnti marxiste revisioniste, da Merlino a Mondolfo, alle esperienze bakuniniste della Prima Internazionale e ai suoi personaggi, ma soprattutto alla necessità di “vere biografie storiche” dei leader del movimento. Possiamo immaginare che per il giovane studioso e militante Masini la lettura dell’articolo di Morandi sia stata una sorta di appello all’arruolamento nelle nuove leve della ricerca storica.
Poco tempo dopo la pubblicazione del saggio di Morandi, sul periodico settimanale milanese «Il Libertario», diretto da Mario Mantovani, Masini pubblicava il suo primo lavoro su Cafiero, intitolato Pisacane e Cafiero[8]. In seguito, in occasione del centenario della nascita di Cafiero, sempre su «Il Libertario» Masini pubblicava l’articolo Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse[9], così come, su «Volontà» di Napoli, presentava un altro saggio dedicato al rivoluzionario pugliese, in particolare agli ultimi anni della sua militanza, quella più controversa e drammatica[10].
Masini_Pier_Carlo_1923_1998_ridCome si è detto, in Masini l’intreccio tra l’interesse storico e l’impegno politico in questo periodo è stato fortissimo, dunque non era un caso che la sua prima conferenza pubblica come militante della Federazione anarchica italiana, ma soprattutto come efficace divulgatore della storia ‒ si trattasse di figure legate alle vicende del movimento anarchico o a snodi storici come la formazione dei ceti moderati durante il Risorgimento – fosse significativamente dedicata al tema Carlo Cafiero pioniere del movimento operaio, tenuta il 30 marzo 1947 a Empoli presso la locale Università Popolare.
L’approccio di Masini alla storia in funzione del suo impegno etico politico non era affatto strumentale e ancor meno superficiale. Nella ricostruzione delle vicende del movimento libertario e socialista, infatti, la sua formazione e i suoi studi lo portavano ad utilizzare un metodo rigoroso, filologico e critico, anche quando scriveva per la stampa del movimento o del partito. A questa impostazione Masini rimarrà fedele per tutta la vita lasciandoci una grande eredità culturale e di metodo di cui i suoi scritti ne sono una testimonianza viva.

NOTE:

[1] Per un inquadramento generale della vita intellettuale e politica di P.C. Masini si rimanda ai seguenti volumi: Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci. Atti della giornata di studi sulla figura e l’opera di Pier Carlo Masini, Bergamo, Sala Curò, 16 gennaio 1999, a cura di G. Mangini, Numero monografico di «Bergomum», Bollettino della Civica biblioteca Angelo Mai di Bergamo, 2001; Pier Carlo Masini. Impegno civile e ricerca storica tra anarchismo, socialismo e democrazia, a cura di F. Bertolucci e G. Mangini, Pisa, BFS, 2008.

[1] Cfr. L. Cortesi, Le origini degli studi sul movimento operaio in Italia in ricordo di Pier Carlo Masini, in Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci …, cit., pp. 43-53.

[1] Cfr. G. Gozzini, La storiografia del movimento operaio in Italia: tra storia politica e sociale, in La storiografia sull’Italia contemporanea. Atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro. Pisa, 9-10 novembre 1989, a cura di C. Cassina, Pisa, Giardini, 1991, pp. 241-276.

[1] Cfr. P.C. Masini, Introduzione in R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, Carrara, FIAP, [1989], p. VI.

[1] Il saggio esce in sei puntate, P.C. Masini, Dittatura e Rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, «Volontà», nn. 1-6 pubblicati dal 1° luglio al 1° dicembre 1947.

[1] Cfr. Id., Dittatura e Rivoluzione …, cit., prima puntata, p. 30.

[1] Cfr. A. Romano, Nuovi documenti per la storia del marxismo, «Rinascita», gennaio-febbraio 1946, pp. 27-28.

[1] Cfr. P.C. Masini, Pisacane e Cafiero, «Il Libertario», 23 luglio 1946, p. 2.

[1] Cfr. Id., Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse, «Libertario» numeri dal 21 agosto al 4 settembre 1946. In questi anni Masini entra in contatto e lo rimarrà per lungo tempo con Luigi Dal Pane, altro autorevole studioso del socialismo italiano, depositario di un importante archivio di documenti, alcuni dei quali da lui utilizzati proprio in occasione del centenario della nascita di Cafiero e pubblicati in un opuscolo illustrato da fotografie d’epoca. Cfr. In memoria di Carlo Cafiero nel primo centenario della nascita (1846-1946), a cura di L. Dal Pane, Ravenna, La Romagna socialista, dicembre 1946.

[1] P.C. Masini, Carlo Cafiero ed una controversia intorno alla sua ultima posizione politica, «Volontà», 1° marzo 1947, pp. 73-83. Cfr., inoltre, (a cura dell’archivista), Il giudizio di Cafiero: commemorando il “Manifesto dei comunisti” (febbraio 1848-febbraio 1948), «Umanità nova», 1° febbraio. 1948, p. 3.