1

Quando sulla Firenze Mare si battevano i record di velocità

Nuvolari ha un corpo eccezionale…Nuvolari ha le mani come artigli, Nuvolari ha un talismano contro i mali… i suoi muscoli son muscoli eccezionali… gli uccelli nell’aria perdono l’ali quando passa Nuvolari.” Queste sono le parole con cui Lucio Dalla in una sua celebre canzone descrive il Mantovano Volante, Tazio Nuvolari, uno dei miti italiani degli anni Trenta del secolo scorso, colui che per molti ha rappresentato concretamente il mito della velocità teorizzato da Marinetti e dagli altri futuristi.

In realtà, già  ben prima che Dalla venisse al mondo, delle “virtù eccezionali” di Tazio parlavano con dovizia di particolari i giornalisti a lui contemporanei. Mentre era in piena attività agonistica fiorivano intorno al suo personaggio aneddoti leggendari, ma con un fondo di verità. All’indomani ad esempio di una vittoriosa Mille Miglia, durante la quale per raggiungere senza farsi notare il suo rivale Varzi aveva spento nella notte i fari della sua autovettura, si cominciò a dire che riuscisse a guidare ad occhi chiusi. Si sosteneva che fosse capace di guidare senza volante, senza ruote e addirittura con le ossa rotte. Le cronache sportive raccontano che riuscì a concludere una gara nonostante si fosse procurato durante questa la rottura di un dito e che un’altra volta, reduce da un incidente, si fosse fatto legare al sedile della sua autovettura per mantenere la posizione ideale di guida. In un’altra occasione, sostituì il volante rotto della sua auto con una chiave inglese, concludendo comunque la competizione. Al di là dell’aspetto “epico” di questi racconti, quello che è certo è che Nuvolari sapesse far fiorire questi racconti con la leggerezza e il coraggio con cui affrontava le difficoltà. Dato per morto in seguito ad un incidente, affermò che con gente come lui era necessario aspettare tre giorni prima di piangere troppo. Un uomo con queste caratteristiche sportive e umane era inevitabilmente destinato a diventare un mito per i suoi tifosi che infatti lo chiamavano “Il Campionissimo”, “El conductor de emocion” e anche per i sostenitori della principale casa avversaria, la Mercedes,  che lo definivano con malcelata rabbia “Der Teufel”, il Diavolo. Ferdinand Porsche, uno che di auto se ne intendeva e che era libero, se non dagli interessi economici, dalla febbre del tifo, lo definì “Il miglior pilota di ieri, di oggi e di domani”.

background_image_20150526182145-39-2015426173822_1-2560x1250Il Mantovano Volante corse in 25 anni di carriera 353 gare, vincendone 107 e realizzando 99 giri veloci. Stabilì 5 primati internazionali di velocità e conquistò 7 titoli di campione d’italia. Non male per uno che quando era”autiere”, cioè autista di autoambulanze della Croce Rossa e delle vetture degli ufficiali durante il servizio di leva, era finito fuori strada rimediando dai superiori una solenne lavata di capo e un invito a lasciar perdere la guida.

Nivola era molto amato anche dai “grandi” dell’epoca. Mussolini a sua volta lo ricevette a Villa Torlonia. Gabriele D’Annunzio lo invitò al Vittoriale, del quale era normalmente assai geloso e gli regalò una tartaruga d’oro recante la scritta “all’uomo più veloce l’animale più lento”. Il Mantovano Volante fece stampare questa dedica sulla sua carta da lettere personale e sulla fiancata del suo aereo.

Tazio Nuvolari, “Nivola” per gli amici, divenne grazie ai suoi successi uno dei principali testimoni della rinascita economica e sportiva italiana assieme personaggi come Bianchi, Agnelli e Ferrari. Quando gli effetti della depressione del 1929 cominciarono a farsi sentire anche in Italia il ruolo di Tazio fu fondamentale anche per sostenere alcuni marchi di autovetture che risentivano delle difficoltà del momento. Nel 1935 il periodo d’oro dell’Alfa Romeo stava finendo a causa soprattutto dei grandi investimenti di Mercedes e Auto Union, le case automobilistiche concorrenti. Per abbattere le corazzate tedesche nelle gare e quindi anche sul mercato era necessario escogitare qualcosa di nuovo. Mussolini spingeva perchè l’Italia emergesse anche in campo automobilistico. In una riunione di lavoro Enzo Ferrari, al tempo direttore del reparto corse dell’Alfa Romeo e il suo ingegnere capo Bazzi svilupparono un’idea, quella di dotare la normale auto da gara, la P3, di due motori, uno davanti ed uno dietro al pilota, gestiti da un unico albero e da un unico motore. Era nata la cosiddetta Bimotore, una “balena” pesante circa 13 quintali. Il suo guidatore non sarebbe stato uno dei due piloti del team, Rene Dreyfus e Louis Chiron, ma Tazio Nuvolari, l’unico che si riteneva fosse capace di domarla e che in quel momento era un pilota Maserati. Si racconta che fu Mussolini stesso a chiedere al Mantovano Volante di tornare all’Alfa Romeo. Nuvolari alla fine si decise, anche se al grande passo fu spinto, più che dal Duce, dalle insistenze di Ferrari. L’auto dimostrò presto però alcuni problemi strutturali legati al peso eccessivo e conseguentemente alla sua stabilità. I risultati non furono per niente incoraggianti e lo stesso Nuvolari ben presto capì che non era il caso di sviluppare oltre il progetto. Dato il clamore suscitato dalla nuova  macchina e le spese pubblicitarie sostenute non era però possibile abbandonare il progetto senza ottenere un qualche risultato positivo e fu così che saltò fuori l’idea di tentare di battere il record di velocità sul chilometro lanciato appartenente in quel momento ad Hans Stuck con 317 km orari.

È a questo punto che la storia sportiva di Nuvolari incontra le strade della Toscana. La bimotore, per tentare il record, venne infatti portata sulla Firenze-Mare, nel tratto Lucca-Altopascio, ritenuto molto adatto al tentativo, il 15 giugno 1935. La prova si doveva svolgere il giorno precedente, ma era stata posticipata a causa del forte vento. La situazione atmosferica non era molto migliorata e infatti la Bimotore uscendo da sotto un ponte venne presa da un turbine di vento e per circa 200 metri il Mantovano Volante ebbe enormi difficoltà a mantenere l’auto in assetto. Alla fine però raggiunse il risultato tanto cercato: 11 secondi e 50/100 sul chilometro lanciato che corrispondono a 323,175 km. Orari. Il recordo di Stuck era caduto nettamente. Nuvolari affermerà successivamente di non aver mai affrontato un pericolo così tremendo come il turbine di vento sopra citato, “nemmeno il giorno in cui presi fuoco a Pau”. Il record del mondo fu anche il canto del cigno della Bimotore, evidentemente incapace di sostenere il ritmo di una gara completa.

Nuvolari morì nel 1953. Il suo corpo fu sepolto con i pantaloni azzurri e la maglia gialla che rappresentavano la sua divisa da gara e con il suo volante preferito. Il feretro venne appoggiato sul telaio di un auto e accompagnato al cimitero da circa 20.000 persone. Sulla sua tomba i familiari hanno posto una scritta che ben rappresenta l’amore del Mantovano Volante per la velocità “Correrai ancora più veloce nelle vie del cielo”.

 

Sitografia:

https://www.motoremotion.it/2015/06/17/nuvolari-a-320-allora/

http://www.repubblica.it/motori/sezioni/classic-cars/2015/02/13/news/ad_oltre_320_km_h_sull_autostrada_firenze-mare-106334094/

https://it.wikipedia.org/wiki/Alfa_Romeo_16C_Bimotore

http://www.tazionuvolari.it/it/cronostoria/43-i-record-di-velocita.html

https://www.blackbird-autojournal.com/features/a-tale-of-two-motors/

http://www.tazionuvolari.it/it/tazio/cronostoria.html

http://www.storiedisport.it/?p=8413

https://biografieonline.it/biografia-tazio-nuvolari

 

Gli immortali – Artisti per sempre (serie TV Sky Arte) di Giorgio Porrà

 

Foto da:

https://www.blackbird-autojournal.com/features/a-tale-of-two-motors/

 




«Giovane e oscuro a un seggio illustre».

Era il 23 giugno 1919, quando Domizio Torrigiani, avvocato toscano vicino al partito radicale, accettava la sua designazione alla guida del Grande Oriente d’Italia riconoscendo, nel discorso d’insediamento, di essere salito «giovane e oscuro a un seggio illustre». Torrigiani, che succedeva all’ormai anziano Ernesto Nathan, diveniva Gran Maestro a soli quarantatré anni e avendo fino ad allora dato poco risalto pubblico alla sua appartenenza massonica.

Il discorso di insediamento, di ampio respiro, risentiva dell’eccezionalità del momento storico: le trattative di pace erano in corso di svolgimento e il Paese faticava a riprendere il suo normale corso. Quella nomina, dunque, veniva interpretata come un segnale di apertura dell’ordine massonico verso un rinnovamento -d’età e d’intenti- che il periodo di profonda conflittualità sociale e politica rendeva necessario, attraverso il passaggio di testimone alla generazione che aveva raggiunto la maturità negli anni dell’ultimo giolittismo e della Grande Guerra.

2

Lettera di D’Annunzio a Torrigiani, 7 settembre 1920 (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»).

Proprio nel suo scritto programmatico, Torrigiani definiva la partecipazione italiana al conflitto come la più alta manifestazione dell’incidenza massonica nella storia nazionale, un vero e proprio coronamento delle lotte risorgimentali per l’unificazione. Lui stesso era partito volontario ed aveva combattuto fino alla fine delle ostilità.

Tra i suoi primi atti in veste istituzionale, alla fine dell’estate 1919, l’appoggio a Gabriele D’Annunzio nell’impresa di Fiume. Torrigiani non farà mistero del suo interessamento personale per la questione e sosterrà, anche in seguito, di averla difesa con convinzione, prendendo, tuttavia, le distanze da progetti rivoluzionari e allontanandosene definitivamente ai primi del dicembre 1920, alla vigilia della drastica occupazione della città istriana, per cui aveva invece suggerito una risoluzione pacifica.

È cosa ormai nota come consensi e aiuti al movimento fascista siano giunti, tra il 1919 e il 1922, anche dal Grande Oriente d’Italia; un atteggiamento di benevolenza che si legava, in particolare, ad alcuni aspetti del primo fascismo: lo spirito patriottico, la tendenza repubblicana, l’anticlericalismo e l’ostilità nei confronti di popolari e socialisti.

Anche Torrigiani, pur con la necessaria prudenza, parve guardare con interesse all’avanzata di Mussolini: alla vigilia della marcia su Roma egli dichiarava, infatti, di considerare il fascismo una «rivolta necessaria» a mettere fine alla confusione del dopoguerra, sottolineando come, in particolare, l’idea di rinnovamento della «coscienza nazionale» costituisse un elemento di affinità e vicinanza.

Ma si trattava di uno scenario destinato ben presto a mutare: conquistata la direzione del Paese, le vere intenzioni di Mussolini non tardarono a manifestarsi con atti di governo che contraddicevano il programma originario: primo fra tutti, il cambio di orientamento nel rapporto Stato-Chiesa.

Appartiene a questa fase un’importante intervista del Gran Maestro al «Giornale d’Italia» (30 dicembre 1922): Torrigiani ribadiva la lealtà della massoneria a Mussolini, prendendo le distanze dalle accuse di antifascismo che gli venivano mosse. Si trattava, tuttavia, di una vicinanza sottoposta ad alcune condizioni e vincolata al rispetto dell’idea di laicità dello Stato, principio irrinunciabile per l’avvocato e l’istituzione rappresentata. Dunque, una fedeltà fatta di dubbi e di incertezze; e d’altronde, lo stesso Torrigiani non aveva mai fatto mistero di temere l’imprevedibilità di Mussolini.

3

«Giornale d’Italia», Roma 20 febbraio 1923 (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»)

Era l’inizio di un deteriorarsi dei rapporti sempre più rapido.

Il 28 gennaio 1923, la Giunta di Palazzo Giustiniani convocava a Roma la sua Assemblea; vi prendevano parte circa cinquecento delegati con lo scopo di stabilire la condotta da tenere nei confronti del governo. Nel corso dell’adunanza, l’avvocato, chiamato a controbattere alle accuse di antifascismo che gli erano state mosse, non volle cedere alla pregiudiziale anticlericale.

L’incontro vide l’Assemblea spaccarsi fra quanti avrebbero voluto seguire un indirizzo di incondizionato appoggio al fascismo e chi rivendicava per la massoneria una posizione «al di sopra dei partiti», «nella concezione superiore degli interessi della patria». Fu proprio tale orientamento a ottenne la maggioranza dei consensi, portando alla riaffermazione dell’idea di laicità dello stato, del rispetto delle libertà politiche e delle organizzazioni sindacali.

Riferendosi alle conclusioni dei lavori, un dispaccio filogovernativo del 30 gennaio 1923 annunciava che il Gran Consiglio si sarebbe occupato presto della questione dell’associazionismo segreto: la nota suonava come un’autentica minaccia.

Mussolini, dalla sua, era ormai certo che la massoneria, dichiarandosi al di sopra dei partiti, non potesse essere conciliabile con il suo governo. Era inoltre consapevole che combatterla, in un paese profondamente cattolico, avrebbe assicurato il consenso dei fedeli. Il 15 febbraio 1923, dunque, il Gran Consiglio, a maggioranza, dichiarava incompatibile l’appartenenza alla massoneria con l’adesione al Partito Nazionale Fascista.

Di fronte al nuovo attacco, Torrigiani tornava ad offrire garanzie di lealtà. Il 16 febbraio inviava una circolare alle Logge per confermare la volontà di fiancheggiare il governo, invitando tutti ad applicare le direttive votate. Allo stesso tempo cercava di difendere l’Ordine, ricordando a Mussolini come: «le nostre Logge ed i nostri membri non hanno mai mancato in fedeltà alla Patria». In quei giorni, tuttavia, aveva inizio una serie di assalti squadristi contro sedi del Grande Oriente, mentre l’8 agosto 1924 il Consiglio Nazionale fascista approvava un ordine del giorno che ratificava la rottura definitiva con la massoneria.

Il 6 settembre 1925, l’Assemblea costituente dell’Ordine tornava a rieleggere Torrigiani alla guida della Logge e, data la gravità del momento, gli conferiva poteri pieni e straordinari.

Due mesi più tardi, il 4 novembre, scattava l’azione poliziesca per reprimere un possibile attentato contro Mussolini. Tito Zaniboni e il generale Luigi Capello, di nota affiliazione massonica, erano arrestati con l’accusa di esserne gli ideatori. Palazzo Giustiniani veniva invaso e saccheggiato, mentre il Ministero dell’Interno diramava l’ordine di far occupare le Logge.

A distanza di poco più di due settimane, nel mese di novembre, il Senato approvava definitivamente la legge 2029 sulla «disciplina delle associazioni, enti e istituzioni e sull’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato», mirando, in maniera specifica, a colpire la massoneria. Consultandosi con i suoi consiglieri Torrigiani decideva, vista la gravità del momento, di sospendere i lavori di tutte le Logge.

Per far funzionare l’organizzazione attorno al Gran Maestro, che manteneva la carica, si era formato, intanto, un comitato ordinatore: Torrigiani lo presiedette fino al 1926, quando, dopo aver ricevuto notifica circa l’annullamento dell’acquisto di Palazzo Giustiniani, comprato dall’Ordine nel 1911, lasciava ufficialmente l’Italia per motivi di salute, trasferendosi in Costa Azzurra.

4

Il Gran Maestro al confino (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»)

Nel frattempo, il procedimento contro i responsabili dell’attentato del 1925 andava avanti. Veniva chiesta l’imputazione di Zaniboni e Capello «per tentato omicidio premeditato e per guerra civile». Il nome del Gran Maestro compariva tra gli imputati. L’11 aprile 1927 avevano inizio le udienze. Torrigiani si trovava ancora in Francia, ma decideva di rientrare in Italia, nonostante in tanti avessero cercato di dissuaderlo dal proposito di consegnarsi nelle mani del regime.

Il dibattimento si concludeva con la condanna a trent’anni di reclusione per i due imputati. Il momento era propizio anche per mettere fuori gioco il capo della massoneria che, sebbene assolto per mancanza di prove, veniva comunque arrestato e portato nel carcere di Regina Coeli. Due giorni dopo sarà assegnato al confino di polizia per cinque anni, gli ultimi della sua vita. Il regime, dunque, riusciva ad agire contro di lui tramite misura preventiva che svuotava, di fatto, la stessa sentenza del tribunale.

Tradotto nell’isola di Lipari, vi rimarrà per circa un anno e mezzo, sottoposto a una speciale sorveglianza perché ritenuto detenuto “pericolosissimo”, condizione che lo costrinse a un insopportabile isolamento.

5

A Ponza, 1928 ca (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»).

Durante l’estate 1928 la salute di Torrigiani iniziò a deteriorarsi: era affetto da emorragie retiniche causate dall’ipertensione, cominciava a perdere la vista. Dal 20 ottobre 1928 gli fu concesso il trasferimento a Ponza. Anche se ormai malato, non rinunciò alla sua attività. Tra il giugno e il luglio 1931, con i fratelli presenti sull’isola, fondava la Loggia clandestina «Carlo Pisacane», la cui attività proseguiva per circa un anno. Verso la fine del 1931, visto il suo stato di saluto irreversibilmente compromesso, la guida della massoneria di Palazzo Giustiniani era passata ad Alessandro Tedeschi.

Il 21 aprile 1932, dopo quasi due anni di permanenza a Ponza, Torrigiani era finalmente scagionato per «maturazione del termine d’assegnazione»; gli era stata concessa la libertà vigilata. Ottenne la possibilità di recarsi nella villa di famiglia a San Baronto, anche se ormai le sue condizioni di salute apparivano critiche. Si spegnerà la sera del 30 agosto 1932.

La morte del Gran Maestro ebbe ampia eco sulla stampa massonica internazionale: «senza entrare nel merito delle scelte dell’illustre fratello», si legge sul Bollettino della Gran Loggia di Francia, «durante i primi anni del regime fascista Torrigiani si trovò a guidare la massoneria in tempi resi difficilissimi dallo scatenarsi dell’orrore e della barbarie. Circostanze, a fronte delle quali, nessuno si è mai trovato né in Italia né altrove»; e si conclude: «Domizio Torrigiani resterà, nella storia massonica, il Gran Maestro martire».




La canzone popolare non morirà

Alcuni anni fa ebbi modo di intervistare Caterina Bueno (1943-2007) per Azione sindacale, il periodico della CGIL di Prato. Per realizzare l’intervista avevo, al massimo, dieci giorni. Ci misi più di tre mesi (Caterina non era facilmente contenibile nello schema domanda/risposta), però nacque un’amicizia. L’intervista uscì nel numero del 1° maggio 1992. La ripubblico oggi su ToscanaNovecento come affettuoso omaggio ad una donna di eccezionale intelligenza e sensibilità che ho avuto la fortuna di conoscere.

Esiste anche in Italia una musica indipendente da quella “ufficiale”: è la musica popolare che si suona con strumenti, scale e modi diversi.
Caterina Bueno è una delle massime esponenti di questo genere musicale che ha fatto conoscere anche all’estero. Interprete e ricercatrice appassionata di canti popolari, ha girato in lungo ed in largo la Toscana raccogliendo dalla viva voce di contadini e di operai centinaia di ore di registrazione: il suo repertorio spazia dalle melodie medievali ai canti del dopoguerra, e la sua nastroteca costituisce un patrimonio di grande valore culturale.
Con Caterina abbiamo avuto un interessante colloquio. Ne proponiamo il testo ai lettori.

Qual è, a tuo avviso, la definizione più corretta di canzone popolare? Quali sono gli elementi che la caratterizzano (e che permettono di separarla nettamente da certa paccottiglia folcloristica), quali ne sono i contenuti?

La canzone popolare è innanzitutto l’espressione di un modo di concepire l’esistenza ed il mondo, è l’espressione di una cultura che si è sviluppata in maniera autonoma rispetto alla cultura egemone. E questo è un punto da tenere ben fermo se si vuole distinguere la vera canzone popolare dal cosiddetto “folk”, un termine che io non amo perché molto spesso è sinonimo di insincerità e di edulcorazione. Poi è essenziale il modo in cui la musica viene tramandata ed utilizzata: le canzoni popolari si tramandano di regola oralmente e non devono essere mercificate, trasformate in prodotti di consumo. Quanto ai contenuti della canzone popolare, essi sono estremamente vari: la canzone popolare, infatti, è stata in pratica, diciamo fino all’epoca della grande guerra, il giornale degli analfabeti, l’unica fonte di informazione per migliaia di persone sparse in tutta la Penisola. Molto spesso il suo contenuto è legato ad avvenimenti politico-sociali di carattere locale o nazionale, ma accanto a questo filone, che è poi quello della protesta e della lotta, ve ne sono molti altri, per esempio quello dei canti di lavoro (basti pensare ai canti della mietitura) o quello di carattere intimistico che comprende svariati motivi, fra i quali spiccano alcune bellissime ninnenanne, nel contempo semplici e poetiche.

Come è avvenuto il tuo incontro con la musica popolare?

È avvenuto nell’ambiente in cui sono cresciuta, un ambiente che mi permetteva di essere in contatto con il mondo contadino. Essendo di origini spagnole, quindi “straniera” fra i miei compagni di scuola, ero molto affascinata da quelle sfumature della lingua che allora permettevano al bambino di un quartiere di riconoscere quello di un altro. Il mio primo incontro fu dunque col dialetto, anzi con la lingua toscana, poi nacque in me un interesse specifico per la musica popolare: i primi motivi li ho ascoltati dalla voce della mia tata, una balia asciutta mugellana che sapeva cantare da donna e da uomo.

La tua attività di cantante si fonda su un lungo lavoro di ricerca sul campo. Quali sono gli strumenti culturali indispensabili perché tale lavoro risulti proficuo?

Certamente bisogna essere mossi da una reale curiosità ed avere le idee ben chiare sull’oggetto della ricerca, sui motivi che è interessante (e possibile) rintracciare. A questo scopo io ho lavorato a lungo in biblioteca, sulle raccolte di canti popolari conservate in Marucelliana, per costruire gli itinerari delle mie indagini, ma soprattutto mi sono basata sul sentito dire. Poi mi sono procurata un registratore ed ho cominciato a setacciare le nostre campagne. All’inizio questo lavoro di ricerca è stato tutt’altro che facile: c’era da vincere la mia timidezza e la comprensibile ritrosia delle persone alle quali chiedevo di cantare, specialmente delle donne. Spesso mi sono fatta presentare dal sindaco di questo o di quel comune, altre volte ho dovuto inventare dei pretesti per giustificare le mie richieste. Ma, a parte queste difficoltà, il lavoro che ho svolto è stato proficuo, sia perché ho trovato molte canzoni sia perché ho potuto conoscere delle realtà talora insospettabili, della gente che spesso aveva storie lunghe e difficili alle spalle. E questo è stato per me un grande arricchimento interiore.

I canti popolari sono una testimonianza estremamente significativa della concezione della vita delle classi subalterne. Sarebbe quindi molto interessante sapere, ad esempio, quale immagine essi danno del lavoro, della religione, del potere…

Il lavoro è sentito come un peso, perché gli operai ed i contadini sanno di lavorare per il profitto altrui. Nei canti di lotta c’è una precisa consapevolezza della natura classista della società, consapevolezza che non è evidentemente frutto di studi, ma di vita vissuta. Molto significativo è in questo senso un contrasto (che ho raccolto a Vingone) dove una contadina dice ad una marchesina queste precise parole: “Se le sue vesti valgono un tesoro / se vive in festa tra cavalli e cani / quel che mangia o consuma, o mia signora / gli è il prodotto di noi che si lavora”. Qui non c’è ombra di timore reverenziale: c’è la coscienza di essere sfruttati e c’è il coraggio di manifestare apertamente il proprio pensiero. Quanto alla religione, ciò che balza subito agli occhi è il fatto che nella campagna toscana una religiosità popolare radicata convive con un forte spirito anticlericale: Cristo è dalla parte dei poveri, i suoi rappresentanti no. Ai preti viene rimproverato di predicare la rassegnazione e di tradire lo spirito del Vangelo. Un altro punto da sottolineare è l’umanizzazione dei santi, della Madonna e di Cristo stesso. La Toscana è insomma molto più laica delle regioni vicine, segnatamente dell’Umbria. Il potere, infine, viene identificato con lo stato, e quest’ultimo è visto come un’entità lontana ed ostile che si fa viva con la povera gente solo quando si tratta di spremerla o di mandarla a morire in guerra. Qualcuno parlerà di pessimismo, dirà che la canzone popolare dà un’immagine tragica della vita, ma a chi parla così sfugge il fatto che la canzone popolare non fa altro che riflettere delle esperienze di vita e che queste esperienze di vita sono state spesso realmente tragiche.

Tra le tue canzoni più famose vi sono gli stornelli di Italia bella mostrati gentile ed il rispetto intitolato Maremma. Puoi parlarci di questi due brani?

Gli stornelli di Italia bella li ho raccolti nel Casentino, a Stia e nel castello di Porciano. La loro origine va ricercata nelle tensioni innescate dall’emigrazione di fine secolo, un fenomeno che interessò in una certa misura anche la Toscana. A Stia una fabbrica molto importante per il paese era entrata in crisi ed aveva dovuto chiudere. Alla chiusura seguirono i licenziamenti e l’esodo verso l’America. Nacquero così questi stornelli che si segnalano per spontaneità, per assenza di retorica. Il rispetto cui accennavi è invece legato alle migrazioni stagionali verso la Maremma ed è di incerta datazione. Forse risale all’Ottocento e si deve alla poetessa pastora Beatrice del Pian degli Ontani, una ragazza della montagna pistoiese che, nel giorno dello sposalizio, fu colta da uno stato di esaltazione e cominciò ad improvvisare dei bellissimi versi. Chissà, forse aveva bevuto un bicchiere di troppo. Sta di fatto che lei, analfabeta, ci ha lasciato delle cose straordinarie che le diedero una grande notorietà, tant’è vero che ricevette la visita di personaggi illustri dell’epoca, fra cui Giuseppe Giusti e Niccolò Tommaseo. Ma la persona a lei più vicina fu la moglie del conte Cini di San Marcello Pistoiese, Francesca Alexander. Entrambe erano infatti molto religiose.

Nella tua carriera è stata certamente molto importante la partecipazione agli spettacoli Bella ciao (presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel ’64, con la regia di Filippo Crivelli) e Ci ragiono e canto (rappresentato per la prima volta nel ’66 al Teatro Carignano di Torino, con la regia di Dario Fo). Che cosa volevano comunicare al pubblico questi spettacoli?

Ambedue si proponevano, in sostanza, di ricordare e di difendere il patrimonio politico e culturale delle classi popolari diffondendolo fra la gente, ed avevano alle spalle un lavoro di preparazione molto serio, anche da parte dei vari interpreti. Per Bella ciao fu utilizzato in parte il materiale impiegato per uno spettacolo che avevo presentato nel ’63 alla Casa del popolo Andrea del Sarto, qui a Firenze. Lo spettacolo (cui presero parte anche due grandi attori oggi scomparsi, Giorgio Naddi e Roberto Vezzosi) si chiamava Sottostoria d’Italia e, partendo dall’Unità, arrivava fino all’epoca di De Gasperi. Si trattava di un mélange di canzoni e di brani teatrali cui si accompagnavano notizie ricavate dai giornali. Ci ragiono e canto aveva dentro di sé una ricerca ancora più vasta e, rispetto a Bella ciao, era caratterizzato da un maggior approfondimento musicale e gestuale.

Si sa che Luigi Tenco aveva l’intenzione di incidere un disco di canti popolari. Francesco De Gregori è stato tuo chitarrista e ti ha dedicato una delle canzoni dell’album Titanic. Ciò induce a pensare che la musica popolare abbia contribuito al formarsi di una coscienza politica nell’ambito della canzone d’autore italiana. Qual è la tua opinione a questo riguardo?

La musica popolare ha certamente svolto una funzione di codesto genere. I cantautori intendevano infatti svecchiare la canzone italiana e, da questo punto di vista, i canti popolari hanno offerto loro una molteplicità di spunti musicali e contenutistici. Per quanto riguarda Francesco, credo che la familiarità con i temi popolari gli sia stata molto utile per acquistare quell’immediatezza di espressione che oggi tutti gli riconoscono. Si potrebbero fare i nomi di Jannacci, di Gaber, di Paoli, di De André, per arrivare fino a Gianna Nannini, che sulla musica popolare sta preparando la sua tesi di laurea.

La nostra canzone d’autore si è ispirata in larga parte alla chanson à texte francese. Che cosa ne pensi di artisti come Jacques Brel, Georges Brassens e Léo Ferré?

Penso che abbiano contribuito al rinnovamento della società francese e che abbiano cantato l’amore in maniera poetica e personale. E penso anche che queste cose siano tutt’altro che facili. Brassens, in particolare, era molto sensibile alla canzone popolare mediterranea. In una delle sue poesie (Supplique pour être enterré à la plage de Sète) ricorda la villanella, il fandango, la tarantella, la sardana e ciò è indice di un interesse sincero e di una ricerca non superficiale. Peccato che autori come quelli che ricordavi siano praticamente sconosciuti in Italia. C’è un problema di lingua, certo, però non si può fare a meno di osservare che questo problema esiste anche per l’inglese e che mentre le cose meno belle ed interessanti hanno sempre un pubblico pronto ad ascoltarle, le altre, quelle più valide, un pubblico se lo devono faticosamente costruire. Senza contare le responsabilità dei discografici, che promuovono in genere le canzoni più insulse e volgari.

La musica popolare italiana affonda le sue radici nella società contadina. Ma i movimenti migratori dell’epoca del boom hanno sconvolto in pochi anni strutture sociali secolari, inurbando con violenza le masse rurali. A questo fenomeno è seguita la nascita di una musica popolare nelle borgate e nelle periferie delle grandi città?

Secondo alcuni studiosi, senz’altro sì. Io però credo che (pur essendo emerso qualcosa di valido nelle grandi metropoli industriali nel campo della canzone di protesta) sia ancora troppo presto per esprimere dei giudizi. Il maturare di una reale capacità espressiva da parte di gruppi sociali sradicati dalla loro terra è un processo che richiede tempi lunghi. Bisogna superare la smania dell’integrazione che porta a nascondere la propria cultura, poi bisogna socializzare con persone che hanno le stesse origini e gli stessi problemi per rendersi conto del contrasto esistente col mondo in cui si è stati proiettati. E solo a questo punto si può acquisire quella capacità espressiva di cui parlavo. Le cose, quindi, non sono tanto semplici.

Quali sono oggi i filoni più interessanti e le prospettive della nostra musica popolare?

I filoni più interessanti sono senza dubbio quelli che stanno scomparendo, che rischiano di andar perduti per sempre: il ricercatore ne è attratto perché vuole impedire che ciò accada ed è felice quando riesce a raggiungere questo scopo. Quanto alle prospettive, tutto dipende dal modo in cui verrà utilizzato il materiale disponibile, dalla capacità di rendere una certa atmosfera e di suscitare un’emozione in chi ascolta. Lavorare su del materiale nuovo ed originale non è facile, questo è sicuro, ma la canzone popolare esiste da sempre e non è quindi il caso di recitarle il de profundis: non credo che vorrà morire proprio ora.




Tristano Codignola: un azionista fiorentino all’Assemblea Costituente

Uomo di grande carattere e di elevato profilo morale, Tristano Codignola rappresenta una figura di estremo interesse e di indubbia levatura all’interno della complessa vicenda della sinistra italiana novecentesca, non foss’altro che per la tenacia e l’assoluta coerenza con le quali, pur in contesti e momenti diversi della storia politica nazionale, operò sempre a favore di un rinnovamento del socialismo italiano e di una sua affermazione come forza riformista e di governo capace di suscitare nell’Italia postbellica un’alternativa democratica e indirizzare il paese verso il conseguimento di una profonda e concreta trasformazione politica e sociale.

Un intendimento questo mai rimosso, che anzi accompagna con continuità tutta la vicenda politica di Codignola, muovendo dall’antifascismo delle origini e attraverso la successiva stagione azionista, per progredire poi nell’Italia repubblicana con la ricerca di un socialismo autonomista inteso come una “terza forza” realmente alternativa e libera da qualsiasi condizionamento. Un intento questo al quale egli cercherà sempre di mantenersi fedele, prima puntando, dopo la scissione del 1947 del Partito d’Azione, ad unificare entro formazioni minori le sparute frange socialiste liberali esterne al PSI e poi portando nel 1957 questa minoranza “eretica” entro lo stesso Partito Socialista, storico soggetto politico riformatore della società al quale Codignola rimarrà legato sino al 1981, anno della sua morte.

In questo articolato percorso, risaltano e non si perdono mai in Codignola alcuni tratti fondanti del suo pensiero politico, quali tra tutti il tema della libertà, della giustizia sociale, di una concezione laica della vita, che certo gli provengono da varie e composite frequentazioni culturali ma soprattutto dall’influsso del socialismo liberale volontaristico e aclassista dei fratelli Rosselli, che non per nulla caratterizza il gruppo azionista fiorentino di cui Codignola, nella transizione dal fascismo alla Repubblica, diventa l’indiscusso leader politico. È Firenze non per nulla il luogo, spaziale e al contempo ideologico, nel quale affondano le fondamenta del pensiero e della lunga militanza politica di Codignola, benché per la verità di natali non toscani.

Nato ad Assisi il 23 ottobre 1913 e figlio del grande pedagogista Ernesto, Tristano Abelardo Codignola (“Pippo” per gli amici e per i compagni di lotta) cresce però in Toscana, prima a Pisa e poi a Firenze, città nelle quali la famiglia si trasferisce a seguito degli incarichi di insegnamento del padre Ernesto. È nel capoluogo toscano che quest’ultimo, allievo e collaboratore di Giovanni Gentile, ottiene nel 1923 la cattedra di pedagogia alla facoltà di Magistero e vi dirige poi a partire dal 1930 la casa editrice La Nuova Italia. Ed è sempre a Firenze che Tristano completa i suoi studi, prima diplomandosi al Liceo Michelangelo e poi laureandosi in giurisprudenza nel 1935 con una tesi in Storia del Diritto Italiano (relatore Francesco Calasso), cattedra della quale Codignola sino al 1942 sarà peraltro assistente. Dopo la laurea, Tristano comincia a lavorare nella casa editrice del padre, impresa di cui poi sarà a capo per circa quarant’anni, dalla Liberazione sino alla sua morte. Già di sentimenti antifascisti, nel 1936 Tristano aderisce al movimento clandestino liberalsocialista di Calogero e Capitini, attività per la quale è segnalato agli organi di polizia e più tardi arrestato nella propria abitazione fiorentina il 27 gennaio 1942. Dopo alcuni mesi difficili di confino scontati a Lanciano, Tristano torna sul finire dell’anno a Firenze, dove riprende subito l’attività clandestina, divenendo nei mesi dell’occupazione tedesca protagonista indiscusso della Resistenza cittadina nelle file del Partito d’Azione. Della sezione fiorentina Codignola è infatti eletto segretario nel 1945, mantenendo a partire dallo stesso anno e sino al 1947 anche il ruolo di direttore dell’organo politico del partito, il settimanale Non mollare! che riprende il nome della testata fondata a Firenze nel 1925 dal gruppo antifascista di Italia Libera.

È appunto al Partito d’Azione che, nella sua coeva riflessione politica, Codignola riconosce nel quadro dell’Italia postbellica il ruolo di forza socialista di tipo nuovo, a cui spetta attuare una rivoluzione democratica e un rinnovamento di tutti gli istituti fondamentali della vita italiana. Una missione questa per la quale Codignola cerca di lavorare spingendo il partito, dopo la caduta del governo Parri e la fine della stagione ciellenista, verso un’impostazione di sinistra di tipo rivoluzionario che è quella propria dell’interpretazione fiorentina dell’azionismo, legata cioè ancora una volta al socialismo liberale dei Rosselli: “per noi toscani il partito non può avere che un senso rivoluzionario, perché vuole cambiare tutta l’organizzazione statale italiana” afferma Codignola parlando al I Congresso nazionale del PdA che si tiene a Roma nel febbraio del 1946 e che sancisce appunto la vittoria della sua mozione sull’indirizzo politico del partito.

"Non Mollare!", Firenze, 6 febbraio 1946

“Non Mollare!”, Firenze, 6 febbraio 1946

A muovere Codignola su questa strada è anche la preoccupazione di ricondurre ad unità ideologica e politica il partito a fronte dei vari dissidi interni e di dotarlo così di una posizione autonoma e di equilibrio rispetto alle tentazioni trasformiste che nel nuovo quadro politico che anticipa il doppio voto del 2 giugno 1946 animano anche il campo delle sinistre. Già in previsione di questo passaggio fondamentale, discutendo dei possibili e futuri schieramenti interni all’Assemblea Costituente, Codignola, mentre riconosce nel PdA la “punta avanzata della democrazia progressista” e il solo “partito intimamente ed essenzialmente democratico”, gli attribuisce al contempo il compito di “creare il terreno di equilibrio fra socialisti e comunisti, impedire ai primi una politica di trasformismo, impedire ai secondi una prevalenza di motivi classisti (creatori di privilegi) su motivi democratici” imponendo al contempo “il chiarimento delle posizioni conservatrici della democrazia cristiana” (T. Codignola, Al di là della Costituente, «Non Mollare!» 18 aprile 1946).

In modo non dissimile, mentre egli riafferma a seguito dell’esito del voto del 2 giugno il valore della scelta repubblicana come “l’unica soluzione logicamente democratica”, ravvisa nuovamente la pericolosità della “tendenza di comunisti e socialisti a varare con la Democrazia Cristiana un accordo di condomino governativo” rivendicando invece per il PdA la scelta coerente di rimanere all’opposizione; un’opposizione tuttavia costruttiva che “come funzione essenziale della vita democratica e della dialettica parlamentare, si risolve in effettiva collaborazione da svolgersi attraverso il libero contrasto anziché attraverso la corresponsabilità di governo” (T. Codignola, Dalla monarchia alla repubblica, «Non Mollare!» 8 giugno 1946). Emergono già da queste posizioni il riconoscimento più tardo che Codignola avrà modo di fare del Parlamento come luogo preposto al libero e democratico confronto, nonché la sua peculiare natura di deputato e politico disposto a ricercare il compromesso nella concretezza dell’agire politico, senza mai però scendere a patti su questioni di principio.

Breve profilo biografico del candidato Codignola ("L'Italia Libera", Roma, 4 maggio 1946)

Breve profilo biografico del candidato Codignola (“L’Italia Libera”, Roma, 4 maggio 1946)

Alle elezioni del 2 giugno per l’Assemblea Costituente, Codignola si candida per il PdA nel XV Collegio elettorale di Firenze-Pistoia, nonché contemporaneamente nel XVI di Pisa-Livorno-Lucca-Apuania. Nella prima circoscrizione è presentato al quarto posto della lista azionista dopo Piero Calamandrei, capolista, Max Boris e Carlo Campolmi ed ottiene il terzo miglior piazzamento con 566 preferenze a fronte dei 1.941 voti del Calamandrei e dei 756 di Carlo Furno. Nella seconda circoscrizione Codignola appare invece in terza posizione dopo Guido Calogero e Amato Mati, piazzandosi al secondo posto con 588 voti di preferenza alle spalle di Calogero che ne ottiene 1.266. Il responso che il suo nome ottiene alle urne è quindi positivo, benché in realtà l’esiguo risultato elettorale riportato complessivamente dal PdA (334.784 voti, di cui 28.364 in Toscana) non consente al partito l’ottenimento di alcun quoziente pieno, di modo che i propri candidati potranno esser eletti solo tramite il Collegio Unico Nazionale. Tra i sette deputati azionisti eletti così nella lista nazionale all’Assemblea, Codignola risulta il settimo, alle spalle di Alberto Cianca, Riccardo Lombardi, Piero Calamandrei, Fernando Schiavetti, Leo Valiani e Vittorio Foa. Questi, entrati in Assemblea, costituiscono il gruppo parlamentare definitosi “autonomista” unendosi a Ferruccio Parri e a Ugo La Malfa, fuoriusciti dal PdA nel febbraio ed eletti nella lista di Concentrazione Democratica Repubblicana.

Nonostante Codignola sia tra i deputati più giovani, la sua attività all’Assemblea si distingue per la quantità e qualità degli interventi che vi svolge, nonché per l’evidente capacità dialettica e critica che contraddistingue il suo interloquire. Due sono soprattutto gli ambiti di discussione nei quali egli fa sentire con autorevolezza la propria voce. Da un lato vi è la questione dell’ordinamento autonomistico della Repubblica, tema non nuovo in Codignola che già della necessità di uno Stato a base autonomistica aveva parlato nelle Direttive programmatiche al PdA fiorentino del giugno 1944, quando aveva inteso l’autonomia come “autogoverno e autocontrollo del cittadino che ha il diritto e il dovere (…) di gestire direttamente la cosa pubblica insieme con gli altri consociati”. Più tardi, nell’ambito dei lavori della Costituente, Codignola auspica una riforma autonomistica ispirata alla necessità “di ravvicinare la rappresentanza alla base del Paese, e di affidare a questa rappresentanza i più ampi poteri di autogoverno e di legislazione locale nell’ambito della legislazione generale”. Colpisce in tal senso come in Codignola la difesa delle autonomie di cui si fa proponente sia però sempre intesa nel pieno rispetto dei principi generali dello Stato come pure a difesa della sua stessa unità: “una effettiva e radicale riforma autonomistica non è quella che indebolisce la unità dello Stato, ma quella che la rafforza” (T. Codignola, Chiarificazione sulle autonomie, «Italia Libera» 2 agosto 1946). Si capisce anche da questo passaggio, come egli, pur facendosi garante più volte della difesa delle autonomie regionali e in particolare della necessità di garantire costituzionalmente le minoranze etniche e linguistiche delle zone di confine, avesse però ritenuto discutibile il sistema col quale si stava dotando alcune regioni italiane di statuti speciali, che a suo giudizio si erano rivelati in alcuni casi incompatibili con il principio di unità dello Stato. Per questo, nel luglio del 1947 aveva proposto con un emendamento all’articolo 108 del Titolo V del Progetto di Costituzione della Repubblica (poi non approvato) la necessità di formulare una dichiarazione che, nel rispetto dell’ordinamento regionale, garantisse però al contempo il mantenimento delle libertà fondamentali garantite ai cittadini dalla Costituzione.

T. Codignola, "Chiarificazione sulle autonomie" ("Italia Libera" 2 agosto 1946)

T. Codignola, “Chiarificazione sulle autonomie” (“Italia Libera” 2 agosto 1946)

A fianco del problema delle autonomie, è però il tema della scuola che in sede di Costituente suscita più di altri la vis critica di Codignola e l’appassionata difesa dei suoi principi. Sicuramente, l’impegno di Codignola su questo aspetto è da ricondursi in buona parte al peso che la questione dell’insegnamento esercita su di lui per il tramite del padre e dei suoi interessi pedagogici, interessi che peraltro egli condivide e che nel prosieguo della sua carriera parlamentare lo spingeranno in fatto di istruzione a divenire uno dei principali riformatori dell’Italia repubblicana. La battaglia che nell’aprile del 1947 Codignola porta avanti entro l’Assemblea Costituente soprattutto sugli articoli 27 e 28 del progetto (poi divenuti gli articoli 33 e 34 della carta costituzionale) è anzitutto una battaglia combattuta per la formazione di coscienze libere all’interno di una società laica e democratica. La matrice libertaria della pedagogia del Codignola si scontra in questa sede con l’impostazione dogmatica delle forze cattoliche, sullo sfondo di una accesa battaglia per la difesa della scuola pubblica.

T. Codignola, "La scuola resta allo Stato" ("L'Italia Libera" 1 maggio 1947)

T. Codignola, “La scuola resta allo Stato” (“L’Italia Libera” 1 maggio 1947)

Secondo Codignola, anzitutto, il progetto di Costituzione avrebbe dovuto limitarsi a indicare qualche breve dichiarazione generale, lasciando alla legislazione ordinaria il compito di affrontare i problemi particolari dell’ordinamento scolastico. In tal senso, i principi generali da affermare entro la carta costituzionale sarebbero dovuti essere quelli della libertà di insegnamento, del diritto di controllo dello Stato sull’insegnamento, e del riconoscimento della gratuità dell’istruzione almeno fino al 14° anno di età. Sul primo dei tre, tuttavia, è in atto un pericoloso equivoco dietro al quale, rivela Codignola nel suo appassionato intervento in aula del 21 aprile 1947, si cela la contrapposizione tra il principio laico di “libertà nella scuola” e quello cattolico di “libertà della scuola”. I cattolici e le forze democristiane, con libertà di insegnamento intendono soprattutto affermare la “libertà della scuola”, cioè il dovere dello Stato di garantire a chiunque – ad istituti ed enti privati quindi – la piena libertà di organizzare ed esercitare la funzione educativa, dice Codignola, “fino alle estreme conseguenze che siano loro consentite”. Ciò significa però che la scelta dei contenuti, delle idee e dei comportamenti da trasmettere nell’insegnamento rischia di essere ispirata a principi di parte e diventare nel caso della scuola cattolica un’educazione autoritaria all’accettazione di una verità rivelata che è una Verità sola. La scuola della Repubblica deve invece educare al pensiero libero e critico, perché se suo scopo è quello di assicurare un’educazione democratica del cittadino l’unico modo è che si faccia portatrice di un principio di libertà di insegnamento che promuova la convivenza e il confronto di diverse posizioni culturali e ideologiche. Soltanto la scuola pubblica, come palestra di confronto tra verità diverse, può assicurare questo principio di libertà. C’è in questa convinzione la consapevolezza, che è propria di Codignola e che non a caso era stata pure alla base della pedagogia del padre, che un’educazione autoritaria rischi di trasmettere un’attitudine autoritaria, laddove invece un insegnamento veramente libero può divenire un propulsore dello sviluppo democratico del paese.

"L'Italia Libera", 22 aprile 1947

“L’Italia Libera”, 22 aprile 1947

Il laicismo di Codignola, sempre presente nella sua attività parlamentare (non a caso egli vota contro l’accettazione nella carta costituzionale del Concordato del 1929) è particolarmente evidente nella difesa che egli fa in aula della scuola pubblica contro gli assalti democristiani e nei riguardi soprattutto del Dc Guido Gonella, il “ministro dell’istruzione privata” come lo apostrofa Codignola, intento a preparare “una riforma clandestina della scuola”. Un argine a simili progetti viene posto soprattutto grazie alla battaglia combattuta dal PdA e dalle altre forze laiche attorno ad un emendamento al comma 1° dell’art. 27 del progetto, firmato assieme ad altri deputati dallo stesso Codignola. Ribaltando il senso di un precedente emendamento democristiano che proponeva la norma del sovvenzionamento da parte dello Stato delle scuole non statali, la controproposta firmata da Codignola – che poi si affermò nella votazione per appello nominale con uno scarto di circa quaranta voti – riconosceva che la piena libertà di istituzione di scuole da parte di enti e di privati fosse però senza oneri per lo Stato. Il tentativo democristiano di porre a carico dello Stato la “libertà della scuola”, nel senso dato dai cattolici, fu in questo modo respinto.

L’impegno profuso in sede di Costituente da Codignola per una scuola pubblica laica e democratica diverrà poi una costante della sua successiva attività politica e parlamentare, sia come responsabile dal 1958 della Commissione scuola del Psi, che come deputato socialista protagonista di numerose battaglie (come quella sostenuta contro il piano decennale per lo sviluppo della scuola presentato nel 1958 dal governo Fanfani)  nel farsi anche di importanti riforme quali l’istituzione della scuola media dell’obbligo (1962), della nuova scuola materna di Stato (1968), nonché della liberalizzazione agli accessi universitari e dei piani di studio sancita dalla legge n. 910 del 10 dicembre 1969, ricordata ancora oggi come “legge Codignola” dal nome del suo ideatore.

Un impegno coerente, quello di Codignola nei riguardi della scuola, che richiama la più generale coerenza con la quale egli portò avanti nella lotta politica i suoi principi fondamentali, spesi sempre a vantaggio dell’affermazione di una compiuta democrazia laica e socialista.




Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.




Scioperare contro Hitler: una testimonianza

All’inizio del 1944 la direzione del PCI per l’Alta Italia riunì i rappresentanti dei comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e decise di organizzare uno sciopero generale nelle regioni del triangolo industriale. L’iniziativa venne poi discussa con gli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia ed estesa al Veneto, all’Emilia ed alla Toscana. Alla data stabilita (1° marzo 1944) circa un milione di lavoratori entrò in lotta, dando vita al più grande movimento di massa verificatosi in Europa sotto l’occupazione nazista. Pieno di rabbia, Hitler ordinò personalmente a Rudolph Rahn, suo ambasciatore a Salò, di far deportare il 20% degli scioperanti, ed anche se «il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per ‘difficoltà tecniche’ inerenti ai trasporti e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica» (Pietro Secchia-Filippo Frassati, Storia della Resistenza, vol. I, Roma, Editori riuniti, 1965, p. 476), tuttavia settecento operai vennero deportati da Torino e varie centinaia da Milano.

In Toscana, a causa di ritardi verificatisi nella preparazione, l’agitazione cominciò il 3 marzo. A Prato lo sciopero, appoggiato da tutti i partiti antifascisti, fu preparato dal PCI nel primo bimestre del 1944. I repubblichini risposero con i rastrellamenti alla buona riuscita dell’agitazione: centotrentasette persone vennero deportate nei campi di sterminio tedeschi (Ebensee, Gusen, Hartheim, Mauthausen … ): i superstiti furono soltanto ventuno.
Tra i principali organizzatori dello sciopero vi fu Renzo Martelli, un coraggioso combattente antifascista che nel 1941 era stato arrestato e deferito al Tribunale speciale, riportando una condanna a sette anni di reclusione con sentenza del 28 aprile dell’anno successivo (su Renzo Martelli, oggi scomparso, cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, H-M, Milano, La pietra, 1976, ad vocem). Il 9 settembre 1991 Renzo mi rilasciò un’intervista sui giorni dello sciopero a Prato che venne pubblicata alcuni anni dopo da Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 31 luglio 1997. Ne riproponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento con lievi modifiche.

Nel libro Un popolo alla macchia (Roma, Editori riuniti, 1975) Luigi Longo scrive che gli scioperi del marzo ’44 furono decisi dalla direzione del PCI per l’Alta Italia unitamente ai comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del ’43. Questa iniziativa venne poi approvata dai CLN (pp. 134-135). Quale organismo decise lo sciopero a Prato?

A Prato fu il CLN che deliberò lo sciopero su proposta dei comunisti. Parallelamente alla discussione che si svolgeva all’interno del CLN, il PCI organizzò alcune riunioni in località La Catena [Quarrata, N.d.C.], per discutere gli aspetti organizzativi dello sciopero. A tali riunioni prese parte Giuseppe Rossi, segretario provinciale del partito. A Prato i principali organizzatori dello sciopero furono – oltre al sottoscritto – Dino Saccenti, Bruno Rosati, Cesare Rosati, Alimo Gori ed Alberto Innocenti.

Sempre Luigi Longo afferma che lo sciopero generale fu attuato nelle principali città dell’Alta Italia il 1° marzo 1944 (p. 136), e che in Toscana esso cominciò due giorno dopo “per il ritardo nella preparazione” (p. 139). Da che cosa dipese questo ritardo?

Tale ritardo fu dovuto alla difficoltà di raggiungere, a proposito della proclamazione dello sciopero, l’unanimità in seno al CLN (che non deliberava a maggioranza, ma, per l’appunto, all’unanimità). Lo sciopero avrebbe comunque avuto luogo perché il PCI era deciso ad organizzarlo anche senza l’appoggio degli altri partiti ciellenistici. La proposta comunista di indire lo sciopero fu sostenuta soprattutto dai socialisti e dagli azionisti. Gli altri erano più tiepidi. I democristiani si pronunciarono a favore dello sciopero, ma il loro apporto sul piano organizzativo fu poi molto limitato.

Aspetti organizzativi. Come venne preparato lo sciopero a Prato? Come furono avvisati gli operai e che cosa fu fatto perché l’astensione dal lavoro fosse la più ampia possibile?

Nei 3-4 giorni che precedettero lo sciopero il PCI costituì delle squadre che agivano durante il coprifuoco lasciando dei manifestini sui davanzali delle finestre, sotto le porte, in campagna, ecc. La notizia dello sciopero fu inoltre diffusa oralmente. Infine il PCI organizzò, la mattina del giorno in cui lo sciopero doveva cominciare, dei posti di blocco, formati da 3 o 4 uomini armati, sulle principali vie di accesso alla città (io facevo parte del nucleo che si trovava alla Madonna del Berti). Lo scopo era quello di rimandare indietro gli operai che si recavano al lavoro, ma solo facendo opera di persuasione, evitando naturalmente minacce o violenze. Le armi servivano nel caso in cui fossimo stati sorpresi dai nazifascisti. Da rilevare che alcuni operai decisero di andare regolarmente in fabbrica senza darci ascolto.

Quali erano gli obiettivi dello sciopero?

Pace e libertà per il popolo italiano. Non furono allora avanzate rivendicazioni di carattere salariale, ecc. L’obiettivo prioritario era la liberazione del Paese.

Quale fu l’estensione dello sciopero? Grosso modo, quante fabbriche ne furono interessate e quanti furono gli scioperanti?

Lo sciopero riuscì bene. Ci furono delle defezioni, ma nella maggioranza delle fabbriche non si lavorò. Sarebbe tuttavia scorretto parlare di astensione generale dal lavoro.

Quale fu la durata dello sciopero? A questo riguardo le cose non sono del tutto chiare.

Lo sciopero cominciò il 4 marzo e si concluse il 7 col rientro graduale degli operai nelle fabbriche. Il 10 io fui incaricato dal centro fiorentino del partito di riorganizzare una formazione partigiana nei dintorni di Vicchio [la Compagnia Ceccutti, N.d.C.] e partii alla volta del Mugello. Ora, se lo sciopero fosse stato ancora in corso a quella data o nei giorni immediatamente precedenti (8 e 9 marzo) io, che ne ero stato uno degli organizzatori, non avrei evidentemente lasciato Prato. Ciò sarebbe stato alquanto strano.

Quale fu il comportamento degli industriali? Anche a questo riguardo le cose non sono del tutto chiare (cfr. Alessandro Affortunati, Vaiano e la sua Casa del popolo. Il movimento operaio nella Valle del Bisenzio, Prato, Pentalinea, 2000, pp. 75-76).

Gli industriali lavoravano per i tedeschi. Essi guardarono quindi con sfavore allo sciopero, ma non mi risulta che le loro responsabilità siano state particolarmente pesanti. Ci furono comunque degli episodi (per esempio al Lanificio Campolmi) che diedero adito a sospetti.

Carlo Ferri ne La valle rossa (Vaiano, Viridiana, 1975, p. 95) scrive che lo sciopero provocò l’interruzione di ogni collegamento fra la città ed i partigiani. A questo riguardo ci fu dunque una carenza organizzativa che si risolse nella mancanza di coordinazione fra la città e la formazione che si trovava ai Faggi?

Lo sciopero creò indubbiamente degli scompensi, ma una formazione partigiana deve essere autonoma. I partigiani che si trovavano ai Faggi dovevano dunque risolvere da soli il problema dei rifornimenti. Non potevano aspettarsi di ricevere allora particolari aiuti dalla città.

Secondo quali modalità ebbero luogo i rastrellamenti attuati dopo lo sciopero?

Non furono seguite modalità particolari: i tedeschi catturavano tutti quelli che capitavano loro a tiro. Va sottolineato il fatto che i repubblichini ebbero gravissime responsabilità nei rastrellamenti perché erano loro che conoscevano bene i luoghi, le fabbriche e le persone.

A tanti anni di distanza quale bilancio ritieni di poter fare dello sciopero del marzo ’44?

Lo sciopero sollevò il morale della gente nonostante le deportazioni. Dimostrò che agire era possibile, se se ne aveva la volontà, ed è significativo il fatto che, dopo la fine dello sciopero, il numero delle persone che salivano in montagna aumentasse. A Prato, come nel resto del Paese, lo sciopero del ’44 fu una tappa importante della lotta di liberazione.




Gino Bartali e i Giusti toscani che salvarono gli ebrei

Tenere la memoria viva. A questo serve principalmente l’istituzione dell’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” voluta dallo stato d’Israele che ad oggi riconosce questo status a quasi 25.000 persone. Il termine “Giusto tra le nazioni” è utilizzato per indicare i non-ebrei che hanno agito in modo eroico a rischio della propria vita per salvare quella anche di un solo ebreo dal genocidio nazista conosciuto come Shoah.

Nel mio lavoro ho voluto parlare soprattutto di quattro toscani che sono stati insigniti del riconoscimento da Yad Vashem, il museo-archivio con sede a Gerusalemme che oltre ad essere il memoriale ufficiale delle vittime ebree dell’Olocausto, è l’unica istituzione a riconoscere il titolo di “Giusto tra le nazioni”: presso il museo si trova, infatti, il Giardino dei Giusti, dove vengono onorati coloro che a rischio della propria vita salvarono degli ebrei dallo sterminio. In totale sono 107 i toscani riconosciuti, su un totale di 563 italiani.

Tra i più importanti, perché conosciuto, ma anche perché la storia del suo impegno nella salvezza di molti ebrei rivela il rischio per la sua carriera e per la sua stessa vita, è Gino Bartali. Su sollecitazione dell’arcivescovo fiorentino Elia Dalla Costa, che fu molto attivo durante la fine della Seconda Guerra Mondiale nell’aiutare profughi ebrei, il campione di ciclismo diventò una delle staffette in bicicletta che portavano ordini, documenti falsi, informazioni per permettere di spostare o nascondere gli ebrei in difficoltà. Nel 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli conferì la medaglia d’oro al merito civile per aver salvato «circa 800 cittadini ebrei».

Un altro toscano che si distinse per evitare violenze fu l’avvocato livornese Giovanni Gelati che si ritrovò podestà del piccolo comune vicino Lucca dove era sfollato con la famiglia, Coreglia Antelminelli. Con il “vero” podestà rapito dai partigiani e i tedeschi che incalzavano, nell’estate del ’44, l’antifascista Gelati fu costretto ad accettare la realtà: il paese era allo sbando, e lui era l’unico che poteva prendere in mano la situazione. Con saggezza e umiltà si assunse il compito difficilissimo di mediare tra le varie forze in campo, e tra mille peripezie e pericoli riuscì a tenere a bada gli animi, a riempire i granai, evitare la sorte atroce e sempre in agguato, a portare in salvo il paese oltre la liberazione, per poi tornarsene infine alla vita privata.

Don Arturo Paoli, invece, è un prete lucchese, responsabile della casa degli Oblati del Volto Santo, che usò quell’edificio come luogo per nascondere poco meno di un migliaio di ebrei. Dopo partì per il Sudamerica, dove è stato per oltre 45 anni missionario in Brasile e si è interessato alla teologia della liberazione. Oggi vive sulle colline a pochi chilometri da Lucca. E’ una figura molto importante tra i Giusti toscani per la sua alta dignità etica e la sua sincera testimonianza religiosa. Oltre ad essere celebrato nel 1999 Giusto tra le nazioni è stato insignito dell’onorificenza al valore civile da Carlo Azeglio Ciampi, nel 2006.

Tra i Giusti toscani c’è inoltre anche Vittoria Valacchi, una signora fiorentina, che insieme alla zia Elena Cecchini, salvò alcune famiglie di ebrei nascondendole in un podere nella campagna intorno a Firenze. E’ l’ultima toscana insignita dell’onorificenza di Giusta tra le nazioni, e vive oggi a Firenze a poche decine di metri da una delle figlie della famiglia che salvò, i Salmon.

Questo lavoro di ricerca offre poi una lunga serie di schede su tutti i toscani insigniti dell’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” che corrisponde al detto del Talmud: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”.

 

Alfredo De Girolamo manager pubblico, presidente di Confservizi Cispel Toscana; pubblicista e scrittore, collaboratore delle principali testate giornalistiche nazionali e regionali, nella sua attività divulgativa ha pubblicato i libri Gerusalemme, ultimo viaggio (Ets, 2009), Kibbutz 3000 (Ets, 2011), Acqua in mente (Ets, 2012), Israele 2013 (Ets, 2013), Servizi Pubblici Locali (Donzelli, 2013), Gino Bartali e i Giusti toscani (Ets, 2014), Francesco in Terra Santa (Ets, 2014).

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Teresa Mattei, la “ragazza di Montecitorio”

2 giugno 1946, le cronache del voto descrivono lunghe file di donne in attesa alle urne per votare. E’ la prima volta che sono chiamate ad esercitare il proprio diritto di voto. Si chiede loro un atto di grande responsabilità, poiché con quelle elezioni si edifica la Repubblica italiana che deve dotarsi di uno degli strumenti atti a preservare la democrazia, la Costituzione. Ma è anche la prima volta che le donne hanno la possibilità di essere elette. Sono 21 le madri costituenti che il 25 giugno 1946 entrano per la prima volta alla Camera dei deputati insieme agli altri politici (556 in totale). Generi e generazioni a confronto, impegnati nella costruzione della democrazia italiana. Tra loro anche la giovane toscana Teresa Mattei.

teresa mattei a vent'anniNata a Quarto (Genova) il 1 febbraio 1921 da Ugo Mattei, industriale, attivo in Giustizia e Libertà, e da Clara Friedmann, Teresa cresce in una famiglia di ispirazione antifascista. Dopo l’infanzia passata a Milano, dove la famiglia si era stabilita per il lavoro del padre, i Mattei si spostano a Bagno a Ripoli nel 1933, dove la casa è frequentata da intellettuali e da quelle che sarebbero divenute personalità di spicco dell’antifascismo prima, della resistenza poi e infine della vita politica italiana del dopoguerra, come per esempio Piero Calamandrei, Giorgio La Pira, Natalia Ginzburg, Carlo Levi. L’apprendistato alla politica avviene quindi per Teresa in famiglia, partecipando ai dibattiti e anche ad alcune azioni concrete che il padre le affida. Appena sedicenne, nel 1937, accetta per esempio di portare a Nizza una colletta raccolta da alcuni compagni in sostegno dei fratelli Carlo e Nello Rosselli. Al ritorno da questa prima azione incontra don Primo Mazzolari a Mantova per portargli alcuni messaggi, ma in questa circostanza incorre nel fermo da parte della polizia fascista. Scagionata dall’intervento del padre e tornata a Firenze, manifesta in più occasioni apertamente le proprie convinzioni, soprattutto a scuola, discutendo e disobbedendo ad alcuni regolamenti, fino a che nel 1938, interrompendo un professore che sta esaltando in classe le leggi razziali, viene espulsa da tutte le scuole del Regno.

Nel 1942 si iscrive, insieme al fratello Gianfranco, al Partito comunista italiano e successivamente, in seguito alla destituzione di Mussolini, alla firma dell’armistizio e all’occupazione tedesca, fa parte della resistenza col nome di battaglia Chicchi. All’interno dei Gruppi di difesa della donna e dei GAP si occupa di tenere i collegamenti tra i diversi gruppi e i componenti delle brigate partigiane, ma è protagonista anche di azioni più impegnative. È questo il periodo in cui incontra Bruno Sanguinetti, poi suo futuro marito, del quale diventa stretta collaboratrice. Nel febbraio 1944 la famiglia Mattei è segnata da un tragico avvenimento. Il fratello Gianfranco, trasferitosi a Roma, dove fa parte dei GAP, viene catturato dai tedeschi, imprigionato e torturato in via Tasso. Per non rischiare di tradire i suoi compagni e rivelare informazioni sul movimento partigiano, si suicida in cella con la cintura dei pantaloni. Teresa parte subito per Roma, anche per dare conforto ai genitori, e porta con sé le matrici dell’Unità. Durante il tragitto è anche lei fermata da soldati tedeschi, interrogata, percossa e, come ha rivelato solo cinquant’anni dopo in un’intervista a Gianni Minà, stuprata.

La violenza subita non la fa desistere dal suo impegno e, tornata in Toscana, organizza e prende parte agli scioperi del marzo 1944 a Firenze e a Empoli, e più tardi è in prima fila, guidando una squadra di una cinquantina di partigiani, nella battaglia per la liberazione della città nel settembre del 1944.

Dopo la fine della guerra l’impegno attivo politico e sociale di Teresa continua: lavora nella Federazione fiorentina del PCI, soprattutto nell’ambito femminile e nell’UDI. E’ infatti proprio durante il primo congresso nazionale dell’UDI, tenutosi a Firenze tra il 20 e il 23 ottobre 1945, che Palmiro Togliatti rimane colpito dalla personalità della Mattei, che viene quindi chiamata a lavorare a Roma, alla direzione del partito.

In vista delle elezioni per la Costituente viene candidata per la circoscrizione Firenze-Pistoia. Ottiene 5299 preferenze, poche in confronto alle 15384 dell’altra candidata fiorentina, la socialista Bianca Bianchi, ma quante bastano per essere una delle 21 donne che entrano a far parte dell’Assemblea.

19471222-presentazione-costituzione-al-presidente-de-nicola-4In seno ai lavori della Costituente sono da ricordare in particolare la battaglia di Teresa Mattei affinché al comma secondo dell’art. 3, relativo alla “completa uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”, venisse aggiunta l’espressione “di fatto”; l’impegno, disatteso, per ottenere che il testo costituzionale riconoscesse esplicita­mente il diritto delle donne ad entrare in magistratura; la discussione  per l’articolo 37, laddove, con riferimento al lavoro femminile, si fissava l’obiettivo di assicurare “alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” (articolo che ha destato aspre polemiche, per quella espressione, che identificava “l’essenziale” funzione di madre delle donne).

Il 27 dicembre 1947 viene conferito a Teresa l’incarico, in qualità di costituente più giovane, di consegnare nelle mani del presidente Enrico De Nicola il testo costitutivo della neonata Repubblica Italiana.

In seguito Teresa Mattei ha alcune divergenze con Togliatti, già avviate in seno alla discussione per l’art. 7, in quanto sostenitrice della laicità dello Stato, proseguite per la sua gravidanza, frutto della relazione extraconiugale con Sanguinetti, e culminate nel 1955 quando, per la sua opposizione alla linea antidemocratica del partito, viene espulsa.

Negli anni seguenti l’impegno di Teresa Mattei, dopo la fase pisana di partecipazione al fermento della fine degli anni ’60 e inizio degli anni ’70, si rivolge prevalentemente alle tematiche dell’ educazione e dei diritti dell’infanzia e nella fase finale della sua vita, si  dedica alla testimonianza e all’impegno civile nell’ANPI, sul terreno dei diritti e della difesa della Costituzione, mostrando fino alla più tarda età la fierezza, la determinazione e il coraggio delle proprie idee.

Articolo pubblicato nel giugno 2014.