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Arduino Lazzaretti e Aurelio Regini

Seconda parte di questa breve rassegna di profili di esponenti del Partito comunista d’Italia dell’area fiorentino-pratese.

LAZZERETTI Arduino

(Lastra a Signa, 17 aprile 1893 – lager di Severo-Vostočnyj, baia di Nagaev 15 gennaio 1938)

 Figlio di Santi e di Maria Guarnieri, di famiglia contadina, bracciante e macellaio, impegnato alla Camera del Lavoro, pur senza cariche e iscritto al PCd’I fin dalla fondazione, dopo una militanza nel partito socialista. Domiciliato a Porto di Mezzo, frazione del Comune di Lastra a Signa, è  considerato comunista pericoloso. Per sottrarsi alle rappresaglie degli squadristi fiorentini e all’arresto con l’accusa di complicità corrispettiva di omicidio e mancato omicidio commessi contro i fascisti il 30 ottobre 1921, emigra clandestinamente prima in Francia e nel 1923 in Unione Sovietica: è perciò iscritto nella Rubrica dei sovversivi pericolosi e attentatori residenti all’estero, al n°2552 e nel Bollettino delle ricerche: il 22 febbraio 1925 infatti la Corte d’Assise di Firenze lo aveva condannato in contumacia a 30 anni di reclusione e a 9 di vigilanza speciale. Il cenno biografico stilato il 13 maggio dello stesso anno lo presenta di carattere «impulsivo, di mediocre intelligenza … assiduo al lavoro … verso la famiglia si comporta bene … spavaldo e prepotente verso le Autorità». In merito alla sua attività di oppositore del regime fascista «Non è capace di tenere conferenze; però ha preso parte a tutte le riunioni e manifestazioni sovversive in qualsiasi circostanza, dimostrandosi sempre violento e pericoloso per commettere reati politici». Il 20 maggio 1925 la Prefettura di Firenze comunica al Ministero dell’Interno che egli risiede a Parigi, in rue S. Martin Notre Dame de Nazareth, secondo un’informazione estorta ad un suo compaesano: la conseguente domanda di estradizione a suo carico è però respinta dalle autorità francesi. La ricerca ossessiva del «pericoloso comunista» giunge allo stretto controllo della corrispondenza dei suoi familiari: in una lettera della madre una postilla della sorella Vittoria raccomanda ad Arduino di indirizzare la sua posta alla famiglia di Giuseppe Montani, alle cui dipendenze lavora il padre Santi, perché la loro casa è sottoposta a frequenti perquisizioni da parte dei carabinieri. Sappiamo che nel corso del 1931 emigra nell’Unione Sovietica, dove il suo recapito a Mosca e l’attività lavorativa rimangono a lungo sconosciuti alle autorità fasciste, mentre una prefettizia risalente al 6 ottobre 1933 ci fa sapere che Arduino «è stato inserito nell’elenco dei sovversivi classificati attentatori o comunque capaci di atti terroristici, residenti all’estero», finché in data 1° luglio 1937 un telespresso  dell’ambasciata italiana riferisce che la sua residenza a Mosca è in via Bolsaia Grusinskaia, n° 19, app. II, ma che da diversi mesi  si trova in carcere sotto l’accusa di trockismo. L’arresto è sicuramente avvenuto dopo il 30 settembre dell’anno precedente, quando una lettera di Arduino al padre lo informa di stare bene, così come la moglie e i figli, Lisa e Alfredo e di essere stato nominato Tenente anziano della guardia rossa; inoltre ancora in una nota della Prefettura di Firenze del 30 gennaio 1937 egli è segnalato come impegnato a svolgere propaganda comunista in Russia unitamente ad altri comunisti italiani ivi immigrati: ancora a quell’epoca dunque egli risulta libero cittadino sovietico. L’ultima prefettizia che lo riguarda risale all’8 luglio 1942, quando ormai le relazioni diplomatiche fra l’Italia fascista e l’URSS sono interrotte dallo stato di guerra, per registrare che da tempo di lui non si hanno più notizie. Eppure la sua situazione già dall’estate del 1936 si stava deteriorando, in quanto risulta che fin dal 9 agosto 1936 era stato espulso dal PCU(b) per finire arrestato dall’NKVD il 29 aprile 1937 con l’accusa di «aver partecipato, nel 1927, a una riunione illegale alla quale era intervenuto Trockij». E’ interrogato e detenuto nel carcere di Butyrki insieme al compagno Giuseppe Sensi. L’8 agosto 1937 è condannato a cinque anni di lager da scontarsi a Severo-Vostočnyj (baia di Nagaev), dove muore il 15 gennaio 1938. Il percorso politico e professionale di Arduino in Unione Sovietica è costituito dall’iniziale approdo alla casa dell’immigrato politico di Mosca fino a prendere la cittadinanza sovietica nel 1932 e alla successiva militanza nel partito comunista bolscevico e dal successivo impiego come direttore di mensa in un salumificio per poi divenire ispettore della milizia. Caduto in disgrazia, perde il lavoro ed è costretto ad impiegarsi provvisoriamente come operaio al cantiere della metropolitana di Mosca. Tra il 1936 e il 1937 i dirigenti del PCd’I che lavorano alla Sezione quadri del Comintern prendono più volte in esame il suo caso e nel ricostruire la sua biografia e le sue posizioni politiche lo segnalano come bordighista. Il 4 luglio 1956 le autorità sovietiche lo riabilitano. Nel 50° anniversario della Liberazione di Lastra a Signa viene eretto un monumento a ricordo di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà: Arduino è fra costoro.

 FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Direzione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Memorial, Archivio di Stato della Federazione Russa, Fondo degli atti istruttori 10035, op.1, P. 26343, cc. 27, 1937-1957; E. Dundovich, F. Gori, E. Guercetti, Reflections on the gulag: with a documentary index on the italians victims of repression in USSR, Milano Fndazione G. Feltrinelli, 2003; G. Lehner con F. Bigazzi, La tragedia dei comunisti italiani, Milano Mondadori, 2001; www. gulag-italia.com, scheda personale di Arduino Lazzeretti.

Regini006REGINI Aurelio (Domenico Carpi)

(Empoli, Firenze 24.12.1903 – U.R.S.S., ?)

Figlio di Serafino e Meucci Maria Assunta, cenciaiolo, comunista. Quando la Prefettura di Firenze stila il cenno biografico che lo riguarda, il 30 novembre 1937, la sua parabola di vita e il suo impegno politico nelle file del partito comunista volgono alla fine. E’ considerato di carattere taciturno ma abbastanza intelligente oltre che discreto lavoratore. Sebbene in famiglia si comporti bene, è giudicato pericoloso per le sue frequentazioni di elementi sovversivi ed il suo contegno sovente sprezzante verso le autorità. Nel 1922 emigra in Francia con regolare passaporto e dopo cinque anni si trasferisce in Belgio. In Francia, fino al 1925 risiede a Longwy (Meurthe et Moselle), dove svolge attività politica come persona di fiducia del Pci in qualità di responsabile dei collegamenti con i comunisti residenti in Lussemburgo. Dopo un breve rientro in Italia per visitare la famiglia che risiede a S. Martino a Pontorme, nell’immediata periferia di Empoli, il 13 settembre 1926 gli viene rilasciato un nuovo passaporto per trasferirsi ancora in Francia. A partire dal 1927 abita e lavora in Belgio, a Ougrée, Liegi, rue Ferdinand Nicolary, n°117, dove svolge la funzione di segretario della sezione cittadina del Soccorso rosso internazionale. Il 24 gennaio 1930 è’ imputato dell’omicidio del fascista Fernando Poloni, sulla base dell’unica testimonianza del fratello della vittima, avvenuto il 25 dicembre dell’anno precedente, proprio nel quartiere dove abita. Nonostante l’immediato arresto di Giovanni Cantini, gerente di un piccolo caffè, anch’egli originario di Empoli, di Salvatore Budroni, minatore di Oschiri (Sassari), anch’egli collettore del Soccorso rosso e di Egidio Rampioni, muratore comunista di Fano (Pesaro), sospettati di complicità, Aurelio riesce a sfuggire alla cattura dirigendosi verso Arlon, con l’intento di varcare la frontiera del Lussemburgo. L’accusa di omicidio contrasta con le notizie del Consolato d’Italia a Liegi, secondo le quali Aurelio «aveva assunto un atteggiamento riservato e tranquillo». La perquisizione effettuata a carico del fratello Emilio su iniziativa della Prefettura di Firenze conduce la polizia a individuare la sua residenza in Belgio, ma una lettera del fratello Luigi, anch’egli emigrato, del 21 marzo 1930, indirizzata proprio ad Emilio, riferisce che Aurelio è riparato in Russia in seguito ai fatti di Liegi, con l’aiuto di un compagno, Fantin Flora, che gli consegna denaro e vestiti. Ma intanto le autorità belghe avevano provveduto ad espellerlo il 24 febbraio e la Corte d’Assise di Liegi a condannarlo in contumacia alla pena capitale nel gennaio del 1931: da quel momento la polizia fascista si sforza di seguire la vita e gli spostamenti di Aurelio in territorio sovietico. Nell’aprile 1932 egli comunica alla sorella Maria di essersi sposato con una ragazza di padre russo e di madre italiana, Tamara, dalla quale ha avuto un figlio, Romolo. In Urss Regini, oltre a lavorare come tornitore presso un’industria moscovita, continua a svolgere attività antifascista organizzando spedizioni in Italia di diversi pacchi di manifestini di ispirazione comunista destinati all’opposizione clandestina, mentre nella dimensione privata continua a intrattenere rapporti epistolari con i fratelli e la sorella Maria, alla quale chiede di informare la famiglia del compagno Cafiero Lucchesi di Prato che il loro congiunto sta bene. La Regia Ambasciata d’Italia a Mosca alla fine del 1936, nel confermare che da almeno un anno Regini lavora a Sebastopoli e in vari porti del mar Nero, avanza l’ipotesi che la sua attività politica sia costituita da propaganda sovversiva rivolta ai marittimi italiani che frequentano quei porti, senza tuttavia escludere che una possibile ragione del trasferimento in questa località sia dovuta alla sua tubercolosi e alla necessità di un clima più mite rispetto a quello moscovita. In occasione dell’inizio della guerra civile spagnola e del successivo intervento di un corpo di spedizione fascista in Spagna, in una lettera alla sorella Regini mostra di essere informato sulle operazioni militari italiane e sulla sconfitta subita dai fascisti ad opera delle forze repubblicane e dei volontari della Brigata “Garibaldi” a Guadalajara, esprimendo compassione per i militari italiani inviati in Spagna per volontà del duce: «Poveri soldati ingannati!». Il 17 giugno 1938il Consolato italiano di Nancy, che sorveglia la vita del fratello Luigi, dà la notizia che Aurelio forse è deceduto: l’informazione contrasta con l’invio della posta di Aurelio alla sorella ancora in date successive alla sua presunta morte, quando, in particolare il 25 ottobre successivo, egli fa riferimento ai preparativi per l’imminente festa per l’anniversario della Rivoluzione, mentre in Italia c’è stato l’anniversario «della miseria e fame mortale e basta». Ma la situazione cambia rapidamente in modo drammatico: un telespresso della R. Ambasciata di Mosca del 10 gennaio 1939 dà notizia che Regini «sarebbe da alcun tempo caduto in disgrazia di fronte al partito per le sue relazioni con dei fuorusciti italiani … attualmente arrestati perché ostili o poco ortodossi nei riguardi del regime staliniano». In data imprecisata Aurelio seguirà la sorte di molti comunisti che saranno incarcerati ed eliminati dal regime di Stalin, fra i quali il suo amico pratese.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, busta 4269; http://www.memorialitalia.it/archivio/mem/gulagframeset_ita.html.




Contro discriminazioni e sfruttamento. Le scelte di Alessandro Sinigaglia

Alessandro Sinigaglia nasce in una villa nel comune di Fiesole il 2 gennaio 1902, la madre Cynthia White è una “negra” come si diceva allora, americana, protestante, cameriera della famiglia Smith, trasferitasi pochi anni prima dagli USA, il padre, David Sinigaglia, di famiglia ebrea, meccanico, assunto presso la villa, di nove anni più giovane della moglie. Il fatto che il bimbo nasca solo sei mesi dopo le nozze alimenta le malelingue,  si diffondono anche voci che sia figlio di figure ben più illustri di quella casa. Alessandro è quindi figlio di minoranze più o meno accettate, ma che avevano conosciuto segregazioni e che anche in quel momento sperimentavano diffidenze e disprezzo. I pregiudizi sulle donne nere ammaliatrici e selvagge certo concorrono ad alimentare le false voci sulla sua nascita. I primi anni trascorrono sereni alla Villa, figlio dei domestici formato alla cultura americana dalla madre. Ma dal 1908 con l’ingresso a scuola iniziano i problemi, ad inizio Novecento non facile essere accettato per chi è diverso. Lui poi è la sintesi perfetta dei pregiudizi: figlio di madre nera e padre ebreo.

Segue gli sconvolgimenti del suo tempo fra il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, un senso di crescente insofferenza per la condizione di serva della madre che peraltro muore nel 1920. Nel contesto del primo dopoguerra Alessandro è attratto dagli Arditi del popolo, anche se presto deluso dal rapido esaurirsi. Nel ’21 a seguito della volontà del padre di sposarsi in seconde nozze con un’ebrea e a fronte delle idee politiche del ragazzo, sono fatti allontanare dalla Villa. Vanno ad abitare in via Ghibellina n. 28 nel quartiere di Santa Croce, reso celebre da Pratolini nei suoi romanzi, ma il ragazzo vive male le scelte paterne.

Ad inizio ’22 è richiamato alla leva, marina, sommergibilista, è testimone della ferocia del bombardamento di Corfù nella crisi italo-greca del ’23 e ne è disgustato e anche per questo vuole lasciare e ci riesce dopo 21 mesi, congedo anticipato quale figlio unico di padre vedovo. Quando torna trova un’altra Firenze. Lavora come meccanico in vari stabilimenti. Dopo il congedo effettivo nel ’24 si avvicina al partito comunista non per scelta familiare, ma sente che la madre ne avrebbe capito l’ansia di libertà. Il suo primo impegno ufficiale sono le elezioni del ’24, quelle della legge Acerbo, ma tutto presto precipita fra l’omicidio Matteotti e la seconda ondata dello squadrismo in città a fronte di una sinistra e di un partito comunista peraltro segnati da divisioni interne e tattiche. Dopo l’instaurazione piena della Dittatura con le leggi fascistissime, sa di essere schedato anche se ancora non è diffidato né ammonito. La repressione sempre più capillare, l’assenza di informazioni con i fuoriusciti e il centro estero, il consolidarsi del regime rendono sempre più difficile la vita di chi si oppone integralmente al fascismo. Nel febbraio del ’28 la repressione distrugge la rete comunista fiorentina, Alessandro riesce a fuggire sfuggendo all’ondata di arresti, ma ormai è segnato. Alessandro lascia l’Italia, emigrando in Francia, anche per non mettere in pericolo le persone che lo hanno precedentemente aiutato. Per volontà del Partito, viene poi inviato in URSS, dove, come tutti si affida all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale, scoprendo la presenza di centinaia di italiani a Mosca. Assume l’identità clandestina di Luigi Gallone. Non mancano i pericoli, essendo presenti anche i fascisti, essendo stati ristabiliti i rapporti diplomatici fra i due paesi ed essendo quindi presente l’Ambasciata con tutte le sue strutture, compreso i reticolo dei fiduciari ben inseriti nei circoli degli immigrati politici. Lo tengono sotto controllo anche i comunisti per valutarne affidabilità, disciplina e ortodossia, a partire dalla temuta polizia segreta sovietica. Il desiderio di dare notizie di sé al padre lo tradisce. La censura fascista intercetta una lettera e accresce la sorveglianza sia sui contatti italiani sia su di lui Mosca. Intanto segue il corso di propaganda e si innamora, ricambiato, di una giovane russa, Nina di origini asiatiche, che lavora al Soccorso rosso e che gli insegna la lingua; è portato allo studio delle lingue, conosce già francese e inglese, nel 1930 diventa padre di una bambina, Margherita, un periodo sereno mentre nelle informative della polizia fascista è indelicato sempre più come soggetto pericoloso. Nei primi anni Trenta è “emissario” cioè inviato del partito in altri paesi, ma viene tradito da Luigi Tolentino ex funzionario dell’Internazionale comunista che denuncia centinaia di compagni in cambio di un rientro protetto in Italia. Intanto deve affrontare anche i mesi cupi delle repressioni staliniane fra fine ’34 e inizio ’35 che si abbattono anche su italiani accusati di non essere in linea con lo stalinismo, deve essere sempre più riservato e guardingo. Nella primavera del ’35 lascia la Russia per la Svizzera per l’ennesima missione, salutando Nina e la bambina. Non farà più ritorno in URSS. Viene infatti arrestato il 28 agosto a poche decine di chilometri dal confine italiano, probabilmente su delazione. Il governo elvetico comunque ne decreta l’espulsione ma senza consegnarlo all’Italia e passa quindi in Francia dove riesce a scomparire per i successivi tre anni. Si trasferisce a Parigi sede del Comitato centrale del PCdI in esilio, svolge attività da corriere anche in Italia ma per viaggi sempre molto brevi. Nel ’36, dopo il golpe dei generali, parte per la Spagna, assume il nome di battaglia di Sabino. Ad Albacete incontra i volontari antifascisti fra i quali il livornese Mazzini Chiesa. Conosce l’esperienza della lotta armata in una dimensione bellica nuova rispetto ad ogni altra precedente esperienza condotta in Italia prima o durante la clandestinità. In virtù delle esperienze fatte durante il servizio militare viene arruolato nella Marina repubblicana come tecnico silurista alla base navale di Cartagena, il porto più importante della Spagna, sottotenente di vascello viene imbarcato su un incrociatore, contribuendo alla riorganizzazione dell’arma navale. Immediato lo scontro non solo con i golpisti ma anche con i fascisti italiani che intervengono attaccando le navi con i sommergibili, attuando una guerra di pirateria assolutamente illegale sulla base delle norme del diritto internazionale. Per la conoscenza delle lingue è nominato ufficiale di collegamento fra il comando della marina repubblicana e un gruppo di consulenti sovietici. Costante il rapporto con Longo che informa puntualmente delle condizioni della marina. Viene poi inviato a Barcellona per operare la bonifica degli accessi del porto, ed assiste ai bombardamenti fascisti sulla città. A fronte del crollo della repubblica, come tanti, cerca riparo in Francia. Alessandro finisce nel campo di raccolta di Saint Cyprien nei Pirenei orientali all’interno di una comunità multietnica e multirazziale di spagnoli, italiani, polacchi, rappresentanti di oltre 50 paesi. Viene poi trasferito nel campo di internamento di Gurs, il più grande del sud della Francia: 28 ettari per 18.500 “ospiti” suddivisi in 362 baracche, arriverà ad accogliere 24.500 persone. A seguito dell’invasione nazista della Francia e del rifiuto di arruolarsi nei servizi ausiliari, viene condotto nel campo di Vernet, a 100 km dalla frontiera con i Pirenei, il campo peggiore di tutta la Francia per le condizioni igienico sanitarie, la violenza dei gendarmi e l’ambiente atmosferico. Dopo l’occupazione nazista il campo passa sotto Vichy che nei mesi successivi procede ai rimpatri degli antifascisti, che di fatto sono solo costi inutili. Alessandro torna in Italia in manette.

Viene condannato al confino: a Ventotene dove arriva il 14 giugno 1941. Il confino, come sottolineano molti storici, è l’arma peggiore che il regime usa contro gli oppositori. Al di là dell’allontanamento dalla propria residenza, il confino è sottoposto a vigilanza e regole stringenti e a un sostanziale isolamento anche all’interno della comunità dove è trasferito, ad esempio non può sedere in locali e osterie ma consumare al massimo al banco “in piedi e nel più breve tempo possibile”. I confinati sono circa 850, di questi i politici sono 650 (gli altri alcolizzati, spacciatori, usurai…) fra i quali nomi noti come Terracini, Pertini, Rossi, Secchia, per i quali è previsto un pedinamento costante da parte di un milite. Lo colpisce incontrare anche qui ebrei e persone di colore, fra i primi Spinelli, Colorni, Curiel, fra i secondi l’eritreo Menghistù. Ma lo colpisce anche la storia di una ragazza di 28 anni, Monica Esposito, salernita, mandata al confino perché accusata di essere andata a letto con nero, violando così la legge 882 del 13 maggio in tema di relazioni affettive interraziali. L’attacco naziata all’URSS scuote anche i confinati e riapre dialoghi fra i diversi gruppi politici. Nel novembre del ’41 riceve la notizia della morte del padre. Il Ministero degli Interni prima tarda a concedergli la licenza per il funerale poi quando gliela assegna è troppo tardi e così gliela revoca, essendo venuto meno il motivo. Il passare dei mesi rende sempre peggiori le condizioni di vita fra freddo, penuria di cibo (tanto che viene concesso ai confinati di coltivare la terra), malattie.

Estate ’43 gli Alleati si avvicinano e l’isola è colpita dai combattimenti, viene affondato il battello che consentiva i collegamenti. Sapranno della “caduta” di Mussolini solo il 26 luglio. Tuttavia il nuovo Governo, in perfetta continuità, non muta le direttive di ordine pubblico e mantiene il confino per anarchici e comunisti. Solo le proteste variegate spingono il capo della polizia a rettificare con nuova circolare del 14 agosto.

A fine agosto ’43 Alessandro torna a Firenze. I comunisti sono fra i più organizzati, si ritrovano nella libreria di Giulio Montelatici in via Martelli o a casa di Fosco Frizzi in Santo Spirito, mentre fanno parte del Comitato interpartitico poi riorganizzato in CTLN dopo l’annuncio dell’armistizio. L’esperienza dell’attività clandestina rendono i comunisti consapevoli dei pericoli e pronti ad affrontare l’occupazione nazisti e i pericoli conseguenti. Nella riunione con Secchia del 14 settembre viene affidato ad Alessandro la responsabilità dell’organizzazione militare in città, così come in altre città della regione, come Arezzo dove invia il meccanico Romeo Landini, con cui aveva condiviso la guerra in Spagna, l’internamento in Francia, il confino a Ventotene. La scelta è dovuta alla valutazione delle sue esperienze del suo carisma e grande attivismo. Fascisti e nazisti sono consapevoli della sua pericolosità. Intanto il pci avvia l’organizzazione della propria struttura militare con le brigate Garibaldi in ottobre. Alessandro frequenta varie abitazioni di amici, cercando di sottrarsi al pericolo della cattura da parte di fascisti e nazisti, fra questi il direttore d’orchestra russo, ma con passaporto svizzero, Igor Markevitch. Contro lo strapotere nazifascista in città (segnato anche dalle razzie contro gli ebrei), i comunisti iniziano a pensare ad una strategia di lotta armata urbana, formando i GAP, istituti da fine settembre dal Comando centrale delle Brigate Garibaldi, ricalcando un tipo di lotta di resistenza armata diffusa in Francia, sia pur riadattata. Servono uomini di grande esperienza, a guidare i gap infatti di solito sono tutti ex volontari delle Brigate internazionali in Spagna, i componenti uomini di fede assoluta, consapevoli del rischio, con grandi capacità militari., fondamentale il coraggio e la segretezza (non devono conoscersi neppure fra di loro, se non i componenti di ogni piccola unità). Devono compiere attentati o azioni rapide, dimostrare che i nazifascisti non controllano le città, colpire bersagli simbolo. Il divieto di uso delle biciclette nelle città da parte dei nazisti è proprio conseguente a queste azioni, in quanto era il principale mezzo per agire e spostarsi. Alessandro dirige i GAP e coordina tutti i gruppi comunisti toscani. In provincia di Firenze azioni gappiste vi sono già in novembre in varie cittadine e conseguente è la riorganizzazione dei fascisti con la riorganizzazione della milizia nella nuova organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. La prima azione dei GAP fiorentini è l’uccisione del ten. Col. Gino Gobbi capo della leva fascista e quindi simbolo del sistema militare imposto agli italiani per proseguire la guerra a fianco del nazismo, il 1° dicembre del ’43. La reazione è immediata all’alba del 2 dicembre cinque detenuti antifascisti sono fucilati alle Cascine (Oreste Ristori, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi, Orlando Storai). Il cardinale Della Costa condanna la violenza gappista difesa non solo dalla stampa clandestina comunista ma anche da quella azionista.

Su Alessandro pesano responsabilità sempre più complesse e solo lui ha l’esperienza necessaria ad affrontare quel tipo di lotta: dare indicazioni organizzative, di addestramento militare, gestire trasporto armi ed esplosivi, organizzare i gruppi, gestire le comunicazioni interne e con i vertici. Inizia a gestire anche contatti con gli operai delle fabbriche della città. 14 gennaio: gap fanno esplodere 9 ordigni in nove punti diversi della città contemporaneamente, impiegando di fatto tutti i gappisti e suscitando sconcerto fra fascisti e nazisti. La caccia ad Alessandro viene quindi affidata a due esponenti fra i più pericolosi della Banda Carità: Natale Cardini e Valerio Menichetti che con Luciano Sestini e Antonio Natali formano il gruppo dei così detti “4 santi” noto per i tratti di spietata ferocia. Il 17 gennaio attentato dei gap, fallito, al capitano della milizia Averardo Mazzuoli e interruzione in tre punti della ferrovia Firenze-Roma presso Varlungo. 21 gennaio bomba alla casa di tolleranza di via delle Terme, messa a disposizione di nazisti e fascisti. 27 gennaio sostegno allo sciopero alla Pignone, gli operai ottengono una distribuzione supplementare di tessere di pane, 30 gennaio bomba al Teatro La Pergola mentre è in corso una manifestazione fascista., 3 febbraio ucciso un sergente tedesco, 5 attaccata una pattuglia della GNR, uccisi due militi. Ad inizio febbraio avventori del bar Paszkosky picchiano una persona di colore. L’8 febbraio il noto tentativo di Tosca Bucarelli e Antonio Ignesti di mettere una bomba nel bar. Anche per consentire la fuga al compagno, la Bucarelli è catturata, torturata dalla Banda Carità, viene poi rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana. 9 febbraio viene giustiziato un sergente della GNR alla Fortezza. L’11 febbraio un gap lancia sette bombe contro la sede della Feld Gendarmerie in via dei Serragli. Intanto Alessandro è   impegnato su più fronti organizzativi, a partire da uno sciopero operaio in risposta ai licenziamenti di dicembre ai danni degli operai rifiutatisi di trasferirsi a nord. 13 febbraio nuovi attentati sulla linea ferroviaria Firenze-Roma. La sera Alessandro ha fissato a cena con Antonio Lari vecchio amico e compagno, nella trattoria di via Pandolfini dove va a mangiare spesso. Ma entrano i “santi”, una spia ne ha denunciato la presenza. Vano tentare la fuga. Sinigaglia viene ucciso. Quando si sparge la notizia, tanti fiorentini scrivono sui muri scritte inneggianti ad Alessandro, tanto che è naturale e immediato che la 22 bis Brigata Garibaldi assuma il suo nome, sarà la prima ad entrare a Firenze per liberare la città.




Note di Memoria: il pianoforte di Maria Einstein

Il suono del pianoforte Blüthner è la colonna sonora armoniosa della casa colonica di Quinto, borgo alle porte di Firenze sulla strada di Sesto fiorentino, dove vivono i coniugi Paul e Maria Winteler, sorella di Albert Einstein. Proprio il noto scienziato le ha fatto dono del prezioso strumento musicale nel 1931, conoscendone bene l’intesa passione per la musica che, peraltro, condivide. Nonostante la lontananza fisica i due Einstein (lui in Germania, lei in Italia) sono infatti profondamente legati ed Albert non esita a sostenere ed aiutare la sorella nella vita semplice scelta per amore del suo Paul, avvocato svizzero, “ritirandosi” nella campagna fiorentina. Arte e cultura riempiono le giornate dei coniugi, lui dedito alla pittura lei alla musica, che allietano così i loro ospiti a partire da Albert nelle sue visite e soprattutto Hans-Joachim Staude giovane pittore tedesco.

 Nei turbolenti anni Trenta, segnati dal crescente rimbombare di  inni e rumori di guerra, in un’Italia in camicia nera, inquadrata dal regime fascista, l’abitazione pare una “bolla”, impermeabile all’esterno, definita non a caso da Maja “Samos”, quasi fosse una’incantata isola greca sottratta al tempo e allo spazio reale.

Ma anche le bolle prima o poi esplodono. La prospettiva bellicista e la svolta razzista del razzismo rendono sempre difficile astrarsi dalle preoccupazioni del presente e, infine, impossibile la loro stessa permanenza. A seguito dell’entrata in vigore della legislazione razzista contro gli ebrei varata dal governo fascista nell’autunno del ‘38, gli ebrei stranieri che non abbiano contratto matrimonio con cittadini italiani devono lasciare il Regno entro il 12 marzo 1939. Per Maria non ci sono alternative. Per la sola colpa di essere ebrea deve lasciare il proprio “paradiso terrestre”. Sollecitata dal fratello Albert che, fortemente preoccupato dall’evoluzione della politica tedesca dopo l’avvento al potere di Hitler e del nazismo, già nel 1933 era rimasto negli Stati Uniti al termine di un soggiorno di studi, non tornando più in Germania, anche Maria si decide a raggiungerlo. Ma prima di partire si preoccupa di mettere in salvo il suo pianoforte. Lo strumento, assai prezioso, non può correre i rischi di un viaggio, né può essere lasciato all’incuria di una casa abbandonata. Decide così è di affidarne la custodia a Staude, l’amico più caro, che lo conserva presso il proprio studio-abitazione nel cuore di Firenze. Poi Maja deve abbandonare la sua isola e congedarsi anche dal marito che intende prima tornare in Svizzera, iniziando così un viaggio che non avrà ritorno.

Ma la scelta si rivela, anche inconsapevolmente, perfetta. Infatti, negli anni successivi, quando divampa la seconda guerra mondiale – e lo stesso Staude deve arruolarsi per combattere per il Reich suo malgrado -, e, dopo l’8 settembre 1943 – armistizio italiano – i nazisti occupano la penisola,  l’essere nell’appartamento di un cittadino “ariano” salva il prezioso strumento sia dalle mire di questi che da quelle dei fascisti che, sotto l’autorità della repubblica sociale italiana, si scatenano in una feroce caccia agli ebrei e ai loro beni.  Proprio i pianoforti, così come ogni strumento musicale, sono peraltro fra i beni più ambiti dai nazisti che hanno costituito un vero e proprio comitato di esperti per valutarli e spedirli nelle destinazioni più opportune, a partire da uffici ed abitazioni dei vertici del partito, dello Stato e degli stessi campi di concentramento. A Firenze in particolare gli uomini del maggiore Carità e un fitto reticolato di apparati di sicurezza e di “gente comune” si specializza delle denunce e nei saccheggi delle abitazioni di ebrei, catturati e condotti sui vagoni destinati ad Auschwitz. Li fronteggia la rete di protezione voluta dal cardinale Elia Dalla Costa e da esponenti della Comunità ebraica e delle forze antifasciste: una vera e propria resistenza civile che, con consapevolezza diversa da parte dei suoi protagonisti riafferma, nell’ora più buia, il valore universale della fraternità umana. Nell’ora dell’indicibile e delle scelte supreme che interpellano la coscienza di ciascuno, tace il pianoforte di Maja, non è il tempo dell’armonia, ma del dolore, delle grida e del pianto.

Ma il pianoforte si salva: supera il pericolo di furti e saccheggi e rimasto illeso anche dal drammatico passaggio del fronte che investe Firenze nell’estate del 1944, con la decisione dei nazisti di minare i ponti e parte del centro storico per fare della città una trincea sulla quale rallentare l’avanzata nemica. E nel dopoguerra, dal ritorno dalla prigionia britannica, Saude può così ritrovarlo e sedervisi per ascoltarne le armonie, anche se ormai da solo.

Oggi il suono del pianoforte di Maja, deceduta a Princeton presso il fratello nel 1951, risuonano ancora sulla collina di Arcetri, presso l’Osservatorio astrofisico, grazie auna scelta illuminata della famiglia Staude, restituendo anche a noi le sue note di incantevole armonia, messaggere di memorie tragiche, di vite spezzate, di grandi passioni e ideali civili, monito per il presente e il futuro.

Il libro di Valentina Alberici  Il pianoforte di Einstein guarda le stelle non solo svela i dettagli di questo esito sorprendente della vicenda del pianoforte, ma soprattutto, con agilità e delicatezza, ripercorre, attraverso la storia dello strumento, qui richiamata, le tragiche esperienze degli Einstein segnati dalle persecuzioni e dalle terribili violenze perpetrate negli anni del conflitto. Accanto a Maria, si delinea quindi la tragica storia di suo cugino Robert, con il quale erano frequenti i contatti, risiedendo con la famiglia prima a Firenze poi presso la Villa del Focardo dove ha il suo drammatico epilogo. Attenta a richiamare con puntualità e correttezza il contesto storico, l’autrice sa restituire con efficacia l’atmosfera della casa dei coniugi Winteler, evidenziando così tutto il valore e la forza universale dell’arte, superiore ad ogni prova, sia pur pagando prezzi altissimi. Una lezione e un monito validi per l’oggi, che rendono opportuna oltre che piacevole e interessante la lettura di questo piccolo racconto.




Luigi Bertelli – Vamba

Luigi Bertelli, che diverrà famoso con lo pseudonimo di Vamba, nasce a Firenze il 19 marzo 1860, pochi giorni dopo il plebiscito che decretò con il suffragio universale maschile l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna. Cresce in una famiglia censita come benestante impregnato dalle aspirazioni e dalle idee del Risorgimento nazionale. Abbraccia gli ideali mazziniani e la fede repubblicana che lo porteranno, dopo una breve esperienza impiegatizia alle Ferrovie adriatiche del finanziere toscano Piero Bastogi, a intraprendere la strada di giornalista politico, osservatore attento e critico della vita nella capitale romana dove si era trasferito. La politica italiana, nel frattempo, era passata in mano ai governi della sinistra dopo che la destra storica di Minghetti era andata in crisi nella seconda metà degli anni ’70 proprio sul controllo statale delle Ferrovie e per l’abbandono  di alcuni suoi deputati tra i quali Ubaldino Peruzzi.  Agostino Depretis, mazziniano e anticlericale,  fu il principale interprete della sinistra fino a tutti gli anni ’80: quattro volte Presidente del Consiglio, insieme all’eliminazione dell’odiata tassa sul macinato e a importanti riforme sociali, per dar maggiore forza al governo, diede inizio alla politica del ‘trasformismo’ che accettava l’appoggio degli avversari. Bertelli, in questi accordi tra gli opposti schieramenti politici, vedeva gli interessi velati, l’arrivismo personale, la moltiplicazione delle spese dello stato e si diede a evidenziarli con l’ironia, con il disegno caricaturale, cercando sempre una relazione con la realtà dei fatti.
Il nostro scrittore scelse dunque di essere un’anima critica esterna al potere, sempre pronto a evidenziarne le debolezze con ironia e sagacia come un antico giullare. Assunse perciò il nome di Vamba clonandolo dal Wamba, giullare della corte di Cedric, deus ex machina di Ivanhoe  romanzo di Walter Scott. Produsse scritti satirici, disegni e caricature che trovarono accoglienza in «Capitan Fracassa», 1884-1887, «Barbabianca», 1887, «Don Chisciotte», 1887-1899, «Il pupazzetto», 1886-1890 del quale scrisse e disegnò interi numeri.  Rientrò a Firenze per dirigere il «Corriere italiano» nel 1889 ma non riuscì ad ottenere l’autonomia e indipendenza  desiderata. Fondò e diresse «L’O di Giotto» un settimanale spigliato, di facile lettura, aperto al teatro e alle arti che fustigava ironicamente negli scritti e nei disegni i vizi civili dei personaggi politici, le spese militari eccessive, l’adesione alla Triplice alleanza, il pareggio di bilancio elevato a idolo supremo dell’azione governativa .

Il fervore delle idee radicali repubblicane non abbandona Bertelli che inizia a provare anche nuove vie. Molti aderenti al movimento risorgimentale che non avevano visto concretizzarsi gran parte delle loro aspirazioni ideali nella nuova nazione, si erano dedicati all’educazione del popolo: il fiorentino Pietro Dazzi, accademico della Crusca, diede vita alle Scuole del popolo; Carlo Lorenzini,  il famoso Collodi, fondatore e direttore di uno dei maggiori giornali umoristici della metà dell’Ottocento «Il lampione», volontario combattente nelle guerre d’Indipendenza,  si dedicò all’educazione dei giovani con Giannettino, Minuzzolo e le Avventure di un burattino che fecero assurgere Pinocchio a emblema della presa di coscienza di sé nel processo di crescita. Il torinese Edmondo De Amicis pubblicò Cuore nel 1886 che divenne la summa etico morale degli ideali risorgimentali laici. Senza dimenticare Ida Baccini con il grandissimo successo del suo Memorie di un pulcino, 1875, che utilizza l’antromoporfismo per affascinare i giovani lettori. Bertelli pubblica nel 1896 il suo primo libro di lettura per ‘giovanetti’: Ciondolino, storia di una ragazzo insofferente alle regole che aspira alla libertà del mondo animale e in particolar modo delle formiche, ma viene trasformato in una formichina e scopre le regole, il lavoro, l’organizzazione del formicaio e della sua ‘società’. Un processo di apprendimento fondamentale per la crescita e per la partecipazione cosciente alla vita.  L’autore non si limita al solo messaggio etico ma coglie l’occasione per iniziare una vera e propria divulgazione scientifica entomologica.

Il polemista ironico Bertelli-Vamba, sempre più disilluso dalla politica praticata nelle istituzioni e dal qualunquismo degli adulti, concentra ora le sue capacità nel messaggio educativo verso il mondo giovanile ideando, nel 1906 con l’editore Bemporad, un nuovo settimanale, «Il giornalino della domenica». Leggero, illustrato con disegni di qualità e foto, ricco di rubriche con interventi di scrittori affermati e di giovani intellettuali dal carattere spigliato, si propone di creare una comunità giovanile con organi associativi, tematici e decisionali per preparare alla vita adulta. I giovani vengono invitati a diventare attori della propria esistenza e a produrre un notiziario, «Il passerotto», per provare a esprimere opinioni e idee.  «Il giornalino della domenica» ha una confezione elegante a colori e un costo elevato (25 centesimi contro i 10 del «Corriere dei ragazzi») e si rivolge alle famiglie del ceto medio coinvolgendole non solo nell’acquisto della pubblicazione, ma nel messaggio pedagogico che si vuol trasmettere contro le ‘finzioni’ del mondo adulto.  In questo ambito Bertelli-Vamba viene a conoscenza di un racconto americano A Bad Boy’s Diary pubblicato dalla scrittrice progressista Metta Victoria Fuller sotto lo pseudonimo di Walter T. Gray e tradotto da Ester Modigliani con il titolo Memorie di un ragazzaccio. Bertelli-Vamba ne riprende la forma di diario e nasce Giannino Stoppani: dà una continuità temporale agli episodi che vedono questo ragazzino protagonista nel dissacrare l’ordine fasullo e formale degli adulti e affermare, scherzando, irriverenti verità non sempre accettabili. È un successo, Il giornalino di  Gian Burrasca esce a puntate su «Il giornalino della domenica» e poi in volume sempre da Bemporad nel 1912, la prima di centinaia di edizioni. Mentre il governo elimina gli ultimi ostacoli, di censo e istruzione, al voto universale maschile e nazionalizza le ferrovie aprendo a riforme sociali, Bertelli-Vamba fonda la sua repubblica tra i lettori de «Il giornalino della domenica» per liberare le energie della gioventù avvalendosi di numerosi intellettuali che condividono il suo intento. Tra questi ricordiamo: I. Baccini, P. Calamandrei, L. Capuana, E. De Amicis, G. Deledda, R. Fucini, D. Garoglio, P. Mantegazza,  U. Ojetti, G. Pascoli, D. Provenzal. Aveva parlato a tutti i giovani italiani, anche a quelli delle terre ancora nell’Impero austriaco, creando un legame personale e una immedesimazione nell’irredentismo.  Se il successo culturale del «Il giornalino della domenica» è indubbio, le vendite non sono sufficienti a sostenerlo e nel 1911 è costretto a chiudere. Bertelli continua l’attività scrivendo un libro scolastico per le scuole elementari, Il giardino, e articoli polemici anti-imperiali e di rivendicazione antiaustriaci nel clima sempre più aspro dell’interventismo e della prima guerra mondiale.

Nel dopoguerra è affascinato dall’esperienza fiumana di D’Annunzio e dalla costituenda Repubblica del Carnaro che mescola patriottismo, eroismo, volontarismo e aspirazioni sociali e di democrazia. Vi trascorre alcuni mesi alla fine del 1919. L’Italia usciva dalla guerra fortemente indebitata e Bertelli-Vamba volle impegnarsi per il successo del Prestito nazionale, il primo per la ricostruzione e la vita, dopo i tanti investimenti governativi per la guerra e la morte. Girando il paese per propagandare il Prestito, nel 1920 contrasse l’influenza spagnola, l’epidemia  che proprio cent’anni fa stava falcidiando le popolazioni di tutto il mondo, e morì a 60 anni a Firenze il 27 novembre 1920.

Fu sepolto al cimitero delle Porte Sante e il monumento funebre venne commissionato allo scultore Libero Andreotti.  I necrologi e i ricordi furono numerosi e retorici:  vogliamo citare tra i tanti un brano di Piero Calamandrei, già giovane autore del  «Giornalino della domenica», su un numero unico del Comitato delle città redente: “… L’insegnamento di Vamba si compendia in due concetti: Patria e Umanità. Il suo programma, schiettamente mazziniano, non si fermava alla Patria: come l’amor della famiglia fu per lui il punto di partenza per ascendere a un più ampio senso di solidarietà nazionale, così dall’idea di Patria egli trasse l’ispirazione per assurgere all’idea di una Umanità pacificata nella fratellanza di tutti i popoli liberi. …




Maria Luigia Guaita

Presentando la prima edizione de La guerra finisce la guerra continua Ferruccio Parri, il capo-partigiano “Maurizio” poi, nel giugno 1945, Presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ricorda Maria Luigia Guaita come «una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose» che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, una «donna della Resistenza» fidata, coraggiosa e capace.

Nata a Pisa l’11 agosto 1912 Maria Luigia Guaita trascorre l’infanzia a Torino per poi raggiungere Firenze nel 1926. Qui, grazie al fratello Giovanni, allora giovane studente, inizia a frequentare gli ambienti dell’antifascismo di estrazione liberalsocialista entrando in consuetudine con personaggi come Nello Traquandi, già tra gli animatori del periodico clandestino «Non mollare» e del Circolo di cultura politica di Borgo S. Apostoli, ed Enzo Enriques Agnoletti, uno dei principali esponenti dell’azionismo fiorentino durante la Resistenza.

Avvicinatasi al Partito d’Azione (PdA) la giovane Maria Luigia ne cura l’organizzazione dell’attività clandestina sfruttando, in un primo tempo, quel contatto giornaliero col pubblico – e, quindi, con altri antifascisti – consentitole dalle mansioni di impiegata di sportello presso una filiale fiorentina della Banca Nazionale del Lavoro. Durante la lotta di Liberazione, poi, opera come staffetta, contribuisce alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito.
Agli ordini del Comando militare azionista si adopera, inoltre, per il collegamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese garantendo un servizio – rileva Carlo Francovich – «particolarmente delicato e pericoloso», ma di fondamentale importanza ai fini dell’organizzazione tattico-strategica della lotta di resistenza e generalmente svolto «da giovani donne, la cui audacia era talvolta temeraria»: tra queste, oltre alla Guaita, si ricordano Orsola Biasutti, Anna Maria Enriques Agnoletti, Gilda Larocca, Adina Tenca, Andreina Morandi. Quest’ultima – sorella di Luigi Morandi, il radiotelegrafista del gruppo Co.Ra ferito a morte il 7 giugno 1944 durante l’irruzione dei tedeschi nell’appartamento in Piazza d’Azeglio, ultima sede della radio clandestina azionista –, nei mesi dell’occupazione germanica collabora con la Guaita e, anni dopo, ne ricorda mediante un curioso aneddoto la versatilità e l’instancabilità operativa: «[Maria Luigia Guaita] Non disdegnava nessun tipo di impegno; sapeva trasformarsi anche in vivandiera, come quando riuscì ad ottenere dal proprietario del famoso ristorante Sabatini due sporte piene di conigli, destinati (e purtroppo non arrivati per una serie di contrattempi) alla formazione di Lanciotto Ballerini, che operava dalle parti di Monte Morello» e, nel gennaio 1944, resterà ucciso nella battaglia di Valibona.
Nel quadro più ampio dell’impegno antifascista di Maria Luigia Guaita assume particolare rilievo l’attività di falsificazione di documenti, permessi e timbri in soccorso a partigiani e perseguitati politici alla quale viene iniziata da Tristano Codignola, uno dei più brillanti e capaci dirigenti azionisti: «Con Pippo [Codignola] – ricorda – sarebbe stato duro lavorare, pensavo, ma avrebbe capito e Pippo capì sempre la buona volontà di tutti noi. Ricercato dalla polizia, braccato dalle SS, riuscì a creare insieme a Rita [Fasolo] e a Nello [Traquandi] tutta l’organizzazione politica del partito. Attivo, infaticabile, riempiva le lacune, colmava i vuoti imprevedibili – e di giorno in giorno, d’ora in ora – sfuggiva alla cattura».
L’efficacia del servizio ricorre, altresì, nelle parole lette dallo stesso Codignola all’Assemblea regionale del PdA, tenutasi a Firenze nel febbraio 1945, con le quali rileva come, sotto la solerte guida di Traquandi, esso sia divenuto nel tempo «un magnifico strumento di resistenza, fornendo falsificazioni di ogni natura, tessere, fotografie, timbri, carte annonarie e via dicendo»: Maria Luigia, senza esitare nel mettere a disposizione la propria abitazione fiorentina di via Giovanni Caselli 4, coordina con perizia l’apprestamento e la distribuzione dei documenti falsi permettendo a tale attività di raggiungere un notevole grado di perfezione. Dopo la Liberazione, a riconoscimento dell’impegno resistenziale il Ministero della Guerra le riconosce la qualifica di partigiano afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”-Servizio Informazioni per il periodo compreso tra il 9 settembre 1943 e il 7 settembre 1944.

La primavera del 1945 segna l’avvio della rinascita democratica dell’Italia alla quale le donne, conquistato il diritto al voto, contribuiscono in prima persona. In Assemblea Costituente, ne sono elette 21: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste – tra le quali la toscana Bianca Bianchi – e una proveniente dalle file dell’Uomo qualunque. In Toscana nessuna delle candidate nelle liste del PdA – Olga Monsani, Margherita Fasolo, Eleonora Turziani – ottiene i voti necessari per l’elezione. Maria Luigia Guaita è tra quanti, nei primi anni di vita della giovane Repubblica, confidano nel disegno politico azionista e nel progetto di rinnovamento palingenetico delle strutture dello Stato e della società italiani. Tali aspettative non trovano, però, concretezza e nelle parole da lei consegnate al proprio libro di memorie emergono con forza la delusione per la fine prematura del PdA e l’amara percezione del progressivo appannamento dei valori e delle speranze che hanno animato le donne e gli uomini della Resistenza: «Se devo necessariamente adoperare le parole che esprimono i concetti di libertà e di giustizia, – scrive – ho un attimo di esitazione, spesso ricorro a una perifrasi. “Giustizia e Libertà” mi ha cantato troppo nel cuore, per tutti gli anni della lotta clandestina. Allora mi sforzavo soltanto di essere disciplinata, ma sempre con un sottile struggimento di non fare abbastanza, anche per le perdite dolorose di tanti compagni, i migliori; e ognuno di loro si portava via una parte di me. Venne la liberazione; affascinata da questa parola sperai nell’affermarsi delle forze socialiste. Poi le giornate di Roma, il congresso al Teatro Italia. Ricordo Ragghianti, che tratteneva Parri per la giacchetta, il volto duro e caparbio di Carlo, quello tagliente e tirato di Pippo, la dialettica di La Malfa: il crollo del Partito d’Azione. Pensavo che il sacrificio di tanti compagni (e così di nuovo mi bruciava nel cuore il dolore per la loro morte) sarebbe stato sufficiente a disciplinare le forze, attutire gli screzi, frenare le ambizioni». Ciò, come noto, non avverrà e il PdA si scioglierà nel 1947.

All’assenza dalla vita politica partecipata corrisponde un intenso impegno della Guaita in attività di natura culturale e imprenditoriale. Donna emancipata da sempre legata al mondo intellettuale non solo fiorentino, ella contribuisce a fondare e animare le Edizioni “U” di Dino Gentili cui si devono, grazie all’opera editoriale di Enrico Vallecchi, la pubblicazione di numerosi volumi proibiti sotto la dittatura fascista. Maria Luigia Guaita collabora, inoltre, con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fa parte dell’Associazione Liberi Partigiani Italia Centrale (A.L.P.I.C.) e, nel 1957, dà alle stampe quel libro di memorie che Roberto Battaglia ha paragonato al Diario partigiano di Ada Gobetti definendolo «una spregiudicata narrazione delle vicende d’una staffetta partigiana che si muove o corre dalla città alla montagna e viceversa», nel quale l’autrice «insieme ai toni scanzonati del bozzetto, sa trovare, specie nelle ultime pagine del libro, quelli tragici ed ardui dell’epica partigiana, allorché descrive l’impiccagione di italiani e sovietici a Figline di Prato».
Degno di rilievo si rivela, infine, l’impegno della Guaita nel campo dell’imprenditoria tessile nella Prato della ricostruzione nonché, sul finire degli anni Cinquanta, la fondazione a Firenze della Stamperia d’arte «Il Bisonte», cui segue l’apertura sulle rive dell’Arno di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Nel 1981, a riconoscimento di questo importante impegno imprenditoriale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di Commendatore.
Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007, all’età di 95 anni. Con lei, dirà il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, «scompare una delle personalità più rappresentative della nostra città»: una donna della Resistenza e un’indiscussa protagonista della vita imprenditoriale in Toscana, in Italia e all’estero.

Mirco Bianchi, dottore in Storia contemporanea, è responsabile dell’Archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




Il giorno che l’airone imparò a volare.

Sono passati ormai ottant’anni dal 29 maggio 1940, un giorno che sulla montagna pistoiese fu caratterizzato da freddo, pioggia e grandine.

Il grigiore diffuso non era però solo quello atmosferico: l’Europa infatti era già sconvolta dal secondo conflitto mondiale che anche l’Italia sentiva avvicinarsi sempre più.

Mentre a Dunkerque gli Alleati stavano cercando disperatamente di evacuare le truppe ammassate sulle spiagge, in Italia era in programma l’11a tappa del Giro che avrebbe condotto i ciclisti, in quell’occasione solo italiani, da Firenze a Modena. I 184 chilometri del percorso prevedevano quattro impegnative salite: Piastre, Oppio, Abetone e Barigazzo. I metri di dislivello complessivi erano circa duemila.

Gino Bartali, fresco vincitore della Milano-Sanremo, era il capitano della Legnano ed aveva come compagno di squadra uno sconosciuto gregario da “700 lire al mese” al primo giro importante della sua carriera: il suo nome era Fausto Coppi.

“Ginettaccio” non viveva i suoi giorni migliori: caduto durante la seconda tappa per colpa di un cane aveva rimediato la lussazione di un femore ed era già piuttosto lontano dalle prime posizioni della classifica generale. Aveva compiuto un mezzo miracolo a non ritirarsi visto che  il medico della squadra gli aveva prescritto almeno venti giorni di riposo. Anche il suo giovane gregario aveva conosciuto la “ruvidezza” dell’asfalto dal momento che nelle prime tappe era caduto tre volte! Nonostante queste disavventure Coppi era però posizionato meglio del suo capitano in classifica generale: distava infatti solo tre minuti dal primo. Le gerarchie interne alla Legnano stavano probabilmente cominciando a traballare.

Il nervosismo dovuto alla pioggia, presente nel gruppo dei ciclisti sin dalla partenza, crebbe con il passare dei chilometri anche a causa del percorso: lungo via Pratese i corridori furono costretti a pedalare sul margine della carreggiata a causa del manto stradale imperfetto. Lo stesso Bartali anni dopo ricorderà quel tratto di gara come una piccola Parigi-Roubaix.

Passata Pistoia e superate più o meno agevolmente le prime località in leggera salita (Piazza, Campopiano, Borghetto e Cireglio), la gara si infiammò improvvisamente.

Ezio Cecchi

Ezio Cecchi

Sulla prima vera salita, quella che portava a Le Piastre, il piccolo Ezio Cecchi[1], detto “lo scopino di Monsummano” perché i suoi, come tanti monsummanesi allora, fabbricavano scope di saggina, tentò la fuga.

Il ciclista, arrivato nella valle del Reno e vedendo che gli uomini alle sue spalle erano ancora assai vicini, decise, invece di rallentare e aspettare qualcuno, di tentare il tutto per tutto, proprio mentre Bartali fu colpito a Pontepetri da un problema meccanico che gli fece perdere parecchio tempo prezioso. Cecchi raggiunse in testa l’abitato di La Lima.

Probabilmente a quel punto avrà alzato lo sguardo e immaginato i faggi, gli abeti, le fontane, ma soprattutto le fatiche, dei 17 km della salita dell’Abetone. Chissà, il fuggitivo avrà anche pregustato una vittoria “di prestigio” in quella che più o meno era in fondo la sua terra di origine. Non aveva fatto, purtroppo, i conti con il corpo sgraziato e le lunghe gambe dello sconosciuto ventenne Coppi che, nei pressi di Pianosinatico, ruppe gli indugi e con pochi altri si lanciò al suo inseguimento. Data la situazione in classifica generale e l’evolversi della tappa il futuro “Campionissimo” era diventato ormai il capitano virtuale della Legnano.

Al settimo chilometro della salita, al tornante numero 13, avvenne l’episodio che decise la tappa e consacrò la nascita del “Campionissimo”: Coppi partì da solo per andare a riprendere il fuggitivo. Una lapide, assai consumata dal tempo, ricorda ancora oggi questo episodio con alcune semplici parole “A Fausto Coppi, i veterani dello sport”.

Lo stanchissimo Cecchi riuscì a passare per primo il passo dell’Abetone, anche se ormai il suo  inseguitore era a pochi secondi da lui: sette per la precisione. Bartali, attardato ma non domo, transitò all’Abetone a circa quattro minuti dal primo in classifica.

Coppi, definito da Orio Vergani sul Corriere della Sera,  “un ragazzo segaligno magro come un osso di prosciutto di montagna”, passato l’Abetone, superò di slancio Cecchi e si lanciò a testa bassa nei successivi 100 km.

La gara era ormai decisa: Coppi transitò sul Barigozzo con quasi tre minuti di vantaggio sul monsummanese e giunse infine al traguardo di Modena con 3 minuti e 45 secondi di vantaggio sul gruppo guidato da Olimpio Bizzi. Gino Bartali, a conclusione di una bella rimonta, finì terzo, Cecchi, che ormai aveva esaurito le forze, nelle retrovie.

All’arrivo quasi nessuno riconobbe il vincitore. Molti scoprirono il suo nome solo dopo aver confrontato il numero di maglia, quasi invisibile per il fango, con l’elenco dei partenti.

29 maggio 1940Orio Vergani raccontò la vittoria di Coppi con queste parole: “Fu allora, sotto la pioggia che veniva giù mescolata alla grandine, che io vidi venire al mondo Coppi. Vedevo qualcosa di nuovo: aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili, come ignorando la fatica, volava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo”.

Le testimonianze sullo stato di animo di Bartali all’arrivo furono contrastanti. Alcuni sostennero che Bartali e il suo naso “triste come una salita” non fossero di buon umore. Non era solo il femore ammaccato a causa della caduta di pochi giorni prima che faceva male, forse l’affermato campione aveva intravisto nel vincitore di giornata un nuovo pericolo stagliarsi all’orizzonte.

Come è andata?” chiese Bartali a ‘”avocatt” Pavesi, il direttore sportivo della Legnano.
A noi della Legnano non è andata mica tanto male, abbiamo vinto la tappa. Quel ragazzo, quello nuovo … come si chiama …. Il Coppi”. “Io credevo che si fosse ritirato …. Invece era andato avanti …. È bravo quello” ammise a denti stretti Gino. “Anche troppo!” aggiunse subito Pavesi e Bartali capì, “Ha preso la maglia?” e si allontanò senza neppure aspettare la risposta[2].

Al di là delle veridicità delle parole sopra riportate e assai probabile che Bartali, volontariamente o per scelta di squadra, abbia frenato la sua rabbiosa rincorsa per evitare di riportare sul suo giovane compagno gli avversari.

Le tappe successive non furono per Coppi rose e fiori. Sul Pordoi andò in crisi e salvò a stento la maglia rosa grazie all’aiuto dello stesso Bartali ormai diventato suo gregario.

Superato il momento di difficoltà Coppi proseguì la sua corsa fino alla passarella finale dell’Arena di Milano dove, a causa del salto della catena, entrò con 32 secondi di ritardo sul gruppo dei primi. Il padre alla vista del figlio attardato ebbe un malore. Nonostante l’incoveniente finale Fausto mantenne la maglia rosa e divenne il 9 giugno 1940 il più giovane vincitore del giro d’Italia. Bartali concluse quella edizione della corsa a tappe a 45 minuti dal suo ormai ex sconosciuto gregario.

La Gazzetta dello Sport celebrò il vincitore intravedendo in lui attraverso il “virile” linguaggio dell’epoca la “testimonianza della gagliardia e della serenità della patria in armi”.

La gioia per l’evento sportivo durò il tempo di una giornata: poche ore dopo il Duce dall’alto del balcone di piazza Venezia avrebbe sprofondato l’Italia nel baratro del secondo conflitto mondiale e spento le luci su Coppi e Bartali per cinque lunghissimi anni. L”Airone” aveva però ormai imparato a volare.

 

Fonti sitografiche:

http://www.teche.rai.it/2020/05/coppi100/

http://faustocoppi.altervista.org/1940.html

 

Fonti bibliografiche:

La Nazione del 30 maggio 1940

Gazzetta dello Sport del 30 maggio 1940

“Bartali, l’uomo che vinse il Giro, il Tour e conquistò un posto nel Giardino dei Giusti” di Leo Turrini, ex. Imprimatur

“Gino Bartali. La vita, le imprese, le polemiche” di Paolo Costa, Ediciclo.

“Quel 13° tornante che ha cambiato il ciclismo” di Luciano Andreotti.

[1] Ezio Cecchi (Castelmartini 1913-Monsummano 1984) ha gareggiato per 15 anni fra i professionisti. Giunse secondo in classifica generale al Giro nel 1938 (dietro Valetti) e nel 1948 (dietro Magni). L’edizione del Giro del 1948 è ricordata soprattutto per il ritiro di Coppi e della Bianchi per protesta contro la mancata squalifica di Magni che aveva ricevuto delle spinte.  La giuria inflisse a Magni solo due minuti di penalità, nonostante i quali giunse a Milano con 11 secondi di vantaggio su Cecchi. Il monsummanese giunse secondo, dietro Bartali, dopo una lunghissima fuga anche nella Milano-Sanremo del 1947. Scalatore tenace e umile ha raccolto in carriera meno di quanto meritava.
[2] La leggenda di Fausto Coppi. Articolo disponibile su http://faustocoppi.altervista.org/1940.html  (ultima consultazione il 4 giugno 2020).




L’Archivio di Paolo Barile

Figura di primo piano del diritto italiano, Paolo Barile (1917-2000) è stato non soltanto un illustre costituzionalista, ma anche un grande intellettuale, un uomo di cultura che fin dai giorni della militanza nella Resistenza e nel Partito d’Azione, e poi lungo più di cinquant’ anni di battaglie politiche e civili, ha fatto sentire la propria voce anche al di fuori dell’ambito strettamente giuridico di competenza, partecipando attivamente al dibattito politico-istituzionale e vivendo la propria carriera di magistrato, avvocato, docente universitario con uno spiccato senso di responsabilità civile.

Nato a Bologna nel 1917, Barile studia a Roma dove si laurea nel 1939 in giurisprudenza con Giuseppe Messina. Nel 1941 vince il primo posto del concorso in Magistratura ordinaria e prende servizio nel 1943 presso il Tribunale militare di Trieste, per poi passare a quello di Firenze e in seguito a quello di Pistoia. Dopo aver aderito nel 1941 al movimento liberalsocialista, nel 1943 entra nel Partito d’azione e, tornato a Firenze dopo l’8 settembre, partecipa attivamente alla Resistenza. Tra i dirigenti del Comitato militare del Comitato toscano di liberazione nazionale, nel novembre è catturato insieme agli altri membri del Comitato militare dalla polizia di Mario Carità; torturato e portato in ospedale per una pugnalata alla testa, è reclamato dal comando tedesco e trasferito nel carcere militare della Fortezza da Basso. Nonostante le insistenti richieste di fucilazione avanzate dai fascisti, i prigionieri sono rilasciati con l’obbligo di presentarsi settimanalmente; a questo punto Barile entra in clandestinità e nel maggio 1944 riprende la sua attività nella Resistenza fiorentina. Dopo la Liberazione è chiamato da Piero Calamandrei a lavorare nel suo studio e nel 1947 si dimette dalla magistratura per cominciare la libera professione di avvocato, che porterà avanti per decenni con il suo rinomato studio professionale. Inizia anche la carriera accademica: diventa assistente di Calamandrei all’università, consegue la libera docenza in Diritto costituzionale e in Istituzioni di diritto pubblico, dal 1954 ottiene la cattedra di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Siena e dal 1963 ricopre quella di Diritto costituzionale presso l’Università di Firenze, presso cui insegnerà fino al 1992. La sua carriera culmina con la carica di ministro per i rapporti con il Parlamento ricoperta nel governo Ciampi tra il 1993 e il 1994. Muore nel 2000 a ottantatré anni.

L’archivio di Paolo Barile è stato donato nel 2013 da Stefano Grassi (avvocato, docente universitario, stretto collaboratore di Barile), che ne era entrato in possesso dopo la morte del giurista, all’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, di cui Barile stesso era stato uno dei fondatori nel 1953 e presidente nel 2000 per pochi mesi prima della morte.

Il fondo è stato condizionato, ordinato ed inventariato, e dopo alcuni anni di lavoro è finalmente a disposizione degli studiosi. Al termine dell’intervento consta di più di 1200 fascicoli, contenuti in 250 buste circa, ed è articolato in 12 seguenti serie. L’arco temporale si estende dal 1960 al 2000 (con una sottoserie contenente esemplari a stampa di scritti di Barile dal 1944): purtroppo la maggior parte dei documenti antecedenti al 1966 è andata distrutta con l’alluvione di Firenze.

Nell’impossibilità di dare conto in dettaglio, in queste poche righe, del contenuto di ciascuna serie, proviamo a mettere in evidenza le potenziali ragioni di interesse per gli studiosi. L’archivio contiene corrispondenza, appunti, schemi e bozze degli scritti, ritagli stampa, opuscoli, materiale vario accumulato dal soggetto produttore nel corso della sua attività di professore universitario, di consulente, di ministro, insomma moltissimo materiale di studio relativo alle questioni di volta in volta trattate nell’ambito dei diversi incarichi. Gli scritti di Barile – riuniti sostanzialmente in tre serie, contenenti articoli in periodici specializzati e non, monografie, saggi, voci per enciclopedie, interventi a convegni e conferenze, interventi per trasmissioni radiotelevisive, pareri e audizioni per enti diversi – costituiscono una raccolta quasi completa della sua intensa produzione: dunque, anche se per la maggior parte editi, il loro valore risiede proprio nel fatto di permettere, nel loro complesso, di seguire l’evoluzione del pensiero del giurista, e in particolare la sua riflessione sui diritti di libertà. Allo stesso tempo, consentono di studiare, ripassare o approfondire numerosi argomenti inerenti alle fasi e alle modalità di attuazione della Costituzione, al percorso compiuto dai diritti nella storia dell’Italia repubblicana, a questioni politiche ed etiche che hanno animato il discorso pubblico. Anche altre serie possono richiamare l’interesse di studiosi del diritto e di storia contemporanea; ad esempio la consistente raccolta di ritagli stampa offre una carrellata di articoli di autori diversi su temi e vicende ampiamente dibattuti, come la legge sul divorzio, la legge 194, i rapporti tra Stato e Chiesa, il ruolo della magistratura, il rapporto tra poteri dello Stato, l’istituto del referendum.

Il materiale epistolare è per la maggior parte di tipo organizzativo; si trova in particolare in tre serie costituite da fascicoli per lo più tematici, che quindi riuniscono anche appunti, scritti, periodici e materiale di studio, e in una serie dedicata alla corrispondenza di tipo più personale, che contiene scambi epistolari con personalità anche di spicco del panorama giuridico, politico, intellettuale, principalmente nazionale. Pur nella netta predominanza del profilo pubblico rispetto a quello privato, la corrispondenza fa luce sulla personalità del soggetto produttore, sui suoi interessi, sul suo universo di valori, sulla sua fittissima rete di relazioni all’interno della società civile e di vari contesti politici e culturali.

Nel suo complesso, e in modo complementare ad altri fondi di giuristi conservati presso istituzioni giuridiche e universitarie, il fondo Barile può interessare un bacino di utenza non strettamente limitato al diritto costituzionale, supportando percorsi di ricerca su aspetti diversi della storia politica, istituzionale, sociale e culturale del nostro Paese nella seconda metà del secolo scorso.




Torquato Cecchi: dall’anarchia all’amicizia con Soffici

Torquato Cecchi nacque a Poggio a Caiano il 5 gennaio 1872 da Camillo e Albina Rocchi, muratore. Dopo aver militato nelle file del PSI, aderì al movimento libertario e  prese parte ai moti del maggio 1898. Dovette per questo emigrare all’estero, prima a Vienna e poi in Francia, paese dal quale venne espulso nel 1900. Rientrato in Italia, nel 1901 era segnalato come un propagandista anarchico molto attivo, che per diffondere le sue idee si recava di frequente in varie città.

La sera del 28 agosto 1901, in occasione di un contraddittorio svoltosi a Poggio a Caiano fra l’avvocato Campodonico, monarchico, ed il socialista Alberto Furno, Cecchi – si legge nel fascicolo del Casellario politico centrale a lui intestato – mobilitò “molti socialisti ed anarchici di Sesto, Peretola […] Brozzi e frazioni limitrofe, facendo occupare ad essi quasi tutto il teatro, ed eccitandoli […] a commettere disordini che furono scongiurati mediante la di lui espulsione dalla sala”. Nel 1906 – insieme con Eusebio Nepi, futuro sindaco socialista di Carmignano – fu tra i fondatori dell’Unione comunale di consumo di Poggio a Caiano. Con lo pseudonimo di “Trincetto”, collaborò anche all’Avanti! ed alla Riscossa, il settimanale  dei socialisti del collegio di Campi Bisenzio. Nel 1911 (anno in cui si trasferì nel comune di Signa) risulta che Cecchi non si occupava più di politica. La grande guerra segnò poi una svolta nei suoi convincimenti politici, svolta alla quale non fu verosimilmente estranea l’influenza di Ardengo Soffici, di cui era diventato amico.

Cecchi cominciò così a guardare con favore al fascismo e nel 1920 – grazie a Soffici, che gli fece conoscere l’editore Vallecchi e gli fornì anche la xilografia per la copertina – poté pubblicare un libro di versi intitolato A bordo (il volume è stato ripubblicato nel 2003 dal Comune di Poggio a Caiano, con un’interessante Introduzione di Silvano Gelli, da cui abbiamo tratto alcune delle notizie riportate in questo articolo). Cecchi tornò così alla poesia, una delle passioni della sua giovinezza, che lo aveva visto cimentarsi con altri poeti estemporanei della zona in accese tenzoni in ottava rima. “Quanti leggeranno A bordo – scrive Gelli nella sua introduzione – non troveranno forse un grande poeta, ma vi scopriranno l’attualità di certi pensieri […] e la freschezza di alcune semplici rime, ancora piacevoli da gustare a distanza di ottanta anni”.

Ormai scivolato su posizioni conformistiche, fra il 1922 ed il 1923, Cecchi scrisse qualche articolo su giornali fiancheggiatori del movimento mussoliniano (fra cui L’avvenire di Prato, settimanale dei combattenti locali). Nel 1928 la polizia segnalò che Cecchi si dimostrava favorevole al regime, ma il prefetto di Firenze non ritenne opportuno radiarlo dallo schedario dei sovversivi a causa dei suoi precedenti politici. Ancora vigilato nel 1940, morì dieci anni dopo munito – come si suol dire – dei conforti religiosi.