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2 aprile 1922. L’assassinio di Alvaro Fantozzi, segretario della camera del lavoro di Pontedera

L’omicidio di Alvaro Fantozzi è uno degli episodi chiave della violenza fascista nella provincia pisana, sia per la modalità dell’esecuzione, sia per il ruolo pubblico ricoperto dalla vittima.

Fantozzi dal 1° gennaio 1920 è segretario della Camera del Lavoro di Pontedera ed è un attivo e riconosciuto leader locale del Partito socialista italiano.

L’eliminazione fisica del nemico è la via principale di affermazione del fascismo, lo aveva ben capito «L’Ora nostra», il periodico della federazione socialista pisana, quando appena un anno prima, a seguito dell’omicidio del suo segretario, Carlo Cammeo, aveva scritto: «Mai in tanti anni, dal nostro risorgimento alle lotte operaie odierne, si è ucciso così impunemente»1.

Poco più di un mese prima dell’omicidio di Carlo Cammeo, il 4 marzo del 1921, i fascisti avevano ucciso nel cascinese Enrico Ciampi il segretario della prima sezione comunista della provincia di Pisa, quella di Barca di Noce; pochi giorni prima dell’omicidio di Fantozzi, il 19 marzo 1922, l’anarchico cascinese Comasco Comaschi, maestro ebanista e leader degli Arditi del popolo della zona, mentre è di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana, viene ucciso in un agguato fascista.

Questi episodi, senza dimenticare le altre violente aggressioni in tutta la provincia di cui saranno protagonisti gli squadristi capitanati da Bruno Santini, ci aiutano a comprendere come il fascismo in questi territori si caratterizza appieno come reazione di classe. Tutti gli obiettivi colpiti con una logica tipicamente militare rappresentano le forze politiche che sono state protagoniste, nel bene e nel male, delle lotte sociali e sindacali che hanno attraversato la provincia di Pisa durante il Biennio rosso: Ciampi è il segretario della prima sezione comunista; Cammeo è il segretario provinciale del PSI e direttore de «L’Ora nostra», il giornale che ha smascherato le bugie fasciste sulla morte dello squadrista Tito Menichetti; Comaschi è il leader di un attivo circolo anarchico a cui fanno capo i libertari del piano pisano, ardito del popolo e fondatore della Pubblica assistenza; Fantozzi è un sindacalista, conosciuto e stimato, che organizza in Valdera le lotte operaie e bracciantili.

La Valdera nel biennio rosso è attraversata da aspre lotte di rivendicazioni salariali e contrattuali2, sia operaie che contadine3, «L’Ora nostra», grazie ai propri corrispondenti locali, ne riporta notizie settimanali nella rubrica «Cronaca rossa della Provincia». A Pontedera e in Valdera, tra la classe lavoratrice, si respira una forte influenza socialista, l’attività è quotidiana, il movimento operaio è in fermento e guarda al proprio futuro tanto che, nel gennaio del 1920, si propone la costruzione della Casa del Popolo4.

La Valdera è anche la zona che vede i maggiori progressi delle leghe «bianche» che hanno i loro punti di forza tra i piccoli proprietari e i mezzadri. Un rafforzamento, quello delle leghe cattoliche, che coincide con l’avanzata del Partito popolare e con la costituzione della Confederazione Italiana del Lavoro (CIL) che proprio a Pisa, nel marzo del 1920, tiene il primo congresso nazionale5. L’assise si chiude con una relazione finale tenuta da Giulio Alvi, segretario generale dell’Unione del lavoro di Pisa e del pontederese Giovanni Gronchi all’epoca deputato, attivo organizzatore del Partito popolare a Pontedera e in Valdera che, nell’occasione, diventa il segretario generale nazionale della CIL.

In questo clima, tra le fila del Partito socialista e della direzione della Camera del lavoro confederale, emerge la figura di Alvaro Fantozzi.

Alvaro nasce a Pontedera il 16 novembre 1893, da Filippo e Isola Orsini, di professione pastaio.

I «sovversivi», nelle carte di polizia, come è noto, sono descritti come persone di basso profilo morale. I cenni biografici dedicano particolare attenzione alla descrizione della moralità dell’individuo e spesso si spingono ad esprimere giudizi definitivi e inappellabili. Anche Alvaro Fantozzi non sfugge a questa regola: «uomo esile, trasandato nell’abbigliamento, di colorito pallido e con una folta capigliatura» così viene descritto in un documento della Prefettura di Pisa del 12 gennaio 1922 nel quale si sottolinea che «gode nell’opinione pubblica di mediocre fama che non ha voglia di lavorare e si ingegna a fare il segretario della Camera del lavoro […] da vigilarsi insistentemente perché si approfitta ove vede debolezza da parte dell’Autorità e potrebbe divenire un sovversivo pericolosissimo».

A FIl 1920 è l’anno della sua consacrazione nel panorama politico e sindacale della Valdera, il 1° gennaio diventa segretario della Camera del lavoro di Pontedera e il 17 ottobre viene eletto consigliere comunale nelle file del PSI, contribuendo attivamente alla vittoria grazie anche ai suoi comizi tenuti in città e nelle borgate. La tornata elettorale è segnata da un altissimo tasso di astensione6 e vede una vittoria schiacciante dei socialisti che, ne riporta notizia con tono mesto «Il Ponte di Pisa», «hanno occupato tutti i seggi provinciali del mandamento; ed hanno vinto nel Comune capo-luogo e negli altri»7.

La festa per la conquista del Comune Pontedera è saluta da una folla di diecimila persone e nell’occasione viene issata su Palazzo Stefanelli, sede del Municipio, la bandiera rossa8.

Il ventisettenne Alvaro Fantozzi, nella prima seduta del Consiglio Comunale, che si tiene il 30 ottobre, viene nominato assessore con delega alla cultura e all’assistenza sociale; prima che si sciolga l’adunanza chiede la parola, come riportato nel verbale della stessa seduta, per «rivolgere il pensiero alla Russia dei Soviet dalla quale viene ora la luce». Nello stesso intervento il neo assessore affronta temi di carattere politico e sindacale e «fa rilevare l’impossibilità di prescindere dalla lotta di classe per giungere al crollo della società borghese ed al trionfo della società del popolo»9.

La sua formazione politica è di stampo massimalista, vicina alle posizioni maggioritarie della federazione pisana del PSI, in linea con quella degli altri dirigenti della Camera del lavoro confederale come Amulio Stizzi, Giulio Guelfi, Giuseppe Mingrino, Paris Panicucci, Carlo Cammeo, Paride Pagliai e Giuseppe Ciucci. È infatti questo il blocco di dirigenti che, presente su tutte le vertenze operaie, bracciantili e contadine della provincia pisana nel biennio rosso, orienta la linea politica e l’indirizzo sindacale della Camera del lavoro. Una Camera del lavoro importante, quella della provincia pisana, che al congresso del luglio 1920, registra oltre 33.000 iscritti10.

Fantozzi svolge quotidianamente il proprio impegno di militante socialista, di assessore comunale e di dirigente sindacale ed in questo ruolo, dotato di particolari capacità relazionali e organizzative, riesce a istituire 33 nuove leghe con una straordinaria adesione di iscritti11. La vita politica di Fantozzi, per quanto ricostruibile sulla base della documentazione reperibile, è principalmente dedicata all’organizzazione delle lotte sindacali, ma non manca la sua attenzione alla puntuale denuncia delle violenze fasciste.

Il 13 dicembre 1920 interviene durante una manifestazione di lavoratori, che si raduna in un cinema di Pontedera, per protestare contro il progetto del governo di aumento del costo del pane e contro le provocazioni fasciste che in quei giorni, a Pisa, impediscono l’insediamento del Consiglio provinciale. Durante l’iniziativa l’assemblea approva un ordine del giorno che viene inviato al gruppo parlamentare socialista nel quale si dichiara che, se il governo non ritira il provvedimento sull’aumento del costo pane, «il proletariato è pronto a qualsiasi azione»12.

Un mese prima lo stesso tema e la denuncia contro la violenza fascista sono oggetto di un suo intervento nella seduta del consiglio comunale del 14 novembre13. Denuncia che ripete nella successiva riunione consiliare del 27 gennaio 1921 quando afferma che «non saranno certamente gli incendi, le devastazioni […] che ci faranno astenere dalla lotta contro la classe borghese»14.

Per Fantozzi la resistenza al fascismo passa dalla lotta di classe. L’8 gennaio durante l’assise dell’Consiglio generale delle leghe della succursale pontederese della Camera del lavoro confederale, relaziona sulle agitazioni dei lavoranti del legno, degli operai dei surrogati del caffè, dei barrocciai, degli spazzini e dei pastai di Pontedera e Lari e riporta la notizia della risoluzione positiva dello sciopero dei tessili che ha visto l’adesione di 1800 operai15. Nella stessa occasione interviene sulle vertenze dei coloni, dei fiammiferai e dei cordai, che sta seguendo in quelle stesse giornate, e sullo sciopero dei metallurgici e dei braccianti di Montefoscoli e di Peccioli. Questa relazione, oltre a offrire un’idea del clima e del fermento del movimento operaio locale, ci aiuta a inquadrare anche il ruolo del dirigente sindacale e la sua indiscutibile capacità politica ed organizzativa. Fantozzi è un uomo del popolo e un uomo di azione, non scrive su «L’Ora nostra» e non sembra intervenire nel dibattito in corso tra riformisti, massimalisti e comunisti che proprio in quelle settimane si confrontano a Livorno al 17° congresso nazionale. Probabilmente quello che infastidisce i fascisti e i loro finanziatori è la sua capacità di organizzare i lavoratori e fare di loro un argine popolare all’avanzata fascista.

Così, in una sede di un locale Fascio di combattimento o nel salotto di una bella villa sulle colline della Valdera, si giunge alla decisione fatale: l’eliminazione fisica del segretario della Camera del lavoro sembra la strada più breve per gli squadristi per la capitolazione del movimento operaio della Valdera.

Il 2 aprile 1922 Alvaro Fantozzi è atteso a Marti per la riunione della Lega operaia, il suo intervento è stato annunciato dal numero de «L’Ora nostra» del 31 marzo. La mattina parte da Pontedera su un calesse condotto dal vetturino Francesco Mazzei e, come relaziona il Prefetto al Ministro dell’Interno in una nota del 15 aprile, «ai fascisti locali […] e ancor più che ad essi ai proprietari del luogo […] non poteva essere gradito sapere che il Fantozzi cercava di riorganizzare la lega operaia, tenendo all’uopo una conferenza privata socialista»16. Tre uomini lo attendono sulla strada di Marti, precisamente a Castedelbosco, e lo uccidono con vari colpi di pistola. Il Prefetto Malinvero informa immediatamente il Ministro dell’Interno e nel testo del telegramma la vittima, diversamente da come era stata precedentemente descritta nelle carte di polizia, diventa «persona mite e ben voluta»17.

Secondo il Prefetto i tre aggressori sono gli esecutori materiali di «un atto criminoso precedentemente organizzato e voluto da […] agrari e fascisti che in quella regione sono collegati»; vengono immediatamente arrestati tutti i membri del «direttorio locale fascista» e la marchesa Baldovinetti che lo stesso Prefetto definisce «nota incoraggiatrice e sovvenzionatrice dei fascisti locali»18. Per «Il Ponte di Pisa» invece, che dedica al fatto un anonimo trafiletto nella rubrica «Su e giù per la provincia», «non si conoscono neppure le ragioni del delitto»19.

Il 4 aprile si tengono a Pontedera i solenni funerali di Alvaro Fantozzi e, nonostante l’evidente tensione, il Prefetto Malinverno autorizza un concentramento fascista per la stessa giornata20 premurandosi, dopo poche ore, di chiedere al Ministro che siano inviate 50 guardie a rafforzare l’ordine pubblico. Per manifestare il cordoglio per la morte di Fantozzi l’«Alleanza del lavoro» di Pisa pubblica un manifesto a firma della Camera del lavoro confederale, della Camera sindacale e del Sindacato dei ferrovieri nel quale si denuncia la scientifica programmazione delle violenze contro «i nostri migliori uomini»21.

Il trasporto funebre è guardato a vista dalle squadre fasciste che avevano chiesto al Prefetto che dietro il feretro sfilassero solo i parenti della salma22. Al funerale, che parte dalla sede della Camera del lavoro, sono però presenti oltre seimila persone, con una larga rappresentanza delle associazioni e dei partiti di sinistra e più di cinquanta corone che accompagnano la «salma al cimitero dove non fu pronunciato nessun discorso e il corteo si sciolse silenziosamente»23.

Nei giorni successivi il deputato socialista Giuseppe Mingrino, già segretario della Camera del lavoro confederale di Pisa, presenta un’interrogazione parlamentare e il Pretore di Pontedera riceve una lettera anonima che indica come assassini tre fascisti di Santa Croce sull’Arno: Quirino Vanni, Gaetano Duranti e Dino Berti. I tre, oltre ad essere noti per la loro violenza, sono sospettati di aver preso parte, pochi mesi prima, all’omicidio di Mario Susini e Artibano Gronchi, uccisi mentre partecipano, a Capanne di Montopoli, a una riunione della Lega dei fornaciai. Una lettera simile viene recapitata anche al Sindaco di Pontedera Narsete Citi nella quale si descrivono più precisamente i fatti: i tre sospettati «partirono la sera di sabato verso le nove, aspettarono la vettura al ponte di S/Croce, andarono fino a S/Romano e si incamminarono a piedi fino a Castel del Bosco dove andarono a dormire in casa di Fogli Italo residente in S/Croce e la mattina si alzarono e lasciarono i pastrani nella detta casa e s’incamminarono per la via di MARTI aspettando la preda». La lettera, il cui testo oggi è consultabile in una versione trascritta a macchina, termina con questa raccomandazione: «al momento che avete letto […] prego di stracciare questa lettera perché se venisse scoperta noi sarebbemo altre vittime come il povero FANTOZZI».

Le indagini per timore e per probabili intimidazioni nei confronti dei testimoni non portano a condanne.

La violenza fascista spazzerà via ogni forma di resistenza in Valdera. La città di Pontedera, gli ultimi giorni di luglio del 1922, verrà occupata dalle squadre d’azione di Buffarini Guidi e di Scorza, circa duemila fascisti provenienti da varie parti della Toscana bastonano centinaia di operai, devastano le sedi della Camera del lavoro, del PSI, del PCdI e costringono alle dimissioni la Giunta Citi da Palazzo Stefanelli24. La violenza è ampiamente prevedibile tanto che il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’on. Luigi Facta, pochissimi giorni prima della caduta del suo primo dicastero, in un telegramma del 27 luglio mette in allarme il Ministro della Guerra, Pietro Lanza di Scalea, sui possibili incidenti di Pontedera, e denuncia l’atteggiamento del Comandante della divisione di Livorno che ha rifiutato, l’invio a Pontedera di cento militari: «Prego E.V. provvedere subito perché comandante predetto invii immediatamente truppa richiesta. Faccio osservare che rifiuto opposto fa ricadere sull’Autorità militare completa responsabilità eventuali dolosi fatti»25.

Dopo la Liberazione il ricordo del sacrificio di Alvaro Fantozzi è stato scolpito nel marmo, su una lapide apposta all’ingresso di Palazzo Stefanelli. Il Comune di Pontedera ha dedicato al suo ricordo una strada. A Casteldelbosco, sul luogo dove venne ucciso, un cippo ricorda il fatto e a lui è stata dedicata la piazza centrale del piccolo borgo di Marti. Nel solco della sua opera una Casa del popolo di Pontedera e la sezione ANPI della Camera del lavoro di Pisa portano oggi il suo nome.

1Non ammazzare, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921.
2Per un inquadramento complessivo si v. F. Bertolucci, Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia, https://www.toscananovecento.it/custom_type/alle-radici-della-guerra-civile-a-pisa-e-nella-provincia.
3Sulle agitazioni delle campagne si v. L’Uomo e la Terra. Lotte contadine nelle campagne pisane, Montepulciano, Editori del Grifo, 1992.
4La sezione socialista pontederese con la Camera del lavoro confederale nominano una commissione per iniziare le procedure e seguire i primi lavori, il presidente è Narsete Citi (futuro sindaco di Pontedera), Leopoldo Belli il segretario e Adolfo Massei il cassiere, mentre i membri della commissione sono Guido Malloggi, Fernando Caciagli, Romolo Silvi e Italo Fiorentini. Cronaca rossa della Provincia. Pontedera. Casa del popolo, «L’Ora nostra», 1° gennaio 1920.
5Cfr. «L’Eco del popolo», settimanale del PPI, 21 marzo 1920.
6Il PSI raggiunge 1.436 voti e l’affluenza dell’intero corpo elettorale è inferiore al 50%. Cfr. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 1982 p. 256.
7Elezioni amministrative in Provincia, «Il Ponte di Pisa», 23-24 ottobre 1920.
8Pontedera. Cronaca rossa della Provincia, «L’Ora nostra», 23 ottobre 1920
9La delibera è pubblicata, per volontà e su iniziativa del «Comitato per le manifestazioni di commemorazione di Alvaro Fantozzi», nel volume Alvaro Fantozzi, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1996.
10Il Congresso provinciale della Camera del lavoro confederale, «L’Ora nostra», 31 luglio 1920.
11Intestatari di strade comunali. Biografie, a cura del Comune di Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 2001, p. 40-41.
12Cronaca rossa della provincia. Pontedera. «L’Ora nostra», 24 dicembre 1920.
13Il verbale della seduta in Alvaro Fantozzi, cit.
14Il verbale della seduta in Alvaro Fantozzi, cit.
15Cronaca rossa della provincia. Pontedera. «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.
16Archivio Centrale dello Stato, Affari riservati generali e riservati, Cat. G1, b. 148, fasc. 348.
17Ib.
18Ib.
19Su e giù per la provincia. Da Pontedera, «Il Ponte di Pisa», 9 aprile 1922.
20Alla stazione ferroviaria di Pisa vengono arrestati diversi squadristi livornesi che, con rivoltella in tasca, si stanno dirigendo a Pontedera.
21Il testo del manifesto è riportato nell’articolo Martirologio proletario. Ancora una vittima: Alvaro Fantozzi, «L’Ora nostra», 7 aprile 1922
22M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1920, Roma, Bonacci, 1980, pp. 221-223.
23Martirologio proletario. Ancora una vittima: Alvaro Fantozzi, «L’Ora nostra», cit.
24L’occupazione fascista di Pontedera, «L’Ora nostra», 8 agosto 1922. V., inoltre, Pontedera, industriosa e civile, in un soffio di ribellione, di fede, di amore, ha cancellato per sempre l’onta del bruto dominio bolscevico. 5000 camicie nere spezzano la tirannia bolscevica, «L’Idea Fascista», 6 agosto 1922.
25Archivio Centrale dello Stato, Affari riservati generali e riservati, Cat. G1, b. 148, fasc. 348.




Il Prefetto della Liberazione

Il patrimonio bibliografico della Biblioteca Franco Serantini si è appena arricchito di alcune importanti acquisizioni, tra queste il «Bollettino Ufficiale della Regia Prefettura di Pisa», periodico “amministrativo” pubblicato dal 1871 al 1972. Il bollettino rileva le più importanti e significative comunicazioni del Prefetto ai Sindaci della Provincia, al Questore, al Rettore dell’Università, ai vari Ordini professionali (medici, farmacisti…), all’Ufficio delle Imposte e ad altre istituzioni del territorio. Si tratta di comunicazioni di varia natura che richiamano l’attenzione dei destinatari sull’applicazione di norme e circolari che intervengono su molteplici tematiche.

Il ruolo che traspare in modo evidente dalla lettura del «Bollettino della Prefettura», riguarda la competenza dell’istituto in oggetto rispetto ai rapporti tra lo Stato e quelle che oggi chiamiamo le autonomie locali, istituzioni delle quali la prefettura deve assicurare il regolare funzionamento.

La figura del prefetto, nelle varie normative che hanno regolamentato l’istituto, si caratterizza infatti come rappresentante del potere esecutivo e supremo organo dell’amministrazione statale della provincia, assumendo ruolo di controllo delle attività delle amministrazioni locali: da un lato rappresenta l’accentramento politico e amministrativo, dall’altro il decentramento burocratico.

Attraverso le comunicazioni del Prefetto di Pisa, contenute nei bollettini relativi agli anni 1944 e 1945, proviamo ad inserire ulteriori elementi di riflessione per una lettura della condizione economica, sociale e politica della provincia pisana, nel periodo immediatamente successivo alla liberazione dall’occupazione nazi-fascista.

Prima di entrare nel merito delle comunicazioni contenute nel bollettino, è utile ricordare due aspetti che, negli anni precedenti e nel periodo in analisi, hanno caratterizzato la figura del prefetto.

Il primo aspetto da sottolineare, riguardante il periodo immediatamente precedente a quello preso in analisi, vede il ripetuto tentativo da parte del regime di permeare il corpo prefettizio con uomini del partito, con l’obiettivo di creare una nuova figura, quella del prefetto fascista.

La seconda questione riguarda invece il periodo immediatamente successivo alla liberazione del centro Italia, quando si assiste ad una sorta di braccio di ferro fra il Governo italiano e i C.L.N., convinti della necessità di epurare i prefetti provenienti dal partito fascista e di sostituirli con funzionari più vicini ai valori della lotta di liberazione. Questo ultimo aspetto ha fortemente marcato l’agenda politica del momento e ha contribuito a mettere seriamente in discussione, nel nuovo sistema democratico in fase di costruzione, la figura stessa del prefetto. Il 17 luglio 1944 il futuro Presidente della Repubblica Luigi Einaudi pubblica, con lo pseudonimo Junius, sul  supplemento della «Gazzetta Ticinese» dedicato all’Italia, un articolo intitolato Via il Prefetto! con il quale esprime senza mezzi termini la propria posizione: «Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico». Il tema viene successivamente assunto nel dibattito della Costituente: il Partito d’Azione, per voce di Emilio Lussu, chiede espressamente la formale soppressione della figura del prefetto. In sede di Assemblea costituente non viene però adottata alcuna deliberazione precisa in merito, nonostante anche le discussioni della competente sottocommissione si erano orientate per l’abolizione dell’istituto prefettizio. Il tema viene più volte ripreso nel dopoguerra a partire dal convegno di Napoli, del 1950, dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (A.N.C.I.). Negli anni successivi il dibattito sull’opportunità di mantenere questa figura prosegue, con le voci contrarie provenienti per lo più da parti politiche avverse al centralismo: movimenti e partiti sia autonomisti che di sinistra.

Un altro utile approfondimento, introduttivo alla lettura del «Bollettino», riguarda la storia della Prefettura di Pisa dalla data dell’Armistizio alla liberazione della città. Nel periodo che va dal 8 settembre 1943 alla liberazione della provincia di Pisa (stabilita nella data del 3 settembre) i prefetti che si susseguono sono Ferdinando Flores (12/08/1943–30/09/1943), poi Francesco Adami (1/10/1943–24/10/1943) ex Console della milizia e fondatore del Fascio Repubblicano locale. Ad Adami, che aveva caratterizzato il suo incarico con atti di violenza e arresti di antifascisti e badogliani, succede Mariano Pierotti (25/10/1943–1/07/1944) ex Segretario dei Sindacati dell’Agricoltura, anch’egli uno dei fondatori del Fascio Repubblicano di Pisa. Durante l’estate del 1944, quando il fronte si ferma sulle rive dell’Arno, con la città di Pisa occupata dalle forze nazi fasciste e, a sud del fiume gli alleati, il Prefetto Pierotti, dopo aver tentato improduttivi contatti con il CLN locale, si dà alla fuga dopo aver fatto scarcerare alcuni detenuti politici. Il successore di Pierotti è il pisano Enzo Leoni che rimane in città fino al 19 luglio, quando fugge al nord con altri fascisti locali portando con sé una cospicua somma di denaro sottratta alla Prefettura e abbandonando la città sotto il continuo cannoneggiamento delle forze alleate[1]. Il nome di Leoni non è riportato sulla pagina ufficiale della Prefettura di Pisa nella quale sono ricordati i prefetti che ivi hanno ricoperto l’incarico. Nel periodo che va dalla fuga di Leoni alla liberazione della città, avvenuta il 2 settembre, il commissario prefettizio è Mario Gattai, nominato dell’Arcivescovo Gabriele Vettori unica autorità rimasta in città[2].

Il 7 settembre del 1944 si insedia il Prefetto Vincenzo Peruzzo, persona che nella memoria collettiva rimane un prefetto democratico, ma che non ha buon rapporto con il CLN, con la sinistra pisana e soprattutto con Italo Bargagna, primo sindaco di Pisa liberata[3].

Appena insediatosi, il Prefetto Peruzzo si dedica celermente alla cura dei rapporti con il territorio: venti giorni dopo la sua nomina incontra i trentotto sindaci della Provincia ai quali comunica personalmente le direttive più significative sui problemi più urgenti che interessano i loro comuni[4]. Il Prefetto, nel suddetto incontro, tra le varie questioni trattate, pone l’accento sulla necessità di prevenire, con azione equilibrata, ogni turbamento dell’ordine pubblico e di favorire la ripresa immediata della civile convivenza, stroncando sul nascere eventuali velleità di ritorni reazionari.

Apriamo adesso il «Bollettino della Regia Prefettura». Dalla lettura degli atti e delle comunicazioni pubblicate si percepisce il quadro delle priorità istituzionali e amministrative del momento e il ruolo di controllo esercitato, attraverso l’istituto prefettizio, dal governo sul territorio.

Il nuovo Prefetto nel dicembre del ‘44 interviene su vari quesiti giunti da diversi comuni della provincia riguardo la questione dei sussidi, ricordando che il soccorso giornaliero militare spetta ai soldati che, dopo l’8 settembre non sono rientrati in famiglia (o comunque per il periodo in cui non siano rientrati) e per i partigiani, purché abbiano l’attestazione dei ministeri militari competenti o dei relativi Comandi partigiani. Il rilascio dei sussidi è, in questo periodo, competenza degli uffici di assistenza dei comuni. In un momento di povertà e di difficoltà molti degli interventi del Prefetto vertono principalmente proprio sulla questione dei sostegni economici, non solamente per chi ha combattuto, ma anche per chi è stato prigioniero, per i parenti bisognosi dei dispersi in guerra, per i confinati politici e comuni, per i profughi dell’ex Africa Italiana, per i connazionali rimpatriati, per gli infortunati civili e militari di guerra. Il governo italiano riconosce forme di assistenza e di sostegno anche ai cittadini dei paesi alleati internati nei campi di concentramento sul territorio italiano. La questione del sussidio per il caro pane rimane oggetto di comunicazione anche durante tutto il 1945 e la Carta annonaria – entrata in vigore con la Legge n. 577 del 1940 relativa al razionamento dei generi alimentari – la cui emissione è di competenza del comune di residenza, rimane, per tutti gli anni quaranta, lo strumento di accesso al sussidio.

I bollettini della Prefettura riportano anche varie comunicazioni riguardanti la questione della gestione dei medicinali forniti dagli alleati, con particolare attenzione al prezzo. Per evitare speculazioni su una popolazione allo stremo, il Prefetto, in una nota ai sindaci e all’Ordine dei farmacisti, precisa che il prezzo di vendita non può essere superiore a quello previsto dalla tabella con la quale gli stessi medicinali vengono distribuiti ai punti di smercio.

Altro aspetto di particolare attenzione riguarda la questione del cibo, il controllo sulle contraffazioni dei prodotti, il sollecito ad un’attenta e continua verifica da parte degli uffici comunali dei pesi e delle misure utilizzati nelle rivendite e, in ultimo, la revisione di tutte le licenze di commercio. In questo momento, per favorire la ripresa del paese, sono molte le forme di agevolazione tributaria, in particolare per le località danneggiate dal passaggio del fronte di guerra, una di queste riguarda l’esenzione del pagamento dell’imposta di consumo sui materiali utilizzati per la riparazione degli immobili danneggiati in seguito ad eventi bellici.

La questione sanitaria è un’altra materia insistentemente trattata nelle comunicazioni riportate dal bollettino: riguarda le modalità di macellazione e conservazione della carne,  l’obbligo della vendita su ricetta dei prodotti antibatterici, le modalità di distribuzione dell’insulina, le misure di difesa profilattica contro le malattie di importazione esotica in occasione del rimpatrio dei reduci, la profilassi della poliomielite e della febbre tifoide e il controllo della potabilità dell’acqua. Di rilievo sanitario in questo periodo è la lotta contro la scabbia che diventa una malattia con un elevato livello di diffusione, per la quale vengono istituiti, nei singoli comuni, i centri di bonifica dotati di docce, di sapone e di sali di medicazione. Una specifica circolare prefettizia è dedicata all’utilizzo della penicillina che, essendo un prodotto estremamente limitato nella disponibilità, viene assegnato solamente alle città capoluogo di regione dove viene costituito un comitato che decide a quali cittadini della regione dovrà essere somministrato il farmaco.

Una circolare prefettizia dei primi mesi del 1945 ci dà il senso dei bisogni presenti in questo primissimo dopoguerra e riguarda l’impiego lavorativo dei fanciulli bisognosi. In una nota ai sindaci il Prefetto ricorda le deroghe previste dalla Legge n. 653/1934 che interviene sulla tutela del lavoro delle donne e dei minori. Scrive il Prefetto che il Ministero dell’Industria, del Lavoro e del Commercio, resosi conto della necessità di sottrarre dall’ozio e da attività illecite o immorali i fanciulli abbandonati o appartenenti a famiglie in stato di povertà, ha deciso di avvalersi dell’ipotesi di deroga prevista dalla suddetta norma, riguardo ai limiti di età relativi all’impiego di manodopera minorile. Il Ministero, avvalendosi di suddetta deroga, apre così le porte del lavoro ai bambini con meno di dodici anni, un fenomeno sociale poi raccontato con maestria, in questi stessi anni, dal cinema neorealista italiano. La questione del lavoro e della sopravvivenza come sempre genera il fenomeno della migrazione, ma in un paese distrutto e appena liberato non vi sono città che fuggono alla miseria. Anche Milano è in ginocchio e i migranti che arrivano, non trovando lavoro, si presentano agli uffici di assistenza che già non riescono a garantire supporto ai residenti: nel luglio del 1945 il Prefetto di Pisa, su indicazione del Ministero dell’Interno, invita tutti i sindaci della provincia a fare opera di persuasione e ad adottare le misure che riterranno più opportune per bloccare il flusso migratorio verso Milano e le altre città del nord Italia.

Altro aspetto interessante, recuperabile dal Bollettino, riguarda il rastrellamento degli ordigni esplosivi; il Prefetto scrive a tutti i Sindaci dei comuni per assicurarsi se, per iniziativa privata o da parte dell’Amministrazione comunale, sia stato provveduto al rastrellamento di armi, munizioni e ordigni esplosivi eventualmente esistenti sul territorio e se sono stati costituiti depositi occasionali. La circolare prefettizia svela anche la preoccupazione del governo: si chiede se gli eventuali depositi sono sotto controllo e se sotto le dovute norme di sicurezza. Il Prefetto chiede ai Sindaci di fornire l’esatta ubicazione e la quantità del materiale contenuto negli eventuali centri di raccolta adibiti, in modo che il Comando Artiglieria di Firenze possa disporre sopralluoghi, interventi di competenze e procedere alla distruzione del materiale. È evidente che si tratta di un’azione volta al controllo dell’attività di occultamento delle armi praticato da alcuni gruppi che avevano partecipato alla Resistenza.

Ultimo aspetto, non per importanza, che andiamo a evidenziare dalla lettura del Bollettino della Regia Prefettura di Pisa, riguarda la toponomastica stradale, una nota del Prefetto ai sindaci, datata gennaio 1945, riporta la loro attenzione sul tema, ricordando che la necessità di cambiare il nome delle strade e delle piazze che inneggiano al fascismo e ai suoi personaggi non deve assolutamente coinvolgere anche le denominazioni riferite ad avvenimenti storici, personaggi o date  riguardanti il Risorgimento,  periodo storico che rimane un riferimento intoccabile per il futuro. Con la nota prefettizia del 9 agosto 1945 (N. 6576) ad oggetto: “Scritte murali fasciste. Toponomastica stradale”, il Prefetto ritorna sul tema e riprende la circolare del Ministero dell’Interno del 17 luglio: È stato rilevato che in molti comuni non si è ancora provveduto alla cancellazione delle scritte murali fasciste. Esse, come è ovvio, rappresentano una tipica sopravvivenza delle manifestazioni esteriori di megalomania di cui il cessato regime usava far pompa per accattivarsi l’ammirazione delle masse. Ora che l’Italia si è liberata […] si impone l’eliminazione, anche nelle apparenze esteriori, di ogni falso orpello che ha nell’animo degli italiani la triste risonanza di una amara e dolorosa esperienza. La circolare ministeriale invita i sindaci a procedere celermente ad una accurata revisione della nomenclatura stradale eliminando nomi e date che richiamano eventi del cessato regime o che comunque tendono a conservarne il ricordo. Analoga revisione deve essere fatta anche per quanto concerne monumenti, targhe o ricordi dedicati a persone o eventi del fascismo […] un regime che il paese ha ripudiato.

Due anni dopo la nomina, nel settembre del 1946 Peruzzo viene nominato Prefetto di Verona e conclude la sua esperienza pisana; nelle sue memorie ricorda così il suo saluto alla città:

Riporto volentieri le parole che il sindaco comunista di Pisa, Italo Bargagna, volle rivolgermi nel Palazzo Gambacorti, sede del Comune:

A Vincenzo Peruzzo, Prefetto della Liberazione, esprimo la riconoscenza di Pisa e la mia personale gratitudine per l’opera meritoria da lui svolta per la rinascita della città. […] Nella mente e nel cuore dei Pisani rimarrà sempre vivo il ricordo della sua bontà e della umana comprensione dimostrata nello svolgimento del suo alto ministero.[5]

 Note:

[1] Per una breve storia della Prefettura di Pisa nel periodo che va dal 8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945 cfr. A. Cifelli, I Prefetti della Liberazione. Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma, 2008.
[2] Sul periodo relativo alla reggenza di Mario Gattai cfr. Pisa nella bufera: note dell’avvocato Mario Gattai commissario del Comune di Pisa. Giugno Settembre 1944, a cura di G. Bertini. Pisa, Circoscrizione 6, 2001.
[3]  C. Forti, Dopoguerra in provincia microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, p. 105.
[4]  Il contenuto della prima riunione con i sindaci della provincia è riportato in Vincenzo Peruzzo. Ricordi del primo Prefetto di Pisa dopo la Liberazione a cura di C. Forti. pp. 57-61. Pisa, Pacini, 2012. La pubblicazione raccoglie i ricordi della vita personale e professionale di Peruzzo.
[5]Vincenzo Peruzzo. Ricordi del primo Prefetto di Pisa dopo la Liberazione, cit., p. 79.




Dover partire.

Come afferma Patrizia Gabrielli, quello biografico è un approccio a lungo rimasto a margine rispetto alla produzione storiografica sull’antifascismo che, solo fino a pochi anni fa, pareva prediligere una rimozione del retaggio delle storie personali, dei vissuti soggettivi quasi fossero soffocate dalle gesta dei molti eroi che contraddistinsero il periodo e segnarono la storia della nostra repubblica e della nostra libertà.

Nell’ambito della produzione memorialistica sull’antifascismo, il metodo biografico ha acquistato progressivamente uno spazio significativo, al punto che ormai, costituisce parte integrante della bibliografia sull’emigrazione con le sue memorie, autobiografie e carteggi, che hanno avuto il potere di mettere in luce angoli visuali inattesi.

Le ricche e interessanti storie soggettive e collettive contribuiscono così a rendere una visione d’insieme dell’esperienza dei fuoriusciti italiani attraverso plurimi punti di osservazione, non solo statistici o politici. La visione al tempo stesso vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, offre più profondi e interessanti spunti di riflessione sociologica e culturale. Infatti, ogni situazione contiene in se stessa una complessità che la rende unica. Questo articolo descrive la storia della migrazione da Marti a Valbonne durante l’affermazione del fascismo in Toscana raccontando, a titolo di esempio, la storia della famiglia Lanini una delle 28 famiglie immigrate in quel periodo da un paese che contava all’epoca 2000 anime, insieme ad altri toscani perseguitati dal fascismo[1]. In questa ondata migratoria una famiglia si caratterizzò dalle altre. In quanto strumento del regime, aveva un incarico ben preciso quello del controllo affermando le direttive del fascismo, fuori dal territorio nazionale, seppur interpretate secondo le necessità locali[2]. Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene la forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza[3], sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.

Primo Lanini arrivò a Valbonne (Francia) nell’estate del 1924 a piedi, dopo una lunga e disagiata marcia lunga 400 km durata 5 settimane. Aveva 37 anni.  Il suo è un viaggio esplorativo per verificare la situazione, trovare un alloggio, prendere accordi, stabilire contatti, comprendere le potenzialità da dove partire. Cosetta è l’ultima figlia nata in Italia e ancora vivente. Nasce il 5 dicembre 1924 al civico 18 di Borgo d’Arena, una borgata di Marti, al tempo frazione del comune di Palaia in provincia di Pisa un quartiere, molto attivo da un punto di vista di impegno politico dove risiedevano anarchici, socialisti e comunisti afferenti alla Lega mista contadini-operai formatesi con autentica partecipazione durante il biennio rosso ma anche l’associazione La fratellanza operaia legata al modello del mutuo soccorso e già attiva agli inizi del 1900.

La scelta del luogo dove installarsi con la famiglia era riconducibile essenzialmente al passaparola con altre famiglie toscane emigrate a Valbonne[4] già a fine Ottocento per motivi legati al lavoro stagionale costituito principalmente dalla vendemmia dell’uva servan e dalla raccolta dei fiori come il gelsomino e la rosa centifoglia per le profumerie di Grasse, che attirava nella zona donne e uomini provenienti anche dalla provincia di Cuneo e dalle valli limitrofe[5] e dal fatto che la Francia, in quel momento, registrava un importante presenza di antifascisti (nel dipartimento Alpi Marittime e nella Regione PACA ce ne sono molte)[6]. Il Paese confinante era stato ritenuto da Primo l’alternativa più sicura e più accessibile considerato l’inasprimento dei rapporti internazionali e l’affermarsi del fascismo. La comunità martigiana proveniva da un paesaggio rurale caratterizzato dalle belle colline inferiori pisane, punteggiato da boschi e calanchi di creta argillosa. La gente allevava polli, vitelli e porci, intrecciava cesta, costruiva cerchi per le botti, lavorava il castagno, forgiava il ferro, coltivavano la terra, il mare non era nelle loro corde, né tantomeno il paesaggio urbano di Nizza, per questo la scelta di un paese simile, se non altro per clima e contesto, sembrò la più appropriata. Valbonne al tempo, era circondata da boschi si poteva tagliare la legna, venderla, trasformarla in carbone, costruire gabbie per gli uccelli, arrangiarsi, ingegnarsi, destreggiarsi, adattarsi ma lavorare finalmente in pace e vivere in attesa di tempi migliori. Le migrazioni cambiano e arricchiscono la storia di un Paese, trasformano la composizione sociale e politica di un luogo, incrementano l’economia locale ma la transizione non è così immediata, lineare e pacifica e, sicuramente nella fase iniziale, non è mai semplice inserirsi nel nuovo tessuto sociale. Così, spesso, gli eventi sfociavano in importanti divergenze culturali anche se, nel caso di Valbonne, non ci sono state mai vere e proprie discriminazioni da parte francese[7]. L’integrazione, anche solo lavorativa, non sembrava essere facile salvo sfruttare liberamente le risorse naturali del territorio: i boschi, rendendo vitale questo settore. I martigiani si specializzarono nel taglio del bosco e nella produzione del carbone, realizzavano fascine per venderle nei ristoranti, nei panifici o nei forni di cottura della celebre ceramica di Vallauris dove si installerà Picasso dal 1948 al 1955[8].

unnamedParisina Bottai con il primogenito Rigoletto, 10 anni,  Alfio, 5 anni e Cosetta, di soli sei mesi[9], arrivarono a Valbonne un anno più tardi, nell’estate del 1925, quando ormai in Italia erano state parzialmente approvate le leggi fascistissime trasformando, progressivamente, la monarchia parlamentare in una dittatura totalitaria. Arrivarono con il treno con un biglietto di terza classe fino a Ventimiglia dove Primo li raggiunse e li aiutò a passare la frontiera. Lanini era un socialista non interventista (aderente in un successivo momento al comunismo) che, suo malgrado, fu coscritto quattro anni nel corpo degli alpini e inviato sul fronte orientale in Trentino Alto Adige per combattere durante la Prima Guerra mondiale[10]. Tornato a casa, scioccato da quanto aveva visto e vissuto, demoralizzato e amareggiato per il trattamento riservato loro al rientro dalla guerra, cercava, come tutti i reduci, di reinserirsi nel tessuto sociale e riprendere stabilmente il suo lavoro di boscaiolo che gli consentisse di mantenere la famiglia. Così quando le camice nere andarono a cercarlo a casa per ingaggiarlo nelle loro spregiudicate imprese intimidatorie, Primo non ne volle sapere: era stanco della violenza e del dolore. Era un uomo giusto, dignitoso, le sue pretese erano semplici e lecite:  voleva solo ricominciare a lavorare e dimenticarsi dell’orrore della vita delle trincee e della disillusione delle promesse fatte. Lanini non condivideva l’ideologia fascista pertanto si rifiutò con fermezza di partecipare anche alla Marcia su Roma. Considerato un sovversivo, divenne vittima delle vessazioni delle cosiddette squadracce e a seguito di un’aggressione fisica grave decise di mettersi in salvo con la famiglia da un paese ingrato e illiberale.. Vi erano già state nel Comune di Palaia situazioni di tensione alcune delle quali trasformarsi in tragedia. Una sera durante una veglia clandestina, un gruppo di camicie nere provenienti da Pontedera fece irruzione nella casa dove si erano riuniti clandestinamente alcuni esponenti antifascisti e cominciarono a colpire all’impazzata con il manganello tutti i partecipanti alla riunione. Emilio Doni (1886-1954) attivo sindacalista e autorevole sindaco di Palaia già dal 1920 si mise miracolosamente in salvo saltando velocemente fuori dalla finestra e nascondendosi dentro il forno per il pane. Doni fu costretto a dimettersi dal ruolo di sindaco a causa dell’avanzamento dell’ondata nera guidata dai proprietari terrieri della zona tra tensioni e tumulti che sfociarono in feroci aggressioni e atti di sangue. Ma l’evento determinante che fece maturare definitivamente la scelta di Primo Lanini di trasferirsi in Francia fu l’aggressione e l’omicidio di un compaesano. Primo, che da qualche tempo aveva già preso in considerazione l’ipotesi della fuga all’estero, ne fu convinto soprattutto dopo l’assassinio di Alvaro Fantozzi[11]  segretario della Camera del lavoro di Palaia di soli 29 anni avvenuto sulla strada di Castel del Bosco al mattino del 2 aprile 1922 mentre si recava a un comizio a Marti per cercare di ripristinare la Lega mista contadini-operai. Lanini comprese che la situazione stava degenerando, accelerò dunque i tempi passando velocemente all’azione avvalendosi delle indicazioni di altri martigiani che anni prima avevano già tentato l’avventura in cerca di fortuna e che nel frattempo, grazie a scelte oculate, erano diventati abbienti. Infine, la realtà nella quale questo giovane toscano dovette, suo malgrado, vivere gli prospettò un avvenire tranquillo e agiato, così quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale si paventò l’idea di ritornare a casa a Marti, la scelta fu quella di restare in Oltralpe, a Valbonne dove morirà nel 1973[12]. Nonostante un forte senso esistenziale lo legasse ancora alla Toscana, la sua vita era ormai orientata a Valbonne e la Francia gli aveva procurato protezione e benessere economico.

[1] Famiglie provenienti da Marti: Bottai, Balducci, Bagnoli, Bandini, Banti, Doni, Trinti, Monti, Catalini, Giglioli, Ciampini, Cenci, Corti, Costagli, Ceccarelli, Giannini, Marmeggi, Gorini, Lanini, Nardi, Pretini, Pitti, Telleschi, Ulivieri, Regoli, Pistolesi, Pupeschi, Vanni. Famiglie originarie di Ponte a Egola : Billeri, di Forcoli : Doveri, di Massa : Trietti, di Pontremoli : Biasini e Valenti. Infine, famiglie provenienti da Pistoia: Vivarelli e Bizzarri.
[2] Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene le forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza, sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.
[3] La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. La storia del fascismo all’estero si è arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli.
[4] Demografia di Valbonne village: 1891 = 1015 , 1896 = 1138, 1901 = 1067, 1911 = 1045, 1921 = 831, 1926 = 949, 1931 = 1063. Nel periodo di cui stiamo parlando Valbonne contava 949 abitanti. Ultimi dati aggiornati al 2017 = 13 325 abitanti.
[5] Il Comune di Valbonne si era già dimostrato accogliente nei confronti degli italiani che svolgevano lavori stagionali poiché aveva già ospitato altri migranti toscani, provenienti da Marti primo su tutti Amerigo Balducci giunto nel villaggio nel 1895 con la moglie Zaira Nardi, seguiti, in ordine sparso, da altre 6 famiglie di cui il nucleo di Armando Nardi e Ida Petrini arrivati a Valbonne nel 1904 che rappresentano un’importante testa di ponte per la successiva migrazione politica.
[6] Occorre ricordare, a titolo di esempio, la famiglia di Amleto Gorini martigiano installatosi a Draguignan e Danilo Gorini che fu a lungo sindacalista nella CGT e che partecipò alla Resistenza francese.
[7]  Le condizioni di vita erano piuttosto favorevoli e la comunità locale dimostrava quanto meno una certa tolleranza nei loro confronti. Nel censimento del 1936 si contano in Francia 720.000 italiani tra esuli antifascisti e comunità di lavoratori immigrati di cui 11.000 aderenti ai partiti politici antifascisti.
[8] Studi antropologici mostrano che la catena di immigrazione si organizzava per via familiare, così che le nuove comunità che si formavano erano omogenee per area di provenienza; la stabilità di tale flusso migratorio è confermata dall’esiguo numero di ritorni in Toscana.
[9] L’ultima figlia della famiglia Lanini, Angel, nascerà in Francia nel 1931.
[10] Primo Lanini fu insignito dal capo della Repubblica dell’Ordine di Vittorio Veneto dell’Onorificenza di cavaliere al valore militare (Numero d’ordine 315). L’onorificenza commemorativa fu istituita in Italia nel 1968 dall’allora presidente Giuseppe Saragat.
[11] Alvaro Fantozzi, Segretario della Camera del lavoro di Palaia e Assessore comunale a Pontedera, fu un infaticabile organizzatore di leghe bracciantili. Il giovane fu assassinato con armi da fuoco la mattina del 2 aprile 1922 da tre fascisti di San Miniato rimasti poi impuniti. Dopo l’omicidio Fantozzi, che scosse per la sua cruenza tutta la Valdera, i comunisti aggredirono due fascisti a cui seguì una pronta rappresaglia delle camicie nere che, in varie località della Provincia di Pisa, bastonarono gli avversari.
[12] Solo due famiglie dell’ondata migratoria tornarono a Marti dopo la fine della seconda guerra a causa di lutti e della necessità di fornire un aiuto materiale ai propri cari. Gli altri rimasero tutti in Francia dove nel frattempo avevano preso la nazionalità.




Quella “storia ottocentesca” di un figlio di N.N.

Si ringrazia Franco Bertolucci della Biblioteca “Franco Seratini”1 per il tempo messo a disposizione e l’intervista concessa all’autore.

Chiunque abbia vissuto – o anche solo frequentato – per qualche tempo in una città universitaria ricorda certamente, pur senza esservisi soffermato attentamente, il ricco campionario di affissioni, scritte e adesivi che ne coprono i muri: autentica testimonianza di quel caratteristico underground di associazioni, circoli, collettivi e centri sociali vicini all’estrema sinistra e al movimento anarchico, questi veri e propri archivi murali sono particolarmente ricchi nei pressi dei dipartimenti universitari, e la città di Pisa non fa eccezione. In quella che fu una delle capitali italiane del ’68 non c’è angolo dove non ci si imbatta in qualcuno di questi “reperti”: in via Padre Bruno Fedi, dietro al polo universitario Porta Nuova, “A” stilizzate, simbolo dell’anarchia, disegnate con una bomboletta spray a coprire croci celtiche fasciste; scritte nere contro i “ricercatori di morte” e la pratica della sperimentazione animale; adesivi contro la TAV e a sostegno del Rojava, del movimento “Non una di meno” e del recente sciopero mondiale per il clima tenutosi il 15 marzo; in piazza San Frediano, la cui chiesa un tempo ospitava messe in suffragio di Mussolini, svetta una grande falce e martello nera; infine, in via Pietro Toselli, non lontano da Palazzo Gambacorti, sede dell’amministrazione comunale, il volto in bianco e nero di un giovane con i capelli ricci, che ricorda un poco – salvo l’assenza di barba – la celebre fotografia di Che Guevara scattata da Alberto Korda a L’Avana nel 1960. È lo stesso volto la cui fototessera correda una scheda dell’AVIS, che sorride con il pugno alzato sulla prima pagina del settimanale anarchico Umanità Nova – “la polizia ha assassinato un altro nostro compagno”, recita il titolo – e che campeggia sulla copertina della prima edizione del libro di Corrado Stajano “Il sovversivo”, edita da Einaudi nel 1975, a tre anni dalla morte di quel giovane dai capelli ricci che ne era il protagonista.

Cantava il Canzoniere Pisano che “Era il sette di maggio, giorno delle elezioni | e i primi risultati giungan dalle prigioni | c’era un compagno crepato là | era vent’anni la sua età”: le prigioni sono quelle del carcere “Don Bosco” di Pisa, dove il “compagno” ventenne, il giovane anarchico Franco Serantini – questo il nome del giovane “sovversivo”, protagonista dell’omonima ballata del Canzoniere e di molte altre – muore alle 9.45 del 7 maggio 1972, a seguito delle violente percosse subite per mano dei reparti della celere, che hanno caricato il corteo di protesta organizzato da Lotta Continua contro il comizio del parlamentare Giuseppe Niccolai del Movimento Sociale Italiano. Corteo al quale Serantini non aveva partecipato se non nelle sue fasi finali, senza mai unirsi al resto dei manifestanti, dopo aver passato il pomeriggio alla sede del circolo AVIS del quale era socio, vicino alla piazzetta dove Niccolai sta tenendo il proprio comizio: il ragazzo, poco più che uno spettatore isolato, è facile preda dei poliziotti, le cui manganellate provocheranno una emorragia cerebrale fatale per il giovane, nato a Cagliari il 16 luglio 1951 da genitori ignoti (“figlio di nn”), un’infanzia passata fra il brefotrofio, due famiglie adottive e tre diversi istituti: l’ultimo di questi è il riformatorio “Pietro Thouar” di Pisa, dove il giovane viene mandato nel 1968, dopo una breve permanenza presso l’Istituto per l’osservazione dei minori di Firenze. La sua è una “storia ottocentesca”, ha scritto Stajano “ai limiti dell’invenzione settaria”, quella di un giovane “alla ricerca di qualcosa che lo compensi di ciò che non ha mai avuto” e finisce per trovarlo – come molti suoi coetanei – nel gusto dell’attivismo politico, avvicinandosi inizialmente alle organizzazioni giovanili di PCI e PSI, poi a Lotta Continua e infine aderendo al gruppo anarchico “Pinelli” di Pisa alla fine del 1971. Soltanto pochi mesi dopo Franco avrebbe trovato la morte, vittima di una intera catena che va ben oltre i poliziotti che l’hanno massacrato in Lungarno Gambacorti, e passa per le guardie e il personale medico del carcere fino al procuratore generale Mario Calamari, che cerca di ostacolare le indagini sull’accaduto: Serantini entra suo malgrado in quella genealogia di vittime delle forze dell’ordine – e di uno Stato venuto meno al proprio ruolo, sancito dalla Costituzione – che arriva fino ai giorni nostri: la Scuola Diaz, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi.

Fin dai giorni immediatamente successivi alla sua morte, quella del giovane anarchico figlio di nn – fa notare Franco Bertolucci, ideatore della biblioteca “Franco Serantini” e fondatore della BFS edizioni – è una memoria che divide profondamente la città: una parte di essa, la Pisa conservatrice della borghesia e dei baroni universitari, già ostile alle istanze studentesche e operaie di fine anni ’60 – bollate in toto come “violente”, nonostante la violenza sia soprattutto quella delle forze dell’ordine – “non ha voluto condividere la memoria di Serantini per una scelta di classe, di opposizione a quelle rivendicazioni giudicate “moralmente nefaste”, che mettevano in discussione poteri e privilegi acquisiti a cui non si voleva rinunciare”. Contro questa damnatio memoriae si erge però tutta quella parte della società che vuole invece conservare e tenere vivo il ricordo di Franco: una memoria, sottolinea ancora Franco Bertolucci, nella quale si possono riconoscere tre livelli: uno intimo e personale; uno collettivo e laico; infine uno di natura politica. “Il caso Serantini”, afferma Bertolucci, “coinvolge persone, amici e conoscenti di Franco, fortemente colpiti da questa tragedia e che negli anni, individualmente, hanno cercato di mantenere vivo questo ricordo attraverso gesti “anonimi” che testimoniano questo affetto: […] i mazzi di fiori, i bigliettini e le poesie lasciati sulla tomba o nei pressi del monumento, ma anche alcune lettere inviate nel tempo alla nostra stessa biblioteca e/o a riviste”.

Su questo primo livello se ne innesta un secondo “laico e civile, di quella parte della città che ha adottato Serantini post mortem, perché resasi conto della grave ingiustizia da egli subita, e facendo sì che la sua memoria non restasse nel libro dei ricordi di una comunità ristretta”: è l’opera di tutta quella parte della società civile che si impegna per la verità giuridica (nel 1974 gli avvocati Massei e Sorbi promuovono la costituzione di un “Comitato giustizia per Franco Serantini”) e per valorizzare gli ideali e le utopie di Franco, tramite la ricchissima produzione intellettuale di scrittori, artisti e musicisti nel corso degli anni, da Franco Fortini a Costantino Nivola fino allo stesso Stajano, il cui libro permette di far conoscere la vicenda in Italia e all’estero. La stessa Biblioteca Serantini, fondata nel 1979, è un importante tassello di questo mosaico, che negli anni ha promosso tante iniziative nel ricordo di Franco, contribuendo all’inaugurazione del monumento che ancora oggi si trova in piazza San Silvestro (o, come la chiamano ancora oggi i militanti anarchici e della sinistra radicale, “piazza Serantini).

Da ultimo si situa il livello politico della memoria del Serantini militante rivoluzionario, anarchico e antifascista: una memoria entrata fin da subito nel patrimonio dei circoli libertari e dell’estrema sinistra, della quale il nostro piccolo adesivo seminascosto in via Toselli non è che una testimonianza. Ancora oggi le organizzazioni che popolano l’underground della sinistra pisana rivendicano questa memoria, ciascuno secondo le sfumature della propria formazione politico-culturale. Un esercizio della memoria che dura tuttora, e che, ricorda ancora Bertolucci, è parte di una più vasta battaglia: non più giuridica – in quasi cinquant’anni nessun rappresentante istituzionale ha mai riconosciuto l’ingiustizia inflitta a Serantini – ma storica, nel momento in cui questa battaglia assume, oggi più che mai, una valenza che è anche politica.

1La Biblioteca “Franco Serantini” ha lanciato una campagna nazionale di sottoscrizione per l’acquisto di una nuova sede: tutte le informazioni a questo link.




Pier Carlo Masini (1923-1998), un intellettuale democratico e libertario a vent’anni dalla scomparsa

Vent’anni fa, il 19 ottobre a Firenze, moriva Pier Carlo Masini, uno dei principali intellettuali e uomini di cultura del movimento operaio, socialista e libertario del Secondo dopoguerra.

Pier Carlo Masini nasce il 26 marzo 1923 a Cerbaia, frazione di San Casciano Val di Pesa (FI). Giovanissimo, inizia la propria attività politica e intellettuale negli ambienti del movimento liberalsocialista. Arrestato per attività antifascista nel gennaio 1942, è condannato a tre anni di confino a Guardia Sanframondi, nel beneventano, sul massiccio del Matese. Il 19 maggio 1943 torna a Firenze, riprende i contatti con i vecchi compagni e si avvicina al PCI. Quando le operazioni militari della guerra investono anche la Toscana, Masini non partecipa direttamente ad azioni militari, ma è in prima fila nell’aiutare la popolazione della sua zona, ricoprendo anche incarichi di responsabilità, come vicesindaco di San Casciano Val di Pesa, nominato dagli Alleati, e come membro del CNL locale in rappresentanza del PCI. Nel periodo compreso tra l’ultima fase della guerra e i momenti immediatamente successivi alla liberazione, di fronte alla svolta di Salerno e alla interpretazione togliattiana della lotta al nazifascismo, Masini matura la scelta di abbandonare il PCI e di avvicinarsi al movimento anarchico.

Alcune figure dell’anarchismo storico sono state per lui punto di riferimento culturale e politico: Bakunin, Cafiero, Malatesta, soprattutto Merlino e Berneri. Di Bakunin e Cafiero Masini ammira la dedizione alla causa libertaria, la coerenza e l’intensità della loro partecipazione agli eventi che li videro protagonisti; di Malatesta apprezza il pensiero limpido e lineare, da anarchico “ragionante”; di Merlino e Berneri valorizza la spregiudicatezza teorica, il “revisionismo”, cioè la capacità di mettere a confronto l’anarchismo con le altre componenti teoriche e pratiche del movimento operaio e socialista. Non a caso, già dal dopoguerra Masini instaura un fertile rapporto epistolare con Aldo Venturini, curatore delle opere di Merlino, e con Giovanna Berneri, moglie di Camillo. Per meglio comprendere l’importanza di questi rapporti, basta ricordare la pubblicazione, nel 1957, del volume di Merlino Concezione critica del socialismo libertario per le edizioni De Silva e La Nuova Italia, in collaborazione proprio con Venturini, e quella di scritti scelti di Camillo Berneri Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, curati nel 1964 con Alberto Sorti per Sugar editore.

Il rapporto con gli anarchici non è facile. Il giovane Masini, pieno di entusiasmo e di iniziativa, spesso si scontra con compagni più anziani, esausti per la lunga lotta al fascismo, spesso isolati ed emarginati dall’egemonia politica dei partiti marxisti. L’anarchismo italiano del dopoguerra, nonostante la grande tradizione e le simpatie popolari che riscuote ancora in alcune aree del paese, appare a Masini povero culturalmente ed organizzativamente, limitato e spesso paralizzato da diatribe interne. Masini si propone di contribuire a togliere l’anarchismo dalla sua emarginazione, creando per questo una rete di collaborazioni, spesso esterne al movimento, nella speranza che il travaso di culture diverse ma vicine possa far crescere una nuova pianta su una radice antica. L’idea di dare inizio a un processo di rinnovamento del movimento si concretizza con «Gioventù anarchica» (1946-1947), periodico redatto insieme a Carlo Doglio. Nonostante la sua breve vita, il giornale suscita interessi e collaborazioni anche fuori dal movimento. Masini prende contatto, per esempio, con il Movimento di Religione di Ferdinando Tartaglia e Aldo Capitini, con il periodico bergamasco «La Cittadella», con le piccole organizzazioni della “sinistra comunista” bordighiste e trotzkiste. All’interno della FAI, Masini si occupa inizialmente della Commissione antimilitarista, ma il suo impegno progressivamente si intensifica come conferenziere e, dal 1948, come redattore di «Umanità Nova» e collaboratore della rivista «Volontà» (1947-1949). Lo scontro interno alla FAI fra il gruppo di giovani che si muovono intorno a Masini e le componenti più tradizionali del movimento, matura fra il congresso di Livorno (23-25 aprile 1949) e quello di Ancona (8-10 dicembre 1950). L’idea di Masini è quella di costruire un “partito libertario”, con una dimensione teorica e pratica dell’anarchismo aderente alla nuova realtà economica, politica e sociale dell’Italia del dopoguerra, capace di stringere alleanze, su posizioni prettamente internazionaliste e legate alle lotte dei lavoratori, con una presenza costante all’interno del sindacato: sono le basi che portano alla nascita del periodico «L’Impulso» e dei “Gruppi anarchici d’azione proletaria” (GAAP). La costituzione dell’organizzazione è anche, però, l’inizio di un lento ma costante distacco di Masini dall’anarchismo militante tradizionale, che lo porterà, nel giro di pochi anni, ad approdare al socialismo democratico.

La maggiore passione culturale di Masini, che lo caratterizzerà per tutta la vita, è la ricerca storica. Laureatosi in Scienze politiche a Firenze nel novembre del 1946, studia con impegno la storia dell’anarchismo proprio per far fronte alle mistificazioni e all’egemonia culturale del PCI. Negli anni in cui Masini ricopre l’incarico di redattore di «Umanità Nova» (dal 1948 agli inizi del 1950) e collabora con il «Libertario» (1950/52), non c’è fascicolo su cui non venga riportato, oltre a quello di politica, un articolo di storia. Si tratta di veri e propri saggi che, a volte, escono a puntate, mentre la passione intellettuale per l’analisi dei documenti, di libri e di riviste rare è documentata dalla rubrica firmata con lo pseudonimo “L’Archivista”. Costante, anche se l’appello cade molto spesso nel vuoto, è il  suo richiamo alla necessità per gli anarchici di ricostruire il proprio percorso storico in forma critica, per strappare dall’anarchismo quell’etichetta di fenomeno folcloristico e “preistorico” del movimento operaio, che gli storici togliattiani tentano di attribuirgli. L’attività di ricerca va anche oltre gli ambiti militanti, confrontandosi da subito con quella parte della rinnovata storiografia contemporanea sul movimento operaio che inizia allora a fare i primi passi. Di qui, per esempio, la collaborazione alla rivista «Movimento operaio» di Gianni Bosio, con cui intrattiene per circa vent’anni una fittissima corrispondenza. In questa intensa fase di ricerca storica, Masini collabora con il giovane Gino Cerrito – successivamente docente presso l’Università degli studi di Firenze – e l’anziano militante Ugo Fedeli.

L’esperienza dei GAAP confluisce, tra il 1956 e il 1957, con i “Gruppi d’Azione comunista” nel “Movimento della Sinistra comunista”, un’esperienza composta da militanti provenienti da piccole formazioni della sinistra extraparlamentare (bordighisti, trotzkisti, ex-pci come Giulio Seniga o come Bruno Fortichiari, tra i fondatori del pcdi nel 1921 ecc.), che ha il merito, tra il ’56 e il ’58, durante e dopo la crisi ungherese, di rappresentare, con un vivace dibattito e un’intensa attività, la parte internazionalista e antistalinista della sinistra rivoluzionaria italiana. Con Seniga, in particolare, Masini stringe un’amicizia profonda e una collaborazione culturale, che negli anni Sessanta producono l’esperienza della casa editrice Azione comune. Lo scioglimento dei GAAP, l’affermarsi all’interno del “Movimento della Sinistra comunista” di tendenze neo-leniniste e l’insuccesso organizzativo di MSC come forza alternativa al PCI e al PSI, convincono Masini ad abbandonare qualsiasi residuo militante e teorico libertario, per approdare fra la fine del 1958 e l’inizio del 1959 nel PSI. L’ingresso nell’area socialista viene preceduto dalla pubblicazione di due ciclostilati redatti da Masini, La corrente di ‘sinistra’ vista da sinistra e Una classe un partito, due documenti dichiaratamente internazionalisti, classisti e decisamente anticomunisti. La tesi di fondo è quella che solo attraverso un partito socialista unificato, con al suo interno una corrente libertaria e internazionalista, è possibile smascherare l’inganno comunista, e dare una vera prospettiva politica alla classe operaia. Inoltre Masini, sostenendo gli “autonomisti” all’interno dell’organizzazione, si propone di contribuire all’opposizione contro la sinistra del partito con l’obiettivo di riconsegnare il PSI alla sua vera vocazione: quella nata con la Prima Internazionale e legata alle tradizioni democratiche risorgimentali. È in questo periodo di intensa partecipazione al dibattito politico che Masini entra in contatto con la redazione di «Corrispondenza socialista», stringe rapporti di amicizia con Giorgio Galli, Stefano Merli e Gaetano Arfè e, inoltre, incontra Giuseppe Faravelli, socialista riformista di tradizioni proudhoniane, amico di Andrea Caffi e curatore dell’indipendente «Critica sociale». Sono gli anni in cui Masini si dedica alla ricerca storica per scrivere saggi sulle tradizioni laiche, risorgimentali, libertarie, federaliste e anticlericali del primo socialismo italiano. Pur ricoprendo incarichi prima nel PSI e poi nel PSDI, nel quale milita dal 1969 al 1992 (segretario provinciale di Bergamo e membro del Comitato centrale), non si candida mai a nessuna carica pubblica, né di consigliere comunale né di parlamentare, motivando questa scelta con la volontà di mantenersi coerente sul piano etico, suo costante tratto distintivo. La sua originale concezione del socialismo, inteso come sintesi fra due anime, quella riformista (Turati e Prampolini) e quella rivoluzionaria e libertaria (Malatesta, Merlino e Berneri), rimane un caso isolato nel panorama del socialismo democratico italiano di quegli anni.

Federazione_AILNel 1958 viene pubblicato dalla casa editrice Avanti!, Gli internazionalisti. La Banda del Matese, 1876-1878, seguono a ruota i primi tre volumi degli scritti di Bakunin e nel 1963 La Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Atti ufficiali 1871-1880 (atti congressuali; indirizzi, proclami, manifesti) (Edizioni Avanti!). In questo periodo continuano le collaborazioni a periodici come la «Rivista storica del socialismo» e «Movimento operaio e socialista».

Per capire l’importanza di questa attività, va ricordato che nei primi anni Sessanta, a parte piccole case editrici di movimento come le edizioni Antistato, la Fiaccola e la Libreria della FAI, non esistono nel panorama editoriale italiano collane o testi sull’anarchismo. Nel ’59 esce Il Socialismo anarchico in Italia di Enzo Santarelli, edito da Feltrinelli, poi nient’altro: gli scritti di Masini, sparsi su riviste e quotidiani, divengono quindi l’unico punto di riferimento sul piano della ricerca storica. Solo più tardi, alla fine degli anni Sessanta, le case editrici più importanti, sull’onda della contestazione giovanile, riscoprono l’anarchismo. Proprio dalla scarsità di iniziative editoriali indipendenti nella sinistra nasce, su iniziativa di Seniga, la casa editrice Azione Comune che vede in Masini uno dei principali animatori. La collaborazione con la casa editrice è importante sotto diversi punti di vista: la linea editoriale tende a portare alla luce i temi dell’azione politica e culturale di Masini. Le pubblicazioni di Azione Comune offrono per la prima volta, soprattutto ai lettori giovani, testi sconosciuti e inediti della storia del socialismo italiano ed internazionale. Scorrendo il catalogo della casa editrice, si trovano nei vari titoli i temi cari a Masini e alla sua visione di un socialismo umanista e libertario. Nel 1962 Masini ripubblica il volume di Rosa Luxemburg, Centralismo o democrazia (Replica a Lenin), che era già uscito nel 1957; nel 1966 da alle stampe l’opera di Camillo Berneri, Mussolini psicologia di un dittatore. Le diverse attività culturali e politiche non distraggono Masini dal suo principale interesse e cioè la ricerca e la ricostruzione delle vicende dell’anarchismo italiano, ed è proprio Masini a studiarlo e difenderlo sul piano storiografico nell’ambito delle celebrazioni del centenario della nascita della Prima Internazionale. La sua comunicazione al convegno di Firenze su Il movimento operaio e socialista. Bilancio storiografico e problemi storici del 18-20 gennaio 1963, La Prima internazionale in Italia, rimane un’opera fondamentale tra quelle dedicate alle origini del socialismo e dell’anarchismo italiano. In questo contesto vanno inseriti i volumi Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, (1969), la biografia di Cafiero (1974) e Storia degli anarchici nell’epoca degli attentati (1981), tutti editi da Rizzoli.

La presenza di Masini è costante in numerosi convegni a carattere storico, sia militanti che no, come quello organizzato dalla Fondazione Einaudi a Torino nel dicembre 1969, Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo, o quello di Venezia del 1976 nel centenario della morte di Bakunin organizzato dal Centro Studi Pinelli di Milano, inizio di una nuova stagione di analisi e riflessioni storiche. Nel 1969 Masini fonda a Bergamo la Biblioteca Max Nettlau, che per anni, in tempi difficili per la ricerca di materiali preziosi, rappresenta una tappa fondamentale per chiunque si accinga allo studio dell’anarchismo. Nel ’78 escono i volumi Poeti della rivolta, da Carducci a Lucini e Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana. Negli ultimi anni della sua vita si dedica a studi su Manzoni, Alfieri e Porta. Nel 1993 partecipa alla fondazione della «Rivista Storica dell’Anarchismo», di cui sarà membro del comitato scientifico, e alle attività della Biblioteca Franco Serantini, cui lascerà in eredità il suo prezioso archivio e una ricca collezione di pubblicazioni.




Mirella Scriboni

Mirella Scriboni ci ha lasciato l’8 gennaio 2017, un male incurabile se l’è portata via nell’arco di pochi mesi.

Nata a Viterbo nel 1950, si è laureata in Lettere all’Università di Pisa con una tesi discussa con il professore Silvio Guarnieri su Rocco Scotellaro. Negli anni giovanili degli studi universitari Mirella vive intensamente tutto il lungo periodo delle vicende della contestazione giovanile e studentesca e, tra gli anni 1969 e 1973, partecipa all’esperienza del Centro K. Marx di Pisa e poi quella dei collettivi femministi. Successivamente, per motivi di lavoro, inizia a viaggiare e a insegnare italiano all’estero in scuole e università (Limerick, Sydney, New York, Alessandria d’Egitto, Addis Abeba e infine, come a chiudere il cerchio, di nuovo in Irlanda a Galway). Lettrice e cinefila appassionata, durante gli anni di insegnamento inizia a interessarsi allo studio delle lotte di emancipazione femminile e delle donne scrittrici dell’Ottocento.
È a questo periodo che risalgono le ricerche che poi hanno dato vita ai suoi primi saggi pubblicati su riviste specialistiche tra i quali si ricordano: Dorothy Sayers: un centenario (1994), Cristina di Belgioioso (1994), «Se vi avessi avuto per compagna…». Incontri tra donne nelle lettere e negli scritti dall’Oriente di Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808-1871) (1994), Le rivali di Sherlock Holmes: donne e letteratura poliziesca nell’età vittoriana (1995), Da eroina a protagonista: l’affermazione del desiderio femminile nei racconti gotici di Luisa Saredo (1995), Il viaggio al femminile in Oriente nell’Ottocento: la Principessa di Belgioioso, Amalia Nizzoli e Carla Serena (1996), Immagini dell’harem nell’Ottocento (1998).
Sempre in quel decennio escono i volumi da lei curati per le edizioni Tufani: Un mestiere da donne. Racconti gialli di scrittrici dell’800 (1996); l’edizione italiana delle opere di Cristina Trivulzio di Belgiojoso: Emina (1997), Un principe curdo (1998), Le due mogli di Ismail Bey (2008); e Immagini-memoria di Alessandria d’Egitto in Ungaretti (e ‘dialogo’ con Kavafis) in L. Incalcaterra McLoughlin (a cura di), Spazio e spazialità poetica nella poesia italiana del Novecento, (2005).
Negli anni trascorsi all’estero Mirella, persona sensibile e attenta agli scenari geopolitici mondiali, di fronte all’esplodere dei conflitti e delle tragedie delle guerre matura una sua scelta “antimilitarista” e “nonviolenta”, che la porta a interessarsi delle tematiche pacifiste, sempre dal punto di vista della storia al femminile. In questi anni terribili Mirella – che da sempre sostenitrice della causa palestinese – non fa mancare il proprio appoggio a tutte quelle iniziative tese al dialogo e alla concordia tra i popoli.
Rientrata in Italia e stabilitasi definitivamente a Pisa, Mirella si occupa di storia delle donne in relazione alla guerra. Socia della Casa della donna di Pisa, sostenitrice del quotidiano «Il manifesto e dell’Assopace per la Palestina, diventa un’assidua lettrice e frequentatrice, nonché amica e generosa sostenitrice, della Biblioteca F. Serantini. Da questo rapporto nasce il progetto di un libro che esce nel 2008 edito dalla casa editrice della biblioteca. Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al primo conflitto mondiale (1896-1915) è un volume che attraverso un’antologia di testi dell’epoca, riporta alla luce l’opposizione delle donne italiane alla Grande guerra e alle guerre coloniali che la precedettero (la prima guerra d’Africa del 1896 e la guerra di Libia del 1911-’12). Un’opposizione che si espresse intensamente e con continuità sulla stampa emancipazionista, sui numerosi giornali redatti dalle donne socialiste e sui numerosi periodici socialisti e anarchici. Voci di donne che affiancavano, al ruolo di pubbliciste, la militanza nel movimento emancipazionista e pacifista, nel partito socialista e nel movimento anarchico. Dagli scritti emerge non solo il protagonismo delle donne nel più vasto arco di opinioni e pratiche che dichiararono “guerra al regno della guerra” nel corso di un periodo cruciale della storia italiana, ma anche la specificità, la ricchezza e la complessità di un “pensiero della differenza” ante litteram: il discorso femminile sul tema, allora più che mai tipicamente maschile, della guerra. Lei che anarchica non era, aveva sviluppato una forte sensibilità e approccio “libertario” alla ricerca e alla studio. Amante dei viaggi, che ha sempre effettuato fino a quando gli è stato possibile, ha continuato a lavorare fino all’ultimo, nel 2016 ha pubblicato Leda Rafanelli, libertaria e musulmana, giornalista e scrittrice, in «ToscanaNovecento» e partecipato con una relazione (Anarchiche e antimilitarismo in età giolittiana) al convegno Le donne nel movimento anarchico italiano tenutosi a Carrara il 27 febbraio 2016.




Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.




13 aprile 1921: l’assassinio di Carlo Cammeo, segretario della Federazione socialista di Pisa

A Porta Nuova, in via Contessa Matilde sull’edificio della Circoscrizione n. 6, è posta una lapide che porta il seguente testo:

“Per sicaria mano fascista / cadeva assassinato / il 13 aprile 1921 / Carlo Cammeo / glorificando col sangue / la santità della scuola / e la sua fede nell’idea socialista / la giunta municipale di Pisa / all’alba della libertà / interpretando i sentimenti della cittadinanza”.

L’edificio in cui è murata la lapide è l’ex scuola dove insegnava Carlo Salomone Cammeo (nato a Tripoli il 6 maggio 1897) e dove fu assassinato. La via che oggi dall’incrocio di Porta Nuova si congiunge a Piazza Manin è dedicata al militante socialista e, dove è sepolto Cammeo – ebreo e ateo –, sul monumento funebre è incisa una falce e martello su di un libro aperto, caso unico per il cimitero israelitico. A parte la strada, la lapide e la tomba con i suoi simboli, oggi a Pisa resta ben poca cosa della memoria di Cammeo. All’epoca dei fatti il suo nome però era ben conosciuto e nonostante la giovane età aveva alle spalle già un discreto curriculum vitae, tanto da ricoprire ruoli importanti ai vertici del Partito socialista. La sua tragica morte segnò una svolta nella storia politica e sociale della città della torre pendente, che fu contrassegnata negli anni seguenti dall’affermarsi della violenza fascista e statale contro il movimento dei lavoratori e le sue organizzazioni politiche.

La guerra civile scatenata dai fascisti, con la complicità di buona parte delle forze dell’ordine dello Stato liberale, fu una risposta politica e militare alle lotte del “Biennio rosso” (1919-1920). Il primo dopoguerra fu caratterizzato da una grande partecipazione popolare, spesso spontanea, alle lotte di rivendicazioni salariali e sociali. Si era creato un clima diffuso di attesa per un cambiamento radicale della società, si aspettava l’esplodere della rivoluzione, com’era successo in Russia nel 1917 e questo aveva fortemente intimorito le classi dirigenti che sembravano impotenti a contrastare tale movimento. La nascita del fascismo toscano, la riorganizzazione delle organizzazioni padronali e la ripresa su vasta scala della repressione statale coincise con il declinare dell’iniziativa politica delle forze della sinistra che non seppero cogliere l’occasione per dare una svolta al paese. La violenza fascista e statale aprì un periodo, che per numero di vittime e di distruzioni, potremmo definire il “Biennio nero” (1921-1922) e che segnò la fine della democrazia liberale.

La Toscana nei primi mesi del 1921 fu attraversata da uno scontro violentissimo tra le squadre di fascisti, organizzate soprattutto dalla direzione fiorentina del movimento, e le forze della sinistra, anarchici, comunisti, socialisti e sindacalisti. Angelo Tasca in un suo noto volume sulla nascita del fascismo afferma che nei primi sei mesi del 1921 in Toscana furono distrutti 137 edifici: 11 case del popolo, 15 camere del lavoro, 11 cooperative, 70 circoli socialisti e comunisti, 24 circoli operai e ricreativi, 2 società mutue, 1 sindacato operaio e 3 redazioni di periodici.

Pisa non fu esente da quest’ondata di violenza. Il fascismo locale, riorganizzatosi da poco dopo una prima infruttuosa esperienza, guidato dal capitano Bruno Santini, ex ardito di guerra originario di Carrara, aveva raggiunto la notorietà all’inizio del 1921 con l’attacco alla nuova Giunta provinciale guidata da Ersilio Ambrogi socialista – poi comunista –. Il fascismo trovò consensi fra gruppi di studenti, ex militari, liberi professionisti, esponenti delle forze dell’ordine – soprattutto carabinieri – e giovani esponenti delle principali famiglie benestanti tra cui alcuni della comunità ebraica.

Il 25 marzo 1921 da Pisa una squadra di fascisti parte dirigendosi a Lucca e precisamente a Ponte a Moriano. Scopo della missione è di dar man forte ai camerati locali per togliere dalla sede del circolo ricreativo socialista il simbolo dei “soviet”, cioè la falce e martello. L’obiettivo è raggiunto ma gli operai avuta notizia del fatto corrono in paese e i fascisti si danno alla fuga; alcuni di loro rimangono staccati dal gruppo principale a causa di un guasto all’autocarro su cui viaggiano e ben presto vengono circondati dagli operai. Nasce una rissa e alla fine a terra rimane ferito mortalmente il fascista pisano Tito Menichetti. Sulla dinamica della sua morte ci sono versioni discordanti, il processo, che si tenne un anno dopo i fatti, individuò come unico responsabile il ferroviere Giuseppe Neri, originario di Castagneto Carducci, che subisce una condanna a 17 anni e 7 mesi di reclusione.

Pisa venne listata a lutto, un manifesto fascista invitava allo scontro:

“Cittadini. Si muore per voi. Si muore per salvare la nostra Italia travagliata dalla rovina e dal terrore ove tentano di trascinarla i folli criminali del comunismo e dell’anarchia per ricondurla sulla via della pace e del lavoro. Fascisti! Il corpo sanguinante di un’altra giovane vita si frappone fra noi ed i nostri nemici. Nessuno pianga. Nessuno si pieghi di fronte alla bara. Tutti in piedi! Con la fronte alta giuriamo. Tito Menichetti sarà vendicato! Senza pietà!”.

Lo stesso Bruno Santini durante i funerali incita pubblicamente alla vendetta.

Carlo_CammeoCarlo Cammeo scrisse un articolo sul settimanale socialista pisano «L’Ora nostra» del 1° aprile 1921, in risposta alle minacce fasciste, nel quale si richiamavano le responsabilità di chi, sulla morte di Tito Menichetti, stava imbastendo una “indegna speculazione patriottica”. È un j’accuse che espone il giovane socialista alla reazione fascista, che non si farà attendere. Un nuovo articolo di Cammeo, uscito sul numero successivo del settimanale, nel quale si ironizzava sulla partecipazione di alcune donne alle marce fasciste, fa scattare la vendetta fascista: la mattina del 13 aprile Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti raggiungono la scuola dove sta insegnando Cammeo e con una scusa lo invitano ad uscire dalla classe. Il maestro appena raggiunto il cortile è fatto segno di due colpi di pistola, sparati dal fascista Elio Meucci, cade a terra esangue, di fronte ai bimbi terrorizzati, mentre il gruppo di fascisti si dilegua repentinamente.

L’autore dell’assassinio è uno studente di farmacia dell’Università di Pisa mentre le due donne sono figlie di alti ufficiali del distaccamento militare. In particolare la Lupetti, che pochi mesi dopo per i suoi meriti sarà nominata segretaria del fascio femminile, è figlia del comandante del presidio militare. I fascisti responsabili della morte di Cammeo, grazie alla complicità delle autorità e all’interessamento del sottosegretario alla giustizia Arnaldo Dello Sbarba, saranno tutti prosciolti dall’accusa di omicidio. Le coperture di cui beneficia il gruppo di fuoco rappresentano la testimonianza dell’intreccio che da subito s’instaura fra i gruppi di fascisti locali, le autorità militari e quelle di carabinieri e guardie regie. Questo stretto rapporto è testimoniato anche dal prefetto di Pisa De Martino che in una missiva del 21 aprile al presidente del consiglio Giolitti testimoniava questa complicità.

Le organizzazioni della sinistra pisana – la Federazione prov.le socialista, il Gruppo comunista, la Camera del lavoro confederale (CGdL), la Camera del lavoro sindacale (USI), i Sindacati ferrovieri, la Lega Proletaria e l’Unione anarchica pisana – firmano un manifesto di condanna dell’assassinio di Carlo Cammeo e proclamano due giorni di sciopero generale.

I funerali di Cammeo sono imponenti per partecipazione popolare e di associazioni, alcuni esponenti politici prendono la parola, tra gli altri il segretario della Camera del lavoro (CGdL) Giuseppe Mingrino, il socialista Amulio Stizzi, il repubblicano Italo Bargagna e l’anarchico Gusmano Mariani. Questa volta sono funerali di classe, proletari, a rimarcare ormai il netto distacco tra il movimento operaio organizzato da una parte e lo Stato e le forze reazionarie dall’altra.