1

Il caso Picchi

Anni addietro ci è capitato di occuparci di un personaggio eccezionale: Fortunato Picchi, che volentieri presentiamo ai lettori di ToscanaNovecento.

Nato a Comeana (Carmignano), il 28 agosto 1896 da Ferdinando Picchi e da Iacopina Pazzi, entrambi domestici, Fortunato si trasferì con la famiglia alla Tignamica (una località che si trovava allora nel territorio del Comune di Prato e che oggi fa parte di quello del Comune di Vaiano) in quanto il padre aveva trovato lavoro come cuoco alla mensa del vicino Lanificio Forti, uno dei colossi dell’industria tessile locale. Di professione cameriere, Picchi non si occupò mai di politica. Durante la prima guerra mondiale combatté sul fronte macedone. Dopo la guerra emigrò in Gran Bretagna per ragioni di lavoro e divenne vicedirettore del reparto banchetti del Savoy Hotel di Londra, uno degli alberghi più prestigiosi della capitale. Si costruì una solida posizione economica che gli permise di aiutare ripetutamente la famiglia. Nel 1932 si recò per l’ultima volta alla Tignamica.

Nel 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, venne internato come cittadino di uno stato nemico. Convinto antifascista, Picchi aderì allora al Free Italy Movement, un’associazione di fuorusciti italiani in Inghilterra, fece domanda per essere arruolato nel corpo dei pionieri (lavoratori militarizzati) e, poco dopo, divenne un agente dello Special Operations Executive, uno dei servizi segreti inglesi, la cui creazione era stata voluta da Winston Churchill nel luglio del 1940 per incoraggiare la resistenza fra la popolazione civile nell’Europa occupata dai nazisti e per promuovervi il sabotaggio e la sovversione.

Il 10 febbraio 1941, insieme con trentaquattro compagni, Picchi venne paracadutato In Italia, fra Avellino e Potenza, da un aereo proveniente da Malta. Il compito del commando era quello di danneggiare l’acquedotto pugliese. Venne fatto saltare un viadotto e per alcuni giorni vari comuni delle province di Foggia e di Bari rimasero senz’acqua. Prima dell’esplosione, Picchi fece allontanare dalla zona pericolosa dei contadini che abitavano nei pressi del ponte. Compiuta la loro missione, i paracadutisti si divisero in tre gruppi, ma furono tutti catturati: il gruppo di Picchi si arrese a tre civili che lo intercettarono nei pressi di Teòra (Avellino). I carabinieri della legione di Napoli non tardarono ad accorgersi di avere a che fare con un italiano. Il 18 febbraio Picchi sottoscrisse un documento autografo in cui dichiarava di non avere mai acquisito la cittadinanza inglese. Deferito al Tribunale speciale per la difesa dello stato, venne processato il 5 aprile 1941 e condannato a morte mediante fucilazione nella schiena. La sentenza venne eseguita il giorno successivo a Forte Bravetta (Roma).

Poco prima di essere fucilato, Fortunato scrisse questa lettera alla madre:

Mia Carissima Mamma,

dopo tanti anni ricevete da me una lettera. Mi dispiace, cara mamma, per voi e per tutti di casa di questa sciagura e del dolore che vi arrecherà. Oramai per me è finito tutto ciò che rimane nel mondo sia di dolore [sia] di piacere. Di morire non mi importa gran cosa, della mia azione mi pento perché proprio io che ho voluto sempre bene al mio paese debbo oggi essere riconosciuto come un traditore. Eppure in coscienza io non penso così. Perdonatemi, cara mamma, e ricordatemi a tutti. Vi chiedo […] soprattutto il vostro perdono e la vostra benedizione, ché ne ho tanto bisogno. Baciate tutti i miei fratelli e sorelle e a voi, cara mamma, un abbraccio, sperando, con l’aiuto di Dio, di raggiungersi in cielo.

Con tanti baci

Viva l’Italia!! Domenica 6 aprile 1941                                Vostro figlio, Fortunato

Questa, in estrema sintesi, la vicenda di Picchi, un uomo di eccezionale coraggio e rigore morale, un eroe ingiustamente dimenticato (è però significativo il fatto che, negli ultimi mesi di vita, Franco Lucentini chiedesse insistentemente agli amici di aiutarlo a trovare del materiale su Fortunato).

Ma perché la figura di Picchi è rimasta per lunghi anni (ed è sostanzialmente tuttora) avvolta nella nebbia dell’oblio, nonostante il fatto che il Comune di Carmignano abbia promosso due pubblicazioni in cui si parla di lui e quello di Vaiano gli abbia intitolato un ponte sul Bisenzio alla Tignamica? “Io mi son fatto la convinzione – ci ha detto Francesco Saverio Picchi, uno dei nipoti di Fortunato – che lo zio abbia avuto due handicap. Uno è quello di essere partito con largo anticipo rispetto alla Resistenza (ma non avevano fatto così anche Togliatti e tanti altri grandi nomi della nostra storia recente?), l’altro è quello di essere nato in una famiglia cattolica di tradizioni democratiche, sicuramente antifascista, ma non comunista”. Senza sponsor politici, dunque, e troppo avanti rispetto ai tempi. Ma soprattutto avanti rispetto a coloro che ancor oggi mostrano incomprensione per il suo gesto e si ostinano a vedere in lui un traditore.

 




A fronte alta davanti al padrone.

Il 7 novembre 2016 abbiamo avuto un interessante colloquio con Gennaro Meli, responsabile della Federterra di Carmignano negli anni Cinquanta-Sessanta. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

Quando e dove sei nato? Che ricordi conservi della tua infanzia?
Sono nato a Carmignano il 31 gennaio 1922, in una famiglia di mezzadri. I miei genitori lavoravano in un podere che era di proprietà di diversi padroni. La Carmignano di quand’ero ragazzo era un paese che si reggeva sull’agricoltura, dove i rapporti interpersonali erano diversi, molto diversi, da come sono oggi. Rammento ancora quando ci si riuniva, per esempio in occasione della vendemmia: c’era quello che cantava di poesia, quello che suonava, ed il clima era festoso, riuscivamo a scordare, per un momento, le difficoltà della vita. Non c’era, allora, l’individualismo che c’è oggi, la solidarietà, anche quella di classe, non era una parola vuota e questo rappresentava un punto di forza per gli organizzatori, per il movimento contadino.

Come ti sei avvicinato al sindacato e quali cariche hai coperto al suo interno?
Tornato dal servizio militare, fui colpito dall’impegno che, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, i dirigenti del Partito comunista e della CGIL mettevano per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Fu così che decisi di impegnarmi a mia volta, di cercare di dare il mio contributo. Si trattò di una scelta non facile e non priva di conseguenze perché, allora, chi militava attivamente nel sindacato veniva boicottato dai padroni e spesso non riusciva a trovare lavoro: io ho provato questo sulla mia pelle. In seguito sono diventato responsabile della Federmezzadri di Carmignano che, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, gravitava su Firenze più che su Prato. Io avevo rapporti diretti con Vittorio Magni, segretario della Federmezzadri provinciale, e spesso mi recavo in via dei Servi, dove avevano sede il partito e la Camera del lavoro. Ho pubblicato anche diversi articoli sui problemi dei contadini della mia zona sull’Unità e su Toscana nuova.

Puoi dirci qualcosa sulle condizioni dei contadini del Carmignanese negli anni Cinquanta-Sessanta?
Molto dipendeva dal tipo di podere che il mezzadro coltivava: se il podere dava olio, vino, frutta il contadino stava meglio, ma, in generale, si può parlare di condizioni di vita difficili: in tanti dovevano tirare la cinghia. I carichi di lavoro erano pesantissimi, la meccanizzazione insufficiente, le condizioni delle abitazioni pessime. In molte case i servizi igienici mancavano od erano cattivi, non c’era la corrente elettrica, non c’era l’acqua. Dove abitavo io, ad esempio, per procurarsi l’acqua bisognava fare un chilometro a piedi per arrivare ad una sorgente, portandosi dietro le mezzine. Nella fattoria di proprietà della contessa Lepri, nella zona di Artimino, le case dei contadini erano dei veri tuguri. Ricordo che quando andai a parlare con la contessa per chiederle di far eseguire dei lavori di miglioramento, mi voleva denunciare. “Non vedo l’ora – le dissi –, mi denunci, così poi ci facciamo due risate insieme”.

Quali erano le principali rivendicazioni dei mezzadri di Carmignano?
Oltre al miglioramento delle coloniche, le richieste più importanti riguardavano, come altrove, i contributi unificati, l’imponibile di manodopera, la meccanizzazione ed una modifica del riparto dei prodotti che, tenendo conto degli apporti reali, assegnasse al mezzadro una quota superiore al 50%.
Io avevo organizzato in modo capillare la Federterra, creando più gruppi di dieci-quindici contadini, ognuno con un suo capogruppo, per un totale di circa cinquecento mezzadri. Quando si trattava di fare una riunione, portavo l’avviso ai capigruppo e nelle case di campagna. Per parlare con la controparte, si formava una delegazione. I proprietari, spesso, non si presentavano e le trattative si svolgevano coi fattori, che adottavano una tattica dilatoria, sostenendo di dover riferire al padrone perché non potevano prendere determinate decisioni e così via. Con alcuni proprietari ci furono scontri molto duri, in specie col conte Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, la più grande della zona. Il conte aveva incaricato il fattore, un certo Del Giallo, di discutere con noi la questione dell’addebito ai mezzadri dei contributi unificati. I contadini erano stati costretti a firmare un documento in cui accettavano di pagare i contributi. Io però riuscii a convincerli a ritirare la firma. Si costituì poi una delegazione composta di una ventina di mezzadri e si andò da Del Giallo che, con fare altezzoso, rifiutò di riceverci. Io gli risposi a tono ed alla fine la battaglia fu vinta.

Il sindacato cattolico era forte tra i contadini della zona?
La CISL era forte dove c’erano molti coltivatori diretti, ma fra i mezzadri la sua presenza era una presenza minoritaria. Nel Carmignanese il sindacato cattolico era radicato in certe zone di tradizione bianca, moderata, Era questo il caso di Artimino: rammento che una volta io e Vieri Bongini, responsabile del movimento contadino pratese, giunti ad Artimino per un comizio, ci trovammo di fronte alla piazza completamente vuota. Il comizio però andava fatto perché i contadini conoscessero le nostre idee, le nostre proposte: “Non ti preoccupare – dissi a Vieri –, tanto nelle case ci sentono”. E parlammo lo stesso.

Che giudizio dai oggi della mezzadria e come hai vissuto la sua crisi?
L’istituto mezzadrile era un istituto superato perché non riusciva a soddisfare i bisogni della famiglia colonica, perché non garantiva un reddito soddisfacente ai contadini. Questo è sicuro. Però alla fine della mezzadria non è seguito qualcosa di meglio, è seguito il nulla. Occorreva una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla. Ma questo non è mai avvenuto a causa delle resistenze dei proprietari. Come risultato abbiamo avuto lo spopolamento delle campagne, e questo, certamente, è stato un male.




Battista Tettamanti e Teresa Meroni: due vite parallele

Battista Tettamanti e Teresa Meroni, compagni di lotte e nella vita, costituiscono due esempi di un tipo di quadro sindacale largamente diffuso nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento. Entrambi di umili origini (il padre di Battista faceva l’ortolano, Teresa era nata in una famiglia di operai), impossibilitati a frequentare studi regolari, trassero dall’esperienza di fabbrica la capacità di riflettere criticamente sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, trovando nel Partito socialista e nel sindacato dei validi strumenti di formazione, che ne fecero degli organizzatori coraggiosi e concreti.
È grazie agli uomini ed alle donne che, come Battista e Teresa, compirono questo tipo di percorso, affrontando l’ostilità dei padroni e la persecuzione poliziesca, che la classe operaia è passata da “classe in sé” a “classe per sé”, maturando piena coscienza dei propri diritti ed acquisendo la determinazione necessaria per difenderli e per allargarli. È grazie a questo tipo di quadro sindacale che i lavoratori hanno potuto realizzare le conquiste più importanti prima dell’avvento del fascismo. Basta ripercorrere, anche rapidamente, le vite di Battista e di Teresa per rendersene conto.
Nato a Como nel 1879, Tettamanti si iscrisse nel 1896 alla Lega socialista della sua città e – dopo un breve periodo trascorso in Svizzera, dove era stato costretto ad emigrare dalla mancanza di lavoro – si mise subito in luce all’interno del sindacato, diventando nel 1907 segretario della Camera del lavoro comasca e conservando tale carica fino al 1914. Sono rimaste impresse nella memoria collettiva le lotte condotte in quegli anni dagli apparecchiatori, dagli edili (che nel 1908, sotto la sua responsabilità, occuparono i cantieri, anticipando di dodici anni l’esperienza delle occupazione delle fabbriche) e dai contadini della Brianza.
Abbastanza di frequente accadeva che il sindacato inviasse i quadri più sperimentati, formatisi di regola nel triangolo industriale, in zone del Paese dove l’organizzazione era giudicata meno forte. Fu così che nel 1915 Battista si trasferì a Prato per dirigere il movimento cooperativistico della Val di Bisenzio, la Lega laniera di Vaiano ed il settimanale socialista Il lavoro. Sul Lavoro Tettamanti scrisse molti articoli, alcuni dei quali rivelano una notevole capacità di analisi politica (tali sono, ad esempio, i pezzi in cui egli critica la linea dei vertici massimalisti del PSI, oppure quelli in cui, sia pure nel quadro di un’interpretazione abbastanza schematica del fascismo, riesce a cogliere la peculiarità di tale movimento nell’essere la sua base sociale costituita da una massa di piccoli borghesi spostati passati al servizio del capitale).
Durante il “biennio rosso” Battista fu alla testa delle più importanti lotte operaie, a cominciare dal moto del caroviveri del luglio 1919, quando la Valle del Bisenzio assunse l’aspetto di una piccola repubblica sovietica che si estendeva al’incirca da Santa Lucia a Montepiano e che aveva il suo centro a Vaiano. Tettamanti era a capo del Comitato di agitazione che dirigeva il moto: le amministrazioni comunali della Vallata vennero dichiarate decadute e sostituite da “commissari del popolo”, la bandiera rossa innalzata sul balcone del palazzo comunale di Vernio. Una guardia di lavoratori ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico. Nelle fattorie e nelle fabbriche furono eseguite requisizioni di generi alimentari e di tessuti che, raccolti presso le sedi sindacali, vennero poi distribuiti alla popolazione col 50% di riduzione sui prezzi correnti.
Passata la bufera del tumulto contro il caroviveri, Prato fu scossa da un imponente sciopero generale degli operai tessili, proclamato nell’ottobre del 1919. Battista fu molto attivo durante tutto il periodo dell’agitazione, e particolarmente significativo, perché indice di un costume davvero superiore, ci sembra il fatto che, pur essendogli state offerte due candidature di sicura riuscita alle politiche del 16 novembre, egli le rifiutasse, ritenendo cosa sconveniente abbandonare i lavoratori in lotta.
Nel gennaio del 1921 – quando, dopo l’occupazione delle fabbriche, i grossi industriali, costretti in un primo tempo a cedere alle richieste degli operai, erano ormai passati al contrattacco finanziando le squadre fasciste, sostenute dall’apparato burocratico e militare dello stato – Tettamanti venne arrestato mentre, alla testa degli edili della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, stava cercando di resistere all’offensiva delle ditte cui il governo aveva appaltato i lavori dopo l’estromissione delle cooperativa operaie.
Scontata la pena di otto mesi inflittagli dal Tribunale di Firenze, venne espulso dalla Toscana con un provvedimento di polizia e si stabilì a Milano, dove fu attivo nell’opposizione clandestina, cosa che gli valse la condanna al confino (trascorso a Favignana, a Lipari ed a Ventotene).
Nel 1924 lasciò il PSI per il Partito comunista d’Italia, nel quale confluì con la frazione terzinternazionalista.
Dopo la caduta del regime Tettamanti partecipò alla Resistenza, tenendosi costantemente in contatto con il Partito comunista e con i partigiani per mezzo di numerose riunioni svoltesi a Como ed a Lecco (dove, nel marzo del 1944, quando un’ondata di scioperi di chiaro significato politico interessò varie località dell’Italia centro-settentrionale, fu tra gli organizzatori della protesta).
Il 26 aprile 1945 Battista riassunse la carica di segretario della Camera del lavoro di Como che tenne fino al 1950, riannodando così, al pari di altri vecchi organizzatori, i fili di un’esperienza avviata in anni lontani.
Successivamente coprì varie cariche di rilievo, restando sulla breccia fino al 1963, quando un collasso cardiaco pose fine ad una vita che può ben dirsi esemplare.
Molti punti di contatto con quella di Tettamanti presenta la biografia di Teresa Meroni.
Nata a Milano nel 1885, Teresa aderì al PSI nel 1905, quando aveva appena vent’anni. Attiva propagandista, si trasferì a Vaiano nel 1915, insieme con Tettamanti, e quando quest’ultimo venne richiamato alle armi lo sostituì al vertice della Lega laniera, di cui divenne segretaria.
In tale veste Teresa fu protagonista di tante vertenze che si svolsero in quel torno di tempo nel Pratese, segnalandosi soprattutto per i suoi sforzi intesi ad organizzare il proletariato femminile. La lucida consapevolezza del fatto che la questione femminile era parte non secondaria di quella sociale, rappresenta l’elemento che più di ogni altro rende interessante la figura della Meroni. Essa si colloca così all’interno di un filone femminista presente nel socialismo italiano (filone che in Anna Kuliscioff ebbe l’esponente di maggior spicco) il cui obiettivo era l’attuazione di un progetto di emancipazione della donna in quanto tale e non solo in quanto operaia.
Un altro elemento che caratterizzò la propaganda della Meroni fu la recisa opposizione alla guerra. A Teresa si deve, con ogni probabilità, un manifesto “alle madri operaie”, pubblicato dal Lavoro il 25 aprile 1915 e sottoscritto da alcune donne vaianesi, che colpisce per la puntuale analisi di classe in esso svolta. Ma a Teresa si deve soprattutto l’organizzazione, nel luglio del 1917, di una memorabile marcia delle donne da Vaiano in direzione di Prato per manifestare, in modo clamoroso, contro il conflitto in corso.
Nel 1918 la Meroni venne internata a Livorno e successivamente a Castelnuovo di Garfagnana, ma anche in quelle località continuò imperterrita a svolgere la sua attività politico-sindacale. Tornò in Val di Bisenzio nel 1919, in tempo per partecipare, con un ruolo da protagonista, al moto del caroviveri.
Costretta a fuggire da Vaiano in seguito all’attacco fascista del 17 aprile 1921, Teresa si trasferì a Milano, prendendo parte attiva all’opposizione clandestina e guadagnandosi una condanna al confino. Nel 1924 aderì al PCd’I.
Rimpatriata nel 1937 per fine periodo, riprese subito l’attività politica antifascista che si saldò con quella da lei svolta successivamente nel periodo resistenziale.
Dopo la guerra si stabilì a Como insieme con Battista e per diversi anni fece parte del comitato centrale della FIOT nazionale. Morì nella città lariana nel 1951.
A questo punto qualcuno potrebbe forse chiedersi perché si sente il bisogno di ricordare oggi personaggi come Tettamanti e la Meroni. A questa domanda credo che si possa fornire una duplice risposta. Innanzitutto va osservato che la ricerca storica non è mai fine a se stessa perché fornisce alla conoscenza degli elementi sempre nuovi, ed è quindi occasione di arricchimento culturale e stimolo alla riflessione critica. Ma in questo caso mi pare di poter dire che essa assume una valenza del tutto particolare, che le conferisce il sapore dell’attualità. L’esempio di Battista e di Teresa è infatti ancor oggi da meditare in quanto essi hanno speso la loro vita battendosi per dei valori fondamentali (quelli della solidarietà, del progresso e dell’uguaglianza) che non hanno affatto perso la loro validità e che vanno anzi recuperati per cercare di ricostruire nel nostro Paese una forza politica autenticamente di sinistra. Questo, a mio avviso, è ciò che dà il senso a questo articolo e che rende l’esempio di Battista e di Teresa tuttora vivo e pieno di significato.




Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)




Renzo Martelli

Dopo l’avvento del fascismo i comunisti pratesi ebbero una parte molto attiva nell’opposizione clandestina, riuscendo (nonostante le mille difficoltà e le retate della polizia) a condurre quasi senza soluzione di continuità la loro lotta contro il regime fino a saldarla all’esperienza resistenziale. Renzo Martelli, che di tale lotta fu uno dei protagonisti, ci rilasciò nel 1991 un’interessante intervista sull’attività che il PCI svolse a Prato in quegli anni (su Martelli, oggi scomparso, cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, H-M, Milano, La pietra, 1976, ad vocem). L’intervista venne pubblicata da Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 15 settembre. Ne riproponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

Aderire al Partito comunista negli anni della clandestinità significava correre dei grossi rischi. Che cosa ti spinse a compiere un tale passo?

A quell’epoca io lavoravo come tessitore e quindi sperimentavo sulla mia pelle la durezza della vita in fabbrica sotto il fascismo. Allora il padronato aveva proprio le mani libere: i salari erano molto bassi, le condizioni di lavoro cattive, le multe fioccavano per un nonnulla e gli operai erano costretti a fare talvolta anche dei turni di dodici ore. Per i lavoratori non esisteva nessun margine di libertà e le richieste che inoltravamo alla direzione tramite il fiduciario di fabbrica rimanevano inascoltate. Lo sfruttamento era davvero la realtà di tutti i giorni e ciò faceva riflettere. Io poi sono sempre stato un amante della lettura e certi libri hanno contribuito alla mia maturazione politica. Ricordo, ad esempio, i romanzi di Maksim Gorkij ed in particolare La madre, che è la storia di una vecchia che attraverso il figlio rivoluzionario emerge da una rassegnazione antica e capisce il valore della ribellione. Una volta maturata una coscienza di classe, aderire al PCI fu per me una cosa del tutto naturale perché quel partito mi sembrava il solo in grado di realizzare una società più umana, più giusta e più moderna.

In che misura la propaganda clandestina del PCI fece presa sui contadini del Pratese?

Il contadino aveva in genere una mentalità tradizionalistica, era molto esposto all’influenza del clero e, lavorando isolato, non poteva avere, a differenza dell’operaio, degli scambi continui di esperienze e di opinioni con i compagni. La penetrazione del PCI nelle campagne fu dunque più difficile che nella città, ma un lavoro proficuo, di cui raccogliemmo i frutti nel periodo della Resistenza, venne ugualmente svolto. Ai contadini parlavamo della dittatura fascista, che anche per loro era fonte di oppressione, e della guerra verso la quale Mussolini stava precipitando il paese. Nella nostra opera di propaganda insistevamo inoltre sulla necessità di una revisione del contratto di mezzadria imperniata su un riparto degli utili più favorevole ai coloni.

In città il Partito comunista riuscì a costituire delle cellule in parecchie fabbriche. Quali compiti svolgevano questi nuclei?

Le cellule comuniste nelle fabbriche si occupavano essenzialmente della propaganda, del reclutamento e del soccorso rosso, ma per smuovere le acque venivano avanzate anche delle rivendicazioni salariali. Nello svolgere la nostra attività cercavamo naturalmente di agire con cautela: si parlava alla mensa oppure nei ritagli di tempo quando le macchine erano in movimento. Mi rammento che al lanificio dei fratelli Querci in via Santa Gonda, dove ho lavorato, eravamo riusciti ad organizzare una cellula che contava una ventina di aderenti su un totale di circa cento operai.

Un problema serio per la rete comunista di Prato fu quello degli infiltrati (penso a personaggi come Mario Imprudenti o come Diego Mammoli). Si ha l’impressione che la vigilanza del partito non fosse abbastanza attenta. Qual è la tua opinione a questo proposito?

Sì, effettivamente non è che tutto funzionasse alla perfezione. Ad esempio, non sempre venivano rispettate le istruzioni del partito che suggerivano ai compagni di non parlare dell’attività clandestina a persone diverse dai due elementi con i quali ciascuno di loro era collegato. La famosa organizzazione “a catena”, insomma, presentava delle smagliature e questo ebbe delle conseguenze anche gravi.

Dopo alterne vicende, i comunisti pratesi crearono, verso la fine del 1937, un’organizzazione che funzionò sino al giugno 1941, quando venne scompaginata dalla polizia. Puoi fare un bilancio dell’attività di questa organizzazione di cui anche tu facevi parte?

Mi pare che si tratti di un bilancio positivo, anche se fra il ’37 ed il ’41 la crescita dell’organizzazione non fu travolgente. Come ho già detto, la nostra attività consisteva nel soccorso rosso, nel proselitismo e nella propaganda. Fu in quest’ultimo campo che riportammo i maggiori successi, riuscendo ad avvicinare al partito anche persone che, pur non prendendo mai la tessera, condivisero le nostre idee e appoggiarono le nostre lotte durante la Resistenza e negli anni successivi alla liberazione.

Per l’inverno 1941-42 era stata ventilata l’idea di mobilitare le donne contro la guerra e la scarsità di generi alimentari. Pensi che questa manifestazione avrebbe avuto successo?

Penso di sì. Le donne erano meno attive degli uomini nel lavoro clandestino, ma tutt’altro che refrattarie alla propaganda antifascista. Molto influivano su di loro i sentimenti, la giusta preoccupazione per il figlio, il marito o il fidanzato mandato a combattere una guerra assurda dopo essere stato magari perseguitato a causa delle sue idee politiche.

Il 28 aprile 1942 il Tribunale speciale ti condannò a sette anni di reclusione per attività antifascista, fortunatamente non scontati per intero. Che cosa significò per te l’esperienza del carcere?

Quella del carcere è un’esperienza dura. Chi non l’ha provata nemmeno immagina quanto pesi l’essere rinchiuso fra quattro mura, la malnutrizione, la prepotenza sbirresca, la mancanza degli affetti familiari. Però io ero certo che non avrei mai passato sette anni in galera. Ero sicuro che il regime sarebbe crollato prima e questa convinzione era condivisa dai detenuti politici che si trovavano nel mio stesso camerone. Quindi io uscii dal carcere politicamente e moralmente rafforzato e pronto a riprendere la lotta senza esitazioni.

Qual è, a tuo avviso, il rapporto fra lotta clandestina e Resistenza? In che modo la prima contribuì a preparare la seconda?

Si tratta di un rapporto molto stretto, evidentemente. Senza la prima la seconda non ci sarebbe stata, e da questo di punto di vista è estremamente significativo il fatto che i quadri delle formazioni partigiane provenissero, nella loro maggioranza, dall’esperienza della clandestinità e del carcere.




Scioperare contro Hitler: una testimonianza

All’inizio del 1944 la direzione del PCI per l’Alta Italia riunì i rappresentanti dei comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e decise di organizzare uno sciopero generale nelle regioni del triangolo industriale. L’iniziativa venne poi discussa con gli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia ed estesa al Veneto, all’Emilia ed alla Toscana. Alla data stabilita (1° marzo 1944) circa un milione di lavoratori entrò in lotta, dando vita al più grande movimento di massa verificatosi in Europa sotto l’occupazione nazista. Pieno di rabbia, Hitler ordinò personalmente a Rudolph Rahn, suo ambasciatore a Salò, di far deportare il 20% degli scioperanti, ed anche se «il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per ‘difficoltà tecniche’ inerenti ai trasporti e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica» (Pietro Secchia-Filippo Frassati, Storia della Resistenza, vol. I, Roma, Editori riuniti, 1965, p. 476), tuttavia settecento operai vennero deportati da Torino e varie centinaia da Milano.

In Toscana, a causa di ritardi verificatisi nella preparazione, l’agitazione cominciò il 3 marzo. A Prato lo sciopero, appoggiato da tutti i partiti antifascisti, fu preparato dal PCI nel primo bimestre del 1944. I repubblichini risposero con i rastrellamenti alla buona riuscita dell’agitazione: centotrentasette persone vennero deportate nei campi di sterminio tedeschi (Ebensee, Gusen, Hartheim, Mauthausen … ): i superstiti furono soltanto ventuno.
Tra i principali organizzatori dello sciopero vi fu Renzo Martelli, un coraggioso combattente antifascista che nel 1941 era stato arrestato e deferito al Tribunale speciale, riportando una condanna a sette anni di reclusione con sentenza del 28 aprile dell’anno successivo (su Renzo Martelli, oggi scomparso, cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, H-M, Milano, La pietra, 1976, ad vocem). Il 9 settembre 1991 Renzo mi rilasciò un’intervista sui giorni dello sciopero a Prato che venne pubblicata alcuni anni dopo da Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 31 luglio 1997. Ne riproponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento con lievi modifiche.

Nel libro Un popolo alla macchia (Roma, Editori riuniti, 1975) Luigi Longo scrive che gli scioperi del marzo ’44 furono decisi dalla direzione del PCI per l’Alta Italia unitamente ai comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del ’43. Questa iniziativa venne poi approvata dai CLN (pp. 134-135). Quale organismo decise lo sciopero a Prato?

A Prato fu il CLN che deliberò lo sciopero su proposta dei comunisti. Parallelamente alla discussione che si svolgeva all’interno del CLN, il PCI organizzò alcune riunioni in località La Catena [Quarrata, N.d.C.], per discutere gli aspetti organizzativi dello sciopero. A tali riunioni prese parte Giuseppe Rossi, segretario provinciale del partito. A Prato i principali organizzatori dello sciopero furono – oltre al sottoscritto – Dino Saccenti, Bruno Rosati, Cesare Rosati, Alimo Gori ed Alberto Innocenti.

Sempre Luigi Longo afferma che lo sciopero generale fu attuato nelle principali città dell’Alta Italia il 1° marzo 1944 (p. 136), e che in Toscana esso cominciò due giorno dopo “per il ritardo nella preparazione” (p. 139). Da che cosa dipese questo ritardo?

Tale ritardo fu dovuto alla difficoltà di raggiungere, a proposito della proclamazione dello sciopero, l’unanimità in seno al CLN (che non deliberava a maggioranza, ma, per l’appunto, all’unanimità). Lo sciopero avrebbe comunque avuto luogo perché il PCI era deciso ad organizzarlo anche senza l’appoggio degli altri partiti ciellenistici. La proposta comunista di indire lo sciopero fu sostenuta soprattutto dai socialisti e dagli azionisti. Gli altri erano più tiepidi. I democristiani si pronunciarono a favore dello sciopero, ma il loro apporto sul piano organizzativo fu poi molto limitato.

Aspetti organizzativi. Come venne preparato lo sciopero a Prato? Come furono avvisati gli operai e che cosa fu fatto perché l’astensione dal lavoro fosse la più ampia possibile?

Nei 3-4 giorni che precedettero lo sciopero il PCI costituì delle squadre che agivano durante il coprifuoco lasciando dei manifestini sui davanzali delle finestre, sotto le porte, in campagna, ecc. La notizia dello sciopero fu inoltre diffusa oralmente. Infine il PCI organizzò, la mattina del giorno in cui lo sciopero doveva cominciare, dei posti di blocco, formati da 3 o 4 uomini armati, sulle principali vie di accesso alla città (io facevo parte del nucleo che si trovava alla Madonna del Berti). Lo scopo era quello di rimandare indietro gli operai che si recavano al lavoro, ma solo facendo opera di persuasione, evitando naturalmente minacce o violenze. Le armi servivano nel caso in cui fossimo stati sorpresi dai nazifascisti. Da rilevare che alcuni operai decisero di andare regolarmente in fabbrica senza darci ascolto.

Quali erano gli obiettivi dello sciopero?

Pace e libertà per il popolo italiano. Non furono allora avanzate rivendicazioni di carattere salariale, ecc. L’obiettivo prioritario era la liberazione del Paese.

Quale fu l’estensione dello sciopero? Grosso modo, quante fabbriche ne furono interessate e quanti furono gli scioperanti?

Lo sciopero riuscì bene. Ci furono delle defezioni, ma nella maggioranza delle fabbriche non si lavorò. Sarebbe tuttavia scorretto parlare di astensione generale dal lavoro.

Quale fu la durata dello sciopero? A questo riguardo le cose non sono del tutto chiare.

Lo sciopero cominciò il 4 marzo e si concluse il 7 col rientro graduale degli operai nelle fabbriche. Il 10 io fui incaricato dal centro fiorentino del partito di riorganizzare una formazione partigiana nei dintorni di Vicchio [la Compagnia Ceccutti, N.d.C.] e partii alla volta del Mugello. Ora, se lo sciopero fosse stato ancora in corso a quella data o nei giorni immediatamente precedenti (8 e 9 marzo) io, che ne ero stato uno degli organizzatori, non avrei evidentemente lasciato Prato. Ciò sarebbe stato alquanto strano.

Quale fu il comportamento degli industriali? Anche a questo riguardo le cose non sono del tutto chiare (cfr. Alessandro Affortunati, Vaiano e la sua Casa del popolo. Il movimento operaio nella Valle del Bisenzio, Prato, Pentalinea, 2000, pp. 75-76).

Gli industriali lavoravano per i tedeschi. Essi guardarono quindi con sfavore allo sciopero, ma non mi risulta che le loro responsabilità siano state particolarmente pesanti. Ci furono comunque degli episodi (per esempio al Lanificio Campolmi) che diedero adito a sospetti.

Carlo Ferri ne La valle rossa (Vaiano, Viridiana, 1975, p. 95) scrive che lo sciopero provocò l’interruzione di ogni collegamento fra la città ed i partigiani. A questo riguardo ci fu dunque una carenza organizzativa che si risolse nella mancanza di coordinazione fra la città e la formazione che si trovava ai Faggi?

Lo sciopero creò indubbiamente degli scompensi, ma una formazione partigiana deve essere autonoma. I partigiani che si trovavano ai Faggi dovevano dunque risolvere da soli il problema dei rifornimenti. Non potevano aspettarsi di ricevere allora particolari aiuti dalla città.

Secondo quali modalità ebbero luogo i rastrellamenti attuati dopo lo sciopero?

Non furono seguite modalità particolari: i tedeschi catturavano tutti quelli che capitavano loro a tiro. Va sottolineato il fatto che i repubblichini ebbero gravissime responsabilità nei rastrellamenti perché erano loro che conoscevano bene i luoghi, le fabbriche e le persone.

A tanti anni di distanza quale bilancio ritieni di poter fare dello sciopero del marzo ’44?

Lo sciopero sollevò il morale della gente nonostante le deportazioni. Dimostrò che agire era possibile, se se ne aveva la volontà, ed è significativo il fatto che, dopo la fine dello sciopero, il numero delle persone che salivano in montagna aumentasse. A Prato, come nel resto del Paese, lo sciopero del ’44 fu una tappa importante della lotta di liberazione.




Dalla parte del lavoro: Giulio Braga

Giulio Braga nacque a Ferrara il 25 agosto 1868 da Annetta Braga e da padre ignoto, falegname. Abbandonato dalla madre in tenera età, fu ospitato a Torino da una famiglia di conoscenti e poi condotto a Firenze da un operaio che gli fece da padre. Nella città toscana Braga iniziò l’attività politica, costituendo un gruppo anarchico nel rione di San Niccolò.

Nel marzo del 1892 si trasferì a Prato, dove, forte delle letture fatte e dell’esperienza acquisita, svolse un’intensa propaganda e collaborò alla Tribuna dell’operaio, un settimanale di indirizzo socialista-anarchico di cui era direttore Giovanni Domanico. Ricoprì anche la carica di cassiere provvisorio del Fascio operaio, costituitosi poco dopo la conclusione del congresso di Genova. Nel 1893 si sposò con Pia Casini, da cui ebbe sei figli (due maschi e quattro femmine). Alla fine del 1893, in una lettera indirizzata al direttore di un settimanale pratese, Braga, parlando della condizione di sfruttamento in cui versavano gli operai in generale e quelli di Prato in particolare, espresse così i suoi convincimenti di rivoluzionario: «la causa prima, noi socialisti senza distinzione di scuola la ravvisiamo nel capitale accentrato in mano di pochi […] Quali i rimedi! Facili ad indovinarsi! Se il capitale accentrato è la causa prima, il suo rovescio ne sarà il rimedio […] Quali i mezzi?…Ammaestrato dalla storia delle generazioni passate […] mi formai la convinzione che per sciogliere l’arduo problema non avvi che un mezzo: quello cioè che adottò la borghesia francese per emanciparsi dalla nobiltà e simultaneamente dal clero» (La luce, 6 gennaio 1894, la lettera è datata 24 dicembre 1893).

Ritenuto la personalità di maggior spicco del movimento anarchico pratese ed «un individuo assai pericoloso all’ordine ed alla tranquillità pubblica» (Archivio centrale dello stato, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario politico centrale, Fascicoli personali, b. 812, fasc. Braga Giulio di ignoti, scheda biografica compilata dalla prefettura di Firenze, 8 agosto 1895), venne inviato nel 1894 al domicilio coatto, prima alle Tremiti, dove fu coinvolto nella sollevazione contro quel regime carcerario, poi a Favignana, infine a Ustica. Tornato a Prato il 21 novembre 1896, riprese subito l’impegno politico, tenendo numerose conferenze, scrivendo un lungo racconto sulla sua esperienza alle Tremiti per un numero unico pubblicato dal Comitato pratese per l’abolizione del domicilio coatto e dando un importante contributo alla costituzione della Camera del lavoro (4 luglio 1897), di cui fu il primo segretario. Ricercato dalla polizia e costretto a riparare in Francia dopo i tumulti del maggio 1898, rientrò in città l’anno successivo. Dopo l’uccisione di Umberto I (29 luglio 1900), fu tratto in arresto, insieme con altri compagni, perché sospettato di essere in relazione con Gaetano Bresci: in agosto, tuttavia, era di nuovo in libertà, nulla essendo emerso a suo carico.

Nei primi anni del secolo Braga continuò la sua opera di propaganda e di proselitismo sia attraverso l’attività giornalistica (fu corrispondente del giornale anarchico fiorentino Il risveglio, che ebbe l’incarico di diffondere a Prato) sia attraverso quella di conferenziere, particolarmente brillante ed efficace: nel 1903 la polizia lo considerava “il capo della setta anarchica di Prato” (ibidem, cenno di variazione del 12 giugno 1903). Rappresentante della sezione falegnami della Camera del lavoro al II congresso dei lavoranti in legno (Milano, settembre 1903), egli assunse l’anno successivo la direzione de Il fascio operaio, un nuovo settimanale socialista-anarchico che si pubblicava a Prato. Il 7 giugno 1906, in quanto direttore di tale giornale, venne condannato dalla corte d’assise di Firenze a tre mesi e dieci giorni di detenzione «per i reati di vilipendio all’esercito, eccitamento alla disobbedienza delle leggi e dei doveri del giuramento e della disciplina» (ibidem, cenno di variazione dell’8 giugno 1906), in seguito alla pubblicazione, nel numero del 29 novembre 1905, di un articolo intitolato “Se fossi mamma”. Il fascio operaio chiuse nel 1907. L’anno dopo Braga aderì al Partito socialista. Alle elezioni amministrative parziali del 28 giugno 1908 fu candidato al consiglio comunale in una lista formata da repubblicani e da socialisti.

Negli anni successivi il suo impegno politico e sindacale lo portò, fra l’altro, ad essere segretario della Camera del lavoro di Empoli, assessore nella prima giunta rossa di Prato, guidata da Ferdinando Targetti (1912-1914), direttore de La sveglia, organo della Confederazione italiana fra i lavoratori dell’Arte bianca, segretario propagandista e poi segretario generale dell’Arte bianca stessa, membro del consiglio direttivo della Confederazione generale del lavoro, di nuovo assessore a Prato dopo le amministrative del 31 ottobre 1920, quando i socialisti riconquistarono il comune e Giocondo Papi divenne sindaco.

Protagonista di tante battaglie per l’emancipazione del proletariato, fu uno dei primi bersagli dei fascisti locali, che, nella notte fra il 24 ed il 25 giugno 1921, lo aggredirono nella sua abitazione, e, sotto gli occhi della moglie e delle figlie terrorizzate, lo trascinarono in strada percuotendolo selvaggiamente. Bandito dalla città nel 1922, Braga vi fece ritorno due anni dopo, ma le sue condizioni di salute, compromesse dall’aggressione subìta, si aggravarono progressivamente. Morì a Prato il 9 febbraio 1925. Sulla facciata della casa di via Santo Stefano dove Braga risiedeva si trova oggi una lapide con questa iscrizione: «Qui abitò dal 1893 / Giulio Braga / e lottò per il socialismo per / la democrazia per un sindacalismo / libero e qui morì il giorno / 9 febbraio 1925 in seguito / a vile aggressione fascista».

BIBLIOGRAFIA:

Alessandro Affortunati, Sotto la rossa bandiera. Profili di dirigenti del movimento operaio pratese, Prato, Camera del lavoro di Prato, 1996, pp. 1-18
Id., Fedeli alle libere idee. Il movimento anarchico pratese dalle origini alla Resistenza, Milano, Zero in condotta, 2012, pp. 119-122
Valerio Bartoloni, I fatti delle Tremiti. Una rivolta di coatti anarchici nell’Italia umbertina, Foggia, Bastogi, 1996, ad indicem
Claudio Caponi, Gli albori del movimento operaio a Prato: la figura di Giulio Braga, Prato storia e arte, a. 17, n. 47, dicembre 1976, pp. 39-71.




Giuseppe Becheroni

Contrariamente all’opinione corrente, dalla fine dell’Ottocento al periodo della Resistenza, il movimento anarchico fu attivamente presente a Prato. In questo contesto, Giuseppe Becheroni fu una delle figure più interessanti dell’anarchismo locale, che si distinse per i suoi sforzi di dare al movimento un minimo di coesione. Ne ricostruiamo qui, brevemente, la vita e l’esperienza politica.

Giuseppe Becheroni nacque a Vernio il 27 agosto 1887 da Giovan Battista e da Maria Meucci, intagliatore. Sposato con Annita Sanesi, aderì all’anarchismo dopo aver militato nel Partito socialista, e, insieme con Tullio Gambacciani, fondò a Prato un microscopico gruppo anarchico denominato “L’inferno”, del quale i due amici erano gli unici componenti.
Propagandista infaticabile, l’8 dicembre 1911 venne arrestato e condannato per aver disturbato una manifestazione indetta per festeggiare una vittoria dell’esercito italiano impegnato in Libia. Fu questa la prima condanna riportata da Becheroni, che nel 1912 era ritenuto pericoloso dalla polizia e risultava essere uno degli uomini di punta del movimento anarchico pratese. Il 3 settembre di quell’anno lanciò una sottoscrizione per la costituzione di un Circolo libertario di studi sociali: il Circolo, che disponeva anche di una biblioteca, era già attivo alla data del 18 ottobre e Becheroni ne era il cassiere. Diffusore del quindicinale antimilitarista milanese Rompete le file!, nel 1913 creò un Gruppo libertario rivoluzionario (ai primi di aprile), partecipò al congresso regionale anarchico che si svolse a Pescia (11 maggio) e ad un convegno libertario che si tenne a La Spezia (1-2 giugno). Fatto ritorno a Prato, la sera del 3 giugno contestò vivacemente, insieme con altri compagni, una dimostrazione studentesca inneggiante all’esercito. In tale circostanza Pietro Barni, un anarchico intimo di Becheroni, strappò il tricolore dalle mani del portabandiera e fu tratto in arresto. Becheroni riuscì invece ad eclissarsi e poco dopo promosse una sottoscrizione a favore di Barni: venne per questo condannato ad un’ammenda. Il 25 ottobre, alla vigilia delle prime elezioni politiche a suffragio universale maschile, fece affiggere “un manifesto intitolato ‘Non votate’, diretto ai lavoratori e contenente eccitamento alla rivolta”: nuovamente denunciato, fu assolto dal tribunale di Firenze il 19 marzo 1914. Il 3 maggio dello stesso anno cercò di tenere una pubblica conferenza a Prato, ma il prefetto di Firenze la proibì per ragioni di ordine pubblico.
Il 10 giugno, nel corso delle agitazioni della Settimana rossa, incitò i dimostranti della città laniera alla ribellione aperta. Immediatamente denunciato, si allontanò da Prato il 29. Colpito da mandato di cattura ed attivamente ricercato in tutto il regno, venne arrestato a Prato il 7 settembre e tradotto nelle carceri fiorentine: il 12 novembre fu condannato a sette mesi di reclusione per oltraggio agli agenti della forza pubblica.
Il 10 maggio 1915, nell’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia, venne deferito all’autorità giudiziaria per istigazione a delinquere, avendo, insieme con altri anarchici, indotto gli operai della ditta Forti di Casarsa, uno degli stabilimenti più importanti di Prato, ad astenersi dal lavoro “onde suscitare disordini e commettere violenze sotto il pretesto del richiamo alle armi”. Il 18 maggio il giudice istruttore dichiarò tuttavia il non luogo a procedere nei suoi confronti.
Becheroni morì di tubercolosi il 27 dicembre 1917 nell’ospedale di Prato: per volontà della famiglia i funerali si svolsero in forma religiosa, e pertanto i compagni non vi presero parte.

Fonti: Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario politico centrale, Fascicoli personali, b 430, fasc. Becheroni Giuseppe fu Giov. Battista; “Commemorazione di due compagni”, Il lavoro (Prato), 5 gennaio 1918.

Bibliografia: Alessandro Affortunati, “Giuseppe Becheroni: un  anarchico pratese dei primi del Novecento”, Rassegna storica toscana, a. 59, n. 2 (luglio-dicembre 2013), pp. 311-334.