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Dover partire.

Come afferma Patrizia Gabrielli, quello biografico è un approccio a lungo rimasto a margine rispetto alla produzione storiografica sull’antifascismo che, solo fino a pochi anni fa, pareva prediligere una rimozione del retaggio delle storie personali, dei vissuti soggettivi quasi fossero soffocate dalle gesta dei molti eroi che contraddistinsero il periodo e segnarono la storia della nostra repubblica e della nostra libertà.

Nell’ambito della produzione memorialistica sull’antifascismo, il metodo biografico ha acquistato progressivamente uno spazio significativo, al punto che ormai, costituisce parte integrante della bibliografia sull’emigrazione con le sue memorie, autobiografie e carteggi, che hanno avuto il potere di mettere in luce angoli visuali inattesi.

Le ricche e interessanti storie soggettive e collettive contribuiscono così a rendere una visione d’insieme dell’esperienza dei fuoriusciti italiani attraverso plurimi punti di osservazione, non solo statistici o politici. La visione al tempo stesso vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, offre più profondi e interessanti spunti di riflessione sociologica e culturale. Infatti, ogni situazione contiene in se stessa una complessità che la rende unica. Questo articolo descrive la storia della migrazione da Marti a Valbonne durante l’affermazione del fascismo in Toscana raccontando, a titolo di esempio, la storia della famiglia Lanini una delle 28 famiglie immigrate in quel periodo da un paese che contava all’epoca 2000 anime, insieme ad altri toscani perseguitati dal fascismo[1]. In questa ondata migratoria una famiglia si caratterizzò dalle altre. In quanto strumento del regime, aveva un incarico ben preciso quello del controllo affermando le direttive del fascismo, fuori dal territorio nazionale, seppur interpretate secondo le necessità locali[2]. Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene la forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza[3], sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.

Primo Lanini arrivò a Valbonne (Francia) nell’estate del 1924 a piedi, dopo una lunga e disagiata marcia lunga 400 km durata 5 settimane. Aveva 37 anni.  Il suo è un viaggio esplorativo per verificare la situazione, trovare un alloggio, prendere accordi, stabilire contatti, comprendere le potenzialità da dove partire. Cosetta è l’ultima figlia nata in Italia e ancora vivente. Nasce il 5 dicembre 1924 al civico 18 di Borgo d’Arena, una borgata di Marti, al tempo frazione del comune di Palaia in provincia di Pisa un quartiere, molto attivo da un punto di vista di impegno politico dove risiedevano anarchici, socialisti e comunisti afferenti alla Lega mista contadini-operai formatesi con autentica partecipazione durante il biennio rosso ma anche l’associazione La fratellanza operaia legata al modello del mutuo soccorso e già attiva agli inizi del 1900.

La scelta del luogo dove installarsi con la famiglia era riconducibile essenzialmente al passaparola con altre famiglie toscane emigrate a Valbonne[4] già a fine Ottocento per motivi legati al lavoro stagionale costituito principalmente dalla vendemmia dell’uva servan e dalla raccolta dei fiori come il gelsomino e la rosa centifoglia per le profumerie di Grasse, che attirava nella zona donne e uomini provenienti anche dalla provincia di Cuneo e dalle valli limitrofe[5] e dal fatto che la Francia, in quel momento, registrava un importante presenza di antifascisti (nel dipartimento Alpi Marittime e nella Regione PACA ce ne sono molte)[6]. Il Paese confinante era stato ritenuto da Primo l’alternativa più sicura e più accessibile considerato l’inasprimento dei rapporti internazionali e l’affermarsi del fascismo. La comunità martigiana proveniva da un paesaggio rurale caratterizzato dalle belle colline inferiori pisane, punteggiato da boschi e calanchi di creta argillosa. La gente allevava polli, vitelli e porci, intrecciava cesta, costruiva cerchi per le botti, lavorava il castagno, forgiava il ferro, coltivavano la terra, il mare non era nelle loro corde, né tantomeno il paesaggio urbano di Nizza, per questo la scelta di un paese simile, se non altro per clima e contesto, sembrò la più appropriata. Valbonne al tempo, era circondata da boschi si poteva tagliare la legna, venderla, trasformarla in carbone, costruire gabbie per gli uccelli, arrangiarsi, ingegnarsi, destreggiarsi, adattarsi ma lavorare finalmente in pace e vivere in attesa di tempi migliori. Le migrazioni cambiano e arricchiscono la storia di un Paese, trasformano la composizione sociale e politica di un luogo, incrementano l’economia locale ma la transizione non è così immediata, lineare e pacifica e, sicuramente nella fase iniziale, non è mai semplice inserirsi nel nuovo tessuto sociale. Così, spesso, gli eventi sfociavano in importanti divergenze culturali anche se, nel caso di Valbonne, non ci sono state mai vere e proprie discriminazioni da parte francese[7]. L’integrazione, anche solo lavorativa, non sembrava essere facile salvo sfruttare liberamente le risorse naturali del territorio: i boschi, rendendo vitale questo settore. I martigiani si specializzarono nel taglio del bosco e nella produzione del carbone, realizzavano fascine per venderle nei ristoranti, nei panifici o nei forni di cottura della celebre ceramica di Vallauris dove si installerà Picasso dal 1948 al 1955[8].

unnamedParisina Bottai con il primogenito Rigoletto, 10 anni,  Alfio, 5 anni e Cosetta, di soli sei mesi[9], arrivarono a Valbonne un anno più tardi, nell’estate del 1925, quando ormai in Italia erano state parzialmente approvate le leggi fascistissime trasformando, progressivamente, la monarchia parlamentare in una dittatura totalitaria. Arrivarono con il treno con un biglietto di terza classe fino a Ventimiglia dove Primo li raggiunse e li aiutò a passare la frontiera. Lanini era un socialista non interventista (aderente in un successivo momento al comunismo) che, suo malgrado, fu coscritto quattro anni nel corpo degli alpini e inviato sul fronte orientale in Trentino Alto Adige per combattere durante la Prima Guerra mondiale[10]. Tornato a casa, scioccato da quanto aveva visto e vissuto, demoralizzato e amareggiato per il trattamento riservato loro al rientro dalla guerra, cercava, come tutti i reduci, di reinserirsi nel tessuto sociale e riprendere stabilmente il suo lavoro di boscaiolo che gli consentisse di mantenere la famiglia. Così quando le camice nere andarono a cercarlo a casa per ingaggiarlo nelle loro spregiudicate imprese intimidatorie, Primo non ne volle sapere: era stanco della violenza e del dolore. Era un uomo giusto, dignitoso, le sue pretese erano semplici e lecite:  voleva solo ricominciare a lavorare e dimenticarsi dell’orrore della vita delle trincee e della disillusione delle promesse fatte. Lanini non condivideva l’ideologia fascista pertanto si rifiutò con fermezza di partecipare anche alla Marcia su Roma. Considerato un sovversivo, divenne vittima delle vessazioni delle cosiddette squadracce e a seguito di un’aggressione fisica grave decise di mettersi in salvo con la famiglia da un paese ingrato e illiberale.. Vi erano già state nel Comune di Palaia situazioni di tensione alcune delle quali trasformarsi in tragedia. Una sera durante una veglia clandestina, un gruppo di camicie nere provenienti da Pontedera fece irruzione nella casa dove si erano riuniti clandestinamente alcuni esponenti antifascisti e cominciarono a colpire all’impazzata con il manganello tutti i partecipanti alla riunione. Emilio Doni (1886-1954) attivo sindacalista e autorevole sindaco di Palaia già dal 1920 si mise miracolosamente in salvo saltando velocemente fuori dalla finestra e nascondendosi dentro il forno per il pane. Doni fu costretto a dimettersi dal ruolo di sindaco a causa dell’avanzamento dell’ondata nera guidata dai proprietari terrieri della zona tra tensioni e tumulti che sfociarono in feroci aggressioni e atti di sangue. Ma l’evento determinante che fece maturare definitivamente la scelta di Primo Lanini di trasferirsi in Francia fu l’aggressione e l’omicidio di un compaesano. Primo, che da qualche tempo aveva già preso in considerazione l’ipotesi della fuga all’estero, ne fu convinto soprattutto dopo l’assassinio di Alvaro Fantozzi[11]  segretario della Camera del lavoro di Palaia di soli 29 anni avvenuto sulla strada di Castel del Bosco al mattino del 2 aprile 1922 mentre si recava a un comizio a Marti per cercare di ripristinare la Lega mista contadini-operai. Lanini comprese che la situazione stava degenerando, accelerò dunque i tempi passando velocemente all’azione avvalendosi delle indicazioni di altri martigiani che anni prima avevano già tentato l’avventura in cerca di fortuna e che nel frattempo, grazie a scelte oculate, erano diventati abbienti. Infine, la realtà nella quale questo giovane toscano dovette, suo malgrado, vivere gli prospettò un avvenire tranquillo e agiato, così quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale si paventò l’idea di ritornare a casa a Marti, la scelta fu quella di restare in Oltralpe, a Valbonne dove morirà nel 1973[12]. Nonostante un forte senso esistenziale lo legasse ancora alla Toscana, la sua vita era ormai orientata a Valbonne e la Francia gli aveva procurato protezione e benessere economico.

[1] Famiglie provenienti da Marti: Bottai, Balducci, Bagnoli, Bandini, Banti, Doni, Trinti, Monti, Catalini, Giglioli, Ciampini, Cenci, Corti, Costagli, Ceccarelli, Giannini, Marmeggi, Gorini, Lanini, Nardi, Pretini, Pitti, Telleschi, Ulivieri, Regoli, Pistolesi, Pupeschi, Vanni. Famiglie originarie di Ponte a Egola : Billeri, di Forcoli : Doveri, di Massa : Trietti, di Pontremoli : Biasini e Valenti. Infine, famiglie provenienti da Pistoia: Vivarelli e Bizzarri.
[2] Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene le forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza, sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.
[3] La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. La storia del fascismo all’estero si è arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli.
[4] Demografia di Valbonne village: 1891 = 1015 , 1896 = 1138, 1901 = 1067, 1911 = 1045, 1921 = 831, 1926 = 949, 1931 = 1063. Nel periodo di cui stiamo parlando Valbonne contava 949 abitanti. Ultimi dati aggiornati al 2017 = 13 325 abitanti.
[5] Il Comune di Valbonne si era già dimostrato accogliente nei confronti degli italiani che svolgevano lavori stagionali poiché aveva già ospitato altri migranti toscani, provenienti da Marti primo su tutti Amerigo Balducci giunto nel villaggio nel 1895 con la moglie Zaira Nardi, seguiti, in ordine sparso, da altre 6 famiglie di cui il nucleo di Armando Nardi e Ida Petrini arrivati a Valbonne nel 1904 che rappresentano un’importante testa di ponte per la successiva migrazione politica.
[6] Occorre ricordare, a titolo di esempio, la famiglia di Amleto Gorini martigiano installatosi a Draguignan e Danilo Gorini che fu a lungo sindacalista nella CGT e che partecipò alla Resistenza francese.
[7]  Le condizioni di vita erano piuttosto favorevoli e la comunità locale dimostrava quanto meno una certa tolleranza nei loro confronti. Nel censimento del 1936 si contano in Francia 720.000 italiani tra esuli antifascisti e comunità di lavoratori immigrati di cui 11.000 aderenti ai partiti politici antifascisti.
[8] Studi antropologici mostrano che la catena di immigrazione si organizzava per via familiare, così che le nuove comunità che si formavano erano omogenee per area di provenienza; la stabilità di tale flusso migratorio è confermata dall’esiguo numero di ritorni in Toscana.
[9] L’ultima figlia della famiglia Lanini, Angel, nascerà in Francia nel 1931.
[10] Primo Lanini fu insignito dal capo della Repubblica dell’Ordine di Vittorio Veneto dell’Onorificenza di cavaliere al valore militare (Numero d’ordine 315). L’onorificenza commemorativa fu istituita in Italia nel 1968 dall’allora presidente Giuseppe Saragat.
[11] Alvaro Fantozzi, Segretario della Camera del lavoro di Palaia e Assessore comunale a Pontedera, fu un infaticabile organizzatore di leghe bracciantili. Il giovane fu assassinato con armi da fuoco la mattina del 2 aprile 1922 da tre fascisti di San Miniato rimasti poi impuniti. Dopo l’omicidio Fantozzi, che scosse per la sua cruenza tutta la Valdera, i comunisti aggredirono due fascisti a cui seguì una pronta rappresaglia delle camicie nere che, in varie località della Provincia di Pisa, bastonarono gli avversari.
[12] Solo due famiglie dell’ondata migratoria tornarono a Marti dopo la fine della seconda guerra a causa di lutti e della necessità di fornire un aiuto materiale ai propri cari. Gli altri rimasero tutti in Francia dove nel frattempo avevano preso la nazionalità.




Da rastrellato a partigiano

Se un trekker allenato in stile Carnovalini decidesse oggi di raggiungere a piedi Ravenna partendo da Lucca, in poco più di dieci giorni di cammino potrebbe godere dei panorami della Valle del Serchio, la wilderness dei passi appenninici, i profondi silenzi della Valle del Reno, fino alla magica lucentezza della Pialassa Baiona. Mio padre e mio zio, costretti ai ritmi delle marce forzate imposti dai loro carcerieri, passano trentasei giorni arrampicandosi sui monti con sulle spalle due rotoli di filo spinato e due spranghe di ferro, tirando il freno delle carrette trainate dai cavalli, con la febbre addosso sotto la pioggia battente, con i morsi della fame e le bastonate dei loro aguzzini, con la strada battuta dalle artiglierie alleate, dormendo su un letto di foglie di castagno ammucchiate sotto gli alberi.

Nozzano in quei giorni dell’agosto 1944 non è più un tranquillo borgo di campagna, dove contadini e muratori si adoperano per vivere e far vivere dignitosamente le proprie famiglie. Molti uomini hanno abbandonato il paese per rifugiarsi a Chiatri e sulle colline vicine. I campi sono abbandonati e non li lavora più nessuno. Con gli ultimi giorni di luglio si è insediata a Nozzano una delle più spietate divisioni dell’esercito tedesco: la XVI Panzergrenadier division “Reichführer – SS” agli ordini del generale Max Simon. Colonne di soldati, di camion, auto e blindati della Wehrmacht e delle SS alzano continui nugoli di polvere percorrendo minacciosi le strade sterrate del paese. La scuola elementare che sorge proprio nel centro della piazza viene requisita. La maestra che abita il piano superiore viene cacciata. Quell’edificio da luogo di crescita e formazione, è trasformato in luogo di distruzione, segregazione e morte. Alle voci e ai canti cinguettanti dei bambini si sono sostituite le urla strazianti dei torturati. La gestione del carcere è affidata alla Feldgendarmerie del tenente Gehrard Walter che sguinzaglia i suoi uomini alla cattura di cittadini inermi su cui scaricare la propria ferocia e rabbia per una guerra di occupazione ormai prossima alla disfatta.

Le direttive del comandante supremo dell’esercito tedesco in Italia, feldmaresciallo Kesselring, dettano la linea a cui si deve conformare l’azione degli ufficiali operanti sul campo: “Contro le bande si agirà con azioni pianificate. Durante la marcia, nelle zone in cui vi sia pericolo di partigiani, tutte le armi dovranno essere costantemente tenute pronte a sparare. In caso di attacco aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti. […] Il primo comandamento è l’azione vigorosa, decisa e rapida. I comandanti deboli e indecisi verranno da me convocati per renderne conto perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht tedesca. Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione”.

Chi non si attiene a queste direttive viene severamente punito, fino alla condanna a morte, come accade allo sventurato soldato tedesco fucilato dai propri commilitoni nel piazzale della chiesa. Così scrive il parroco Don Giovanni Galli. “… La medesima squadra demolitrice si trasforma in vero assetto di guerra: depone il piccone e si pone in testa l’elmetto, si cinge i fianchi di bombe a mano e imbraccia il moschetto. Di lì a poco salgono velocemente il Castello alcune macchine tedesche. Le osservo, non visto, dalle persiane; conducono anche degli ufficiali. Nei dintorni della torre sta curiosando qualche bambino e qualche vecchio. Viene allontanato con la scusa che si faranno brillare delle mine ed infatti si ode una fortissima detonazione. Un sergente maggiore tedesco era stato fucilato. Pozze di sangue miste a materia cerebrale sono rimaste per vari giorni a testimoniare il fatto”.  Il militare è quel Fritz, “tedesco dei Sudeti”, di cui parlano nell’immediato dopoguerra i cittadini di Filettole? Fucilato perché tenta di opporsi alle stragi di civili e perché, prima ancora, avverte la popolazione dell’arrivo delle SS? Fucilato e poi scaraventato nella fossa comune al Ponte di Ripafratta? Il dato certo è che la tomba con i resti del “buon soldato Fritz” è sicuramente esistita ed è rimasta nel cimitero di Filettole fino al 1996. Una tomba su cui i parenti delle vittime della ferocia nazista spesso depongono un fiore, soprattutto per persuadere e persuadersi che quella malvagità, per quanto grande, non è riuscita a soffocare del tutto i sentimenti dell’umana pietà.

Nozzano porta già nel nome la sua vocazione ed il suo destino (Noxa, cioè Pena). Così un paesano, Giuseppe Vecci, testimone diretto, affida la memoria di quei giorni a monsignor Francesco Baroni: “Il periodo che intercorse fra l’arrivo degli Alleati all’Arno (30 luglio 1944) e l’8 settembre, giorno della liberazione di Nozzano, è quello in cui maggiormente i tedeschi infierirono sulla popolazione inerme, e benché questa rimanesse calma e serena in attesa degli eventi, l’attività tedesca di brigantaggio non ebbe più limiti. Il sistema di rappresaglie e di terrore ebbe inizio col bruciamento di 12 capanne, ove era ricoverato grano ecc., sul mattino del 29 luglio 1944…Veniva razziato tutto il bestiame ed a ciò era incaricato un soldato tedesco delle S.S. rimasto celebre in tutta la zona. Lo chiamavano Leo ed era un vero delinquente, specializzato per tale bisogna. Interi campi di patate, fagioli erano depredati sotto gli occhi di coloro che avevano lavorato e sudato. Gli uomini e perfino i ragazzi erano rastrellati e portati a lavorare”.

Tra quei ragazzi ci sono anche mio padre Franco, diciotto anni, e mio zio Nello, di sei anni più grande. Per prudenza e per timore di essere catturati, da alcune notti non dormono nella casa paterna che si affaccia proprio sulla piazza.

Nello, in particolare, dopo l’8 settembre ha lasciato la Caserma di Genova dove prestava servizio militare e può incappare nelle disposizioni del “Bando Graziani”, decreto del 18 febbraio 1944 che prevede che “gli iscritti di leva arruolati e i militari in congedo che durante lo stato di guerra senza giustificato motivo non si presenteranno alle armi nei tre giorni successivi a quello prefisso, saranno considerati disertori di fronte al nemico e puniti con la pena di morte mediante fucilazione nel petto”.

Gli spioni fascisti però conoscono le mosse e gli spostamenti di tutti e non è difficile per i soldati della wehrmacht individuare il luogo dove si nascondono. Così, all’alba del 20 agosto 1944, un soldato tedesco in divisa sahariana ed il cappello alla norvegese entra nella loro camera: “Aufstehen!”. Sotto la minaccia del fucile puntato alla schiena, li conduce in piazza. Vengono fatti salire su un camion per essere scaricati “come sacchi” alla Pia Casa di Lucca, centro di reclutamento della forza lavoro. Su quel camion, tra i rastrellati, c’è anche un fascista di Nozzano. Urla e sbraita perché non vuole essere confuso con quella marmaglia di italiani traditori. Lui è sempre stato fedele al regime e anche ora vuole stare dalla “parte giusta”. Per questo chiede al militare tedesco di fermare il camion e di farlo scendere. Le sue proteste non producono alcun risultato. Inflessibile il guardiano lo respinge e lo rimanda a sedere sul pianale del camion. Franco, che lo conosce bene, gli si avvicina e lo invita alla calma. Non lo vedi? Per loro noi siamo tutti uguali. Siamo tutti Scheiße. In tutta risposta il paesano gli rifila un cazzotto in bocca che lo fa barcollare. A guerra finita Franco andrà volutamente a cercare il paesano e lo troverà ad occupare in Comune un ruolo di direzione nei progetti di ricostruzione post-bellica. Uno dei tanti beneficiati della mancata epurazione e della inefficacia della Legge Bonomi sulle Sanzioni contro il Fascismo, prima ancora dell’entrata in vigore del Decreto “tombale” del 22 giugno 1946 proposto dal Guardasigilli Togliatti.

Inefficacia che suscita sgomento e sfiducia tra la popolazione e le nuove istituzioni democratiche a tal punto da far approvare al Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale di Lucca nella seduta del 13 marzo 1945 il seguente ordine del giorno: “Il CpLN di Lucca, constatata l’inefficacia della vigente legge per l’epurazione, che si presta a troppo facili evasioni, constata l’ingiustificata libertà che esponenti e gregari del fascismo repubblichino ancora godono, costituendo una perenne minaccia alla rinascita democratica del paese, chiede: 1) una sostanziale modifica della legge, tendente ad ottenere una definitiva purificazione della vita politica, economica e sociale del paese; 2) al Governo e alle Autorità competenti l’invio nei campi di concentramento di tutti indistintamente coloro che hanno aderito o prestato attività collaborazionistica col fascismo repubblichino; 3) l’invio nei campi di concentramento di tutti coloro che per il loro passato politico e per avere approfittato di situazioni politiche o per aver avallato con il loro sostegno o con la loro opera la politica di oppressione del passato regime  costituiscono un motivo di perturbazione o un ostacolo alla vita normale del paese; 4) l’immediato allontanamento dagli impieghi statali e parastatali e di quelli rivestenti carattere di utilità pubblica di coloro che rientrano nelle due categorie sopra segnate; 5) che la legge di epurazione sia estesa in modo da colpire anche gli appartenenti al Commercio, all’Industria, all’Agricoltura”.

Una epurazione che paradossalmente colpirà gli antifascisti ed in particolare i comunisti al punto che Franco sarà costretto a trasferirsi a Pisa per poter ottenere un impiego come manovale delle Ferrovie dello Stato. (Colonna sonora: Sergio Endrigo “La ballata dell’ex”).

 Il 20 agosto, insieme ai miei familiari, a Nozzano viene arrestato anche Dante Braconi, già inviato al confino su segnalazione del paesano della Brigata Nera “Mussolini”, Vittorio Marlia. A guerra finita, il Braconi rilascerà ai Carabinieri di Nozzano la seguente dichiarazione: “Aggiungo di aver veduto Marlia Vittorio in compagnia di Giuseppe Cortopassi, Paolino Bertolozzi e molti altri, presentarsi ad un tribunale di guerra dell’esercito tedesco che si trovava nei mesi di luglio e agosto nei pressi di casa mia vestiti da brigatisti neri, vestirsi da tedeschi, poi partire con gli automezzi e ritornare al mattino con giovani e uomini anche anziani, caricati su camion e consegnati ai tedeschi, riuscendo poi dal locale (della scuola) vestiti da brigatisti neri”. (Processo Brigata Nera di Lucca “Atti generici” 16/01/1946 in Archivio di Stato Lucca). Parole di un perseguitato politico antifascista, al quale nessuno ha poi pensato di riconoscere un risarcimento, seppure morale.

Sarebbero comunque bastati pochi giorni, una settimana appena dopo il loro rastrellamento e la storia dei miei familiari avrebbe potuto prendere un altro verso. Il 28 agosto infatti le truppe alleate varcano l’Arno per dirigersi verso la lucchesia. Il giorno dopo le SS, dopo aver fatto saltare in aria la scuola di Nozzano, lasciano il paese per trasferirsi a Nocchi di Camaiore. In un mese esatto di permanenza a Nozzano le truppe del generale Simon, del tenente Walter e del sergente Florin, con la attiva partecipazione dei fascisti di Nozzano e dell’Oltreserchio, si macchiano di orrendi ed efferati delitti: dalla strage della Romagna a quella di Bardine S. Terenzo, dalle fucilazioni di Laiano di Filettole alle esecuzioni sommarie di S. Maria a Colle, fino all’irruzione e alle fucilazioni di monaci e civili nella Certosa di Farneta e alla partecipazione alla strage di Sant’Anna di Stazzema.

I lavori di ricerca storica per l’elaborazione di un Atlante delle stragi dicono che nella primavera-estate del 1944 nella sola Toscana si registrano oltre 200 episodi per un numero complessivo di 3.650 civili uccisi.

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Fascisti della Brigata Nera di Nozzano.Il quarto da sinistra è Vittorio Marlia (Foto archivio Orsi)

Nella sventura però c’è anche una dose di fortuna: la giovane età di Nello e Franco fa si che i tedeschi decidano di inserirli nel gruppo di “abili al lavoro”, lavoratori utili al Reich nazista. Se avessero deciso di “marcare visita” o dichiararsi “non abili al lavoro” sarebbero sicuramente stati fucilati, come è successo ad altri sventurati catturati con loro. Dalla Pia Casa quindi inizia la loro marcia forzata verso il nord. Sono impiegati come lavoratori coatti per costruire reticolati e trincee della Linea Gotica sotto il controllo della Organizzazione Todt, allo scopo di rallentare l’avanzata incalzante delle truppe alleate. Una “ritirata combattiva” quella decisa dal Feldmaresciallo Kesselring che si trasforma durante il suo cammino in una vera e propria guerra ai civili. Le truppe tedesche si muovono sui territori che attraversano come belve braccate, con la consapevolezza che la fine è ormai prossima. Ad incitarli e guidarli negli ultimi colpi di coda in lucchesia sono ancora i fascisti della XXXVI Brigata Nera capitanati dal paesano di Corte Frasconi, Vittorio Marlia, sotto la direzione di Idreno Utimpergher, originario di Empoli, guida provinciale del fascismo lucchese in quei mesi tragici.

Sempre Dante Braconi testimonierà, nel corso del processo alla Brigata Nera di Lucca “Dai primi di luglio mi trovavo nascosto in una capanna in prossimità della via che conduce a Nozzano Castello e più volte intorno alla metà di agosto 1944 ho veduto arrivare con un automezzo l’allora capitano della brigata nera di Lucca Marlia Vittorio con i militari della stessa brigata per requisire damigiane di vino, prodotti agricoli, viveri ed altro, nonché bestiame, e spesse volte ho notato il Marlia e Cortopassi Giuseppe passare nella strada in compagnia degli ufficiali delle SS tedesche gendarmeria di Nozzano”. (Processo Brigata Nera di Lucca “Atti generici” 20/11/1946 in Archivio di Stato Lucca)

La fatica, le sofferenze, la paura, le umiliazioni provate durante la marcia forzata affiorano in ogni riga del Diario. Nonostante questa condizione i fratelli Orsi e i loro compagni, il pisano di nome Angiolo e il livornese Mario, non perdono mai la speranza di poter organizzare la fuga per riconquistare la libertà. Almeno due tentativi vanno a vuoto finché con l’arrivo a Madonna del Bosco e la conoscenza di Maria, staffetta partigiana, la speranza diventa realtà. Dopo vari incontri, la notte del 29 ottobre la giovane donna li attende fuori dal campo di prigionia per condurli all’appuntamento con un barcaiolo, là dove “il fiume Senio si unisce al Reno”.

Maria fa parte di una brigata partigiana che da alcuni mesi sta organizzando la resistenza nel ravennate, ma Nello, Franco, Angiolo e Mario non vengono subito inseriti in una Compagnia. Prudenza vuole che prima di essere sicuri che non sono spie infiltrate dai fascisti vengano sottoposti ad interrogatorio e osservati e controllati nei loro comportamenti e azioni quotidiane. A vigilare su di loro è il comandante Canzio di cui Nello in particolare è attratto dal carisma e dal fascino delle narrazioni.

Canzio è un antifascista ferrarese, perseguitato politico, sfuggito nella notte del 14 settembre 1944 ad una caccia all’uomo organizzata dai fascisti di Lagosanto per catturarlo. Entrato in clandestinità, forma il Gruppo di Azione Partigiani “Tre Motte Lagosanto”: è Canzio Guietti che a guerra finita sarà il primo presidente del C.L.N. di Lagosanto.

Con Canzio si passano giorni da poter definire addirittura sereni, con tanto di festa di accoglienza con canti e balli. Sono i giorni della calma che precede la tempesta. Momenti di vero riposo. Si prende la barca e si va a colpi di paradel fra canali e canaletti alla pesca delle anguille. L’aria è fresca ma il sole è ancora caldo e in barca di giorno si può anche fare un pisolino. Non fosse per il pensiero che va alla madre, al padre, alla famiglia rimasta a Nozzano della quale da tre mesi non si hanno più notizie. La guerra è passata di là sicuramente. Gli alleati che avevano passato l’Arno hanno bombardato il paese. Si sono sentite le cannonate quando la colonna dei coatti marciava da Bagni di Lucca. In famiglia sono tutti salvi oppure qualcuno è rimasto ferito o magari ucciso sotto le bombe? Pensieri angoscianti che non trovano risposte ma non possono però bloccare l’azione.

Così, terminato il periodo di “purgatorio” e ottenuta la piena fiducia dei propri compagni, il 10 novembre i quattro fuggiaschi vengono condotti sull’Isola degli Spinaroni, al centro della Pialassa della Baiona. Qui sono rifugiati i partigiani del Distaccamento “Terzo Lori” della 28ma Brigata Garibaldi “Mario Gordini”, guidata da Arrigo Boldrini, nome di battaglia Bulow. Dopo pochi giorni dal loro arrivo formano insieme a volontari provenienti da varie zone la Quinta Compagnia “Mario Montanari”. Le compagnie sono composte da 30-35 uomini e alcune donne, la cui azione risulterà determinante per la vittoria finale. La caratteristica del “Terzo Lori” è quella di essere un “reparto di stanza” nella cui sede ogni componente può vivere in permanenza. Un distaccamento che Sergio Zavoli addirittura definirà alla fine degli anni ’60 “l’armata più singolare che guerra abbia mai conosciuto”.

Contravvenendo a quelle che sono state sinora le tattiche della guerriglia partigiana che privilegia le zone di montagna per organizzare piccoli gruppi d’assalto, colpire i tedeschi e poi ritirarsi, con la costituzione del “Terzo Lori” Bulow punta alla “pianurizzazione” della Resistenza. In concomitanza con l’avanzata degli alleati da sud si costruisce un accerchiamento delle truppe tedesche schierando le squadre partigiane nelle valli palustri a nord della città. E’ l’Operazione Teodora, obiettivo: liberare Ravenna. I compagni, già presenti sull’isola dal 29 settembre, raccontano di brevi e fulminei scontri con le truppe tedesche. Addirittura una notte con un’azione a sorpresa riescono a portar via un cannone anticarro calibro 47/32. Il campo è organizzato come un vero e proprio accampamento militare, con camminamenti e trincee, alloggi e cucina da campo e una infermeria bene dotata, con i rifornimenti che arrivano da Cervia, da poco liberata, oppure con aviolanci da parte degli alleati.

La vita nel campo ha i suoi ritmi da rispettare:

Ore 8 – Sveglia

Dalle 8 alle 9:30 – Pulizia personale, alle tende e all’accampamento

Dalle 9:30 alle ore 11:00 – Istruzione e pulizia armi

Alle ore 11:30 – Primo rancio

Dalle ore 11:30 – Consumazione primo rancio e riposo fino alle 14:30

Dalle ore 14:30 alle 15:00 – Pulizia personale

Dalle ore 15:00 alle ore 16:30 – Collettivo

Ore 17:00 – Secondo rancio

Primo turno di guardia

Franco imbraccia il fucile per la prima volta. Gli istruttori lo addestrano ogni giorno all’uso delle armi e alla loro manutenzione, mentre il commissario politico della Compagnia tiene discorsi sulle ragioni ideali e gli obiettivi della guerra di liberazione contro il nazifascismo. E’ in questi momenti che Franco matura la sua idea e la sua passione per una società comunista che non abbandonerà mai più fino al suo ultimo giorno di vita.

All’alba del 23 novembre Bulow accompagna al campo degli Spinaroni un capitano dell’VIII armata canadese: l’ufficiale Dennis Healy. Una sera il capitano riunisce tutti e parla chiaro. E’ giunta l’ora di agire, basta con i colpi di mano, sabotaggi o imboscate. E’ arrivato il momento di uscire a combattere in campo aperto, faccia a faccia con il nemico.

Così la sera del 3 dicembre inizia quella che passerà alla storia come la Battaglia delle Valli. Per sette giorni e sette notti sono scontri a fuoco con il nemico. Avanzate e ritirate. Soldati tedeschi uccisi e fatti prigionieri. Ma anche compagni feriti e caduti. Nello, che ha ripreso il suo ruolo di infermiere, interviene in più occasioni per soccorrere i compagni colpiti.

All’alba del 5 dicembre una staffetta avverte la V compagnia che le truppe tedesche della Wehrmacht, in ritirata da Porto Corsini, stanno marciando verso Sant’Alberto. Portano con loro un gruppo di uomini rastrellati tra Casal Borsetti e Mandriole. Per impedire il loro passaggio due squadre della Compagnia, circa quaranta uomini, si piazzano in prossimità di Ponte Zanzi. Una squadra si ferma in Casa dei fratelli Biancoli, l’altra in casa Zanzi. Dopo una lunga attesa compare la prima pattuglia di soldati tedeschi. Pensando di poter proseguire nella loro azione di rastrellamento, uno di loro si avvicina alla Casa Zanzi bussando con forza alla porta. Per tutta risposta gli arriva una bomba a mano che lo fa fuggire ferito e barcollante. I suoi commilitoni scatenano per oltre un’ora un inferno di fuoco contro la casa, con scariche di mitra e bombe a mano.

I fratelli Orsi, con il loro gruppo, sono asserragliati in casa Biancoli, anche loro sotto attacco della seconda pattuglia tedesca. Il mitragliere, Sesto Senni di Mandriole, tiene impegnati i soldati della Wehrmacht, ma una scarica colpisce in piena fronte, uccidendolo, proprio il padrone di casa, il partigiano Vincenzo Biancoli. Dopo poco anche il fratello Alceo, uscito di casa nel tentativo di porre in salvo la famiglia, viene ucciso dai tedeschi.

Lo scontro prosegue cruento ancora per un’ora, poi i tedeschi decidono di ritirarsi e passano su Sant’Alberto. I due gruppi di partigiani escono dalle case e si riuniscono. Nello, infermiere della Compagnia, soccorre l’unico compagno ferito, con la mandibola spezzata ed un occhio colpito: gli presta le prime cure sul campo, prima di farlo trasportare in barella all’accampamento centrale.

“Un altro episodio degno di menzione, scriverà Guido Nozzoli in “Quelli di Bulow”, è quello dei mitraglieri della 5a Compagnia SAP rimasti poco fuori di Mandriole per proteggere col fuoco delle loro armi il ripiegamento. Questi pochi uomini riuscirono a fermare i tedeschi per alcune ore. Quanto bastò per risparmiare ai patrioti altre dure perdite e per predisporre al Fossatone l’ultima linea difensiva dalla quale non avrebbero più indietreggiato a qualunque costo perché dal Fossatone si dischiudeva ai tedeschi la via del ritorno a Ravenna con le conseguenze che ben s’immaginano. Nella notte anche i mitraglieri poterono rientrare alla linea dove il grosso era attestato. A Ponte Zanzi si era stabilita la sede del comando e quella notte venne strenuamente difeso da una quarantina di volontari comandati da Franco”.

C’è un racconto di mio padre che ricorreva nelle sere d’estate quando ai Mortellini ci riunivamo con i vicini sotto la lampada d’angolo della casa cantoniera sull’Aurelia. Non amava molto raccontare la sua esperienza di partigiano, salvo prendere in giro Nello perché, non sapendo nuotare – diceva lui – aveva rischiato di annegare nella pialassa della Baiona. Quando lo faceva però ricordava sempre un suo compagno, uscito in perlustrazione con una squadra. Intercettato un gruppo di soldati tedeschi li disarmano e li prendono prigionieri. Mentre li conducono al campo il compagno tiene il mitra troppo vicino alla schiena di un tedesco che, voltatosi di scatto lo disarma, gli scarica addosso una raffica, lo uccide e fugge insieme agli altri. Una disattenzione costata la vita, frutto della inesperienza e del carattere mite del partigiano, sottolineava mio padre con gli occhi lucidi.

Quanti ragazzi si sono dovuti improvvisare soldati per una guerra che ha stravolto la loro vita, li ha strappati ai loro affetti, li ha costretti a patire il freddo, la fame e la paura, tanta paura di morire giovane, ancora con tutta la vita davanti. Sofferenze, paure, la morte che arriva e ghermisce chi ti sta a fianco: un cammino lungo e tormentato quello dei fratelli Orsi che porta però, finalmente, ad un risultato glorioso quanto inaspettato: il 10 dicembre la loro Compagnia riesce ad entrare in Ravenna, liberata da pochi giorni e può ricongiungersi con la propria Brigata. C’è gioia e orgoglio nello sfilare tra ali di cittadini festanti, anche se il bilancio di quella battaglia è di 22 caduti tra i propri compagni.

La sera e la notte passano veloci: finalmente si può consumare un pasto, sia pure frugale, attorno ad un tavolo e dormire in un vero letto. Ma il pensiero ora più che mai rimane alla famiglia rimasta a Nozzano. Non si può indugiare sereni in quel clima di festa senza sapere cosa è successo a casa.

 Così, dopo aver parlato con i propri superiori, i quattro toscani riescono ad ottenere il permesso di poter rientrare dalle proprie famiglie. Un viaggio di ritorno carico di ansia tanto è che, alle prime case di Nozzano, Nello ha un mancamento: la paura di non trovare vivo qualcuno dei suoi cari lo attanaglia, ma la conferma che “sono tutti vivi!” gli ridà la forza di entrare in casa e buttarsi nelle braccia di mamma Veriade.

Dopo una lunga notte passata a raccontare, a fare domande, a dare risposte, un buon pasto caldo e un lungo sonno che riesce a scaricare solo in parte la mole di adrenalina accumulata, si torna a girare per le strade di Nozzano, ormai liberata dai nazisti (ma non ancora dai fascisti che nel frattempo sono rientrati dal nord) per riabbracciare gli amici rimasti o ritornati, per far vedere che si è ancora vivi, per bere un bicchiere “da Brunino” e passare una serata di musica e ballo al Ragno d’Oro.

Il tragico scenario che presenta il paese va però aldilà di ogni immaginazione: la scuola elementare al centro della piazza è ridotta ad un cumulo di macerie, sventrata dalle mine tedesche. Le truppe della Wehrmacht hanno depredato stalle e campi, incendiato capanne e fatto saltare in aria anche le case attorno alla rocca. La torre campanaria del castello è crollata, colpita dai ripetuti cannoneggiamenti delle truppe alleate. Anche la chiesa è stata danneggiata.

Poi i racconti sui rastrellamenti in paese, le grida che uscivano dalle finestre della scuola per le sevizie e le torture. Le complicità dei fascisti: si racconta del povero Braconi, mandato al confino per volontà del Marlia, che ha pure fatto arrestare e uccidere dai tedeschi il direttore del manicomio. I morti impiccati con il filo spinato, fucilati, uccisi con un colpo di pistola alla nuca, nei boschi di Castiglioncello, Balbano, Casanova, Le Villine, a Filettole. Tra i morti c’è anche una bambina di nove anni, Stella, sfollata con la famiglia da Livorno, colpita a morte nelle vicinanze della stazione ferroviaria dalle schegge di una cannonata delle truppe alleate sparata di là d’Arno.

La vita piano piano riprende. Al nord la guerra di liberazione è ancora attiva. Ravenna è liberata, ma le truppe tedesche ancora non lasciano il fronte del Reno. Alfonsine è sotto attacco. Dal gennaio all’aprile del ‘45 si conteranno solo in quella zona più di trecento morti, con oltre tre quarti della cittadina ridotti a cumuli di macerie. Ma qua in paese si può tornare a pensare al futuro. Il forno di Beppe di Ballona ha ripreso a fare il pane e una ragazzina ogni mattina scende dalla Ruga per prendere un filoncino che dovrà bastare per sé, la madre, le due sorelle e i tre fratelli.

Il padre Ferruccio, muratore, è morto di broncopolmonite tre anni prima, lasciando mia nonna Pia a crescere da sola sei figli. Pochi soldi in famiglia e una lunga lista di conti da pagare sul libretto della bottega di Gioele. La ragazzina sgambetta veloce e chiede a Veriade, che abita proprio di fronte al forno, se le consente di dare una mano in casa per poter guadagnare qualcosa. Veriade la fa entrare e le raccomanda: fai la brava, se lavori bene ti faccio sposare il mì Franco. Quella ragazzina è mia madre Franca, oggi novantenne.

Il matrimonio poi ci sarà davvero quattro anni più tardi, ma Veriade non c’era. E’ il pomeriggio del 28 febbraio del ’45. Sono passati solo due mesi dal ritorno al paese dei fratelli Orsi: una colonna di carri alleati transita per Nozzano. Veriade, 61 anni e 5 figli, esce di casa con in braccio un nipotino. Vuole salutare i soldati amici che hanno portato libertà e pace anche tra le sue genti, quando le vibrazioni di un carrarmato fanno tremare e poi cadere una colonna della recinzione attorno casa. Il pesante cancello in ferro ondeggia e crolla di schianto. Veriade viene colpita a morte mentre il suo corpo protegge il bambino che uscirà incolume. A niente valgono i soccorsi.

La famiglia Orsi si trova così ad affrontare la sua ricostruzione, tra nuovi lutti e sventure, accomunata nella sorte a quelle famiglie, tutte uguali perché tutte hanno vissuto e vivono del proprio lavoro, che dopo il ventennio fascista, i drammi e le sofferenze del passaggio del fronte di guerra, hanno sperato in una società più giusta e più libera. Una società in cui le vittime dei crimini fascisti avrebbero trovato finalmente giustizia e i loro aguzzini realmente epurati dai posti di comando e di direzione, a partire dalle pubbliche amministrazioni.

Così non è stato. L’opportunismo di molti, la malafede di pochi ma potenti, hanno invece riproposto nel corso del tempo una restaurazione dei classici sistemi di comando e controllo, compatibili con una democrazia moderna, ma escludenti la grande maggioranza dei cittadini dai processi di formazione delle decisioni nonché dalla partecipazione al governo della res publica. Non appaia strano quindi che, a settanta anni dalla nascita di una comunità libera e rinnovata, si stia ancora discutendo sulle regole della rappresentatività e della rappresentanza democratica.

Per questo, ancora oggi, per mantenere viva la memoria di chi si è battuto per la nostra liberazione, pretendere la completa attuazione e la non modifica della Costituzione e continuare a sperare in una società migliore, non ci resta che unirci al grido di quel bravo magistrato: Resistere, Resistere, Resistere!

Bibliografia essenziale:

Mons. Francesco Baroni, Memorie di guerra in lucchesia (1940-1945). Note e ricordi, Tip. Artigianelli

Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, L’Ancora del mediterraneo

Carla Forti, Dopoguerra in Provincia, Microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Franco Angeli Storia

ANPI Le stragi nazifasciste del 1943-1945, Memoria, responsabilità e riparazione, Carocci editore

ANPI Provinciale di Ravenna, Isola degli Spinaroni una base partigiana tra natura e storia, Danilo Montanari Editore

Arrigo Boldrini, Diario di Bulow, Vangelista

Guido Nozzoli, Quelli di Bulow. Cronache della 28ma Brigata Garibaldi, Editori Riuniti

AA.VV. La guerriglia in pianura: dalle prime squadre operaie alla “Colonna Wladimiro” in Alfonsine 11-12 aprile 1974, Convegno di studi sulla Resistenza.

Giulia Belletti, L’armata della pianura: la 28ma Brigata Gap “Mario Gordini”. Tesi di Laurea

Antonio Pagani, E’ café d’Cai. Le avventure di un giovane alfonsinese durante il fascismo.

Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Settembre 1943 – Maggio 1945, Feltrinelli

AA.VV. Storie della Resistenza, Sellerio Editore, a cura di Domenico Gallo e Italo Poma




Mazzino Chiesa, un uomo in mare

«Il bacino occidentale del Mediterraneo può venire considerato nel suo complesso come un unico mercato del lavoro per l’emigrazione italiana, nonostante le diverse condizioni, sia giuridiche, sia economiche dei paesi che ne fanno parte»: così scriveva il Commissariato generale dell’emigrazione nel 1926, riportando la stretta connessione e circolarità esistente tra le diverse sponde del Mediterraneo, in cui si venivano a intrecciare antichi insediamenti italofoni legati al commercio e alle professioni liberali, con nuovi flussi dell’emigrazione da lavoro attratti dagli interventi infrastrutturali, dalle attività portuali o minerarie, oltre che dai più tradizionali mestieri agricoli o servizi urbani. Alla metà degli anni ’20 si può stimare un totale di 550.000 persone di nazionalità italiana che vivevano stabilmente nei territori bagnati dal mar Mediterraneo e che intrattenevano con il paese di origine rapporti più o meno fitti e continui. Si trattava con ogni probabilità della più numerosa nazionalità in emigrazione nell’intero arco mediterraneo, considerando le minori dimensioni demografiche di Grecia e Malta, altri paesi con un’importante diaspora marittima.

Così come era successo con l’emigrazione politica degli esuli risorgimentali, lo spazio mediterraneo tornò a essere durante il periodo fascista un luogo di rifugio per gli emigrati politici avversati dal potere in Italia: gli antifascisti trovarono nei porti del “mare di mezzo” una risorsa molto importante per sfuggire alle maglie della repressione fascista e allo stesso tempo poter continuare a tenere rapporti con la società italiana.

L’intricato campo di relazioni dei sovversivi antifascisti che univa le coste del Mediterraneo si basava sulla presenza stabile delle comunità italiane all’estero, ma aveva poi bisogno di vettori e persone mobili che facessero da tramite. È il caso di Mazzino Chiesa, nato nel 1908 in un quartiere popolare di Livorno. La sua storia è strettamente legata al mare e al partito comunista: di madre valdese e di indole anarchica, fu attivo politicamente sin da giovane in un comitato sindacale comunista. Possiamo ricostruire la sua vicenda a partire dal fascicolo personale conservato nei faldoni della Polizia politica presso l’Archivio Centrale dello Stato e dall’intervista che gli fece Iolanda Catanorchi nel 1974, disponibile online.

chiesa_2A 17 anni si imbarcò per un trasporto oltreoceano, senza avere però l’accortezza di passare ai compagni le consegne delle sue attività politiche. Commise così una grave imprudenza: «avevo del materiale del soccorso rosso e dei soldi in casa e sono partito […] imbarcai a bordo di questo vapore […] partimmo e io nel partire siccome avevo lasciato tutto il materiale a casa e non avevo avuto il tempo di fare… […] scrissi una lettera a mia madre, scrissi: “cara mamma dietro al quadro trovi il materiale, dallo a Gino”». La lettera fu intercettata dalla polizia, che a distanza seguì gli spostamenti del vapore fino al suo rientro. «Ritornando da Montereale [Montreal, n.d.a.], dal Canada, avevamo caricato del grano, quando arrivammo nel porto di Napoli, fuora, nel golfo di Napoli, vedemmo dei motoscafi della milizia che circondavano il vapore, difatti diedero ordine al comandante di dar fondo fuora. Quando fummo fermi ci invitarono tutti al centro…». Non ancora maggiorenne Chiesa venne arrestato per la prima volta e portato al carcere minorile di Napoli, quindi a Regina Coeli e poi a Livorno.

Da allora fu costantemente sorvegliato dalle forze dell’ordine. Nel 1931 Chiesa venne a sapere che era stato spiccato un mandato di cattura e decise di partire per la Corsica insieme ad altri quattro ricercati, con una barca comprata per l’occasione. «Quasi tutta a remi ce la siamo fatta, 42 ore ci abbiamo messo, siamo stati più bischeri noi, perché non c’era vento, non abbiamo trovato…». Stabilitosi a Bastia con altri fuoriusciti comunisti, si fece notare per la vivace propaganda antifascista. Nel novembre 1931 venne arrestato per aver picchiato a sangue Vasco Patania, un altro livornese venuto a Bastia insieme a un commerciante di stoffe, ritenuto un agente dell’Ovra. Nonostante la gravità delle percosse (in seguito alle quali Patania morì in un sanatorio a Livorno) il processo si concluse con una lieve condanna, un mese di prigione che Chiesa aveva già scontato, come riferiva alla polizia italiana un’informativa anonima:

Il Chiesa è così uscito glorioso e trionfante, accolto dai compagnoni suoi, fra gli applausi generali. […] l’avv. Moretti di cui già altra volta abbiamo parlato per il suo antifascismo […] fra gli unanimi applausi sostenne invece che il Chiesa è un perseguitato politico dovuto fuggire dalla sua patria perché odiato dal Fascismo […]. Il processo è emerso [sic] una requisitoria antifascista che ha fatto andare in sollucchero i fuoriusciti che in gran numero si erano dati convegno nell’aula e nelle adiacenze del Tribunale. Il Chiesa Mazzino non appena uscito è tornato alla carica ed alla sera stessa ha tenuto una concione antifascista sulla banchina del Porto (malgrado il freddo) e dinanzi agli operai della “Impresa Vestrini” ha parlato ancora delle necessità di naturalizzarsi francesi per evitare di tornare in Italia a morir di fame sotto la sferza del fascismo. I soliti canti antifascisti hanno posto termine alla gazzarra senza che la polizia intervenisse.

 Partì quindi verso Marsiglia e si recò a Parigi. Qui prese contatto con i vertici del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) in esilio: lavorò dapprima per il Soccorso rosso, poi insieme a Giuseppe Di Vittorio iniziò a occuparsi dell’organizzazione della propaganda presso i lavoratori dei porti. Dopo aver partecipato con lo stesso Di Vittorio a un congresso internazionale dei portuali ad Altona, vicino ad Amburgo, entrò ufficialmente nell’organizzazione sindacale per conto del partito.

Alla fine del 1932 i servizi informativi fascisti lo individuavano come «un rappresentante della federazione italiana dei lavoratori del mare» (Film), inviato dal comitato centrale del Pcd’i a Marsiglia «allo scopo di tentare di organizzare in detta associazione i marittimi delle navi mercantili italiane che toccano quel porto»: «costui frequenta spesso il Club dei marittimi di Marsiglia, cercando di avvicinare connazionali ai quali distribuisce stampa del partito e tessere». Prese contatto tra gli altri con gli ambienti dei portuali di Genova, Livorno, Savona, Napoli: «andavo nei porti, creavo i comitati di diffusione e stampa, e poi attraverso questi prendevamo contatti con i marinari e dovevamo andare molte volte negli ambienti equivoci, molte volte passavamo per magnacci, altre volte passavamo per contrabbandieri, altre volte… perché i marinari si trovano lì, non si trovano…».

Come ha ricostruito Paolo Spriano, nella storia ufficiale del Partito comunista, «in questo periodo [tra 1933 e 1934] una buona parte della propaganda clandestina comunista che riesce a penetrare nel Regno ha come veicolo i marittimi, e la polizia aumenta la sua sorveglianza sugli equipaggi». Per poter svolgere questa attività e sfuggire al controllo poliziesco, Chiesa assunse differenti identità, in un gioco di dissimulazione che gli apparati di sicurezza italiani stentavano a seguire: Mario Landrelli, Mario Sandrelli, Assante Puntoni, Luigi Lenzi, Mario Luschi, Mario Lucchi, André Bernard, Masianello, Silverio, Masini, Alfredo o Alfredone, Ernest Morioli, Ernst Boschi, Roque Celeste Amado sono alcuni dei nomi utilizzati, il più delle volte con la copertura di un documento falsificato. Nel marzo 1933 da Parigi un informatore della polizia politica riferiva gli estremi della carta d’identità francese di un certo Alfredo Ferrari, nella convinzione che si trattasse in realtà della copertura fittizia per un’altra persona, Luigi Lenzi. Non sospettava che la vera identità dell’uomo che stava seguendo era ancora un’altra, quella di Mazzino Chiesa.

Alcune missioni di cui venne incaricato dal partito appaiono particolarmente rischiose. Ad Algeri ebbe il compito di avvicinare i membri italiani della flotta navale, creare delle cellule comuniste a bordo e trovare un marinaio disposto a disertare per recarsi a un congresso ad Amsterdam, per poi andare a vivere in Russia. «Mi hanno dato una valigia a doppio fondo, con già il materiale, i clichet pronti, tutto il materiale, il passaporto svizzero, mi chiamavo Morioli Ernest». Riuscì nell’intento e tornò a Marsiglia con un disertore comunista. Sempre in Algeria, ma a Bona, fu ancora inviato per fare proselitismo tra gli italiani che caricavano i fosfati e i concimi chimici sui vapori.

Nonostante tutti questi spostamenti, il centro del suo peregrinare per i porti mediterranei rimaneva Marsiglia, dove teneva le fila dell’organizzazione dei marittimi. «Ero più utile io in questo lavoro…», dichiarò con orgoglio alla metà degli anni settanta. La guerra di Spagna segnò una cesura in questa sua attività. Si recò una prima volta come volontario insieme al fratello nelle formazioni di Giustizia e libertà, nella colonna Rosselli. Venne quindi severamente rimproverato dal partito che lo rispedì a Marsiglia a riprendere il lavoro con la Film, fortemente indebolita dalla sua partenza improvvisa. Qui però continuò a pensare alla Spagna: «è anche latore – segnalavano gli informatori fascisti – presso alcune personalità ed organizzazioni, di richieste di materiale bellico e di uomini». Riuscì a ripartire per il fronte spagnolo, per poi finire all’inizio del 1939 nel campo di concentramento di Argelès-sur-Mer. Dopo un breve periodo scappò e fece ritorno a Marsiglia, dove la polizia francese lo stava aspettando per trarlo in arresto. Riuscì a imbarcarsi clandestinamente su un vapore diretto a Tunisi. Qui trovò Giorgio Amendola e Velio Spano e fu introdotto nel gruppo degli italiani comunisti locali.

 Attualmente è ospite di un giudeo che abita nella Avenue Jean Jures [sic] n. 59. Il controscritto – appena giunto – si mise subito in contatto con gli altri compagni di fede, ai quali rimprovera la mancata energia e la mancata attività di mettere in esecuzione il programma rivoluzionario e dinamitardo anarchico. Sembra – ma non lo si può affermare con prove specifiche – che il Chiesa avrebbe preso parte alla spedizione punitiva eseguita recentemente contro la sede del Dopolavoro del circolo rionale Bab El Kadra di Tunisi.

 Nel corso del Ventennio, la vicinanza geografica tra le sponde del Mediterraneo e l’eredità storica delle circolazioni che avevano avuto luogo all’interno del bacino crearono delle condizioni favorevoli per gli antifascisti: di fronte alla situazione oppressiva che il regime fascista aveva instaurato all’interno della penisola e su cui imponeva in maniera sempre più dura i suoi apparati di controllo, il mare rappresentò una risorsa fondamentale per gli oppositori. Le vie acquatiche potevano portare con facilità in ambienti non sottoposti al codice penale fascista né alla sovranità della sua polizia, ma pur sempre familiari, grazie alla presenza delle comunità italiane e alla larga diffusione della lingua italiana nell’arco mediterraneo. La zelante attività di informatori e consoli non mancò di estendere la rete di controllo anche fuori dai confini, ma pur sempre sotto ordinamenti giuridici e statuali differenti da quelli dominati dal fascismo. In questa situazione si mossero persone e organizzazioni con una competenza specifica nel fare propaganda presso i portuali e la gente di mare. La ricostruzione dei loro percorsi e dei network su cui si muovevano è di grande interesse per un’analisi della centralità della dimensione mediterranea come spazio storico e geografico di libertà e democrazia.




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

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Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

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La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.




Emilio Angeli: il “nonnino” della Resistenza toscana

«Chi ricorda la situazione livornese dal ’45 al ’48 sa che cosa voleva dire, allora, agire nel piano sociale per una idea cattolica apertamente professata. [Emilio Angeli] era ancora dolorante per le percosse e le fratture riportate dalla aggressione di centinaia di scalmanati e ripartiva per affrontare in altre parti il rischio di nuove aggressioni. “Non sono questi i guai” diceva sorridendo e ricominciava la sua battaglia. Erano giorni in cui solo i manifesti murali del “Fides” osavano affrontare il terrorismo comunista per far conoscere le cose vere della città. La polizia non era sufficiente per proteggere, la gente era spaventata: affiggere quei manifesti, periodicamente, tra continue minacce significava rischiare letteralmente la vita: ma il sor Emilio insieme ad Alfio e a pochi altri, sempre diversi, non mancava mai. Non si trattava di episodi ma di una lotta continua ed estremamente rischiosa condotta in difesa dei valori cristiani con l’umiltà di chi la credeva un semplice dovere»[1].

Così scriveva il 20 gennaio 1957 sul «Fides» don Renato Roberti, nel terzo anniversario della morte di Emilio Angeli, il «nonnino»[2] della Resistenza toscana.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Due giorni prima il vescovo coadiutore di Livorno monsignor Andrea Pangrazio inaugurava in memoria del padre di don Roberto Angeli il «Centro di Assistenza Sociale Emilio Angeli»[3], situato vicino al Cantiere Orlando tra Borgo S. Jacopo e via Micheli. Quel Centro avrebbe raggruppato il “cuore” delle attività del Comitato Livornese Assistenza (CLA) di cui nel 1948 Emilio «fu uno dei più entusiasti e preziosi iniziatori»[4]: in Borgo S. Jacopo col tempo si raggrupparono un notevole numero di attività, tra cui una Casa di educazione per adolescenti, la Scuola Tipografica «Stella del Mare», un Centro medico-psico-pedagogico, un Refettorio e ricreatorio post-scolastico oltre agli Uffici e servizi vari del CLA[5]. Per la Pontificia Commissione Assistenza (PCA) e per il CLA, Emilio Angeli aveva speso senza risparmiarsi l’ultimo decennio della sua vita, occupando il tempo che gli restava libero finito il turno di operaio alla Motofides. «Senza mio padre – affermò don Angeli – non avremmo potuto fare per i ragazzi quello che abbiamo fatto»[6]. Scrive don Roberti: «Con lo stesso impegno e la stessa generosità del periodo clandestino si dava anima e corpo al successo dell’opera, ne amava intensamente le finalità e non c’era niente che egli considerasse estraneo alle sue premure e alle sue fatiche. […] Più di una volta, per un insieme di circostanze, si è trovato praticamente solo a sostenere il peso della organizzazione di tutto il C.L.A. Allora saltava notti in bianco, pasti, conversazioni estranee, e si moltiplicava per fare tutto quello che occorreva. […] I bimbi delle colonie, dei doposcuola, dei ricreatori, li amava, li difendeva»[7].

Gli scontri coi comunisti nel dopoguerra, anche seri e gravi[8], non furono niente a confronto con le nerbate e con le torture subite da Emilio Angeli nelle carceri di via Tasso a Roma durante gli interrogatori a cui fu sottoposto dal responsabile del Massacro delle Fosse Ardeatine in persona, Herbert Kappler, il famigerato comandante del Servizio di Sicurezza  (Sicherheitsdienst-SD), e della polizia segreta nazista (Geheime Staatspolizei-Gestapo) di Roma.

Tradito da un certo Ghirelli, che operava ai margini della Resistenza romana, Angeli fu arrestato dalla Gestapo sul ponte Milvio. «Fui portato in via Tasso in Roma – ricordava Angeli nel 1945 – bella villa, finestre murate, dimora delle S.S. luogo principale di tortura di Roma. Spogliato, perquisito, privato di quanto possedevo fui portato in cella dove si trovavano altri sei disgraziati. La mia persona parve alle S.S. tedesche molto importante perché fui subito sottoposto a lunghi e estenuanti interrogatori interrotti da nerbate perfino sotto le piante dei piedi. Il mio viso serviva come esercizio di box anche al colonnello Kappler comandante delle S.S. a Roma. Il mio viso era diventato gonfio come un pallone ciò durò per cinque giorni alla fine dei quali si sentenziò: “domani sotto torchio parlerete…”»[9]. Kappler «credeva nientemeno che fosse un generale – scrive don Angeli nel capitolo dedicato a suo padre nel Vangelo nei Lager – […] Questo – disse una volta Kappler ai suoi collaboratori dopo un’estenuante seduta, mentre il detenuto a testa bassa, taceva ancora ed il pavimento era chiazzato di sangue – questo è veramente un soldato…»[10].

Nel dopoguerra il Maresciallo d’Italia generale Giovanni Messe decorò Emilio Angeli con la Medaglia d’argento al Valor Militare con la seguente motivazione: «Nel corso di un lungo periodo di attività clandestina collaborava alla attività di due nuclei informativi operanti in territorio italiano occupato dai tedeschi. Arrestato e sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori, manteneva ferma e dignitosa fierezza. Condannato a morte riusciva ad evadere e a raggiungere le truppe alleate»[11]. Anche il rabbino capo di Livorno, Alfredo Toaff, riconobbe che quello di Angeli fu un «esempio fulgido di bontà, di fede e di eroismo»[12].

Sia don Angeli che Renato Orlandini descrivono il fortunato epilogo del suo arresto[13]. Emilio Angeli lo ricordava così: «Per una ventina di giorni fui lasciato in pace e me ne chiedevo la ragione quando la sera del 3 giugno fui condotto in una sala dove mi legarono le mani dietro la schiena. La stessa sorte toccò ad altri 28, a un certo momento giunse in cortile un piccolo camion dove ci fecero salire, dopo il quattordicesimo non ce ne stettero altri, io ero il quindicesimo. Il maresciallo mi respinse e il carico partì. Noi ritornammo nella sala, si prolungava di qualche ora la nostra agonia, anche allora Iddio mi protesse. La macchina non fece ritorno e alle ventiquattro fummo slegati e ricondotti in cella. La mattina del 4 giugno sentimmo gran confusione, erano i tedeschi che dal palazzo di via Tasso fuggivano perché si sentiva la mitraglia e il cannone vicino Roma. Alle sette del mattino eravamo liberi, la popolazione ci aveva aperto le porte».

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Ma perché c’era stato tanto accanimento contro Emilio Angeli? E in cosa consistette il suo «lungo periodo di attività clandestina»?

Merlini lo sintetizza così: «Si trattava di salvare tanti ebrei perseguitati, di portare aiuti a tanti soldati italiani e a tanti prigionieri alleati braccati sui monti, di raccogliere informazioni militari, di divulgare la stampa clandestina e soprattutto di dare vita ai primi gruppi di partigiani. E il “nonnino” compariva dappertutto, con tutti i mezzi, ad aiutare ed a risolvere le più disperate situazioni»[14].

[1] R. ROBERTI, Alla generosità della sua lotta non può mancare il premio del Signore, in «Fides», 20 gennaio 1957. Emilio Angeli era nato nel 1887 e morì nel gennaio del 1954.

[2] «Lo chiamavamo così perché, a noi ventenni, un cinquantenne o poco più sembrava vecchio. E, in effetti, era il più anziano del nostro gruppo [dei cristiano-sociali]», cfr. R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, MCS, Livorno 1989, p.49

[3] A Emilio Angeli vennero intitolate anche la Colonia montana presso Cutigliano (Pistoia) e nel 1969 il Soggiorno montano in località Talento presso Marliana (Pistoia), cfr. 1948-1964 Gli anni e le attività, in «Il Ponte», notiziario del Comitato Livornese Assistenza, n.2, aprile 1964 e 30 anni, «Il Ponte», n.1, maggio 1976

[4] Cfr. Emilio Angeli, «Il Ponte», n. 2, aprile 1964

[5] Cfr. Il Vescovo e il Prefetto inaugurano il nuovo Centro di Assistenza Sociale “Emilio Angeli”, in «Fides», 20 gennaio 1957

[6] Cfr. Il «nonnino» che aveva per amici i bambini, in «Fides», 24 gennaio 1954

[7] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954

[8] In Archivio Centro Studi don Roberto Angeli, si trova una lettera di don Angeli a Gianfranco Merli, datata 1963, in cui il sacerdote ricordando il decennio 1945-1955 e gli scontri con i comunisti afferma che «a mio padre, che scortava i nostri “attacchini” [del “Fides” edizione murale], venivano rotte due costole». In R. ROBERTI, Perché voglio parlare di don Pessina, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1991 don Roberti sostiene che nel dopoguerra «il “nonnino”, il babbo di don Angeli, l’eroico antifascista, torturato dai nazisti a Roma in via Tasso, senza che riuscissero a farlo confessare, aggredito dai comunisti a S. Jacopo e bastonato a sangue – ricoverato all’ospedale con due costole rotte – accusato e punito come un “bieco fascista”»; concetto ribadito in Id., Delitto di leso giornalismo, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1996: «il babbo di don Angeli, l’eroico “Nonnino” della Resistenza, lo picchiarono a sangue i comunisti».

[9] La testimonianza inedita si trova nell’Archivio ISRT, Fondo Clero, Busta n.6, Fascicolo XIII, Diocesi di Livorno.

[10] R. ANGELI, Vangelo nei lager: un prete nella Resistenza, Stella del Mare, Livorno 1985,  pp. 20-21

[11] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954.

[12] ibid.

[13] R. ANGELI, Vangelo nei lager, cit.,  pp. 21-22 e R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, cit., pp. 48-50

[14] L. MERLINI, In memoria di Emilio Angeli, in «Il Tirreno», 20 gennaio 1954




Un paio di scarpe per la vita: il percorso della famiglia Fischer da Prunetta ad Auschwitz

La famiglia ebrea croata Fiser (alla tedesca Fischer) era originaria di Zagabria, città in cui i suoi membri vivevano piuttosto agiatamente grazie ai proventi di una azienda operante nel commercio del legname. Era composta da Teresa, da sua cognata Jelka e dai figli di quest’ultima e cioè Regina, Paolo e Otto, sposati rispettivamente con Mira Weiss e Vera Furst. Con loro vivevano anche Nada e Felicita, sorelle di Regina e loro madre Gisela Heim (Haim) Weiss.

La loro tranquilla esistenza cambiò radicalmente quando nel 1941 la Iugoslavia venne occupata dalle truppe nazi-fasciste. Zagabria e Belgrado caddero di fronte alle truppe tedesche il 10 aprile, Lubiana, Mostar, Dubrovnick, Cetinje nei giorni successivi per mano degli italiani.

I nazionalisti ustascia sotto la guida di da Ante Pavelic, creato il nuovo stato indipendente di Croazia, cominciarono presto la “pulizia etnica” ai danni di serbi, ebrei e rom definiti “i peggiori nemici del popolo croato”. Le loro stragi furono tali che le truppe italiane decisero per evitare di compromettersi di issare più il tricolore davanti ai comandi delle truppe nazionaliste.

Di fronte al pericolo di cadere vittima delle persecuzioni i membri della famiglia Fischer abbandonarono il palazzo di famiglia e fuggirono a Spalato, allora sotto il controllo italiano. La loro intenzione, come quella di molti ebrei iugoslavi e non, era quella di penetrare in territorio italiano, dove le leggi razziali erano, almeno fino a quel momento, applicate in modo meno feroce.

Da Spalato furono poi internati a Prunetta, sulla montagna pistoiese, in quanto appartenenti a una nazione nemica e quindi “capaci di qualsiasi azione deleteria”. Prunetta era con Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia città, Ponte Buggianese e Serravalle Pistoiese, una delle zone ad internamento libero presenti sul territorio pistoiese.

Foto panoramica di Cuorgné

Foto panoramica di Cuorgné

L’internamento libero offriva condizioni di vita migliori rispetto a quelle caratterizzanti i campi di concentramento, in particolare una certa libertà di movimento, la possibilità di svolgere varie professoni e di rapportarsi con la popolazione locale.

Da alcuni documenti risulta che alcune donne del gruppo e cioè Gisela, Nada e Felicita prima di giungere in Toscana furono condotte a Cuorgné, all’epoca comune della Val d’Aosta, oggi in provincia di Torino. Facevano parte infatti di un gruppo di una cinquantina di ebrei, in molti casi di origine askenazita o sefardita, che fu ospitato, assai benevolmente secondo molti, nella cittadina per alcuni mesi.

Dalla cittadina valdostana le tre donne furono condotte poi a Prunetta, dove già risiedevano gli altri membri della famiglia. E’ possibile che siano state le donne stesse, per ricongiungersi con i familiari, a chiedere alle autorità di essere spostate.

Da una lettera spedita all’arrivo in Toscana alla famiglia che le ospitò a Cuorgné è possibile dedurre quanto si fossero trovate bene nella cittadina dell’Italia Settentrionale [foto copertina articolo].

La situazione per i Fischer, così come per gli altri ebrei italiani o stranieri presenti nel pistoiese, non fu caratterizzata, almeno inizialmente da episodi drammatici.

Alcuni anziani ancora oggi ricordano la presenza degli ebrei nella piccola località appenninica. Il giornalista Giorgio Andreotti ricorda in particolare che:

“… erano soprattutto donne, una di loro era incinta (Mira ndr). Mia madre lavorava alle Poste e mi raccontava che spesso alcune di loro si recavano all’ufficio postale per spedire lettere e cartoline…

La situazione per la famiglia purtroppo mutò radicalmente dopo l’8 settembre 1943.

In realtà un primo evento drammatico si era già verificato nei mesi precedenti l’armistizio. Il 23 luglio 1943 Paolo Fischer infatti era stato arrestato dal maresciallo di San Marcello Pistoiese Antonino Gitto con l’accusa di aver acquistato, forse al mercato nero, della marmellata. La detenzione dell’uomo durò pochi giorni ma mise probabilmente in evidenza a tutti che la situazione generale si stava ormai deteriorando.

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Il 6 settembre, due giorni prima dell’armistizio, si verificò l’unico lieto evento che caratterizzò in quegli anni lontani il piccolo nucleo familiare e cioè la nascita di Massimiliano (Max), il figlio di Otto e Vera. Ovviamente, data la situazione, il bimbo non venne registrato come ebreo.

Pochi giorni dopo, il 10 settembre il capo della polizia Carmine Senise diramò l’ordine di liberare gli ebrei stranieri dall’internamento. L’ordine fu revocato tre giorni dopo. Solo pochi ebrei poterono così approfittare di questa contingenza e fuggire. I Fischer, a causa delle precarie condizioni economiche in cui si trovavano, purtroppo non lo fecero.

Il 23 settembre Paolo fu nuovamente arrestato, questa volta assieme ad Otto. Condotti a Montecatini e affidati ai nazisti furono condotti nei campi di prigionia riservati agli ex militari iugoslavi dell’Europa Settentrionale.
La vicenda della donne, a questo punto rimaste senza la protezione degli uomini di casa, incrociò quella della famiglia di Ernesto e Margherita Bragagnolo che dalla piana pistoiese erano sfollati a Prunetta per sfuggire ai bombardamenti finendo così a vivere nella stessa abitazione dei Fischer. I due erano tornati in Italia dopo essere emigrati negli Usa. Ernesto, era un industriale calzaturiero proprietario di un negozio di scarpe in via San Martino. Soprannominato per il suo passato “l’Americano” era considerato dalle autorità un “sovversivo”. Sottoposto a vigilanza era anche stato arrestato dai repubblichini e recluso per cinque giorni nel carcere di Pistoia.

L’aiuto di Ernesto e Margherita fu fondamentale per la sopravvivenza delle Fischer nell’inverno del ’43. Paolo Fischer nella denuncia che questi scrisse a guerra finita contro il maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se e il segretario del PNF di Prunetta afferma che le donne

vivevano con l’aiuto e l’amicizia costante dei Sigg. Bragagnolo, e sentivano crescere di giorno in giorno, il pericolo intorno a loro, capivano che presto la maglia si sarebbe chiusa anche sulle loro teste. Il Renato Geri (il segretario del PNF di Prunetta ndr) non si stancava di ripetere a destra e a manca: “Mi occorre la casa dei Fischer, ci farò la sede del fascio” e sorvegliava continuamente le nostre donne per ghermirle alla prima occasione“.

Le Fischer, probabilmente disperate, cercarono per salvarsi l’aiuto del maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se Gitto. Secondo Paolo, questi promise che, in cambio dell’acquisto di un paio di scarpe per suo figlio, le avrebbe avvertite nel caso fosse stata organizzata una retata per catturare gli ebrei rifugiati sulla montagna pistoiese attraverso l’invio di una busta bianca priva di contenuto. All’arrivo della “strana missiva” le donne si sarebbero evidentemente dovute nascondere.

Queste, convinte dal Gitto, acquistarono le calzature richieste presso il negozio di proprietà del Bragagnolo situato nel centro di Pistoia. Lo stesso Ernesto dichiarò tristemente a guerra conclusa di avere ancora la partita di questa vendita ancora aperta, dal momento che aveva ceduto le scarpe sulla fiducia e non in cambio di denaro.

Regina

Regina

Il 23 gennaio 1944 Regina, rammenta ancora Paolo, “… Regina sentì con intuito femminile… che la tempesta si addensava, chiese consiglio al maresciallo, ma questi continuò a rassicurarla, continuando che le avrebbe avvertite prima di un eventuale rastrellamento“.

Le fosche previsioni della donna si avverarono nell’arco di pochi giorni. Il 25 gennaio tutte le donne furono arrestate senza che nessuna busta priva di contenuto fosse giunta ad avvertirle della retata. Il maresciallo le aveva quindi tradite. L’unica a salvarsi, almeno momentaneamente, fu Vera, che non venne arrestata solo perché il piccolo Massimiliano era malato. Derubate dei loro pochi averi furono condotte da agenti di Pubblica Sicurezza e quindi da italiani nel carcere di Santa Caterina in Brana a Pistoia e da qui prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, dove tutte perirono.

In ricordo di Regina e delle altre alcuni anni fa in Piazza della Sala a Pistoia, laddove nel Medioevo sorgeva il ghetto ebraico, è stata posta una lapide.

Il 31 gennaio i carabinieri con grande freddezza tornarono a Prunetta con l’intento di arrestare Vera e il piccolo Massimiliano ormai guarito. Questi non venne preso solo per la ferma e coraggiosa opposizione di Ernesto Bragagnolo e di sua moglie Margherita Festi, con i quali rimase fino al ritorno di Paolo e Otto dalla prigionia.

Vera venne accompagnata in questura dove “… il commissario De Martino le disse che se voleva partire con i suoi per la Germania poteva andare subito“.

Gli ultimi giorni di Gennaio furono assai cupi per gli ebrei sfollati a Pistoia. La maggior parte degli ottantotto israeliti catturati in provincia di Pistoia fu arrestata dai nazisti in ritirata e dalla polizia locale proprio in questo periodo. Si trattava nella maggior parte di persone, come i Fischer, proveniente da altri paesi e quindi priva di aiuti ed amicizie sul posto o di italiani molto poveri. Nel diario di Nina Molco conservato a Pieve Santo Stefano si legge che “Tutti quelli che erano qui (a Prunetta ndr), e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare“. Solo in cinque tornarono: Michele Baruch Behor, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone.

Il 4 febbraio 1946 Paolo Fischer denunciò come detto il maresciallo Gitto e il segretario del PFR di Prunetta Geri per l’arresto e lda deportazione dei suoi familiari.

La denuncia non ebbe seguito perché gli imputati, accusati di collaborazionismo, beneficiarono del decreto di amnistia promosso da Togliatti in virtù del quale i giudici dichiararono il non luogo a procedere in quanto il reato era estinto.

Finita la guerra i Bragagnolo tornarono ad abitare a Pistoia nella casa di Via San Martino. Massimiliano rimase con loro. Dopo alcuni anni quest’ultimo andò a vivere a Prunetta con suo zio Paolo.

Solo nel 1951 Otto, il padre di Massimiliano, tornò in Italia dai campi di prigionia. Con suo figlio si stabilì a Torino dove intraprese l’attività di commerciante. Massimiliano si laureò in Economia e Commercio e iniziò l’attività di commercialista che continua ancora oggi.

foto 5Nelle scorse settimane Massimiliano con suo figlio Giorgio Otto e i numerosi nipoti è tornato a Prunetta dove, accolto dalla comunità locale, ha potuto rivedere i luoghi della sua infanzia.

È l’unico testimone di una storia lontana che evidenzia, a distanza di decenni, come, accanto ai molti che si adeguarono alle leggi allora in vigore, altri non chinarono il capo, scegliendo di difendere i valori della giustizia e della libertà.

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Storia locale” n. 32 e gentilmente concesso dagli Autori.




L’internamento dei reduci antifascisti italiani di Spagna nei campi francesi (1939-1941)

La storia dell’internamento degli antifascisti italiani reduci dalla guerra di Spagna nei campi nel Sud della Francia è stata ingiustamente trascurata sia dalla memorialistica sia dalla storiografia italiana. Dal punto di vista delle memorie, probabilmente, ha influito il fatto che i cupi e monotoni anni di prigionia francese risultano, per i combattenti stessi, compressi e schiacciati tra l’esaltante vicenda spagnola e la successiva lotta resistenziale. Dal punto di vista storiografico, invece, il significativo vuoto si ricollega direttamente con il ritardo della storiografia francese che, complice forse la propria cattiva coscienza, ha iniziato a occuparsi della questione dell’internamento soltanto di recente, da quando sembra aver trovato il modo di inquadrare il fenomeno nel discorso pubblico della Francia democratica[1]. In Italia, a oggi, assenti completamente le traduzioni, l’unico a essersi occupato in modo approfondito dell’argomento è Pietro Ramella che, oltre alla curatela del volume di memorie di Riccardo Formica, in cui si descrive l’arrivo al campo di Saint Cyprien del gruppo di italiani guidato dal comandante Morandi, ha pubblicato nel 2003 un volume intitolato proprio La Retirada e nel 2012 un nuovo studio sul tema[2]. Si tratta di un testo che, però, fa riferimento prevalentemente a materiale edito e non apre alcuno spiraglio interpretativo per quanto riguarda la specificità italiana nella vicenda e che, del resto, non ha avuto, nonostante la novità del tema, né un’accoglienza particolarmente calorosa né una grande visibilità.

Foto André Alis

La Retirada ©André Alis

L’argomento, affrontato dal recentissimo Quaderno Isgrec Storie di indesiderabili e di confini[3], è insomma pressoché sconosciuto o ignorato agli storici nostrani e questo nonostante l’ampia mole di documentazione reperibile presso gli archivi francesi centrali e periferici in merito all’esperienza dei reduci di Spagna e, nello specifico, degli italiani nei campi. In particolare, negli Archives Départementales des Pyrénées Orientales a Perpignan (ADPO) per la documentazione pertinente ai campi cosiddetti “della spiaggia”, dove i volontari sono radunati nei primi mesi del 1939, e nell’Archive Départementale de l’Ariège a Foix (ADEA) in cui è conservato l’archivio del campo disciplinare del Vernet, in cui sono imprigionati i sospetti e i cosiddetti estremisti politici nelle fasi successive. Dell’esperienza dei campi rimane anche un’abbondante produzione documentaria di parte comunista, a cui alcuni storici hanno potuto avere accesso durante il troppo breve periodo di disponibilità alla consultazione, negli anni passati, degli archivi del Comintern raccolti a Parigi. Recentissimamente, la digitalizzazione dei documenti sovietici, presso il sito del Russian State Archive of Social-Political History (RAGSPI), ha aperto nuove frontiere in termini di accessibilità ai documenti sulla Spagna e sulle vicende successive dei membri delle Brigate internazionali.

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l'histoire et des cultures de l'immigration

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l’histoire et des cultures de l’immigration

I campi di internamento del Sud della Francia, in ogni caso, rappresentano un oggetto di studio particolarmente interessante proprio per quanto riguarda l’Italia perché moltissimi furono gli italiani che vi transitarono. Basti pensare che a Saint Cyprien, uno dei cosiddetti campi della spiaggia, gli italiani furono la terza nazionalità rappresentata fra gli internazionali, mentre a Gurs, quindi in uno dei campi dell’interno sorti in una seconda fase di stabilizzazione, furono probabilmente la seconda nazionalità presente. Il trattamento riservato loro fu in alcuni casi estremamente duro e non può essere compreso se non tenendo conto del più ampio arrivo di rifugiati spagnoli che si verificò tra la fine del gennaio e l’inizio del febbraio 1939 e che passò alla storia con il nome di Retirada. Fu un evento eccezionale per i tempi: in pochissimi giorni, a partire dal 29 gennaio, transitarono dai valichi franco-catalani circa 470.000 persone[4], un consistente e concentrato movimento di popolazione che prima di allora non si era mai registrato in un lasso di tempo così breve, un esodo impressionante che in sostanza non aveva precedenti nella storia europea.

Proprio su tale eccezionalità, del resto, si è basato negli anni il vasto impianto autoassolutorio francese costruitosi intorno a questi temi, mentre solo recentemente gli storici hanno riproposto la questione in termini di responsabilità, analizzando le carenze della politica di accoglienza francese o, secondo alcuni, la vera e propria assenza di una qualsivoglia politica[5]. Di fatto, però, la chiusura del governo d’Oltralpe si inseriva perfettamente nel clima maturato già negli ultimi mesi del 1938, quando termini come “indésirable” e “clandestin” erano diventati sempre più presenti nel dibattito pubblico e il radicale Edouard Daladier, tornato primo ministro, aveva fatto approvare un gran numero di decreti legge in particolare repressivi verso gli immigrati e i rifugiati. Fu proprio nel caso degli ex combattenti spagnoli e dei reduci delle Brigate internazionali, laddove meno potevano pesare gli appelli di carattere umanitario, che si palesò apertamente il focalizzarsi dello Stato francese sulla sicurezza e l’ordine pubblico, concretizzatosi nella chiusura totale della frontiera agli uomini in età di leva e nell’organizzazione allo scopo di un dispositivo militare e poliziesco molto efficiente.

Gli ormai ex volontari internazionali, che dalla smobilitazione erano concentrati in Catalogna, in campi organizzati su base nazionale, rimasero così bloccati in attesa che venisse deciso il loro destino. Solo alla fine del 1938 si avviò una lenta evacuazione: venne via via concesso il transito dei volontari originari dei paesi democratici, accolti e subito reindirizzati “chez eux”, mentre vittime dell’intransigenza crescente della politica francese furono soprattutto coloro che venivano dai paesi fascisti, che rischiavano al rientro di subire persecuzioni politiche. Fra loro gli italiani, per molti dei quali – per esempio per i disertori arrivati direttamente dall’Italia e passati nelle file repubblicane che rischiavano condanne molto pesanti, ma allo stesso tempo non godevano di nessun appoggio da altri paesi – trovare una via di uscita dall’imminente crollo del fronte divenne un dramma vero e proprio.

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Volontari in fuga concentrati nei “campi della spiaggia”

Alla fine, come successe per i civili, anche per i reduci stranieri la situazione precipitò di colpo sotto la pressione degli eventi, con l’ordine francese del 5 febbraio 1939 di lasciar passare tutti gli uomini accalcati presso i valichi di frontiera, compresi i miliziani armati pronti a forzare il passaggio in caso di rifiuto. Dall’altro lato del confine, però, i reduci delle BI non trovarono l’accoglienza che si aspettavano dalla vicina e amica Francia, dal paese che era stato per decenni il rifugio sicuro per i perseguitati politici di mezza Europa. Infatti, avendo il governo francese stabilito che tutti gli uomini in età di leva dovevano restare nel dipartimento di arrivo, cioè quello dei Pirenei orientali, l’unico modo di “accoglierli” era quello di disarmarli e raggrupparli in appezzamenti di terreno circondati da filo spinato sulle spiagge del Roussillon. Si tratta dei campi della spiaggia, dove i volontari furono radunati nei primi mesi del 1939, e cioè Argelès, Saint Cyprien e Barcarès.

Qui, in un contesto sempre più emergenziale, situazioni drammatiche sul piano materiale vennero accentuate dallo sconforto morale dei rifugiati, come testimoniato dai racconti anche italiani di quegli eventi, in cui spicca il momento simbolico della consegna delle armi e della bandiera al confine. Avrebbe ricordato Francesco Scotti,

I gendarmi francesi avevano già dato l’ordine di ammassare le armi da una parte. Ogni possibilità di continuare le operazioni anche con azioni di guerriglia era finita. I soldati mi circondarono e mi chiesero perché dovevano deporre le armi. “Entriamo in un paese amico o nemico?” […] Il primo incontro con la Francia libera ci raggelò il sangue più delle nevi delle montagne[6].

principali-campi-francesiL’arrivo in Francia si imprimeva così nelle memorie individuali, sia dei civili sia dei militari, come un evento ad alto coefficiente traumatico: l’idea di società nella quale si era creduto, e per la quale molti avevano combattuto, andava in frantumi e attraversare quel confine significava sancire una sconfitta tanto individuale e personale quanto collettiva e comunitaria. Lo spirito del Fronte popolare non c’era più e le proteste non ebbero, a quell’epoca, una base politica sufficientemente ampia né furono particolarmente durature; così, senza la forza della pressione popolare, a prevalere furono le congiunture e la volontà politica del governo conservatore. Iniziava per gli antifascisti il durissimo momento dei campi di internamento, che divennero, anche dal punto di vista spaziale, la prova tangibile delle spaccature createsi all’interno della società francese tra il 1938 e il 1948, in quelli che la storiografia ha recentemente definito il periodo degli “anni neri”, caratterizzati dall’esclusione dal tessuto sociale nazionale di coloro che erano considerati un peso dal punto di vista economico o un pericolo per la sicurezza interna.

Un nuovo capitolo biografico che sembrava aprirsi tra gli auspici più foschi, tra il freddo, il vento, la sabbia e le recinzioni delle spiagge francesi. Affacciati sul litorale, circondati da terreni acquitrinosi infestati da mosche e battuti dalla tramontana, i primi campi del Roussillon erano, in effetti, quasi completamente sprovvisti d’installazioni, semplici terreni sabbiosi delimitati dal filo spinato. A Saint Cyprien, per esempio, non era previsto alcun riparo, alcuna struttura, tranne un monumentale arco all’entrata del campo e saranno poi gli internati stessi a costruire i primi baraccamenti. Aldo Morandi, riguardo al suo arrivo durante la notte dell’8 febbraio, avrebbe scritto:

su un arco fatto di pali e assi di legno, una scritta “Saint Cyprien”. È l’entrata del campo ma non riesco a distinguere baracche o alloggiamenti, forse per l’oscurità […]. Avvolto nell’impermeabile, con il sacco da montagna sotto la testa come cuscino, ho tentato di dormire sulla sabbia umida e mi sento tutto intirizzito. […] Si è fatto giorno. Non vedo alcuna baracca, il campo d’internamento non esiste, è una nuda distesa di sabbia sul mare circondata da tre lati da filo spinato[7].

vernet

Entrata del Campo di Vernet

Nonostante lo sconforto iniziale, però, la ripresa di una capillare organizzazione politica si ebbe proprio nei campi. In particolare in quelli dell’interno, sorti nelle fasi successive per ovviare al sovraffollamento delle strutture vicine alla frontiera, in seguito a un tentativo di riorganizzazione da parte del governo francese, resosi conto che non avrebbe potuto disfarsi molto rapidamente degli internati. In primis nel campo di Gurs, sui Pirenei orientali, dove gli internazionali vennero ricongiunti nel maggio 1939 e dove i 900 internati italiani si collocavano al secondo posto fra le nazionalità, e quindi in quello di Vernet, nella prefettura di Foix, che, in seguito all’applicazione della legislazione anticomunista francese varata nel settembre 1939, divenne un campo disciplinare, definito “a carattere repressivo”, dove inviare gli stranieri sospetti, gli estremisti o gli individui pericolosi per l’ordine pubblico o per l’interesse nazionale, e quindi gli ex volontari delle Brigate internazionali. Proprio l’altissima concentrazione di ben noti antifascisti fece via via del Vernet uno dei centri francesi ed europei della Resistenza al nazifascismo. Di fatto, l’internamento di un gran numero di dirigenti comunisti europei e di una buona parte dei dirigenti delle Brigate Internazionali lo trasformarono in uno dei principali centri dopo Mosca, dove particolarmente rilevante era la presenza di tedeschi, italiani e polacchi.

Nel microcosmo dei campi i reduci provenienti dalla Spagna videro via via riconsolidarsi quella solidarietà internazionale, nata in Spagna, che farà delle resistenze europee un momento di sintesi di aspirazioni e impegno militare e civile per antifascisti di diversa provenienza, nazionale e politica. In questi luoghi, dove gli italiani rimasero in media due anni (dal febbraio 1939, quando la Francia si vede costretta ad “accoglierli” nei primi reticolati sulle spiagge del Roussillon, fino alla primavera del 1941 quando l’Italia cominciò a pretenderne il rimpatrio), si svolsero vicende e fatti che influirono profondamente sulla costruzione in divenire delle identità dei futuri combattenti, ma che ancora di più determinarono il ricostruirsi, dopo la Spagna, dei networks cruciali nella successiva lotta europea al nazifascismo.

Foix

Registro del campo di Vernet (©Isgrec)

Qui maturarono anche le competenze apprese sul campo di battaglia spagnolo, quella preparazione politica, tattica e militare che fece dei reduci italiani di Spagna, come ha ben evidenziato Paolo Spriano, “la punta di diamante” dei quadri dirigenti della lotta partigiana in Italia[8]. Nei campi, infatti, nonostante le condizioni di vita spesso durissime, la vicenda degli antifascisti italiani si declinò in un costante sforzo collettivo per la preparazione della futura lotta, percepita come ineluttabile e necessaria. Si andava dal concreto addestramento militare, come per esempio nel caso dell’empolese Pietro Lari, «esperto in tattica dei colpi di mano e di fabbricazione di esplosivo», che a Gurs aveva passato giornate intere ad addestrare i suoi compagni di prigionia alla fabbricazione delle bombe a mano[9], alla più generale preparazione culturale e politico-organizzativa dei militanti, derivata dai corsi e dal lavoro culturale svolto fra il filo spinato; tenendo conto anche, semplicemente, del quotidiano processo di condivisione di esperienze e insegnamenti tattici e strategici.

Insegnamenti che saranno messi a frutto dopo il rientro in Italia, per i più direttamente dal campo del Vernet (ultima tappa nell’itinerario dei campi), a seguito delle procedure di rimpatrio forzato avviate dalla Francia nel febbraio 1941 o volontariamente, a seguito della richiesta del Partito comunista italiano di fornire personale politico e militare per combattere. Una scelta, quella di tornare, che veniva messa in cantiere già dal 1941, ma che nella maggior parte dei casi si concretizzò solo fra il 1942 e il 1943: di conseguenza, molti antifascisti si ritrovarono a introdurre in Italia anche le tecniche e la metodologia d’azione tipiche del maquis francese.

Proprio in Francia, del resto, molti italiani scelsero di rimanere a combattere, dando in alcuni casi un contributo determinante alla costruzione dei gruppi locali. Già alcune evasioni dai campi, in effetti, erano state organizzate dalla nascente rete clandestina del maquis, la cui composizione era, prevalentemente, francese, ma in cui cominciavano a entrare fuorusciti italiani, spagnoli e “internazionali” reduci dalla Spagna. Nati come vere e proprie centrali d’evasione e di assistenza ai clandestini – in cui, di fronte alla crisi dei partiti dell’antifascismo e di associazioni come la Lidu, a rafforzarsi erano i legami di solidarietà personali – questi gruppi diedero via via inizio a una resistenza capillare, composta da una diffusa rete di formazioni militari di montagna e cittadine, queste ultime impegnate nell’organizzazione sistematica di sabotaggi e azioni di contrasto nei centri urbani. Basti pensare all’esempio dell’anarchico fiorentino Umberto Marzocchi, che nel 1941 si rifugiò sui Pirenei, nella zona del campo di Vernet, dove, sotto copertura, fu attivo proprio nell’attività di soccorso viveri agli internati e nell’organizzazione delle evasioni dal campo; collegatosi in seguito con la Resistenza francese della regione di Tolosa, partecipò alla liberazione del campo e nell’agosto 1944 entrò a far parte delle Forces Françaises de l’Intérieur (FFI) come vicecomandante di un’imprecisata unità spagnola[10].

Perpignan, Registro del campo di Argeles (©Isgrec)

Quelle degli antifascisti italiani reduci dalla Spagna sono insomma vicende biografiche compresenti in una serie di cornici: locali, nazionali, internazionali. Da un lato, perché il contributo consistente dato da questi uomini prima alla lotta contro Franco e poi contro il nazifascismo è comprensibile solo in virtù della convinzione, che li accomunava, del legame indissolubile fra la sorte della Spagna nel 1936 e quella delle democrazie europee tutte; dall’altro, perché i volontari stranieri furono vittime, loro malgrado, di politiche internazionali che li avrebbero voluti fuori dalla scena politica europea dopo il settembre 1938. Essi rappresentarono la pesante e tangibile eredità di un periodo che la velocità della politica internazionale aveva ormai spazzato via.

In particolare, il limbo nel quale vissero gli italiani e coloro che non poterono rientrare nel paese di origine testimonia quanto la guerra civile spagnola sia stata un conflitto che per essere capito fino in fondo deve essere declinato secondo categorie transnazionali. È quindi fondamentale analizzare le vicissitudini di questi combattenti dietro al filo spinato, seguirne l’iniziale sconforto e poi il risveglio politico fino allo svilupparsi nei campi di una complessa organizzazione clandestina, capire per esempio come fra gli italiani fosse gestita la difficile convivenza fra le diverse anime dell’antifascismo. Risolvere queste domande permette allora di colmare un significativo vuoto di conoscenze sugli anni decisivi che fanno da trait d’union fra la guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale, ma anche di porre dei punti fermi da cui ripartire per un’indagine sull’apporto dei reduci delle Brigate internazionali alla lotta contro il nazifascismo, indagine che ancora manca come evoluzione della storiografia sulla guerra civile spagnola.

Collettivo “El Cubri”, grafiva dfel disco “Cantata del exilio - ¿Cuándo volveremos a Sevilla?" Prima ed. Parigi 1976

Collettivo “El Cubri”, grafica del disco “Cantata del exilio – ¿Cuándo volveremos a Sevilla?” Prima ed. Parigi 1976

 

Note:

[1] Un’evoluzione esemplificata dal brillante lavoro di ricerca e divulgazione condotto sul sistema dei campi francesi da Denis Peschanski, con il suo volume La France des camps pubblicato da Gallimard nel 2002; una corposa opera di analisi in cui nulla si tace delle colpe della Francia di Vichy, la cui ampia diffusione è stata resa possibile da un clima culturale disposto finalmente ad affrontare quella memoria (D. Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi 2002).

[2] P. Ramella (a cura di), Morandi, Aldo. In nome della libertà: diario della guerra di Spagna 1936-1939, Mursia, Milano 2002; Id., La retirada: l’odissea di 500.000 repubblicani spagnoli esuli dopo la guerra civile, 1939-1945, Lampi di stampa, Milano 2003; Id., Dalla Despedida alla Resistenza. Il ritorno dei volontari antifascisti dalla guerra di Spagna e la loro partecipazione alla lotta di Liberazione europea, Aracne, Roma 2012.

[3] E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec Quaderni 05, Effigi, Arcidosso 2017.

[4] Sulle stime governative fornite all’epoca e sul problema della loro attendibilità e completezza cfr. l’interessante punto della situazione presentato in G. Tuban (a cura di), Février 1939. La Retirada dans l’objectif de Manuel Moros, Mare nostrum, Perpignan 2008.

[5] Il dibattito in merito a questo tema è ricostruito accuratamente dal testo di J. Rubio, La politique française d’accueil: les camps d’internements, in P. Milza e D. Peschanski (a cura di), Exils et migration. Italiens et espagnols en France 1938-1946, L’Harmattan, Parigi 1994.

[6] D. Lajolo, Il “voltagabbana”, BUR, Milano 2005, pp. 163-164.

[7] Ramella (a cura di), Morandi Aldo. In nome della libertà, cit., pp. 221-222.

[8] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. IV. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino 1973.

[9] Archivio INMSLI, Fondo AICVAS, b. 23, f. 24. Anello Poma, Come vissero gli ex combattenti delle Brigate internazionali nei campi di concentramento francesi, s/d..

[10] I. Cansella, F. Cecchetti, Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec Quaderni 02, Effigi, Arcidosso, 2012.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

P.ne Catilina2MG

Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.