Il vescovo Giovanni Piccioni: la Chiesa livornese tra fascismo e guerra

Giovanni Piccioni esercitò il suo ministero episcopale a Livorno dal 1921 al 1959. Quasi un quarantennio che lo vide al centro della scena in una diocesi tradizionalmente ritenuta tra le più difficili in Italia per i radicati fenomeni di irreligiosità e la presenza di una forte massoneria: un terreno difficile per lo sviluppo delle organizzazioni cattoliche [Bedeschi, 1983]. Alcuni studi hanno evidenziato le inequivocabili manifestazioni di deferenza al regime che caratterizzarono l’attività pubblica del presule durante il ventennio [Litrico, 2002; Mazzoni, 2009]: è indubbio che il vescovo salutasse con favore – specie in un contesto come quello livornese – l’inedita protezione che lo Stato fascista garantì alla religione cattolica, tanto più dopo i Patti lateranensi e la sanzione solenne del ruolo pubblico e ufficiale del cattolicesimo nella società italiana [Ceci, 2013].

Tuttavia a leggere nel suo complesso il messaggio pubblico di Piccioni si svelano i lineamenti di una strategia giocata su due tavoli, coniugando il caloroso appoggio al governo di Mussolini, i buoni rapporti mantenuti col federale di Livorno Umberto Ajello e, soprattutto, con la potente famiglia Ciano, con la frequente esteriorizzazione di una identità separata, discordante con le ambizioni totalitarie del fascismo, e coltivata anche nei confronti riservati col proprio clero e col laicato.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Indizi in questo senso punteggiano il suo ministero negli anni del fascismo, caratterizzato dalla particolare fermezza con cui si prodigò a difesa del clero e dell’associazionismo [Zargani, 1997], ed hanno la manifestazione più evidente nell’indizione dei sinodi diocesani del 1927 e 1938 (i primi in assoluto per la diocesi sorta nel 1806), nel secondo dei quali non si nascondevano gli obiettivi – come si legge nella lettera pastorale d’apertura – di una «restaurazione cristiana» del popolo. Va notato poi come immediata fu la reazione di Piccioni alla promulgazione delle leggi razziali: non sul piano pubblico, ma nella convocazione nel dicembre 1938 di un «incontro riservatissimo» a cui furono invitati i massimi dirigenti dell’Azione cattolica e alcuni sacerdoti (tra cui don Roberto Angeli) allo scopo di approntare una rete diocesana che favorisse «la collaborazione con i parroci e con le altre organizzazioni caritative per dare agli ebrei aiuti materiali e morali» [Erminia Cremoni, 1955].

Negli anni di guerra, fino alla destituzione di Mussolini, il presule alternò alle manifestazioni di lealismo patriottico, la vigorosa celebrazione della «missione indefettibile» del pontefice. Da un lato non si mancò di impetrare i «divini favori sull’Italia e sulle Forze Armate» nell’occasione della consacrazione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù per la festa della Candelora del 1941 [«Bollettino Diocesano Livornese», n.1, 1941, p. 5], né furono meno solenni i momenti di invocazione alla “pace vittoriosa” come avvenne soprattutto nella imponente funzione del 16 maggio 1943 al santuario di Montenero in cui il vescovo, davanti a quarantamila livornesi, implorò la protezione della «Madre di Misericordia» sulla «nostra cara Patria», affinché potesse «presto intrecciarsi sulle bandiere al lauro dell’eroismo e della vittoria, l’ulivo della pace» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio, giugno, luglio 1943, p. 14]. Dall’altro, dal maggio 1942 al maggio 1943, la diocesi fu impegnata in un denso programma di celebrazioni per ricordare il giubileo episcopale di Pio XII, culminato con la festa di Cristo Re del 1942, nella quale Piccioni rievocò con forza gli obiettivi pacelliani di «ricostruzione della famiglia cristiana».

Dopo il 25 luglio, in linea con l’episcopato toscano, Piccioni mostrò di sposare la linea di pacificazione tracciata dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa pubblicando sul “Bollettino Diocesano” la notificazione del 31 luglio in cui l’arcivescovo di Firenze invitava i fedeli a rispettare le «legittime autorità» e richiamando «clero e popolo a uniformare la loro condotta ai principi che vi sono esposti» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio-giugno-luglio 1943, pp. 30-32]. Ed è significativo che il presule intese ribadire questa linea ancora nel marzo 1944, quando era ormai nota l’ampiezza dell’impegno di tanti cattolici nella Resistenza, dando spazio sull’organo ufficiale della diocesi, alla notificazione sul clero e i partiti pubblicata dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster nell’ottobre 1943 con la quale si esprimeva la necessità che la Chiesa si mantenesse «fuori ed al di sopra di tutte le diverse competizioni d’indole politica» e si intimava esplicitamente all’obbedienza «secondo le leggi, alle legittime Autorità stabilite» [«Bollettino Diocesano Livornese», gennaio-marzo 1944, pp. 11-12].

Eppure è in questo contesto – che nel discorso pubblico non pare far emergere una significativa eccezione rispetto al coevo quadro regionale [Bocchini Camaiani, 2009] – che si sviluppò il Movimento cristiano sociale, senza dubbio uno dei gruppi cattolici di resistenza al fascismo più strutturati della Toscana, entrato nel Cln di Livorno già il 9 settembre 1943. Un contesto che appare di ancor più difficile lettura se solo si tenga conto che il gruppo strutturatosi intorno alla Fuci livornese ricevette a pochi giorni dall’armistizio una lettera degli assistenti don Angeli e don Amedeo Tintori che proponeva un invito aperto alla ribellione e affrontava esplicitamente il problema dell’obbedienza all’autorità costituita. Appellandosi al principio del diritto romano per il quale l’unico comando ammesso era quello proveniente dalla legge, si negava con forza ogni legittimità a comandi imposti con «la forza o la violenza o l’astuzia o l’arma di un uomo o di molti uomini» e si riaffermava che l’«unico governo legittimo», al quale era necessario «obbedire in coscienza», era «quello eletto secondo lo Statuto, il quale non è abrogabile se non per volontà concorde – liberamente e chiaramente manifestata – di tutto il popolo italiano» [Angeli, 1975, pp. 184-186].

Non può essere imputato a casualità anche il fatto che tra il clero legato a Piccioni non fu solo la figura di don Angeli ad emergere con un preciso profilo di antifascismo militante negli anni convulsi della guerra. Si è fatto ad esempio notare come tra i sacerdoti che più si impegnarono nella Resistenza nella diocesi di Massa Marittima-Populonia – retta con incarico ad personam dal vescovo di Livorno tra il 1924 e il 1933 – forti erano state le influenze esercitate dal presule livornese, assai diverso nel contegno verso il regime dal più allineato mons. Faustino Baldini che gli successe: è il caso di don Ivo Micheletti, che presiedette il Cln di Piombino, e di don Ivon Martelli, che fu a capo di quello di San Vincenzo, entrambi compagni di studio di don Angeli negli anni ’30 presso il Seminario Gavi di Livorno [Tognarini, 1995, p. 83]. Nel gennaio 1943 Piccioni non si fece scrupolo neanche nell’accogliere nella sua diocesi il lucchese don Antonio Vellutini, il quale era noto per il suo sbandierato antifascismo (tanto da essere inviato per qualche anno in una sorta di “confino” presso Montalto Uffugo in Calabria), e che, non a caso, presiedendo il Cln di Vada, fu assoluto protagonista delle azioni di difesa della popolazione contro l’occupante tedesco nel paese della costa livornese.

Piccioni 002È oltre il messaggio pubblico che, evidentemente, vanno ricercate le ragioni del fiorire in seno alla Chiesa di Piccioni di certi temi e personalità. La disponibilità completa delle carte dell’Archivio diocesano di Livorno potrebbe forse sbrogliare definitivamente certi nodi, tuttavia alcuni punti fermi emergono già con chiarezza. Intanto è il profilo biografico precedente la carriera episcopale di Piccioni a fornire più di una traccia: nella Pistoia di inizio Novecento il presule ebbe trascorsi di prete democratico-cristiano, avendo in  Toniolo e, soprattutto, in Murri i suoi ispiratori; fu tra gli organizzatori della prima Settimana Sociale del 1907 e sedette sui banchi del consiglio comunale di Pistoia dal 1903-1909 come leader dell’opposizione alla giunta socialista; nel primo dopoguerra, nominato vicario della diocesi pistoiese, entrò in rotta di collisione con le prime manifestazioni squadriste del fascismo [Angeli, 1977]. Inseriti in questo percorso non stupiscono né l’influenza che il vescovo esercitò nella formazione del fratello più piccolo Attilio, poi leader di punta della Dc degasperiana [Fanello Marcucci, 2011, pp. 15-21] né il fatto che tramite l’altro fratello Ulisse, questore a Torino, egli si procurasse letture vietate dal regime che poi metteva a disposizione dei suoi seminaristi. Fu così, ad esempio, che al Seminario Gavi si poté leggere nella sua prima stesura in francese del 1936 l’Humanisme Intégral di Jacques Maritain [Noce, 2004, pp. 84-85].

Si sostanzia dunque su questi presupposti il percorso di formazione intellettuale che condusse alcuni giovani sacerdoti della diocesi livornese a manifestare con precocità una matura coscienza politica e democratica. La scelta di Piccioni di nominare don Angeli e don Tintori assistenti ecclesiastici della Fuci nel 1939 appare in questa luce frutto di un progetto ponderato: i due sacerdoti erano inseriti in un circuito di relazioni che annoverava personalità come Guido Calogero, Giorgio La Pira, Igino Giordani e il gruppo che ruotava attorno alla rivista pisana “Il crivello” diretta da don Telio Taddei  e frequentavano già da un triennio le Università pontificie romane: in particolare don Angeli alla Gregoriana era venuto in contatto con un ambiente in cui «si respirava un’aria chiaramente antifascista» [Angeli, 1975a]. È, ad esempio, significativo che il sacerdote facesse derivare l’acquisita consapevolezza di una antitesi tra il cristianesimo e il totalitarismo nazista dalla frequentazione nel 1937 delle lezioni di etica fondamentale del professor Louis Chagnon: come annota don Angeli «non venivano citati, per iscritto, esempi concreti di stati totalitari (salvo gli stati comunisti), ma si indicavano come fautori della “statolatria”, Schelling, Hegel ed altri autori tedeschi. Gli studenti dovevano trarre da sé le conclusioni». Erano argomentazioni alle quali il sacerdote attinse a piene mani per dar forma a quella che lui stesso definì la «resistenza ideologica organizzata» dei cattolici livornesi: in particolare, a partire dal 1941, quegli argomenti vennero utilizzati nell’organizzazione delle lezioni pubbliche tenute presso il Cenacolo di studi sociali di S. Giulia nelle quali vennero pubblicamente criticate le tesi naziste e il concetto fascista dello stato [Merli, 1978]: si trattava di momenti di formazione a cui parteciparono studenti universitari, operai, allievi dell’Accademia Navale che ebbero l’esplicito appoggio del vescovo Piccioni che ne dava notizia sul “Bollettino Diocesano”.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

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Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2018.




Ricordando Carlo Onofrio Gori (1949-2017)

Vario e notevole è stato il contributo che il bibliotecario e storico locale Carlo Onofrio Gori, nato a Prato nel 1949, pistoiese d’adozione e scomparso lo scorso 24 ottobre dopo una lunga malattia, ha saputo dare alla storia pistoiese del XX secolo.

Tre sono le direttrici a cui può essere ricondotta la sua attività di storico: la prima, di catalogazione e sistemazione delle fonti, connaturata e favorita dalla sua attività di bibliotecario; la seconda, di studio della storia locale pistoiese, con particolare riguardo al biennio rosso e al ventennio fascista; la terza, di divulgazione al pubblico dei risultati raggiunti.

Fulcro della sua prima attività sono stati, rispettivamente, il censimento delle lapidi, dei cippi e delle targhe pistoiesi e la ricognizione dei periodici giunti al Centro di Documentazione di Pistoia. Il primo, avvenuto nel 1995 con la pubblicazione edita dal Comune di Pistoia Guida ai luoghi della memoria, ha costituito la prima ricognizione sistematica di tutti quei “segni della memoria” che nel corso dei tempi, ma soprattutto nel secolo scorso, le autorità cittadine hanno disseminato nel tessuto urbano.
Il secondo, snodatosi nel corso della costituzione e del radicamento del Centro di Documentazione, ha condotto alla classificazione, tra gli anni ’80 e ’90, delle oltre diecimila riviste accumulate dalla fondazione pistoiese, sorta nel 1970 per raccogliere le testimonianze e le pubblicazioni edite dai movimenti studenteschi, rivendicativi e rivoluzionari italiani e internazionali. La rilevanza della Guida si è quindi esplicata prima di tutto a livello locale e, solo in un senso più lato, a livello nazionale: con uno dei primi censimenti ragionati sulle “memorie di pietra” ereditate dal succedersi di epoche e partiti, Gori si è mosso nella preistoria di uno dei filoni più importanti dell’odierna Public History – ovvero lo studio di come la politica abbia cercato di forgiare, e poi diffondere, una sua peculiare interpretazione dei fatti storici. Più ampie sono state invece la ricezione e la fortuna del Catalogo delle riviste e dei periodici del Centro di Documentazione, diventato ben presto uno strumento di consultazione per tutti coloro che si avvicinino alla ricerca sulla società, la politica e il costume degli anni ’70.

Come storico locale, i suoi numerosi contributi – pubblicati sulle riviste “Farestoria”, “Quaderni di Farestoria” e “Microstoria” – hanno avuto il merito di soffermarsi su personaggi e figure poco conosciute della società e della politica pistoiese. Tra i primi a studiare il biennio rosso, l’instaurarsi del fascismo a Pistoia e le ripercussioni locali delle vicende belliche, Gori è stato tra i primi a dare spazio a due figure quasi dimenticate – ma il cui impatto fu tutt’altro che territorialmente limitato – come il partigiano Pierluigi Bellini delle Stelle.

Bellini delle Stelle, nato a Firenze ma cresciuto a Pistoia, dove studiò al Liceo Forteguerri – e dove si ritrovò in classe insieme a un altro partigiano, Silvano Fedi –, con il nome di battaglia di “Pedro” era il comandante partigiano di pattugliamento sul monte Berlinghera quando Mussolini, travestito da soldato tedesco della Lutwaffe, cercò di varcare il confine dopo l’insurrezione generale. Mobilitando gli abitanti della zona e fingendo di avere a disposizione più armati di quanti non ne avesse realmente, riuscì a impressionare il comandante della colonna, il generale Fairmallen, e a imporgli di poter proseguire verso la Germania solo dopo che l’autoblindo fosse stata perquisita a Dongo – e dopo che Mussolini non fu individuato e arrestato, insieme agli altri gerarchi e all’amante Claretta Petacci, da Bill, il vice di Bellini. Prigioniero del comando di Bellini per alcuni giorni, Mussolini rimase a Dongo fino a quando Walter Audisio, giunto a Dongo per conto del CLN, lo condusse il 28 aprile a Milano per eseguirlo.
A eccezione di un articolo scritto su «L’Unità» pochi giorni dopo e il volume – ormai introvabile – Dongo ultima azione, pubblicato per Mondadori nel 1952, Bellini delle Stelle dopo il conflitto si ritirò a vita privata. Si trasferì a San Donato Milanese, dove sposò Marianna Berio, sorella del musicista Luigi. Grazie all’amicizia con Enrico Mattei, che aveva avuto modo di conoscere durante la lotta partigiana, poté far carriera nell’ENI.

Tutti questi risultati hanno conosciuto poi un’attenta divulgazione che, oltre ai mezzi di diffusione tradizionali, si è rivolta alle nuove tecnologie. Nel 2012 – anno in cui in Italia la Public History godeva di assai ben scarso seguito – Carlo Onofrio Gori inaugurò e aggiornò un blog di storia per poter coinvolgere fette di pubblico fino ad allora ancora trascurate.

Articolo pubblicato nel novembre del 2017.




Il racconto di un doppio disinganno: l’ultima lezione di Giuliano Foggi

Di Giuliano Foggi (1922-2010), ormai grande vecchio già oltre gli ottant’anni, colpivano la perenne passione educativa e la lucidità intellettuale con cui continuava a dipanare il filo di una memoria lontana: gli anni della guerra, l’8 settembre, la fine del fascismo, la Liberazione, i difficili anni della ricostruzione… E, per la ricchezza dei riferimenti storici e letterari, le sue parole andavano ben oltre il racconto di una storia personale, per farsi vicenda più larga, utile e interessante a far comprendere, soprattutto a quei giovani a cui Giuliano tanto amava riferirsi, il tormentato cammino della conquista della libertà, delle regole condivise, dei diritti.

Un itinerario che Giuliano ha saputo percorrere da protagonista per oltre mezzo secolo, impegnato in innumerevoli battaglie, piccole e grandi, per la democrazia, per l’accesso di tutti all’istruzione, per la diffusione della cultura, per la difesa della bellezza in particolare della sua città, Lucca, dove era nato nel 1922 da una famiglia operaia. Laureatosi a Pisa con una tesi sugli storici della Repubblica lucchese, Foggi ha insegnato sino alla fine degli anni ottanta nelle scuole superiori di Lucca, Viareggio, Barga, Montecatini, Volterra, Pisa formando generazioni e generazioni di studenti che ne ricordano ancora oggi, a tanti anni di distanza, con commozione e gratitudine le straordinarie doti professionali ed umane. Socialista e poi dirigente del Psiup, tra i fondatori del Potere operaio pisano e poi del Centro Karl Marx, Giuliano ha accompagnato gli impegni educativi e politici con un’incessante attività sindacale nella Cgil-Scuola locale e nazionale: incarichi svolti sempre con intelligenza, dedizione, attenzione alle novità che emergevano nella scuola e nella società, e grande capacità di trovare in ogni lotta il punto di equilibrio più avanzato insieme praticabile.

Più appartati e coltivati con una discrezione quasi assoluta i suoi interessi letterari, storici e filosofici. Ne fa fede un diario in prosa e in versi che si estende per oltre un sessantennio, dal 1942 al 2004, dal titolo Fedeltà-Giorno dopo giorno, a cui attinge il suo I miei giorni 1942-1945, libro pubblicato nel 2005 dalla casa editrice lucchese Maria Pacini Fazzi e prefato dall’allora presidente dell’Amministrazione provinciale Andrea Tagliasacchi, che così ebbe a scrivere: “Giuliano Foggi fa parte di quella leva di intellettuali che, senza chiedere nulla in cambio, ha svolto un ruolo importante nella storia del nostro Paese, sempre presente, operosa e combattiva in processi importanti e talora decisivi della storia d’Italia: la ricostruzione negli anni duri del centrismo, i formidabili anni sessanta, quelli dell’’assalto al cielo’. Giuliano Foggi vi appartiene di diritto e non solo per motivi anagrafici: piuttosto, perché è stato costantemente tra i primi a cogliere i segni dei tempi nuovi e ad impegnarsi con lucidità per trasformarli in programmi e progetti politici e sindacali sempre all’insegna di una generosa radicalità, di un’aspirazione a cambiare dal profondo i metodi, i contenuti e le finalità della politica”.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca, operata dai soldati afroamericani della 92ª Divisione “Buffalo”.

Testo per molti versi sorprendente, I miei giorni 1942-1945 (di cui il lettore può trovare alcuni passaggi fra i “Documenti dalle fonti”) è il ‘diario dell’anima’ di un giovane che aveva vent’anni nei momenti più bui della nostra storia nazionale a cui, però, il 25 luglio e l’8 settembre, la spaccatura dell’Italia e la lotta antifascista, i giorni tormentati dell’immediato dopoguerra non fanno dimenticare la propria problematica vicenda privata, i rapporti con i coetanei e la famiglia, il difficile equilibrio fra ragione e sentimento, una complessa e contraddittoria ricerca di senso.

Libro antieroico, I miei giorni, scandisce “la storia di un doppio disinganno: quello proprio di ogni generazione che sempre a proprie spese apprende il difficile mestiere di vivere; il disincanto, poi, di quella leva di giovani, che nati e vissuti all’interno del regime e dei suoi miti, si affacciava alla vita civile in tempi indelebilmente sfregiati dalla funerea isteria della dichiarazione di guerra dal balcone di palazzo Venezia. E i modi letterari scelti più di sessant’anni or sono dall’autore di queste pagine sono quelli propri della ‘meglio gioventù’ di allora, l’ermetismo e l’esistenzialismo: le due chiavi con cui quei giovani cercavano faticosamente di aprirsi all’esercizio della libertà, oscillando, come ha scritto qualcuno, tra ‘equivoco e fronda’, tra un’adesione, sia pure critica, al fascismo, e un sempre più sicuro, netto e ribadito rifiuto del regime e delle sue scelte” (dalla Prefazione).

Per conoscere più nel dettaglio l’esperienza di Giuliano Foggi durante la Seconda Guerra Mondiale, s’invita il lettore a consultare l’interessante articolo di Emmanuel Pesi “L’odore delle mele o il sogno della maturità. Giuliano Foggi tra fascismo, guerra e liberazione”, rintracciabile fra gli allegati della sezione “Materiali correlati”.

Articolo pubblicato nel settembre del 2017.




“Inciampare” nel passato per capire il presente

Sono sempre inorridito ogni volta che incido i nomi, lettera dopo lettera. Ma questo fa parte del progetto, perché così ricordo a me stesso che dietro quel nome c’è un singolo individuo. [...] L’installazione di ogni Stolperstein è un processo doloroso ma anche positivo perché rappresenta un ritorno a casa, almeno della memoria di qualcuno. (Gunter Demnig)

Che l’arte abbia impressa nelle sue mille anime la sua brava dose di memoria, più o meno esplicita, più o meno varia e consapevole, è cosa palese per chi l’ama e la studia, anche da lontano. I tempi, le temperie culturali, la voglia di appartenere, o di distinguersi, di lasciare segni volti al futuro, che richiamino vissuti, esperienze, afflati o sofferenze singole e corali hanno contrassegnato la comunicazione artistica di tutti i tempi, di tutte le arti. Più espliciti e non scevri di retorica sono talvolta i molti monumenti che nelle piazze ricordano i caduti delle guerre, carichi anche di un’altra memoria forse più inconscia, ma non meno significativa, quella lasciata dalla mano di un artista imbevuto della cultura del suo tempo.

L'artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

L’artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

La riflessione di Gunter Demnig sulla memoria è intuizione geniale e azione artistica al tempo stesso. Ha scelto di fare della sua vita un’opera di memoria: dare un nome e una presenza a chi vide la propria vita tragicamente spezzata dalla deportazione, la propria identità depredata e negata, sostituita con un numero di matricola. Nel breve spazio di un sampietrino riluce l’ottone con un nome e una biografia sintetica. Inciampa la vista e accende la memoria, ma senza retorica, senza ricorrere a nessun stratagemma volto a commuovere o a commentare. È chi guarda a trovare la memoria e la storia come sua conquista personale, cercare e capire il senso di un vissuto, che è parte di un vastissimo mosaico, ad oggi comprendente 60.000 pietre d’inciampo sparse in tutta Europa ed in continuo incremento. Un’opera maestosa, quella di Gunter Demnig, forse mai realizzabile fino in fondo, e per questo coraggiosissima. E che si avvale necessariamente della collaborazione di altre persone nei paesi di origine per la ricostruzione delle biografie dei deportati razziali, politici, militari; una sorta di ritorno di chi in realtà non tornò mai alla sua casa, o vi tornò con la vita ormai segnata. Un ritorno dimesso, dignitoso, ma immenso e radicato nei tessuti delle città, nel selciato su cui il presente cammina.

Anche Grosseto il 13 di gennaio avrà le sue prime pietre d’inciampo e farà parte di questa opera incredibile: tre piccole pietre verranno poste nel cuore del centro storico a ricordare Albo Bellucci, Italo Ragni, Giuseppe Scopetani, tre deportati politici grossetani.

Questo è il simbolico atto in cui culmina un lavoro di ricerca didattico e divulgativo intrapreso ormai tre anni fa: “Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale”, un progetto realizzato con il contributo del CESVOT, che ha coinvolto 8 associazioni e 5 enti locali della Maremma: Provincia e Comune di Grosseto, Comuni di Manciano Magliano in Toscana e Roccastrada. In ogni Comune sono stati individuati segni della memoria: monumenti, toponomastica, tracce lasciate nei luoghi da eventi, che hanno contribuito a costruire la realtà sociale presente. L’obiettivo era quello di far dialogare memoria e storia, di porre segni di memoria del passato, di sollecitare nelle nuove generazioni un’elaborazione del passato e una consapevolezza delle responsabilità di lutti e violenze che hanno attraversato il Novecento. È stato fondamentale il coinvolgimento degli studenti, che, guidati dai ricercatori dell’Isgrec, hanno intrapreso in ogni comune un lavoro didattico sui segni di memoria, cercandone il profondo significato storico nell’ottica di un recupero e di una valorizzazione.

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell'atrio del Municipio

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell’atrio del Municipio

Significativo al riguardo è stato il lavoro dei ragazzi della IV B a.s. 2014-2015 del Liceo Artistico di Grosseto, indirizzo Arti figurative, che ha ricostruito la complessa vicenda del rilievo in gesso di Tolomeo Faccendi e della sua copia in Bronzo a Campospillo, di proprietà della famiglia Mazzoncini e donato alla città nel 2008, attualmente esposto nell’atrio del Municipio di Grosseto. Partendo dalla costruzione di laboratori sulle fonti storiche, i ragazzi hanno potuto ricostruire la genesi del monumento e la storia della deportazione politica grossetana da esso ricordata, collocando l’opera d’arte nel contesto storico e artistico della Maremma del Secondo Dopoguerra. Alla fine del percorso storico e critico hanno stilato i testi esplicativi confluiti nel sito Cantieri della memoria e richiamabili dal QR code posto nella targa recentemente collocata accanto al monumento.

In questo modo un tassello importante del rapporto arte-memoria è stato ricostruito e ricollocato scientificamente per una corretta fruizione storica sotto gli occhi della cittadinanza.

Ne è emersa la vitalità artistica di Tolomeo Faccendi, importante scultore attivo fino agli anni Settanta del Novecento in città, le sue relazioni di amicizia e condivisione con Tullio Mazzoncini, protagonista insieme a Scopetani e Bellucci della tragica vicenda che ne determinò la deportazione a Gusen e Mauthausen. Attraverso il potere evocativo del linguaggio artistico, che richiama classiche suggestioni, ricorrendo per certi versi addirittura alla maniera michelangiolesca nella rappresentazione del dolore in un lager, l’artista riesce a indurci ad una riflessione, a soffermarci per osservare, per capire. L’opera diventa quindi strumento di conoscenza e testimonianza storica, ma anche momento di crescita etica individuale.

Altro segno artistico legato alla memoria della deportazione nel grossetano è il monumento ai Martiri dell’Antifascismo e della Resistenza, posto nello spicchio di verde all’incrocio di via Giuseppe Scopetani e via Albo Bellucci alla Cittadella dello Studente. Il monumento si presentava mutilo della targhetta esplicativa della data e dell’autore. Anche le guide della città più informate non ne attribuivano la paternità. Un’appassionata ricerca dell’Isgrec, che, ancora una volta e non a caso, ha coinvolto il mondo della scuola, ha dapprima individuato i protagonisti del progetto della costruzione della Cittadella dello Studente, concepita come piccolo campus, luogo di studio e di lavoro, che rende omaggio alla Resistenza e ricorda i martiri dell’antifascismo finanche nella toponomastica, diventando essa stessa luogo di memoria. Si è potuti quindi giungere alla rievocazione della genesi del monumento, simbolicamente affidato alle nuove generazioni.

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Fu infatti l’allora studentessa del Liceo Artistico Maria Paola Mugnaini, vincitrice di un concorso tra i suoi coetanei indetto dall’Amministrazione Provinciale, a progettare la struttura con l’aiuto dei suoi insegnanti nel 1984. Il risultato è una struttura architettonica aperta a forma di piccolo tempietto moderno, struttura inclusiva che nell’alternanza di linee orizzontali e verticali spezzate utilizzate simbolicamente insieme alle linee curve, invita ad entrare sedersi e meditare in silenzio. L’uso dei materiali quali metallo e cemento nella libertà della composizione immersa nel verde ne sottolineano il ripudio della retorica a favore di una ricerca di un’intima e personale meditazione, ribadita dalla lettura del testo conservato su un’epigrafe all’interno del tempietto su cui si riporta una lettera di un condannato a morte della Resistenza.

Il confronto con i documenti fotografici dell’inaugurazione, la generosa testimonianza dell’autrice che abbiamo incontrato e intervistato, hanno contribuito ancora una volta alla comprensione di un pezzo di storia recente della città, nell’ottica delle diverse politiche della memoria, tutte oggetto imprescindibile di un doveroso studio critico.

In questa prospettiva si giunge coerentemente all’oggi, alla sensibilità nuova ed europea che pervade l’opera di Demning, in coerenza con le nuove visuali dettate dalla sensibilità contemporanea, nel rispetto della tendenza a ricostruire e a annoverare una per una, tutte le esperienze individuali; in questo solco si colloca la recente storiografia della deportazione, cifra che contraddistingue tante delle più recenti esperienze di ricerca storica (si pensi agli ultimi libri dei deportati o all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia), nella consapevolezza che la storia è fatta di tante infinite piccole storie personali, nell’intento di non dimenticare e di non lasciare nell’ombra nessuna vita, nessuna voce.

Questo spirito è lo stesso che chiede di cercare ancora, di indagare tra le carte e nelle memorie dei testimoni, come si è fatto per i nostri tre deportati grossetani, e che ha condotto a nuove interviste, nuove interpretazioni, nuovi scenari, perché la storia non è cosa morta, scritta una volta per tutte e poi dimenticata, ma essa vive e continua a pulsare in coloro che ogni giorno le sanno rivolgere ancora nuove domande, alla luce del presente, grazie anche al bagliore breve di un piccolo sampietrino.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




Per la cultura e per il bene comune

Professore di lettere comandato dal 1933 presso la Soprintendenza alle Gallerie per le province di Firenze Arezzo e Pistoia, Cesare Fasola è ricordato soprattutto per l’attività svolta durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale a tutela delle opere d’arte che erano state messe in salvo in ville e castelli di varie località toscane. Come testimoniano le sue lettere-diario alla moglie Giusta, presenti nel fondo a lui intitolato conservato presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, nel momento del passaggio del fronte egli si adopera per sorvegliare e presidiare i depositi di opere d’arte dei musei nella zona della Val di Pesa, a Montagnana, Montegufoni, Poppiano e Uliveto, prima sotto l’occupazione tedesca e poi, dal 27 luglio, sotto gli Alleati. Per questa attività Fasola riceverà nel 1947 la medaglia di bronzo al valore civile.
Da ricordare è anche il suo ruolo di funzionario delle Gallerie incaricato dal soprintendente Giovanni Poggi della tutela artistica dei beni ebraici. In occasione delle requisizioni antisemite Fasola si occupa di valutare se fra gli oggetti portati via si trovino delle opere d’arte da sottrarre ai sequestri, destinandole alla Galleria dell’Accademia secondo quanto disposto dall’Ufficio affari ebraici della Prefettura. Dopo aver cercato di salvare il più possibile dalle razzie nazifasciste, nel dopoguerra collabora attivamente per la ricognizione ed il recupero dei beni requisiti, lavorando anche in contatto con Rodolfo Siviero.

Tuttavia c’è un altro aspetto della sua vita che merita di essere raccontato, che va di pari passo con la sua attività culturale, nell’ambito di una concezione ampia di impegno civile e di servizio per il bene comune. Ci riferiamo ovviamente al suo impegno politico, che si realizza a partire dal 1942 con l’iscrizione al Partito d’azione (PdA), per poi proseguire come membro del Comitato di liberazione nazionale (CLN) di Fiesole prima e dopo la Liberazione, e come amministratore comunale dalla seconda metà degli anni ‘40 al 1960. Aspetto riguardo al quale non possiamo avvalerci di molte fonti; le carte del fondo Fasola e quelle del CLN di Fiesole, conservate presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, integrano in misura piuttosto limitata i documenti della busta intitolata a Fasola e i resoconti delle sedute consiliari e della giunta conservati tra le carte dell’Archivio comunale postunitario di Fiesole.
Dal modulo di iscrizione alla Sezione fiorentina del Partito d’azione, datato 1° settembre 1944, risulta che Fasola – che ricordiamo essere stato sacerdote dalla giovane età fino ai primi anni ’30, sembra con scarsa convinzione – abbia “aderito” al Partito nazionale fascista dal 1927 al 1943, ma anche che sotto il fascismo sia stato “denunciato e sorvegliato”, senza subire provvedimenti di polizia.
Come abbiamo accennato, la sua attività politica vera e propria comincia nel 1942 con l’adesione, insieme alla moglie Giusta, al neonato Partito d’azione. Al suo interno Fasola fa parte del Comitato esecutivo della Sezione di Firenze. Inoltre durante la Resistenza rappresenta il PdA in seno al Comitato toscano di liberazione nazionale e milita nella Divisione Giustizia e libertà di Firenze, che riunisce le formazioni militari azioniste. Secondo un curriculum conservato nell’archivio del PdA fiorentino, presso l’ISRT, “durante il periodo clandestino nel suo recapito di città fece da centro di collegamento per gli emissari delle regioni dell’Italia liberata e occupata in rapporto con le attività antinazifasciste del Partito a Firenze… collaborò per la diffusione della stampa clandestina e alla raccolta di fondi”. Il suo ufficio presso le Gallerie di Firenze diventa un centro di ritrovo clandestino, con tutti i rischi che ne derivano: lo stesso curriculum riporta che Fasola viene denunciato alla famigerata banda Carità per mezzo di lettere anonime, fortunatamente intercettate.
Per l’attività svolta durante la Resistenza nella provincia di Firenze, nel 1950 la Commissione regionale toscana per il riconoscimento della qualifica di partigiano, istituita presso la Presidenza del consiglio dei ministri, dichiarerà Fasola “partigiano combattente” per il periodo che si estende dal 1° ottobre 1943 al 7 settembre 1944, ovvero da poco dopo l’inizio della Resistenza fino allo scioglimento delle formazioni partigiane ad opera degli Alleati. Inoltre sarà decorato della medaglia d’argento e riceverà la croce al merito di guerra.
Anche Giusta durante il periodo clandestino mette gravemente in pericolo la propria vita: nonostante sia stata segnalata e denunciata ai tedeschi, si occupa come il marito del collegamento di gruppi antifascisti, della trasmissione di informazioni e della distribuzione di stampa clandestina a Firenze e fuori città; inoltre è membro del Comitato consultivo del PdA di Firenze e del Comitato esecutivo di emergenza. Anche Giusta riceverà la qualifica di “partigiano combattente” e la croce al merito di guerra.
Venendo al contesto fiesolano, è proprio a casa dei coniugi Fasola che dal settembre 1943 si svolgono le prime riunioni del Comitato di liberazione locale, organismo pentapartitico nel quale i due intellettuali rappresentano il Partito d’azione. Il primo nucleo del CLN si riunisce infatti in via degli Angeli 4, in una casa della famiglia Micheli allora presa in affitto da Cesare e Giusta, dove ancor oggi possiamo vedere, scritte a matita su un lato del caminetto, le firme dei Fasola e di altri antifascisti: Giuseppe Roselli, Enrico Baroncini, Giovanni Ignesti, Aldo Gheri, Mino Labardi e Edoardo Salimbeni. Come gli analoghi CLN formatisi in Italia centro-settentrionale a partire dal settembre 1943, il Comitato fiesolano riveste un ruolo importante non solo nel periodo clandestino, durante il quale svolge principalmente propaganda antinazifascista e assiste le bande partigiane, ma anche dopo la liberazione di Fiesole, quando assume il governo del territorio e si adopera per la ripresa della vita politica, economica, associativa. Il Comitato si occupa del rifornimento di alloggi e di beni di prima necessità, coordina l’attività dei partiti, di cooperative di consumo, di associazioni, incoraggia iniziative di beneficenza e di assistenza, gestisce l’epurazione e tratta problemi inerenti la disoccupazione, il mercato nero, i trasporti.
I documenti dell’archivio del CLN fiesolano attestano l’attiva partecipazione di Fasola e di sua moglie, sempre presenti alle sedute del Comitato; Giusta fra l’altro ricopre la carica di segretaria, occupandosi della convocazione delle riunioni e della conservazione delle carte del CLN stesso. Come dimostrano i verbali delle sedute Cesare interviene su questioni diverse: la necessità dell’assistenza ai reduci di guerra, l’opportunità di schedare i fascisti che rientrano dal nord, la situazione dei CLN per i quali auspica un ruolo più incisivo nella vita politico-istituzionale del Paese.
É stato sottolineato come per molte persone l’attività all’interno dei Comitati di liberazione locali abbia costituito una sorta di palestra politica, la prima fase di un intenso impegno all’interno dei partiti e delle istituzioni comunali. A Fiesole il caso più evidente è quello del socialista Ignesti, presidente del CLN, che sarà sindaco tra il 1958 e il 1964, ma anche quello di Fasola è significativo, in quanto il suo ruolo di membro del Comitato sfocia senza soluzione di continuità in quello di assessore e di consigliere. Già dai primi di settembre 1944, del resto, la prima giunta post-Liberazione, insediata dal CLN e guidata dal socialista Casini, è composta per la maggior parte da membri del CLN stesso. Tra questi Cesare Fasola, nominato assessore in un primo momento con delega all’Assistenza sociale e l’igiene e poi con delega ai Lavori pubblici.
In una situazione drammaticamente caratterizzata dalla distruzione di alloggi, strade, ponti, acquedotti e impianti elettrici, dalla mancanza di mezzi di trasporto, dalla necessità di procedere ad un urgente intervento di sminamento, possiamo immaginare quanto impegnativo sia stato il suo incarico. In giunta Fasola riferisce e avanza proposte in merito alla condizione degli edifici scolastici che hanno subito danni di guerra, alla rimozione delle macerie che ingombrano le strade e a quella delle mine collocate dai tedeschi, alla riattivazione della corrente elettrica, ai danni alla produzione boschiva, e curiosamente alla necessità di provvedere alla fornitura di macchine da scrivere, dopo le razzie effettuate dai tedeschi. In quanto assessore interviene inoltre nella polemica tra il sindaco e monsignor Rodolfo Berti, proposto della Cattedrale, per la mancata partecipazione dell’amministrazione comunale alle cerimonie religiose in onore di S. Romolo, approvando la scelta di Lugi Casini di non aderire ad un’usanza “introdotta dai fascisti e di sapore medievale, come l’offerta del cero”, e biasimando l’affissione sulla porta della Cattedrale della lettera in cui il sindaco declinava l’invito a partecipare alle manifestazioni per la festa del patrono.
Alle elezioni amministrative del 24 marzo 1946 – le prime dopo la caduta del fascismo – Fasola è eletto consigliere comunale per il Blocco democratico della ricostruzione, formato da azionisti, socialisti e comunisti. Nel 1947, dopo la fine del Partito d’azione, come molti suoi ex-compagni aderisce al Partito socialista, e nelle file di questo partito sarà presente in tutte le successive amministrazioni, che lo vedranno di nuovo assessore, questa volta con delega all’istruzione e al turismo, in seguito alle elezioni del 1951, e consigliere in seguito alle elezioni del 1956 e a quelle del 1960.
Nel quindicennio circa che va dal 1946 al 1960, durante il quale prosegue l’opera di ricostruzione da parte delle giunte Casini e Ignesti, Fasola partecipa alla vita politica fiesolana muovendosi prevalentemente nell’ambito dell’istruzione, della cultura e del turismo. Già nel dicembre 1946 presenta un’interpellanza in Consiglio in merito alla riapertura al pubblico del Museo Bandini– “una istituzione che interessa il decoro della nostra Città e che rivolge l’invito al forestiero per essere visitata” – e alla antica Scuola di disegno – a proposito della quale chiede al sindaco “se non sia possibile riprendere una tradizione antica e utile alla cittadinanza”. Da assessore, lavora alla ricerca di contatti per lo svolgimento di spettacoli estivi al Teatro romano, riferisce in giunta in merito alla riattivazione degli scavi nella zona archeologica e ai rapporti con la Soprintendenza, su sollecitazione dell’Ente provinciale per il turismo fa parte di un comitato per la ricostituzione dell’Associazione turistica di Fiesole.
Una questione che lo interessa particolarmente, legata al turismo, è il decoro cittadino: ad esempio nel 1947 presenta un’interpellanza perché i muri fiesolani siano ripuliti da scritte e residui di manifesti, perché “E’ evidente l’interesse che abbiamo a che le nostre vie, che sono visitate da numerosi forestieri, presentino quel carattere di lindura e di proprietà, che mette in risalto la bellezza turistica, che è quasi sola ricchezza che noi possediamo”. In una lettera al sindaco datata 1948 chiede che la strada Vincigliata-Maiano, meta di gite domenicali, e l’area di San Francesco siano ripulite dalla spazzatura e dotate di apposti bidoni. In una lettera del 1954 avverte Luigi Casini del pericolo presentato da un muro in via degli Angeli ancora pericolante per le cannonate subite in guerra, con grave rischio per i passanti.
Un altro problema che sta a cuore a Fasola è il ripristino del servizio filoviario Firenze-Fiesole, la cui interruzione nell’immediato dopoguerra costringe gli operai a recarsi quotidianamente a piedi nel capoluogo, e ancora nel 1947, in mancanza di un collegamento diretto, ad effettuare lunghe soste tra i tratti in cui è suddiviso il percorso. Sempre in merito alla filovia presenta interpellanze in Consiglio e si pronuncia in difesa degli interessi dei lavoratori affinché i biglietti abbiano tariffe più eque.
I suoi interventi in Consiglio comunale tra il 1951 e il 1956 spaziano da questioni squisitamente locali ad altre di più ampio respiro. Si va dal cordoglio per la morte di due lavoratori in un incidente avvenuto a Villa Machiavelli, al problema della formazione dei turni scolastici alla scuola comunale, dovuto alle gravi carenze dell’edilizia scolastica, alla discussa scarcerazione di Francesco Moranino, partigiano medaglia d’oro arrestato per episodi avvenuti durante la guerra di liberazione, ai fatti del 1956 in Ungheria, in Egitto, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, riguardo ai quali esprime la propria angoscia per “ciò che sarebbe potuto accadere, e che avrebbe ancora una volta interrotto la marcia del progresso e del proletariato”. Rispetto a questi eventi riesce a far convergere su un unico ordine del giorno i voti di democristiani e comunisti, notando come, nonostante esistano diversità di opinioni (anche tra comunisti e socialisti, come è noto), ci sia “un’unità di intenti, così come esisteva nel tempo della liberazione, quando tutto era chiaro, perché tutti si sapeva dove erano l’oppressione e la tirannia. Oggi è meno chiaro: c’è l’Ungheria, ma ci sono anche Suez, l’Algeria, il Kenia. Condanniamo allora, l’ingiustizia e la violenza, ovunque si trovino”. Nel maggio 1957, quando il Sindaco mette in approvazione un ordine del giorno in cui auspica che il nuovo governo insediato applichi la Costituzione e adotti una politica estera contro gli esperimenti atomici, Fasola interviene sollecitando un’ampia partecipazione su problemi di tale rilievo e di fronte ai quali non può esserci “alcuno spirito di rinunzia o sfiducia”.
Gli interventi di Fasola presentano più di una volta richiami ai valori della Resistenza e allo spirito ciellenistico. In una seduta del Consiglio comunale del dicembre 1957, relativamente ad un ordine del giorno comunista in difesa dei valori della Resistenza in occasione dell’omaggio reso dal Presidente della Repubblica federale tedesca Heuss ai martiri delle Fosse Ardeatine e in vista della traslazione a Firenze delle salme dei fucilati alle Cascine, Fasola ricorda che “è proprio in virtù della Resistenza e del sacrificio di chi vi partecipò” che “questo Consiglio comunale si riunisce, avendo la Resistenza segnato il ritorno alla libera manifestazione della volontà popolare e quello delle rappresentanze elettive del popolo”; anche questa volta, grazie alla sua mediazione, i voti dei democristiani e dei comunisti convergono su un unico ordine del giorno che viene votato all’unanimità. É importante per lui anche la conservazione della memoria resistenziale: iscritto all’ANPI, è tra i soci fondatori dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana, istituito nel 1953, presso il quale si conserva il piccolo fondo personale che è già stato menzionato, e dove nel 1964 – anno successivo alla sua scomparsa – sarà commemorato da Carlo Ludovico Ragghianti.
Vale la pena ricordare anche che nel 1952 Fasola è tra i fondatori dell’Alleanza per la ricreazione popolare, un movimento che riprende in parte le posizioni del vecchio comitato di difesa dell’ENAL (Ente nazionale assistenza lavoratori), e che agisce come organismo di collegamento tra vari circoli e case del popolo: insieme a personalità di varia provenienza culturale e politica – ma soprattutto di sinistra, come Gaetano Pieraccini, Orazio Barbieri e Mario Fabiani – è membro del Comitato direttivo.
Torinese trapiantato a Firenze e poi a Fiesole, Fasola risulta infine ben integrato nel contesto sociale e culturale cittadino. Ad esempio intrattiene rapporti con Charlotte Spinn, vedova di Heinrich Ludolf Verworner, uno dei tanti artisti che avevano scelto il “colle lunato” come luogo d’elezione. Nel 1953 pronuncia un discorso in occasione dello scoprimento della lapide in ricordo di Verworner a villa di Fontelucente; da una cartolina a Charlotte datata Natale 1955 (conservata nel fondo archivistico intitolato a suo marito presso l’Archivio comunale) si intuisce un legame basato non solo su comuni interessi artistici ma anche su stima e affetto.
Il suo ultimo incarico di consigliere comunale, assunto in seguito alle elezioni amministrative del 6 novembre 1960, ha durata brevissima: dopo due anni di malattia, l’8 novembre Giusta viene a mancare e Cesare decide di dimettersi. Il 3 dicembre successivo le sue dimissioni sono discusse e approvate dal Consiglio, che si rammarica per la perdita e lo ringrazia per l’impegno profuso sin dai tempi del CLN.
Dopo la scomparsa della moglie, con cui ha condiviso decenni di impegno politico e culturale – ricordiamo che Giusta era storica dell’arte ben conosciuta, studiosa del Medioevo e del Rinascimento, docente universitaria a Genova – Fasola si trasferisce a Bagno a Ripoli, dove morrà tre anni dopo; ma possiamo immaginare che un legame particolare abbia continuato a unirlo a Fiesole. Secondo il verbale della seduta di insediamento del nuovo Consiglio dopo le elezioni del 1951, Fasola stesso sottolinea che per quanto sia nato altrove, “a Fiesole è giunto nel momento più cruciale ed a Fiesole si sente legato dal più affettuoso attaccamento, poiché qui ha vissuto il periodo più bello della vita”.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.




Gli Internati Militari Italiani di Cinigiano. La storia di una scelta

Un’altra Resistenza venne combattuta da oltre seicentomila Italiani. Fu quella amara e difficile degli Internati Militari Italiani. Fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie. Li hanno definiti “Schiavi di Hitler” perché lavoravano nelle fabbriche della guerra senza salario, senza cibo a sufficienza, lavoravano nelle officine, nelle campagne e a sera tornavano nei campi di concentramento per dormire. A guerra finita ebbero un lungo e difficile ritorno. Non raccontarono allora, perché preferirono costruirsi una vita, nella consapevolezza che nessuno forse avrebbe creduto e capito. Perché la loro era stata una scelta, una scelta in piena regola.

Ma chi erano gli schiavi di Hitler? Erano giovani italiani, che dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 si trovarono con una divisa addosso e che nella dissoluzione dell’esercito vennero inghiottiti dagli ingranaggi dalla follia nazista e fatti prigionieri.

Allora erano ragazzi Pasquale Cherubini, Zeno Aluigi e Aladino Dari, i testimoni che hanno accettato di ricordare quei momenti drammatici della loro vita. È per salvare questo tesoro di memorie, infatti, che l’Amministrazione comunale di Cinigiano ha voluto finanziare un’iniziativa importantissima di raccolta e conservazione delle testimonianze orali, commissionando all’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea una serie di videointerviste ai protagonisti della seconda guerra mondiale presenti sul territorio. Così, è stato realizzato un lavoro di ricognizione dei testimoni cinigianesi, scaturito dall’esigenza di consegnare al futuro tutto un patrimonio di esperienze individuali e di vissuti che si sono legati alle sorti della grande storia europea.

ultimato_1589I testimoni hanno raccontato le storie di giovani di campagna, forti lavoratori leali ai valori della tradizione, della terra, della famiglia e della comunità, che si trovarono scaraventati in un panorama agghiacciante di guerra, persecuzioni, distruzioni, deportazioni, nel cuore della Germania nazista.

Furono privati dei loro diritti, furono umiliati e sfruttati come schiavi nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. Si tratta di tre vivaci signori che hanno acconsentito a mettere i loro ricordi a disposizione di tutti: sia di chi tenta una difficile ricostruzione della storia, che tenga conto dell’incrocio delle fonti orali e documentarie, sia di chi non sa niente e che vuole sapere, come le giovani generazioni, sempre sensibili alle voci calde e dirette di chi narra cose vissute e sofferte, più che alle pagine stampate un po’ lontane e difficili dei libri di storia.

La Storia, poi, quella ufficiale, non ha reso giustizia agli Internati Militari Italiani. Non tutti si ricordano degli 800mila catturati dopo l’8 settembre del 1943, di cui 650mila rifiutarono la fedeltà ad un’alleanza scellerata ed autodistruttiva (mentre 186mila per motivazioni diverse che vanno dall’ideologia alla sopravvivenza si arruolarono nella milizia della Repubblica sociale o nelle SS): ufficiali e soldati furono rinchiusi nei campi di concentramento, ed i soldati semplici trasformati in lavoratori coatti. Non si rispettò per gli italiani la convenzione di Ginevra del 1929 perché considerati traditori, disprezzati e umiliati, non ultimi solo ai russi, e indegni di essere trattati da prigionieri di guerra. Gli italiani erano piuttosto da considerarsi un “bottino”, utili per mandare avanti le fabbriche o per curare campi e bestiame. Così da metà dicembre del ‘43 furono messi a lavorare duramente e nel rigore dell’inverno nordico; malvestiti e peggio nutriti, molti morirono di freddo e di epidemie. Era martellante la propaganda fascista: se si fossero arruolati ed avessero continuato la guerra per la Repubblica sociale o per i nazisti, avrebbero rivisto la patria, avrebbero avuto vesti adeguate e cibo, ma la maggior parte di loro disse no, non cedette.

Ce lo conferma Pasquale Cherubini che ci ha parlato delle continue richieste di arruolamento nei reparti tedeschi:

Un soldato vestito da alpino ci domandava se eravamo fascisti dicendo “l’Italia è stata invasa dalle truppe a colori, sono molto pericolose per le nostre donne” ..ma nessuno si mosse, “allora, da questo momento, siete considerati come prigionieri” allora fecero le squadre, cinquanta per cinquanta ci mandarono a lavoro

 E Zeno Aluigi motiva il suo rifiuto a quei tedeschi che con un interprete italiano, gli chiedevano di arruolarsi:

…devo andà a ammazzà i miei paesani e gli italiani, io, dissi, non ci vengo. Loro insistevano“siete stati sempre legati a noi, perché non ci volete ritornare?” Saremo stati tre o quattrocento: non ce ne fu uno che avesse firmato per andare con loro… e allora ci tartassavano.

 Hanno descritto la durezza della vita da prigionieri, in Germania le braccia da lavoro servivano: la guerra aveva più bisogno di schiavi che di un improbabile esercito. L’unica cosa concreta che riuscì a fare a quel punto la Repubblica sociale italiana fu promuovere la trasformazione degli Internati Militari Italiani in lavoratori civili, nell’estate del ‘44. Ma non sembra che la situazione cambiasse molto per i nostri testimoni.

Aladino Dari ha raccontato:

So’ stato 17 mesi senza sapere niente dei mieisi portava il carbone alle famiglie, ho lavorato così  per 19 mesierano balle da 50 chili di carbone e si portavano nelle case anche al 4° e 5° piano: si rimediava la vita per andare avanti. Poi bisognava sta’ zitti e non parla’ mai perché avevano paura si parlasse male di loro… Io ero 47 chili… In capannoni lunghi 50 per 15 si stava in 50 persone.

 E ancora racconta di continui bombardamenti tutte le notti, addirittura 280, e dove era, ha visto moltissimi prigionieri con la divisa a strisce, gli ebrei.

Anche Zeno Aluigi ha parlato della sua vita nelle baracche di legno “coi castelli uno sotto e uno sopra”, riscaldate da “una stufettina…” e della fatica:

…si faceva 13 ore di lavoro dalla mattina avanti giorno alla sera… venivano 2 guardie ci prendevano e ci portavano a lavoro nelle fabbriche

Pasquale, Zeno e Aladino raccontano episodi drammatici, scene di vita vissuta, affetti, amicizie e poi di un ritorno reso difficile dalla complessità degli accordi tra i liberatori, dalla mancanza di mezzi di trasporto. Ritorno in una terra tutta da ricostruire con la salute minata dagli stenti e dalle fatiche.

Sono stati tre incontri pieni di verità che per il loro intrinseco valore hanno contribuito a ricostruire una parte del grande affresco della storia del rapporto tra la seconda guerra mondiale e il territorio, che ha potuto confluire in un documentario, Fu la loro scelta, fruibile da chiunque sia interessato a non dimenticare.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.




Israele “Lele” Bemporad

I Bemporad erano una famiglia di ebrei toscani assai numerosa. Il ramo guidato da Riccardo si trasferì da Firenze a Pistoia a cavallo tra l’800 e il ‘900. Riccardo era il quarto di un gruppo di 6 tra fratelli e sorelle, e il nome di sua sorella minore, Italia, nata nel 1888, testimonia di per sé l’afflato patriottico e il grado di integrazione che la famiglia aveva raggiunto nel Paese. Benestanti, dediti al commercio dei tessuti e proprietari di una residenza di campagna con un attiguo appezzamento di terra dato a mezzadria nei pressi di Serravalle Pistoiese, fu per iniziativa del capofamiglia che venne eretta in quell’epoca, ancorché in stile medievale come suggerivano certi gusti del tempo, la Torre Bemporad, un edificio ben noto ai pistoiesi e che ancora oggi fa mostra di sé in pieno centro storico, all’ingresso di via del Can Bianco.

famiglia bemporad inizi 900_israele e il quinto da destra in altoRiccardo Bemporad e sua moglie Ines Franco ebbero a loro volta 7 figli e figlie, di cui Israele era il sesto. Il motivo della scelta del nome resta a tutt’oggi ignoto, mancando anche nella memoria familiare informazioni che ci possano far comprendere se tale scelta fu dovuta a motivi prettamente religiosi o in omaggio al movimento sionista, anche se questa eventualità appare più remota dato che nessun discendente della famiglia è mai diventato un attivo sionista e nessuno ha scelto di compiere l’Aliyah, ovvero di trasferirsi a vivere in Israele. Tuttavia la scelta dei nomi di Riccardo e Ines rivela il permanere di un’identificazione patriottica – la terza figlia fu chiamata Margherita, come la regina – nonché l’apprezzamento per i nomi antichi o legati al medioriente, dato che le due primogenite furono chiamate rispettivamente Cesarina ed Egizia.

Nato il 27 giugno 1914, Israele condusse una tranquilla infanzia in città e fu poi avviato agli studi classici, dapprima presso il Liceo Forteguerri di Pistoia, per poi conseguire il diploma nel 1936 presso il Liceo Galilei di Pisa, dove si era trasferito presso Aldo Dello Strologo, che aveva sposato sua sorella Egizia. Nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Pisa, dove comunicò, come era obbligatorio fare, la propria presenza ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF) ed alla coorte autonoma universitaria della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). A Pisa Israele sostenne due esami di diritto romano e uno di diritto privato, per poi inoltrare domanda di trasferimento a Firenze nel novembre del 1937.
Ricominciando a frequentare Pistoia, nella primavera-estate del 1938 conobbe quella che sarebbe diventata la sua compagna per la vita, Dina Fontana, una ragazza di umilissime origini, figlia di emigrati provenienti dall’Emilia e di religione cattolica. Il fidanzamento tra i due giovani fu osteggiato dai genitori di Israele. Giocavano tanto la differenza religiosa che la marcata diversità di estrazione sociale.

Ma problemi ben più gravi erano in agguato.
Nello stesso periodo, infatti, il Fascismo si lanciava nella campagna antisemita, con la pubblicazione il 14 luglio del ’38 del Manifesto della razza, a cui seguirono nel settembre le Leggi razziali. La famiglia Bemporad veniva regolarmente censita con le altre 62 famiglie di ebrei della provincia di Pistoia. Nonostante le leggi proibissero le unioni “miste” tra gli italiani e gli “appartenenti alla razza ebraica”, ed introducessero gravi restrizioni nel campo dell’istruzione, fino all’espulsione, Israele perseverò tanto nel suo legame con Dina quanto nel suo impegno universitario. Il 3 novembre del 1938 fece formale domanda per essere iscritto al terzo anno della Facoltà di legge, costretto a dichiarare, in calce alla richiesta, che «Il sottoscritto è di razza ebraica e professa la religione ebraica, lui e la famiglia». Da quel momento sui verbali degli esami sostenuti, per i quali doveva fare richiesta di ammissione al Rettore, iniziò ad apparire la dizione di «studente di razza ebraica». Frattanto le maglie intorno agli ebrei si stringevano.
israele bemporad e dina fontanaNel febbraio del 1939 fu cancellato dalle liste di leva e sul certificato anagrafico appariva, di nuovo, il timbro con la dizione «di razza ebraica», mentre la famiglia iniziava a sfaldarsi, con suo fratello minore Roberto che riusciva a emigrare a New York, approdando ad Ellis Island. La carriera universitaria di Israele diventava sempre più precaria, fino al suo epilogo, sulle cui motivazioni la scheda nominativa della facoltà di Giurisprudenza non lascia dubbi, «Troncati gli studi perché di razza ebraica». Il legame con Dina invece reggeva, e diventava sempre più saldo. Un grande coraggio animava anche questa donna, che giovanissima – era nata nel 1919, aveva appena venti anni – continuò caparbiamente a coltivare il suo amore per Israele, nonostante il Fascismo, le discriminazioni, le persecuzioni, le differenze religiose e sociali, l’ostilità familiare.

Costretti a vivere in sordina, silenziosamente, gli ebrei pistoiesi condussero una vita appartata e impaurita, di cui sappiamo ben poco, fino all’8 settembre del 1943. Con l’occupazione nazista e la nascita della Repubblica Sociale Italiana i membri della famiglia si frammentarono ulteriormente per la Toscana, e si nascosero. I Bemporad pistoiesi trovarono riparo in montagna, nell’area di Cireglio, anche con l’aiuto dell’avvocato pistoiese Bianchi. I rapporti tra Israele e Dina entrarono in clandestinità, mentre la caccia agli ebrei era aperta. Nel pistoiese ne vennero arrestati 88, quasi tutti sfollati da altre zone o di passaggio, mentre il fratello di Riccardo, e zio di Israele, Amedeo, veniva inghiottito dalla Shoah. Arrestato e deportato da Firenze, non fece mai ritorno.

Lele_primo da sinistra_in via abbi pazienza a Pistoia il girono della LiberazioneÉ in questo clima che Israele matura la scelta resistenziale, a cui partecipa anche suo nipote, Giancarlo Piperno, che diventerà un medico di fama mondiale. Stanco di nascondersi, e determinato a costruirsi la propria via d’uscita, il 17 giugno del 1944 entra a far parte delle brigate Garibaldi nella formazione Ubaldo Fantacci. Dina aiuta come può, portando viveri con la propria bicicletta. L’attività partigiana di “Lele”, il nomignolo con cui tutti l’avevano sempre chiamato e che adesso diventa il suo nome di battaglia da partigiano, si racchiude nell’arco dell’estate del 1944, ma è intensa. Matura un orientamento socialista e a quanto sembra cura dei contatti con Radio Londra. Alla fine parteciperà attivamente alla Liberazione di Pistoia l’8 settembre del 1944, immortalato anche nelle storiche foto della Liberazione in alcune vie a due passi da quella che diventerà poi la sua casa, insieme alle sorelle Cecchi, e si guadagna in questi mesi la qualifica di partigiano combattente.

Dopo la Liberazione “Lele” riprese le fila spezzate della sua vita, che nel frattempo si erano arricchite. Nel 1945 nasceva la sua prima figlia, Miriam, fuori dal matrimonio perché le leggi razziali ancora in vigore lo impedivano – lui e Dina riusciranno a sposarsi solo nel 1947 –, una circostanza malvista nell’Italia del tempo. Nello stesso anno chiese di essere riammesso a Giurisprudenza, ma dovrà presto abbandonare gli studi per i sopraggiunti nuovi impegni familiari. Nel 1948 nasceva Sara, seguita poi da Laura. Sempre in questo periodo si impegnava nel partito socialista, per un periodo, e poi nell’ANPI, a cui rimarrà sempre iscritto, e nel sostegno ai lavoratori della cooperativa di trasporti SACA. “Lele” resterà sempre a vivere a Pistoia con la propria famiglia, dapprima fa il negoziante, poi apre il “bar dello studente”, punto di ritrovo per generazioni di giovani pistoiesi, senza clamori, ma con la grande dignità di chi si è ripreso tanto la città che la cittadinanza.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2016.