1

Facibeni, Bartoletti, Nesi: la Madonnina del Grappa nella luce del Concilio

«Niente di meno indicato richiederebbe il ricordo del Padre, che un ripetersi cordiale dei suoi fatti e del suo esempio, senza approfondire e senza tener d’occhio gli aspetti positivi della realtà, che cambia e si evolve di suo. Ora mi pare che uno dei valori più schietti e più esigenti dello spirito del Padre sia proprio quello di adattare le linee del suo pensiero e della sua esperienza ad una situazione in atto, evitando la pura celebrazione di ciò che fu, di ciò che fece. Per questo io credo che gli ex allievi abbiano una grande responsabilità: essi traggono dalla esperienza di lavoro e di casa riflessioni vive. Pertanto essi dovrebbero esser quasi la consulta permanente, il vivaio fecondo di riflessioni sulla possibilità di inserire sempre più l’eredità del Padre nei problemi e nelle attese del nostro tempo. Ciò obbligherebbe oltretutto gli stessi ex allievi ad avere un impegno ed un atteggiamento di presenza nel mondo di oggi ed eviterebbe loro il rischio tremendo di esser stati tratti per distaccarsene dal popolo, piuttosto che esser stati tratti dal popolo per restarvene inseriti, con una capacità maggiore di arricchimento spirituale, in una elevazione del bene comune» (Nesi, 1964). In questa riflessione che don Alfredo Nesi consegnò nel 1964 alla rivista dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa in occasione del sesto anniversario della morte di don Giulio Facibeni, si avvertono insieme l’eco del rinnovamento conciliare, allora di quotidiana attualità, e la particolare prospettiva con la quale il sacerdote guardava all’eredità lasciata dal Padre, come don Facibeni veniva chiamato a Firenze. Alfredo Nesi, intimo amico di don Lorenzo Milani, era nato a Lastra a Signa (Firenze) il 18 luglio 1923, e dopo aver condotto la sua formazione sacerdotale al seminario Cestello ed essere stato ordinato presbitero nel 1946, era entrato nell’Opera Madonnina del Grappa nel 1947. Da quell’anno e fino al 1954 era stato a Rovezzano dove, da subito, aveva coniugato l’esperienza sacerdotale e pastorale con quella educativa e socio-culturale dando avvio a scuole professionali e di avviamento al lavoro. Dal 1954 al 1958 svolse attività a Rifredi accanto a don Facibeni, perfezionando poi i suoi studi in teologia alla pontificia università Angelicum di Roma fino al 1962. Quando scrisse queste riflessioni su Facibeni sulle pagine de «Il Focolare», don Nesi si trovava già da due anni a Livorno, dove era stato chiamato dal vescovo Andrea Pangrazio come parroco nel quartiere Corea: da lì sarebbe poi fiorita la sua innovativa esperienza dell’Istituzione Sperimentale del Villaggio Scolastico.

don-alfredo-nesi

Don Alfredo Nesi

Quella di don Nesi – che fu certamente tra i più originali interpreti dell’eredità di Facibeni – era una prospettiva che mirava a non cristallizzare in un esercizio di pura memoria il pensiero e l’esperienza del fondatore dell’Opera, ma ad aggiornarle in maniera costantemente aderente ai “segni dei tempi”. Questa continua tensione alla revisione dei fondamenti su cui basare l’azione pastorale e spirituale dei sacerdoti dell’Opera diviene di particolare rilievo soprattutto se letta attraverso il filtro dell’azione di monsignor Enrico Bartoletti, figura di assoluta centralità per l’Opera negli anni successivi alla morte di Facibeni.

Don Nesi non a caso vedeva in monsignor Bartoletti, come chiaramente ebbe modo di esplicitare, «il vero costruttore dell’eredità di don Facibeni» (Nesi, 1996, p. 34). Una costruzione che tendeva a riadattare e ridisegnare la missione dell’Opera secondo le nuove architetture del rapporto Chiesa-modernità che il Concilio aveva tracciato. Un processo che in don Nesi era molto chiaro, quando sosteneva che «le normative tanto precise, le indicazioni sistematiche date e lasciate da don Bartoletti-vescovo ai Preti dell’Opera costituirono, in chiave tipicamente facibeniana, anche la lettura del Concilio Vaticano II» (Ibidem). D’altra parte, l’importanza che Bartoletti ricoprì per mantenere unita la comunità dei sacerdoti è stata più volte confermata da tutti i sacerdoti dell’Opera che ancora oggi, il 5 marzo, in occasione dell’anniversario della scomparsa di Bartoletti, organizzano un incontro di preghiera e ricordo. Tutto questo fa anche emergere alcuni tratti del percorso biografico di Bartoletti ancora poco messi in luce dalla storiografia e che rivelano il profondo, e poco conosciuto, legame tra due figure chiave del cattolicesimo novecentesco toscano e, più precisamente, italiano.

In primo luogo, è da evidenziare che dopo la morte di don Facibeni, il gruppo dei sacerdoti guardò a Bartoletti come al punto di riferimento insostituibile per mantenere l’Opera sulla linea e nel carisma indicati dal Padre. Più ancora, si può affermare che Bartoletti esercitò sui sacerdoti quel «carisma della paternità» (Nesi, 1996, pp. 153-164) prima così profondamente praticato da Facibeni verso i suoi sacerdoti: una paternità fatta di una intensa capacità di ascolto, della sensibilità di saper sentire con gli altri, di una dedizione senza stanchezze e senza riserve anche quando i superiori incarichi avrebbero forse consigliato di desistere.

Per altro verso emerge quanto l’ininterrotto esercizio praticato da Bartoletti nel meditare, aggiornare e reinterpretare la spiritualità di Facibeni abbia agito in profondità nel suo percorso di sacerdote, di vescovo e di vescovo tra i vescovi. Don Nesi, che dal 1954 al 1958 partecipò direttamente all’attività dell’Opera a Rifredi, sostiene che Bartoletti «visse con don Facibeni un’autentica comunione di spirito, di idee» (Nesi, 1996, p. 12). E d’altra parte lo stesso Bartoletti confidava, durante un incontro con i sacerdoti dell’Opera, di aver vissuto «i momenti più decisivi e importanti» della sua vita, «accanto al Padre» (Ai sacerdoti dell’Opera, 1980, p. 21). Nel discorso di commemorazione tenuto alla Madonnina del Grappa nel febbraio 1974 – fondamentale per comprendere l’ottica con la quale l’allora segretario della Cei guardava all’eredità di Facibeni – Bartoletti parlava del fondatore dell’Opera in termini di «profezia»: lo descriveva come «un dono, un carisma profetico, un profeta della continuità». «Vero profeta» perché il suo messaggio si poneva «in continuità di tradizione e di vita» e si inseriva, perciò, «in tal modo nel solco storico della vita della Chiesa, nel suo cammino, nel suo pellegrinaggio, nel suo itinerario nel mondo». Profeta soprattutto perché nel suo messaggio si potevano «cogliere fondamentali linee di vita sacerdotale, di vita pastorale e di vita cristiana per il nostro mondo di oggi». Traghettare l’Opera fiorentina nel post-Concilio significava per Bartoletti «capire questa profezia», per essere «sospinti a realizzarla, non in forme che ricopino soltanto quello che il Padre ha fatto, ma che, cogliendone invece lo spirito, lo sappiano inserire nelle nuove mutate situazioni, quelle situazioni, del resto, che egli già prevedeva e sentiva cogliendone i problemi e cercandone concretamente le soluzioni» (Bartoletti, 1982, pp. 298-299).

Monsignor Enrico Bartoletti con Paolo VI

Monsignor Enrico Bartoletti con Paolo VI

Sembra opportuno qui richiamare quanto sostenuto da Luigi Sartori a proposito di Bartoletti: secondo il teologo egli fu chiamato a vivere, nel corso di tutta la sua esperienza sacerdotale, una teologia di tipo «sapienziale». Una teologia cioè che diveniva un quotidiano esercizio di verifica e scoperta della verità, in quanto ogni situazione ed ogni evento costituivano per lui dei “segni dei tempi” e quindi erano «luogo della Parola, luogo teologico, da interpretare ulteriormente con operazione veramente teologale» (Sartori, 1988, p. 28). In questo senso si può affermare che Bartoletti trovò nell’Opera della Madonnina del Grappa un particolare «luogo teologico» in cui esercitare le sua capacità ermeneutiche: egli riteneva che Facibeni incarnando un carisma autenticamente «ecclesiale, presbiterale e missionario» avesse offerto alla Chiesa alcune intuizioni che sarebbero giunte a maturazione solo con il Concilio Vaticano II. E lo diceva, con estrema chiarezza, ai sacerdoti dell’Opera: «Se si ripensa a questi tre aspetti […] dello spirito del Padre, allora si capisce come appare chiaro l’averlo definito – sia pure con tutti i limiti necessari – un profeta dei tempi nuovi». Perché, argomentava in un incontro del 1971, «è su queste linee, in fondo, che il rinnovamento della Chiesa, della sua vita, di quella dei sacerdoti e della loro pastorale, viene prospettato e dal Concilio e dalla necessità dei tempi nuovi». Sulle linee cioè «della ricostruzione di una vera unità ecclesiale completa, che non sia né puramente presbiterale, né puramente sezionale (per esempio di giovani o di altri)» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91).

Ma è nella proposta di un’autentica spiritualità sacerdotale sostanziata nella necessità che i sacerdoti dell’Opera si impegnassero a vivere una vera vita comunitaria che Bartoletti vedeva una delle intuizioni più innovative e anticipatrici di Facibeni: la «vita comune» e la «comunità di vita» tra i sacerdoti furono auspicate esplicitamente dalla costituzione conciliare Lumen Gentium (28) e nei decreti Presbyterorum Ordinis (8 e 9) e Christus Dominus (30,1). Pierluigi d’Antraccoli ha notato quanto Bartoletti sentisse la necessità di favorire la comunione del presbiterio come l’aspetto dominante della sua missione di vescovo: nei suoi discorsi e nelle sue omelie si ritrovano innumerevoli riferimenti a questo punto; e ne parlava sempre con trepidazione, con profonda umiltà, ma anche con fermezza (D’Antraccoli, 1978, pp. 50-51). Per questo l’intuizione facibeniana era per lui tanto significativa: il Padre aveva raccolto intorno a sé un gruppo di sacerdoti, lo aveva curato con amore, e, specialmente negli ultimi anni della sua vita, aveva dedicato molto tempo a fornirgli delle Regole di vita, evitando formule che fossero «eccessivamente strutturate». Erano stati anni di incertezze, di passi indietro, ma anche di forte confronto con altre esperienze come con la Missione de France, con la Comunità del Prado di padre Chevrier e monsignor Ancel. Tutto ciò era segno per Bartoletti che «ante tempus», don Facibeni aveva «concepito la vita presbiterale come vita comune». Non soltanto come vita di comunione o di partecipazione, ma proprio «come vita comune presbiterale, in modo da ottenere una struttura non tipicamente “religiosa”, ma di comunione presbiterale, quale si addice ai preti» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91). Concetti tanto chiari anche in don Nesi quanto affermava che i preti di don Facibeni non erano chiamati ad essere una congregazione religiosa, ma «restando preti secolari, a vivere una vita apostolica» in cui la gente poteva «riconoscere subito la vicenda stessa del vangelo»; e solo una «vita comune dei preti» poteva favorire, finalmente, «la crescita di un laicato di collaborazione, di animazione, di comunicativa» (Nesi, 1996, p. 49). Una tale concezione, secondo Bartoletti, era assolutamente innovativa: se si eccettua una certa consonanza con le idee di San Filippo Neri, non aveva riscontri «non soltanto nelle attuali forme canoniche, ma neppure nella storia del diritto canonico» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91).

Da qui lo sforzo costantemente profuso perché questa comunità di vita tra i sacerdoti si realizzasse davvero: un impegno che si tradusse in indicazioni dettagliate su come vivere concretamente la spiritualità sacerdotale, ma anche in chiari ammonimenti a non deviare dal carisma facibeniano.

lessi_enrico-bartoletti_testimone_paoline_92h98_origNon si sbaglia nel dire che la distanza tra la realtà dei fatti e l’ideale perseguito rimase sempre piuttosto notevole: lo si percepisce nello scorrere gli appunti degli incontri e nel ripercorrere le fasi di attrito e di crisi che in alcuni momenti hanno contraddistinto la vita dell’Opera e le relazioni tra i sacerdoti dopo la morte di Facibeni. Bartoletti ne era assolutamente consapevole: ma questo non gli impediva di considerare comunque di grande significato “teologico sapienziale” l’esperienza vissuta con l’Opera dopo la morte del Padre: si trattava di un esempio concreto di fraternità e comunità tra sacerdoti che era probabilmente quanto di più vicino alla sua idea di comunione del presbiterio egli avesse potuto sperimentare nella sua attività di prete e vescovo. Lo si avverte anche dal modo affettuosamente ironico con cui l’allora vescovo di Lucca raccontava quell’esperienza al suo clero diocesano: durante un’assemblea presbiterale – ricorda don Pietro Gianneschi che di Bartoletti fu segretario particolare per quasi sedici anni – il presule fece accenno, senza in realtà nominarli, ai preti dell’Opera con una frase molto significativa: «Il Concilio ha auspicato che i preti vivano una vita di comunità: certamente non è una esperienza facile. Lo verifico costantemente seguendo un gruppo di preti intelligenti, ma che rimangono… tanti “galli nel pollaio”».

Non sarebbe corretto asserire che don Nesi fu tra i sacerdoti dell’Opera quello che con le sue realizzazioni più si mantenne fedele al carisma del Padre: certamente però don Nesi è stato tra quelli che più si è impegnato, anche dopo la morte di Bartoletti, a ripresentare con costanza all’Opera la lettura bartolettiana dell’eredità di don Facibeni. Si tratta, in fondo, di una sorta di doppia paternità e di doppia eredità per l’Opera che, pur in una concretizzazione non priva di difetti, ha permesso al gruppo di sacerdoti di don Facibeni di vivere un’esperienza di vita comunitaria tra preti secolari che ha indubbie caratteristiche di originalità nel panorama del cattolicesimo italiano. Se ne rendeva conto don Nesi nel 1996 quando guardandosi indietro così sintetizzava tutte le fatiche e le soddisfazioni nel dare consistenza all’intuizione facibeniana: «Questo gruppo di Preti, che ora può cominciare a prendere il titolo di comunità, proprio perché può distinguersi dalle troppe ed uggiose comunità di ogni tipo e di ogni pizzicore, è stato profondamente toccato da don Facibeni. Ma oggi, dopo anni di passione, di tensione, comunque di fedeltà alla Madonnina del Grappa, quei Compreti, sono in Diocesi di Firenze, senza dubbio alcuno, un esempio di intesa e di reciproca collaborazione, che può davvero costituire, ora che finalmente si parla di vita comune tra i preti secolari, un riferimento concreto di una realtà in atto» (Nesi, 1996, p. 29).




Pier Carlo Masini (1923-1998), un intellettuale democratico e libertario a vent’anni dalla scomparsa

Vent’anni fa, il 19 ottobre a Firenze, moriva Pier Carlo Masini, uno dei principali intellettuali e uomini di cultura del movimento operaio, socialista e libertario del Secondo dopoguerra.

Pier Carlo Masini nasce il 26 marzo 1923 a Cerbaia, frazione di San Casciano Val di Pesa (FI). Giovanissimo, inizia la propria attività politica e intellettuale negli ambienti del movimento liberalsocialista. Arrestato per attività antifascista nel gennaio 1942, è condannato a tre anni di confino a Guardia Sanframondi, nel beneventano, sul massiccio del Matese. Il 19 maggio 1943 torna a Firenze, riprende i contatti con i vecchi compagni e si avvicina al PCI. Quando le operazioni militari della guerra investono anche la Toscana, Masini non partecipa direttamente ad azioni militari, ma è in prima fila nell’aiutare la popolazione della sua zona, ricoprendo anche incarichi di responsabilità, come vicesindaco di San Casciano Val di Pesa, nominato dagli Alleati, e come membro del CNL locale in rappresentanza del PCI. Nel periodo compreso tra l’ultima fase della guerra e i momenti immediatamente successivi alla liberazione, di fronte alla svolta di Salerno e alla interpretazione togliattiana della lotta al nazifascismo, Masini matura la scelta di abbandonare il PCI e di avvicinarsi al movimento anarchico.

Alcune figure dell’anarchismo storico sono state per lui punto di riferimento culturale e politico: Bakunin, Cafiero, Malatesta, soprattutto Merlino e Berneri. Di Bakunin e Cafiero Masini ammira la dedizione alla causa libertaria, la coerenza e l’intensità della loro partecipazione agli eventi che li videro protagonisti; di Malatesta apprezza il pensiero limpido e lineare, da anarchico “ragionante”; di Merlino e Berneri valorizza la spregiudicatezza teorica, il “revisionismo”, cioè la capacità di mettere a confronto l’anarchismo con le altre componenti teoriche e pratiche del movimento operaio e socialista. Non a caso, già dal dopoguerra Masini instaura un fertile rapporto epistolare con Aldo Venturini, curatore delle opere di Merlino, e con Giovanna Berneri, moglie di Camillo. Per meglio comprendere l’importanza di questi rapporti, basta ricordare la pubblicazione, nel 1957, del volume di Merlino Concezione critica del socialismo libertario per le edizioni De Silva e La Nuova Italia, in collaborazione proprio con Venturini, e quella di scritti scelti di Camillo Berneri Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, curati nel 1964 con Alberto Sorti per Sugar editore.

Il rapporto con gli anarchici non è facile. Il giovane Masini, pieno di entusiasmo e di iniziativa, spesso si scontra con compagni più anziani, esausti per la lunga lotta al fascismo, spesso isolati ed emarginati dall’egemonia politica dei partiti marxisti. L’anarchismo italiano del dopoguerra, nonostante la grande tradizione e le simpatie popolari che riscuote ancora in alcune aree del paese, appare a Masini povero culturalmente ed organizzativamente, limitato e spesso paralizzato da diatribe interne. Masini si propone di contribuire a togliere l’anarchismo dalla sua emarginazione, creando per questo una rete di collaborazioni, spesso esterne al movimento, nella speranza che il travaso di culture diverse ma vicine possa far crescere una nuova pianta su una radice antica. L’idea di dare inizio a un processo di rinnovamento del movimento si concretizza con «Gioventù anarchica» (1946-1947), periodico redatto insieme a Carlo Doglio. Nonostante la sua breve vita, il giornale suscita interessi e collaborazioni anche fuori dal movimento. Masini prende contatto, per esempio, con il Movimento di Religione di Ferdinando Tartaglia e Aldo Capitini, con il periodico bergamasco «La Cittadella», con le piccole organizzazioni della “sinistra comunista” bordighiste e trotzkiste. All’interno della FAI, Masini si occupa inizialmente della Commissione antimilitarista, ma il suo impegno progressivamente si intensifica come conferenziere e, dal 1948, come redattore di «Umanità Nova» e collaboratore della rivista «Volontà» (1947-1949). Lo scontro interno alla FAI fra il gruppo di giovani che si muovono intorno a Masini e le componenti più tradizionali del movimento, matura fra il congresso di Livorno (23-25 aprile 1949) e quello di Ancona (8-10 dicembre 1950). L’idea di Masini è quella di costruire un “partito libertario”, con una dimensione teorica e pratica dell’anarchismo aderente alla nuova realtà economica, politica e sociale dell’Italia del dopoguerra, capace di stringere alleanze, su posizioni prettamente internazionaliste e legate alle lotte dei lavoratori, con una presenza costante all’interno del sindacato: sono le basi che portano alla nascita del periodico «L’Impulso» e dei “Gruppi anarchici d’azione proletaria” (GAAP). La costituzione dell’organizzazione è anche, però, l’inizio di un lento ma costante distacco di Masini dall’anarchismo militante tradizionale, che lo porterà, nel giro di pochi anni, ad approdare al socialismo democratico.

La maggiore passione culturale di Masini, che lo caratterizzerà per tutta la vita, è la ricerca storica. Laureatosi in Scienze politiche a Firenze nel novembre del 1946, studia con impegno la storia dell’anarchismo proprio per far fronte alle mistificazioni e all’egemonia culturale del PCI. Negli anni in cui Masini ricopre l’incarico di redattore di «Umanità Nova» (dal 1948 agli inizi del 1950) e collabora con il «Libertario» (1950/52), non c’è fascicolo su cui non venga riportato, oltre a quello di politica, un articolo di storia. Si tratta di veri e propri saggi che, a volte, escono a puntate, mentre la passione intellettuale per l’analisi dei documenti, di libri e di riviste rare è documentata dalla rubrica firmata con lo pseudonimo “L’Archivista”. Costante, anche se l’appello cade molto spesso nel vuoto, è il  suo richiamo alla necessità per gli anarchici di ricostruire il proprio percorso storico in forma critica, per strappare dall’anarchismo quell’etichetta di fenomeno folcloristico e “preistorico” del movimento operaio, che gli storici togliattiani tentano di attribuirgli. L’attività di ricerca va anche oltre gli ambiti militanti, confrontandosi da subito con quella parte della rinnovata storiografia contemporanea sul movimento operaio che inizia allora a fare i primi passi. Di qui, per esempio, la collaborazione alla rivista «Movimento operaio» di Gianni Bosio, con cui intrattiene per circa vent’anni una fittissima corrispondenza. In questa intensa fase di ricerca storica, Masini collabora con il giovane Gino Cerrito – successivamente docente presso l’Università degli studi di Firenze – e l’anziano militante Ugo Fedeli.

L’esperienza dei GAAP confluisce, tra il 1956 e il 1957, con i “Gruppi d’Azione comunista” nel “Movimento della Sinistra comunista”, un’esperienza composta da militanti provenienti da piccole formazioni della sinistra extraparlamentare (bordighisti, trotzkisti, ex-pci come Giulio Seniga o come Bruno Fortichiari, tra i fondatori del pcdi nel 1921 ecc.), che ha il merito, tra il ’56 e il ’58, durante e dopo la crisi ungherese, di rappresentare, con un vivace dibattito e un’intensa attività, la parte internazionalista e antistalinista della sinistra rivoluzionaria italiana. Con Seniga, in particolare, Masini stringe un’amicizia profonda e una collaborazione culturale, che negli anni Sessanta producono l’esperienza della casa editrice Azione comune. Lo scioglimento dei GAAP, l’affermarsi all’interno del “Movimento della Sinistra comunista” di tendenze neo-leniniste e l’insuccesso organizzativo di MSC come forza alternativa al PCI e al PSI, convincono Masini ad abbandonare qualsiasi residuo militante e teorico libertario, per approdare fra la fine del 1958 e l’inizio del 1959 nel PSI. L’ingresso nell’area socialista viene preceduto dalla pubblicazione di due ciclostilati redatti da Masini, La corrente di ‘sinistra’ vista da sinistra e Una classe un partito, due documenti dichiaratamente internazionalisti, classisti e decisamente anticomunisti. La tesi di fondo è quella che solo attraverso un partito socialista unificato, con al suo interno una corrente libertaria e internazionalista, è possibile smascherare l’inganno comunista, e dare una vera prospettiva politica alla classe operaia. Inoltre Masini, sostenendo gli “autonomisti” all’interno dell’organizzazione, si propone di contribuire all’opposizione contro la sinistra del partito con l’obiettivo di riconsegnare il PSI alla sua vera vocazione: quella nata con la Prima Internazionale e legata alle tradizioni democratiche risorgimentali. È in questo periodo di intensa partecipazione al dibattito politico che Masini entra in contatto con la redazione di «Corrispondenza socialista», stringe rapporti di amicizia con Giorgio Galli, Stefano Merli e Gaetano Arfè e, inoltre, incontra Giuseppe Faravelli, socialista riformista di tradizioni proudhoniane, amico di Andrea Caffi e curatore dell’indipendente «Critica sociale». Sono gli anni in cui Masini si dedica alla ricerca storica per scrivere saggi sulle tradizioni laiche, risorgimentali, libertarie, federaliste e anticlericali del primo socialismo italiano. Pur ricoprendo incarichi prima nel PSI e poi nel PSDI, nel quale milita dal 1969 al 1992 (segretario provinciale di Bergamo e membro del Comitato centrale), non si candida mai a nessuna carica pubblica, né di consigliere comunale né di parlamentare, motivando questa scelta con la volontà di mantenersi coerente sul piano etico, suo costante tratto distintivo. La sua originale concezione del socialismo, inteso come sintesi fra due anime, quella riformista (Turati e Prampolini) e quella rivoluzionaria e libertaria (Malatesta, Merlino e Berneri), rimane un caso isolato nel panorama del socialismo democratico italiano di quegli anni.

Federazione_AILNel 1958 viene pubblicato dalla casa editrice Avanti!, Gli internazionalisti. La Banda del Matese, 1876-1878, seguono a ruota i primi tre volumi degli scritti di Bakunin e nel 1963 La Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Atti ufficiali 1871-1880 (atti congressuali; indirizzi, proclami, manifesti) (Edizioni Avanti!). In questo periodo continuano le collaborazioni a periodici come la «Rivista storica del socialismo» e «Movimento operaio e socialista».

Per capire l’importanza di questa attività, va ricordato che nei primi anni Sessanta, a parte piccole case editrici di movimento come le edizioni Antistato, la Fiaccola e la Libreria della FAI, non esistono nel panorama editoriale italiano collane o testi sull’anarchismo. Nel ’59 esce Il Socialismo anarchico in Italia di Enzo Santarelli, edito da Feltrinelli, poi nient’altro: gli scritti di Masini, sparsi su riviste e quotidiani, divengono quindi l’unico punto di riferimento sul piano della ricerca storica. Solo più tardi, alla fine degli anni Sessanta, le case editrici più importanti, sull’onda della contestazione giovanile, riscoprono l’anarchismo. Proprio dalla scarsità di iniziative editoriali indipendenti nella sinistra nasce, su iniziativa di Seniga, la casa editrice Azione Comune che vede in Masini uno dei principali animatori. La collaborazione con la casa editrice è importante sotto diversi punti di vista: la linea editoriale tende a portare alla luce i temi dell’azione politica e culturale di Masini. Le pubblicazioni di Azione Comune offrono per la prima volta, soprattutto ai lettori giovani, testi sconosciuti e inediti della storia del socialismo italiano ed internazionale. Scorrendo il catalogo della casa editrice, si trovano nei vari titoli i temi cari a Masini e alla sua visione di un socialismo umanista e libertario. Nel 1962 Masini ripubblica il volume di Rosa Luxemburg, Centralismo o democrazia (Replica a Lenin), che era già uscito nel 1957; nel 1966 da alle stampe l’opera di Camillo Berneri, Mussolini psicologia di un dittatore. Le diverse attività culturali e politiche non distraggono Masini dal suo principale interesse e cioè la ricerca e la ricostruzione delle vicende dell’anarchismo italiano, ed è proprio Masini a studiarlo e difenderlo sul piano storiografico nell’ambito delle celebrazioni del centenario della nascita della Prima Internazionale. La sua comunicazione al convegno di Firenze su Il movimento operaio e socialista. Bilancio storiografico e problemi storici del 18-20 gennaio 1963, La Prima internazionale in Italia, rimane un’opera fondamentale tra quelle dedicate alle origini del socialismo e dell’anarchismo italiano. In questo contesto vanno inseriti i volumi Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, (1969), la biografia di Cafiero (1974) e Storia degli anarchici nell’epoca degli attentati (1981), tutti editi da Rizzoli.

La presenza di Masini è costante in numerosi convegni a carattere storico, sia militanti che no, come quello organizzato dalla Fondazione Einaudi a Torino nel dicembre 1969, Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo, o quello di Venezia del 1976 nel centenario della morte di Bakunin organizzato dal Centro Studi Pinelli di Milano, inizio di una nuova stagione di analisi e riflessioni storiche. Nel 1969 Masini fonda a Bergamo la Biblioteca Max Nettlau, che per anni, in tempi difficili per la ricerca di materiali preziosi, rappresenta una tappa fondamentale per chiunque si accinga allo studio dell’anarchismo. Nel ’78 escono i volumi Poeti della rivolta, da Carducci a Lucini e Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana. Negli ultimi anni della sua vita si dedica a studi su Manzoni, Alfieri e Porta. Nel 1993 partecipa alla fondazione della «Rivista Storica dell’Anarchismo», di cui sarà membro del comitato scientifico, e alle attività della Biblioteca Franco Serantini, cui lascerà in eredità il suo prezioso archivio e una ricca collezione di pubblicazioni.




L’operaio che guidò la Regione Toscana

Gianfranco Bartolini, classe 1927, nasce a Fiesole il 17 gennaio e proprio questa terra, dove abiterà fino alla sua scomparsa nell’ottobre del 1992 segna in modo indelebile la sua attività, politica e istituzionale. Autodidatta (ha la quinta elementare), figlio della sua generazione, dove il mestiere si imparava “a bottega”, all’età di otto anni inizia a lavorare come fabbro presso il negozio del padre Domenico in via Matteotti a Fiesole.

A quattordici era già operaio allo stabilimento delle Officine Galileo dove l’impegno politico e antifascista, certamente attinto in ambito familiare – il padre era stato consigliere comunale socialista prima dell’avvento al potere del fascismo – comincia a farsi largo nell’indole di un ragazzo che, già dalla giovanissima età, mostrava convinzioni culturali e impegno civile. Più volte ricordato come uomo ‘del fare’, Bartolini sussume pienamente quel clima di militanza collettiva, di impegno civile e municipale che caratterizza gli anni successivi al dopoguerra, avendo già partecipato come partigiano alla lotta di liberazione nel 1944. Proprio la Resistenza rappresenta un capitolo molto importante per la sua vita e per la sua città natale, Fiesole. Durante la terribile esperienza del passaggio del fronte nell’estate del 1944, anche quest’ultima fu infatti gravata – in particolare nel mese di agosto – dal peso e dalla violenza dell’occupazione nazista, culminante nel noto eccidio dei tre carabinieri. In questa fase i Bartolini svolsero un ruolo molto importante. Mentre il padre di Gianfranco si impegnò a lungo per aiutare la popolazione locale a sopravvivere nella situazione di emergenza, il figlio – al tempo diciassettenne – fu protagonista di alcune azioni di guerra con la “Banda partigiana di Fiesole” (poi diventata SAP di Fiesole) dipendente dal CLN cittadino fino alla liberazione avvenuta il 1° settembre.[1]

Le Officine Galileo segnano un altro momento fondamentale della sua vita. Dopo aver rivestito il ruolo di Segretario nella Commissione interna della grande fabbrica fiorentina, venne infatti chiamato alla segreteria della Camera Confederale del Lavoro di Firenze negli anni ’60 del XX secolo, diventandone segretario nel 1965. Dirà di lui Giorgio Napolitano che proprio il suo impegno come dirigente sindacale, la sua militanza politica, l’esperienza del lavoro in fabbrica sono state le prove superate con serietà, impegno e sobrietà che gli hanno permesso di diventare un autentico uomo di governo.

Solo 6 anni più tardi, nel 1971, ebbe l’incarico di segretario regionale della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), entrando nel Direttivo nazionale della CGIL e della Federazione nazionale CGIL-CISL-UIL.

Ma il legame con le radici rimase sempre inalterato e l’impegno politico lo vide entrare nell’amministrazione comunale di Fiesole giovanissimo. Già nel 1951, all’età di 24 anni, capolista del Partito comunista, riportò 215 voti di preferenza a fronte dei 644 voti ottenuti da Luigi Casini, rappresentante del Partito socialista e figura emblematica dell’antifascismo fiesolano. Alle elezioni amministrative successive (nel 1954, quando lo stesso Casini conseguirà 341 voti e Gianfranco 510) viene rieletto e riconfermato Assessore ruolo che manterrà fino al 1964.

Il suo sguardo attento di Assessore al bilancio non mancava di osservare i limiti oggettivi della cittadina collinare e il difficile rapporto con il capoluogo di Regione; è nel commentare il bilancio del 1964 che ebbe a dire:

Fiesole è oggi sempre più pressata dai bisogni che sono bisogni propri di una città moderna, una città che adesso è un po’ la periferia di Firenze […] È un problema che investe un po’ tutti i Comuni limitrofi, ma specialmente Fiesole ne risente in misura maggiore per cui il suo bilancio va sempre più in deficit. [Noi] non siamo certo in grado, oggi, di poter assicurare a Fiesole questi servizi che dovrebbero essere, io penso, in dotazione ad una città moderna, e forse non lo saremo mai […]. Fiesole ha un po’ il carattere di “Città – dormitorio”, infatti il Capoluogo ha avuto un certo sviluppo edilizio costituito da una serie di villette per il ceto medio, mentre nelle frazioni si è visto uno sviluppo per l’edilizia popolare per operai, ecc. …[2]

D’altro canto l’economia era la sua “fissazione”, non solo per retaggio sindacale, ma anche per la convinzione che il modello toscano dei distretti fosse un successo e che quindi intrecciare impresa, infrastrutture, attrezzature del territorio, mondo dell’università e della ricerca fosse il perno sul quale progettare il futuro. Bartolini aveva la percezione, e ciò emerge spesso nei suoi discorsi, che i meccanismi di globalizzazione in atto stiano portando l’industri italiana, il sistema produttivo, l’economia in generale verso il declino.

Sarà il 1975 a segnare la sua piena maturità politica, quando già Consigliere provinciale a Firenze, venne eletto con la seconda legislatura al Consiglio della Regione Toscana: nella lista del Pci e nella circoscrizione di Firenze, riportò 9.488 preferenza e divenne Vicepresidente della Giunta Regionale (Vicepresidente di Lelio Lagorio e, dal settembre 1978, di Mario Leone) con la responsabilità diretta della programmazione economica e del bilancio.

Alle consultazioni successive, giugno 1980, conquistò 15.489 preferenze e per questo è confermato nei suoi incarichi Vicepresidente e Assessore (sempre a programmazione e bilancio, con Presidente Leone) divenendo – dal 31 maggio 1983 – presidente della Giunta, carica che assume, pur modesto e schivo di carattere, con il fermo impegno di tentare la ricerca di soluzioni di governo e la collaborazione con realtà internazionali facevano perno sull’idea e sulla pratica della programmazione.[3]

Le vicende politiche regionali lo portano, infatti, alla guida di un governo “quasi” monocolore, retto da una scarsa maggioranza che godeva di un’altrettanto scarsa fiducia, soprattutto da parte dei vecchi alleati del Psi, che lo consideravano debole, soprattutto a causa del suo insediamento sociale “limitato alla classe operaia”.[4]

Eppure ci si dovette ricredere e accettare che il temuto monocolore rappresentasse, in realtà, una risorsa volta verso un impegno comune per l’innovazione del sistema produttivo, un confronto diretto con le forze sociali, con l’imprenditoria, con la Chiesa e con le Forze armate. Dall’’85 al ’90, con la fine naturale della terza legislatura, l’alleanza di governo sarà più ampia: una compagine determinata dal rientro dei socialisti e l’avvento dei socialdemocratici; ma per le Regioni saranno anche gli anni più difficili: da una parte il Governo le considera meri uffici decentrati dall’altra il Parlamento legifera  in tutti i campi regionali.

Gianfranco Bartolini affronta la sfida da riformista e regionalista convinto. Del resto, già nel 1984, come Presidente di turno della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, aveva consegnato al Presidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, Aldo Bozzi, la proposta della Camera delle Regioni. Un Governo Regionale in fieri e in via di stabilizzazione, uno sviluppo delle autonomie locali, un’idea – insomma – regionalista e autonomista della quale Bartolini si fa portavoce e promotore in grado di accettare e gestire le sfide della modernità, facendo perno sull’idea e sulla pratica della programmazione:

Bartolini si cimenta in particolare modo con un’idea di programmazione “concordata e contratta”, e lo fa con modernità e apertura; batte e ribatte su esigenze cruciali di innovazione; non si chiude in vecchie visioni statalistiche ma sostiene “nuovi rapporti tra pubblico e privato”, difende “una sorta di gemellaggi tra la Regione e le imprese”, suggerisce “intese che si propongano di suscitare investimenti e occupazione, di dare risposta ai problemi dello sviluppo tecnologico, di affrontare quelli dell’ambiente e delle infrastrutture”.[5]

Rimarrà in carica per l’intera durata della quarta legislatura del governo toscano, fino al 1990, mantenendo ininterrottamente la delega per le politiche della programmazione e i rapporti con il Parlamento, il Governo e Comunità Europea. Come era nella sua natura, o forse come gli aveva insegnato l’esperienza, negli anni in cui si pone a guida della Regione Toscana non perse occasione per intrecciare rapporti di varia natura: il dialogo e il confronto si sviluppava verso ogni espressione della società toscana partendo dalla cittadinanza, passando per il mondo dell’industria e dell’imprenditoria, rivolgendosi all’associazionismo e alle cariche vescovili, fino alle più alte sfere istituzionali. Questa fitta rete di relazioni rispecchiava la sua naturale tendenza alla concretezza nell’agire locale, legandosi, d’altra parte, a un’interpretazione dei fatti globale e internazionale. Non a caso poi, all’inizio del 1989, di fronte alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, traccia un importante bilancio del regionalismo italiano esordendo proprio con la dimensione europea di questo movimento[6].

Gianfranco Bartolini esprime un riformismo forte. Ancorato alla fermezza dei valori, alla fine degli anni ’80 già intravedeva un’era di crisi politica, l’assenza di grandi propositi di rinnovamento dovuta, forse in parte, anche alla paralisi delle istituzioni marchiate da un centralismo soffocante che alimentava “le diseguaglianze e il divario fra le aree del paese, aprendo varchi pesanti a larghe fasce di illegalità e a fenomeni che reclamavano la centralità della questione morale”. La libertà, affermava, non può tradursi nelle ingiustizie e nelle inefficienze che vanno mortificando l’intera società e piegando la democrazia agli interessi dei più forti.[7]

Non solo sull’economia tout-court si basava però la sua azione di governo: la difesa del suolo,[8] il regionalismo, l’autonomia statuaria, le “aree vaste” come risposta alla crisi della società toscana. Su quest’ultimo tema, affrontato per la prima volta in maniera organica in occasione del dibattito in Consiglio regionale, avviato dall’approvazione del Programma regionale di sviluppo 1988-1990, Bartolini svilupperà un’approfondita analisi sulle difficoltà che il sistema policentrico toscano stava affrontando sul piano economico. Se le strategie interne non sono più in grado di garantire le condizioni necessarie e i livelli di efficienza adeguati per attestarsi sui mercati sarà necessario “individuare nuovi ambiti, all’interno dei quali sia possibile stabilire le condizioni necessarie per annullare le diseconomie esistenti e per rilanciare il policentrismo, che è un valore nella nostra regione, ma ad una scala diversa e meno angusta, se vogliamo stimolarne il rilancio e fargli ritrovare il dinamismo del passato”. [9]

Gianfranco Bartolini muore a Firenze il 10 ottobre 1992.

Elena Gonnelli, archivista, direttrice della sezione Montecatini Terme-Monsummano dell’Istituto storico lucchese, collaboratrice dell’Istituti storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea per il quale ha curato l’inventario del fondo G. Bartolini  e la mostra “Gianfranco Bartolini: il sindacalista, l’amministratore, il Presidente”.

Note:

[1] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo: una riflessione a 15 anni dalla scomparsa di Gianfranco Bartolini, Associazione Autonomie Locali Legautonomie Toscana, Pisa, 2009, p. 22.

[2] G. Bartolini. Il governo regionale cit., pp. 13-15.

[3] Archivio Comunale di Fiesole, Delibere del Consiglio Comunale, Serie I, n. 44, 25/03/1964

[4] P. Ranfagni, Il coraggio della sfide, in Gianfranco Bartolini. Un uomo del popolo alla guida della Regione, a cura di P. Ranfagni, Direzione generale della Presidenza Giunta Regione Toscana, Firenze, 2014, pp. 20-24.

[5] G. Napolitano, Presentazione in G. Bartolini. Il governo regionale, a cura di M. Badii, F. Gigli, P. Ranfagni, Edizioni della Giunta Regionale, Firenze,1995, p. 14.

[6] Archivio Gianfranco Bartolini, d’ora in avanti AGB, Scritti e discorsi, b. 10, 33.14, 1989.

[7] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo, cit., pp. 19-28.

[8] Bartolini stigmatizzerà più di una volta la mancanza di una normativa nazionale per la difesa del suolo, lamentando in generale l’assenza dello Stato su queste tematiche, facendo particolare riferimento all’alluvione del 1966 di Firenze e la Toscana. Cfr. AGB, Scritti e discorsi, b. 8, 30.33 e 30.36, 1986.

[9] AGB, Scritti e discorsi, b. 9, 32.15, 1988. Sul concetto di “area vasta” (compresa la Firenze-Prato-Pistoia) e su quello, conseguente, della Città-metropolitana Bartolini tornò molte volte, anticipando il varo della legge 142/90.




Nello Niccoli: combattente per la libertà e protagonista della Liberazione di Firenze

Uomo «d’azione e di opere», «valoroso combattente per la libertà», eppur figura di «grande modestia» e «di poche parole», Nello Niccoli (1890-1977) seppe coniugare come pochi impegno politico, passione civile e alti meriti professionali: di lui – avrebbe detto Aldo Passigli in occasione della sua morte – «non sappiamo infatti se lumeggiare più il coraggio antifascista, il coerente politico, l’esemplare pubblico amministratore o l’eminente professionista» (Cordoglio per la morte di Nello Niccoli, «La Voce Repubblicana», 13/05/1977).

Nato a Milano l’8 dicembre 1890 da Vittorio e Luigia Pecchio, Nello Niccoli portò avanti la tradizione familiare di studi agronomici, laureandosi a pieni voti il 27 luglio 1914 presso l’Università di Pisa, dove il padre Vittorio, formatosi nel solco della “scuola agronomica toscana” di Meleto e tra i più eminenti economisti rurali del tempo, era allora docente di Estimo ed Economia agraria. Intrapresi l’attività e l’insegnamento accademici prima a Pisa e poi a Padova presso la Scuola di applicazione per gli ingegneri e l’Istituto “G. Belzoni”, Nello il 24 maggio 1915 fu chiamato sotto le armi  venendo assegnato come sottotenente al 3° Reggimento Genio di Firenze e indi mandato a combattere sul fronte della 3° Armata. Congedatosi nel settembre 1919 col grado di capitano e la croce al merito di guerra, dal 1920 esercitò  come libero professionista l’attività di dottore agronomo, venendo poi nominato nel dicembre di quell’anno direttore di una grossa azienda agricola in Angola di proprietà della Società coloniale per l’Africa occidentale, carica che mantenne fino all’ottobre 1922. Negli anni del regime continuò la propria attività di libero professionista, svolgendo importanti incarichi nel settore dell’estimo, del genio rurale e del catasto, e partecipando agli studi relativi al Nuovo Catasto Terreni del 1939.

Di sentimenti spiccatamente antifascisti, a partire dal 1920 Nello fu tra i fondatori a Firenze del Circolo di Cultura nato attorno alle figure di Gaetano Salvemini e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli e volto a divenire, con la partecipazione di Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Carlo Celasco, Piero Jahier e molti altri, luogo di dibattito e di discussione culturale aperto senza precisi confini politici alle nuove tendenze italiane ed europee. Nello, all’attività del Circolo partecipa attivamente assieme al cugino Alfredo Niccoli  ̶  presso il cui studio avvocatizio posto all’ultimo piano del Palazzo Errera in via degli Alfani si erano svolte le prime riunioni del gruppo  ̶  figurando altresì nell’ambito delle varie iniziative organizzate come relatore di una conferenza sull’Angola portoghese. Conclusasi improvvisamente quell’esperienza nel gennaio 1925 a seguito della chiusura del Circolo per ordine prefettizio e scatenatasi la repressione fascista contro i principali ispiratori del gruppo, Nello contribuisce a organizzare nel luglio successivo la fuga in Francia di Gaetano Salvemini e poi quella in Svizzera di Paolo Rossi, fratello di Ernesto, passando successivamente a far parte del gruppo clandestino di Giustizia e Libertà diretto a Firenze dall’amico Nello Traquandi, col quale Niccoli aveva già collaborato alle pubblicazioni del Non Mollare!.

Nel giugno del 1940, allo scoppio della guerra, Niccoli è richiamato alle armi e mandato col grado di maggiore del Genio in Libia, servizio del quale per sua più tarda ammissione non si dichiarerà «affatto fiero», nonostante ottenga la promozione a tenente colonnello e la medaglia di bronzo al valor militare nella battaglia di Bir el Gobi. Qui, «in due avanzate e in due ritirate nel deserto» – racconterà egli stesso – «bevendo l’acqua melmosa ed infetta dei pozzi» contrae numerose infezioni intestinali che ne segnano a lungo la salute. Rimpatriato nel settembre 1942 a Napoli, Nello, ridotto a pesare solo 39 kg per via delle malattie patite, trascorre sei mesi di convalescenza, al termine dei quali è posto in congedo assoluto.

targa

Targa affissa a Firenze in via dei Bardi 14 sulla casa in cui visse gli ultimi anni della sua vita Nello Niccoli (foto Zatini)

Rientrato a Firenze, dopo il 25 luglio e l’8 settembre 1943 il suo profondo antifascismo lo porta a ricercare contatti con il movimento resistenziale. Nel dicembre di quell’anno, infatti, per tramite di Orsola de Cristofaro, figlia del professor Renato Biasutti e staffetta partigiana, viene messo in comunicazione con Carlo Campolmi membro del Partito d’Azione fiorentino. Poco dopo, Enzo Enriques Agnoletti, vincendo le perplessità di Nello, gli offre per conto del partito l’incarico di comandante militare e allo scopo di facilitarne il lavoro gli affianca Carlo Ludovico Ragghianti, che sin lì aveva tenuto in mano le fila dell’organizzazione armata. Il comando militare del partito affidato a Niccoli si completa così con le figure di Ragghianti (commissario politico), Athos Albertoni (Aiutante Maggiore), Carlo Campolmi (organizzatore delle squadre di città) Enrico Bocci (organizzatore di Radio Cora) e Maria Luigia Guaita (ufficiale di collegamento con le bande esterne). Tra i compiti che Niccoli, nome di battaglia “Sandri”, assume vi è anche quello di costituire un comando militare unico tra i diversi partiti antifascisti sotto l’egida del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), obiettivo al quale si era già speso a partire dal febbraio del 1944 Ragghianti.

Il primo contatto Niccoli lo stabilisce in tal senso col colonnello Vito Finazzo, rappresentante della Democrazia Cristiana, poi sostituito dal capitano dell’aeronautica Nereo Tommasi. Seguiranno poi analoghi accordi di collaborazione con socialisti e liberali. Più difficili invece le trattative con i comunisti, rappresentati prima dal comandante partigiano Gino Menconi “Musoduro” e poi da Luigi Gaiani. È con quest’ultimo che l’intesa al fine riesce, quando ai primi di maggio del 1944 si procede alla creazione del Comando Militare Interpartitico, battezzato su suggerimento di Eugenio Artom “Comando Marte” e così composto: Nello Niccoli (Partito d’Azione) comandante; Luigi Gaiani (Partito Comunista) commissario politico; Dino Del Poggetto (Partito Socialista) vice commissario politico; Nereo Tommasi (Democrazia Crstiana) vice comandante; Achille Mazzi (Partito Liberale) Capo di Stato Maggiore.

20180418_150531

Comando Militare Toscano – Relazione sull’attività clandestina e operativa svolta dai Patrioti Toscani nel periodo 8 settembre 1943 – 7 settembre 1944 (ISRT, Archivio Nello Niccoli)

Il Comando interpartitico, che al pari di quello azionista tiene le sue riunioni presso l’abitazione del Niccoli in Piazza dei Mozzi, comincia a lavorare ai primi di giugno, subendo però un durissimo colpo il 7 del mese a seguito della cattura avvenuta da parte dei nazifascisti dei componenti di Radio Cora, la radiotrasmittente clandestina del Partito d’Azione. Tra gli arrestati destinati a subire tristemente la tortura e la fucilazione, vi sono anche Italo Piccagli ed Enrico Bocci, attesi per il giorno seguente da Niccoli a una riunione del comando militare del Partito d’Azione. La loro assenza mette in allarme Nello che, compresa la situazione, giusto prima che i fascisti irrompano nella sua abitazione in Piazza dei Mozzi riesce a trasferire tutti i documenti compromettenti in casa della sorella Miriam in via dei Bardi, dove egli stesso trova rifugio.

Da quel momento, Niccoli è costretto a cambiare continuamente domicilio, dormendo a turno nei vari appartamenti di fortuna che il partito gli ha messo a disposizione e beneficiando una volta alla settimana dell’ospitalità dell’amico Leone Guicciardini al pianterreno dell’omonimo palazzo. Lo stesso Comando Marte perde il suo luogo fisso di ritrovo ed è costretto a riunirsi, a seconda, in casa del colonnello Mazzi, nella fabbrica di ceramiche dell’industriale liberale Renato Fantoni, in chiese, giardini pubblici, per strada, fino a impiantarsi alla fine di luglio presso la sede della Società Larderello, posta all’ultimo piano del cinema Odeon, in Piazza Strozzi. È da qui che il Comando Marte conta di dirigere l’insurrezione cittadina secondo i piani operativi da esso appositamente studiati già da fine giugno e relazionati da Niccoli al CTLN in una riunione tenutasi il 22 luglio nell’ufficio di Natale Dall’Oppio, in via Condotta. Tuttavia, l’intenzione allora preventivata di stabilire un collegamento col comando Alleato allo scopo di coordinare la battaglia per Firenze, nonché l’obiettivo di avviare al momento dell’insurrezione un’azione concomitante delle squadre partigiane attestate sulle due rive dell’Arno, come noto vengono scombinati dall’evacuazione forzata dei lungarni disposta dai tedeschi in vista del brillamento delle cariche di esplosivo posizionate sui ponti.

Vistosi sconvolgere i piani, Niccoli e gli uomini del Comando Marte decidono di attendere, limitandosi a intensificare l’organizzazione dei vari reparti partigiani entro le quattro zone operative in cui era stata divisa la città, mentre nel frattempo il CTLN, prima che i tedeschi chiudano definitivamente l’accesso ai lungarni, riesce a inviare una propria delegazione in Oltrarno guidata dal democristiano Francesco Berti. Dalla sede dell’Odeon, il 3 agosto gli uomini del Comando Marte – avrebbe poi raccontato Niccoli – assistono «come fanciullini impotenti a difendere la propria madre minacciata e colpita» al brillamento delle cariche posizionate dai tedeschi e alla distruzione dei lungarni e di tutti gli attraversamenti fluviali, ad eccezione di Ponte Vecchio.

Il 5 agosto, il tenente Enrico Fischer comandante della 3° compagnia “Rosselli”, accortosi della possibilità di stabilire un contatto tra le due sponde dell’Arno attraverso il Corridoio Vasariano, riesce a stendere lungo questo un collegamento telefonico tra un avamposto partigiano attestato in Palazzo Vecchio e un apparecchio telefonico posizionato in Oltrarno e affidato a Edoardo Detti e a Marcello Ciompi. Allo scopo di prendere contatto con le avanguardie alleate già attestate nei sobborghi meridionali della città il CTLN decide di inviare oltre il fiume Nello Niccoli perché concordasse con gli Alleati il piano per l’insurrezione. Aggirando i presidi tedeschi, assieme a Fischer e a Ragghianti, Niccoli riuscì ad attraversare Ponte Vecchio percorrendo il Corridoio Vasariano fino a una botola aperta su via dei Bardi dalla quale si calò con una corda fissata a circa dieci metri di altezza. Indi riuscì a raggiungere Piazza Pitti, ricongiungendosi ad alcuni membri della delegazione guidata dal Berti. Preso contatto con gli Alleati, Niccoli viene scortato presso un comando tattico posto in via del Gelsomino, dove è ricevuto da un graduato dello Stato Maggiore alleato. Il colloquio, protrattosi per ben tre ore, si rivela però inconcludente, con l’ufficiale che sconsiglia un’azione insurrezionale da parte dei patrioti e Niccoli che si congeda con l’unica rassicurazione di impegnarsi a tenere aggiornato telefonicamente il comando Alleato sui movimenti del nemico. All’alba del giorno seguente, Niccoli si appresta a rifare il percorso a ritroso, stavolta incontrando difficoltà anche maggiori nel riguadagnare il passaggio sul Corridoio Vasariano: «il risalire a forza di gambe e di braccia su una fune senza nodi, col rischio di farmi impiombare dai fucilieri che sparacchiavano in continuazione dalle finestre dei palazzi del lungarno di fronte» – avrebbe rievocato anni dopo il Nostro – «per me, uomo di 54 anni ed in condizioni di forma un po’ precarie, ha rappresentato una impresa di notevole difficoltà» (N. Niccoli, Per la battaglia di Firenze, in La Resistenza in Toscana, Atti e studi dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, n. 8, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 9) Ciononostante, alle nove del mattino, Niccoli riesce a raggiungere incolume via Condotta, facendo rapporto col CTLN.

A seguito della proclamazione dell’insurrezione cittadina l’11 agosto 1944 da parte del CTLN, Niccoli partecipa a tutte le fasi centrali della battaglia per la liberazione della città, potendo contare stavolta anche sul più collaborativo atteggiamento degli Alleati e del comandante divisionale inglese, il quale lo convoca a rapporto tutte le mattine presso il comando installato all’Hotel Savoia di Piazza della Repubblica, prendendo nota della situazione delle forze partigiane e affidando a queste incarichi di perlustrazione. Come riconobbe più tardi lo stesso Niccoli, «si era formato tra noi un clima molto differente da quello da me riscontrato nella mia visita di là d’Arno. Segno evidente che il Comando Alleato aveva riconosciuto ed apprezzato il contributo dato dai partigiani alla guerra di liberazione» (N. Niccoli, Per la battaglia di Firenze, p. 11)

0001

Appunti di Nello Niccoli inerenti le disposizioni di scioglimento delle bande partigiane cittadine, s.d. (ISRT, Archivio Nello Niccoli)

L’impegno di Niccoli si protrasse anche a liberazione della città avvenuta, quando rivestì importanti incarichi amministrativi: nell’ottobre del 1944 fu nominato membro della Giunta della liberazione  insediata a Firenze dagli Alleati, contribuendo contemporaneamente al delicato processo di epurazione dello Stato post-fascista all’interno della Delegazione provinciale di Firenze dell’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo.

Tuttavia, i disagi e le fatiche patite nel periodo resistenziale e in questi mesi di intensa attività, produssero il riacutizzarsi delle infermità contratte in Africa settentrionale e costrinsero Niccoli a presentare nell’ottobre del 1945 le proprie dimissioni dal Comando Militare Toscano, venendo quindi ricoverato nell’ospedale militare di Villa Natalia.

Rimessosi in salute, nel secondo dopoguerra Niccoli tornò di nuovo ad esercitare la propria professione, non venendo meno però al proprio impegno civico. Dal 1946 e sino alla morte fu consigliere della Cassa di Risparmio di Firenze e vicepresidente dell’Istituto Federale di Credito Agrario per la Toscana, nonché consigliere dell’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze, socio dell’Accademia Economico-Agraria dei Georgofili, consigliere dell’Ordine degli agronomi fiorentini e loro rappresentante nel Consiglio Nazionale dal 1952 al 1969. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione nel 1946 aderì al Movimento della Democrazia Repubblicana, confluendo poi entro il Partito Repubblicano Italiano. Si dedicò altresì all’organizzazione dell’associazionismo partigiano rivestendo un ruolo esecutivo nella Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane (FIAP). Contribuì inoltre nel 1953 alla fondazione dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, di cui fu Presidente dal 1957 al 1975.

Niccoli morì a Firenze il 29 aprile 1977. La notizia della sua morte, per sua espressa volontà annunciata solo a esequie avvenute, «senza fiori e senza onori», per chi lo aveva conosciuto fu l’ennesima prova «della sua grande modestia e del suo desiderio di lasciare questa vita terrena “in punta di pedi”» (C. Arcangeli, È scomparso Nello Niccoli, «Il dottore in scienze agrarie e forestali», n.8, settembre 1977).




Quando sulla Firenze Mare si battevano i record di velocità

Nuvolari ha un corpo eccezionale…Nuvolari ha le mani come artigli, Nuvolari ha un talismano contro i mali… i suoi muscoli son muscoli eccezionali… gli uccelli nell’aria perdono l’ali quando passa Nuvolari.” Queste sono le parole con cui Lucio Dalla in una sua celebre canzone descrive il Mantovano Volante, Tazio Nuvolari, uno dei miti italiani degli anni Trenta del secolo scorso, colui che per molti ha rappresentato concretamente il mito della velocità teorizzato da Marinetti e dagli altri futuristi.

In realtà, già  ben prima che Dalla venisse al mondo, delle “virtù eccezionali” di Tazio parlavano con dovizia di particolari i giornalisti a lui contemporanei. Mentre era in piena attività agonistica fiorivano intorno al suo personaggio aneddoti leggendari, ma con un fondo di verità. All’indomani ad esempio di una vittoriosa Mille Miglia, durante la quale per raggiungere senza farsi notare il suo rivale Varzi aveva spento nella notte i fari della sua autovettura, si cominciò a dire che riuscisse a guidare ad occhi chiusi. Si sosteneva che fosse capace di guidare senza volante, senza ruote e addirittura con le ossa rotte. Le cronache sportive raccontano che riuscì a concludere una gara nonostante si fosse procurato durante questa la rottura di un dito e che un’altra volta, reduce da un incidente, si fosse fatto legare al sedile della sua autovettura per mantenere la posizione ideale di guida. In un’altra occasione, sostituì il volante rotto della sua auto con una chiave inglese, concludendo comunque la competizione. Al di là dell’aspetto “epico” di questi racconti, quello che è certo è che Nuvolari sapesse far fiorire questi racconti con la leggerezza e il coraggio con cui affrontava le difficoltà. Dato per morto in seguito ad un incidente, affermò che con gente come lui era necessario aspettare tre giorni prima di piangere troppo. Un uomo con queste caratteristiche sportive e umane era inevitabilmente destinato a diventare un mito per i suoi tifosi che infatti lo chiamavano “Il Campionissimo”, “El conductor de emocion” e anche per i sostenitori della principale casa avversaria, la Mercedes,  che lo definivano con malcelata rabbia “Der Teufel”, il Diavolo. Ferdinand Porsche, uno che di auto se ne intendeva e che era libero, se non dagli interessi economici, dalla febbre del tifo, lo definì “Il miglior pilota di ieri, di oggi e di domani”.

background_image_20150526182145-39-2015426173822_1-2560x1250Il Mantovano Volante corse in 25 anni di carriera 353 gare, vincendone 107 e realizzando 99 giri veloci. Stabilì 5 primati internazionali di velocità e conquistò 7 titoli di campione d’italia. Non male per uno che quando era”autiere”, cioè autista di autoambulanze della Croce Rossa e delle vetture degli ufficiali durante il servizio di leva, era finito fuori strada rimediando dai superiori una solenne lavata di capo e un invito a lasciar perdere la guida.

Nivola era molto amato anche dai “grandi” dell’epoca. Mussolini a sua volta lo ricevette a Villa Torlonia. Gabriele D’Annunzio lo invitò al Vittoriale, del quale era normalmente assai geloso e gli regalò una tartaruga d’oro recante la scritta “all’uomo più veloce l’animale più lento”. Il Mantovano Volante fece stampare questa dedica sulla sua carta da lettere personale e sulla fiancata del suo aereo.

Tazio Nuvolari, “Nivola” per gli amici, divenne grazie ai suoi successi uno dei principali testimoni della rinascita economica e sportiva italiana assieme personaggi come Bianchi, Agnelli e Ferrari. Quando gli effetti della depressione del 1929 cominciarono a farsi sentire anche in Italia il ruolo di Tazio fu fondamentale anche per sostenere alcuni marchi di autovetture che risentivano delle difficoltà del momento. Nel 1935 il periodo d’oro dell’Alfa Romeo stava finendo a causa soprattutto dei grandi investimenti di Mercedes e Auto Union, le case automobilistiche concorrenti. Per abbattere le corazzate tedesche nelle gare e quindi anche sul mercato era necessario escogitare qualcosa di nuovo. Mussolini spingeva perchè l’Italia emergesse anche in campo automobilistico. In una riunione di lavoro Enzo Ferrari, al tempo direttore del reparto corse dell’Alfa Romeo e il suo ingegnere capo Bazzi svilupparono un’idea, quella di dotare la normale auto da gara, la P3, di due motori, uno davanti ed uno dietro al pilota, gestiti da un unico albero e da un unico motore. Era nata la cosiddetta Bimotore, una “balena” pesante circa 13 quintali. Il suo guidatore non sarebbe stato uno dei due piloti del team, Rene Dreyfus e Louis Chiron, ma Tazio Nuvolari, l’unico che si riteneva fosse capace di domarla e che in quel momento era un pilota Maserati. Si racconta che fu Mussolini stesso a chiedere al Mantovano Volante di tornare all’Alfa Romeo. Nuvolari alla fine si decise, anche se al grande passo fu spinto, più che dal Duce, dalle insistenze di Ferrari. L’auto dimostrò presto però alcuni problemi strutturali legati al peso eccessivo e conseguentemente alla sua stabilità. I risultati non furono per niente incoraggianti e lo stesso Nuvolari ben presto capì che non era il caso di sviluppare oltre il progetto. Dato il clamore suscitato dalla nuova  macchina e le spese pubblicitarie sostenute non era però possibile abbandonare il progetto senza ottenere un qualche risultato positivo e fu così che saltò fuori l’idea di tentare di battere il record di velocità sul chilometro lanciato appartenente in quel momento ad Hans Stuck con 317 km orari.

È a questo punto che la storia sportiva di Nuvolari incontra le strade della Toscana. La bimotore, per tentare il record, venne infatti portata sulla Firenze-Mare, nel tratto Lucca-Altopascio, ritenuto molto adatto al tentativo, il 15 giugno 1935. La prova si doveva svolgere il giorno precedente, ma era stata posticipata a causa del forte vento. La situazione atmosferica non era molto migliorata e infatti la Bimotore uscendo da sotto un ponte venne presa da un turbine di vento e per circa 200 metri il Mantovano Volante ebbe enormi difficoltà a mantenere l’auto in assetto. Alla fine però raggiunse il risultato tanto cercato: 11 secondi e 50/100 sul chilometro lanciato che corrispondono a 323,175 km. Orari. Il recordo di Stuck era caduto nettamente. Nuvolari affermerà successivamente di non aver mai affrontato un pericolo così tremendo come il turbine di vento sopra citato, “nemmeno il giorno in cui presi fuoco a Pau”. Il record del mondo fu anche il canto del cigno della Bimotore, evidentemente incapace di sostenere il ritmo di una gara completa.

Nuvolari morì nel 1953. Il suo corpo fu sepolto con i pantaloni azzurri e la maglia gialla che rappresentavano la sua divisa da gara e con il suo volante preferito. Il feretro venne appoggiato sul telaio di un auto e accompagnato al cimitero da circa 20.000 persone. Sulla sua tomba i familiari hanno posto una scritta che ben rappresenta l’amore del Mantovano Volante per la velocità “Correrai ancora più veloce nelle vie del cielo”.

 

Sitografia:

https://www.motoremotion.it/2015/06/17/nuvolari-a-320-allora/

http://www.repubblica.it/motori/sezioni/classic-cars/2015/02/13/news/ad_oltre_320_km_h_sull_autostrada_firenze-mare-106334094/

https://it.wikipedia.org/wiki/Alfa_Romeo_16C_Bimotore

http://www.tazionuvolari.it/it/cronostoria/43-i-record-di-velocita.html

https://www.blackbird-autojournal.com/features/a-tale-of-two-motors/

http://www.tazionuvolari.it/it/tazio/cronostoria.html

http://www.storiedisport.it/?p=8413

https://biografieonline.it/biografia-tazio-nuvolari

 

Gli immortali – Artisti per sempre (serie TV Sky Arte) di Giorgio Porrà

 

Foto da:

https://www.blackbird-autojournal.com/features/a-tale-of-two-motors/

 




Carlo Ludovico Ragghianti: dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale alla Repubblica

Critico, storico e teorico dell’arte, Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), forse come pochi altri intellettuali della propria generazione seppe unire un’attività culturale, vasta e profonda, a una passione politica altrettanto intensa.

Nato a Lucca da Francesco, geometra di orientamento socialista, e Maria Cesari, Carlo Ludovico Ragghianti poco più che quattordicenne dovette subire, al pari del padre, i soprusi e le prevaricazioni del fascismo locale, venendo coinvolto nel 1924 e nel 1927 in due episodi di bastonatura che ne provocarono l’allontanamento dalla città. L’irrompere della violenza fascista segnò l’avvio del suo impegno politico nel solco di un antifascismo che, sia negli anni di formazione liceale a Firenze (dove conobbe Eugenio Montale) che in quelli universitari presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (dove, sotto la direzione di Giovanni Gentile, avviò i propri studi critici nel solco della tradizione storicistica crociana), non conobbe mai ripensamenti né fu mai condizionato dal dominio culturale e ideologico del fascismo asceso al potere. Dal regime, per via della sua crescente opposizione, vide sbarrarsi l’accesso alla carriera accademica, subendo poi da parte delle autorità di pubblica sicurezza una crescente e continua sorveglianza man mano che andava stringendo, nei suoi frequenti viaggi di studio compiuti in Italia e all’estero, contatti con personalità eminenti della cultura antifascista italiana. Impegnato dalla metà degli anni Trenta in un’intensa attività cospirativa, Ragghianti si preoccupa di mettere in contatto le diverse anime dell’antifascismo liberale, democratico e socialista, in particolare favorendo l’incontro tra il gruppo liberal-socialista di Aldo Capitini e Guido Calogero e il movimento di Giustizia e Libertà (al quale egli stesso si richiama) attorno a un programma concreto e alieno da forzature ideologiche e dogmatismi che egli individua nel nascente Partito d’Azione, alla cui fondazione contribuisce nel dicembre 1941 redigendone assieme ad altri il primo documento programmatico (i Sette punti). Arrestato per la sua attività di opposizione una prima volta a Modena nel marzo del 1942 e tradotto alle Murate di Firenze (dove in soli dieci giorni scrive il Profilo della critica d’arte in Italia), Ragghianti è di nuovo incarcerato nel 1943 a Bologna, per essere definitivamente liberato all’indomani del 25 luglio.

Stabilitosi a Firenze, Ragghianti si rende protagonista dell’azione resistenziale in seno al Partito d’Azione fiorentino e poi entro il Comitato di Liberazione Nazionale (CTLN), di cui diverrà Presidente. Dopo l’8 settembre 1943, assieme a Tristano Codignola, Enzo Enriques Agnoletti e Carlo Furno, Ragghianti cura per il Partito d’Azione la stampa del giornale clandestino La Libertà, entrando inoltre a far parte con Athos Albertoni, Carlo De Cugis e Carlo Campolmi della commissione militare del partito, la quale organizza in città circa 150-200 unità e, con l’obiettivo di costituire gruppi di partito (le future Brigate Rosselli), si occupa di allacciare i primi contatti con le bande che operano sui rilievi del fiorentino e del pistoiese. Sin dai primi di febbraio del 1944, Ragghianti organizza alcuni incontri tra i rappresentanti dei vari partiti antifascisti fiorentini allo scopo di ricostituire il comando militare unico del CTLN, falcidiato a seguito degli arresti compiuti nel novembre precedente dai tedeschi, dovendo però scontare le obiezioni dei rappresentanti comunisti, i quali non acconsentiranno a entrarvi non prima di giugno, quando si uniformeranno cioè alle direttive unitarie stabilite a livello nazionale con la costituzione del Corpo Volontari della Libertà. Sempre Ragghianti, dopo la tragica cattura il 7 giugno a opera dei tedeschi dei componenti il gruppo Co.Ra (il servizio informazioni radio clandestino del partito) si fa carico con altri della riattivazione del servizio di radiocomunicazione che, ripristinato, permetterà di ristabilire contatti logistici con gli Alleati in vista della liberazione. Ancora ai primi di giugno del 1944, Ragghianti redige assieme ad Agnoletti il manifesto, poi reso pubblico alla cittadinanza il 15 del mese, col quale il CTLN annuncia ai fiorentini la mobilitazione generale contro l’occupante nazifascista e rivendica per sé l’assunzione dei poteri di governo provvisorio nel periodo dell’emergenza. Entrato finalmente in funzione, con l’ingresso dei comunisti, il Comando Militare Interpartitico del CTLN (Comando “Marte”), Ragghianti consegna il piano d’attacco per l’insurrezione, alla cui realizzazione aveva collaborato, al nuovo comandante in carica, Nello Niccoli, mantenendo comunque sotto la sua diretta dipendenza, in qualità di commissario di guerra, i servizi radio e di controspionaggio. A consegne avvenute, il 17 giugno, Ragghianti può fare formalmente ingresso nel CTLN in rappresentanza del Partito d’Azione. Ai primi di agosto, dopo che i tedeschi hanno fatto saltare i ponti sull’Arno, Ragghianti assieme a Nello Niccoli ed Enrico Fisher riesce fortunosamente ad attraversare Ponte Vecchio servendosi del corridoio vasariano e a prendere contatto con le avanguardie alleate attestate da alcuni giorni in Oltrarno. Accreditatosi presso di esse in rappresentanza del CTLN, Ragghianti ne assumerà ufficialmente la presidenza la mattina dell’11 agosto, giorno dell’insurrezione, quando il comitato si insedia stabilmente presso Palazzo Medici Riccardi per coordinare sino ai primi di settembre il prosieguo della battaglia per la liberazione di Firenze e indi per dirigere da posizione di forza il lento e accidentato cammino di ricostruzione democratica.

30 agosto 1944 c-compressed

C.L. Ragghianti, “Guerra per la Liberazione Lavoro per la Ricostruzione”, in “La Nazione del Popolo”, 30 agosto 1944

In un suo intervento dal titolo Guerra per la Liberazione, Lavoro per la ricostruzione ospitato sul numero del 30 agosto de La Nazione del Popolo (organo del CTLN) Ragghianti dichiara infatti che il comitato toscano, «come organo rappresentativo del popolo dal quale ha ricevuto il suo mandato», avrebbe continuato a operare sino alla convocazione della Costituente in collaborazione con il governo militare alleato (Amg) e a vantaggio della «convergenza di tutte le forze» interessate alla «ricostruzione morale, politica, civile ed economica della nazione». In tal senso, Ragghianti si poneva in continuità con il disegno politico che sin dalla clandestinità aveva caratterizzato la riflessione e l’attività del CTLN e in particolare del gruppo dirigente azionista che ne esprimeva il vertice politico. Quest’ultimo, infatti, più degli altri partiti antifascisti, aveva sempre attribuito al CTLN la funzione di organo politico rappresentativo della volontà popolare, premendo affinché le autorità alleate ne riconoscessero a liberazione avvenuta tutte le disposizioni prese a favore della riorganizzazione democratica della vita civile (e dunque, in primo luogo, le nomine da esso rese effettive in tutti i principali settori amministrativi locali) e individuassero nel CTLN, piuttosto che nel Prefetto, l’organo abilitato a tenere in periferia i rapporti con l’autorità centrale. A queste prerogative di autogoverno, il gruppo azionista dirigente in seno al CTLN aveva legato altresì l’aspirazione a che il CTLN, dopo la liberazione e fino alla convocazione della Costituente, esercitasse anche funzioni di controllo sul governo dell’Italia libera in tema di assetto politico da dare al paese e a che, in generale, l’esperienza unitaria dei comitati di liberazione potesse costituire l’occasione per un radicale rinnovamento delle strutture tradizionali dello Stato in senso autonomistico e regionalistico.

Ragghianti, dopo la liberazione, si fece appunto interprete di simili istanze, promuovendo in tal senso alcune importanti iniziative. Nell’ottobre del 1944, ad esempio, egli redasse assieme al democristiano Piccioni il testo di un memoriale che una delegazione del CTLN (Ragghianti compreso) avrebbe in seguito portato a Roma per discutere col governo Bonomi e con il Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel quale erano formulate le seguenti richieste: 1) istituzione di una Consulta Nazionale con funzione di indirizzo politico sul governo formata da una rappresentanza di ciascun partito componente i CLN; 2) trasferimento dei poteri dei Prefetti ai CLN provinciali o in subordine partecipazione di questi ultimi alla nomina dei primi; 3) affidamento ai CLN di funzioni proprie di organi regionali nell’ottica di decentramento. Per quanto ciascuna di queste istanze finì per scontrarsi con le tendenze conservatrici di governo e Alleati, per dissolversi poi col ripristino del tradizionale assetto centralistico dello Stato italiano, il caso toscano e fiorentino, non di meno, nonostante gli iniziali attriti di competenza tra Prefetto e CTLN, sanzionò per la prima volta il riconoscimento politico da parte dell’Amg del ruolo di rappresentanza popolare svolto nel quadro dell’emergenza dalle forze antifasciste del CTLN.

Oltre a questo traguardo, sicuramente ricco di implicazioni positive, l’interesse di Ragghianti (al pari di altri) puntava però a obiettivi più ambiziosi e dal valore di più netta rottura rispetto alla precedente articolazione storico-istituzionale nazionale, focalizzandosi in particolare sul terzo punto indicato nel memoriale presentato alle autorità romane. In effetti, Ragghianti accarezzava l’ipotesi che nel nuovo quadro istituzionale dell’Italia uscita dalla guerra il CTLN potesse essere costituzionalizzato alla stregua di un autogoverno politico e amministrativo della regione, individuando preliminarmente nella difficile missione di ricostruzione materiale, sociale e politica postbellica del paese il campo nel quale il comitato (o i vari CLN regionali) avrebbe potuto sperimentare questa sua nuova funzione. L’esempio positivo e concreto del caso fiorentino, in particolare, dove il CTLN aveva lavorato in autonomia ad approntare i piani operativi necessari al ripristino dei servizi e alla ricostruzione del tessuto locale (come era avvenuto ad esempio nel caso del salvataggio e della efficiente riattivazione degli impianti cittadini di erogazione del gas metano della Italgas, successo conseguito grazie a un piano esecutivo promosso da Ragghianti stesso entro il CTLN e oggetto, dopo resistenze iniziali, dell’approvazione e del plauso del governo militare alleato) costituiva per Ragghianti la prova che i CLN erano in grado di esercitare la direzione dell’attività di ricostruzione postbellica, su scala provinciale o meglio regionale, in collaborazione con (se non in totale autonomia da) gli organismi centrali.

In tal senso, per stimolare e coordinare questo compito, Ragghianti già dal novembre del 1944 si era fatto promotore della convocazione di un convegno regionale dei CLN toscani (poi autorizzato a tenersi solo nel maggio 1945 e indi seguito da altri due nel luglio e nel settembre) mentre sin dal 12 di agosto del 1944 aveva delineato su La Libertà il progetto dell’istituzione di un Ente Regionale per la Ricostruzione traendo spunto dal modello dell’Ente per la ricostruzione delle tre Venezie. Quest’ultimo, creato su iniziativa di Silvo Trentin all’indomani della guerra 1915-1918 per provvedere alla ricostruzione delle terre liberate, aveva funzionato nel senso di un ente di autogoverno regionale dotato di funzioni esecutive autonome dal governo centrale. A tale scopo, Ragghianti, sin dal suo primo viaggio compiuto a Roma nel settembre 1944 per prendere contatti col governo, era riuscito a ottenere l’interessamento e l’appoggio del Ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini. Tuttavia, la prolungata opposizione delle autorità militari alleate procrastinò di molto l’attuazione del progetto, rendendo possibile infine non la costituzione di un Ente esecutivo autonomo, ma di un semplice Comitato per la ricostruzione, per di più provinciale. In ogni caso, costituito con decreto prefettizio del 24 aprile 1945 n. 293 e articolato in una giunta esecutiva (presieduta da Ragghianti) e in dodici commissioni per settore di intervento (Ragghianti fece parte come membro della commissione Cultura e arte), a questo Comitato provinciale fu affidato dal CTLN il compito di formulare un piano generale per la ricostruzione della provincia di Firenze.

Sotto la presidenza di Ragghianti, il comitato per la ricostruzione lavorò senza sosta dai primi di maggio alla fine di luglio 1945, quando le conclusioni vennero presentate agli organi centrali superiori. Al contempo Ragghianti, nominato nel giugno 1945 Sottosegretario alla Pubblica Istruzione del governo Ferruccio Parri con delega alle Belle Arti e allo Spettacolo, sfruttando la contemporaneità delle cariche cercò di creare una sinergia tra i ministeri romani e gli sforzi di ricostruzione urbanistica fiorentini affidati al comitato. Forte era, in ogni caso, la volontà di Ragghianti (al pari di altri) di dar prova politica di come il CTLN, tramite il lavoro del comitato provinciale, intendesse accreditarsi come organo dirigente autonomo dell’attività di ricostruzione. Questo, come si è detto, era un aspetto particolarmente caro a Ragghianti, il quale, d’altro canto, già all’interno della “commissione macerie” istituita dagli Alleati tra l’agosto e il dicembre del 1944 aveva cercato di far sì che il team di esperti chiamato con lui a farvi parte (Giovanni Michelucci, Edoardo Detti, Giovanni Poggi, Ugo Procacci e Carlo Maggiora) predisponesse i primi interventi di risanamento edilizio al di fuori o in autonomia dalle ingerenze degli entri governativi. Anche per questo, dopo la nascita del Comitato provinciale, Ragghianti non rinunciò al progetto originario di istituire un Ente regionale con funzioni esecutive autonome, la cui costituzione, tuttavia, sfumò definitivamente in seguito alla caduta del governo Parri.

Oltre dai conflitti di competenza con le autorità alleate e prefettizie sulle funzioni di ricostruzione post-bellica, l’attività di Ragghianti alla guida del CTLN fu investita altresì da una accesa polemica interna alla sezione fiorentina del Partito d’Azione dalla quale provennero chiari segnali di delegittimazione politica e di sanzione nei riguardi del suo operato. Già nell’ottobre del 1944, Ragghianti aveva presentato una prima volta le proprie dimissioni in seguito al voto di biasimo sollevato dall’esecutivo della sezione azionista per aver acconsentito a ricevere a Firenze in visita ufficiale il Luogotenente Umberto II di Savoia. Nel corso di una successiva riunione straordinaria del comitato del partito era stata avanzata su iniziativa di Tristano Codignola l’accusa di irregolarità sulla nomina del critico d’arte alla presidenza del CTLN, carica che – argomentava Codignola – era stata affidata in realtà fin dal luglio 1944 a Enriques Agnoletti e che Ragghianti si era però arrogato quando si era fatto accreditare come tale presso gli Alleati, costringendo indi Agnoletti a compiere un passo indietro onde evitare una crisi politica in seno al CTLN. A Ragghianti, che aveva replicato al Codignola d’esser stato regolarmente indicato alla Presidenza dal partito sin dal giugno 1944 (cfr. Materiale dalle Fonti,), in quella circostanza fu comunque rinnovata la fiducia.

13 giugno 45 a-compressed

La “Nazione del Popolo” del 13 giugno 1945 annuncia il passaggio di consegne alla Presidenza del CTLN tra C.L. Ragghianti e Luigi Boniforti e pubblica la lettera di congedo di Ragghianti.

Tuttavia, una nuova crisi emerse in dicembre nel momento in cui l’avallo dato da Ragghianti alla decisione prefettizia di rimuovere dalla Sezione Provinciale per l’Alimentazione i due commissari nominati in precedenza dal CTLN in rappresentanza dei Partiti comunista e socialista, non trovò sanzione da parte della dirigenza azionista. La scollatura tra Ragghianti e il Partito d’Azione fiorentino si rifletté successivamente in occasione delle elezioni per il rinnovo della direzione di partito che si tennero a partire dal febbraio 1945 e che sancirono l’esclusione di Ragghianti dal comitato esecutivo. Delegittimato, il 3 aprile Ragghianti decise perciò di presentare le dimissioni dalla Presidenza del CTLN, benché l’esecutivo del Partito d’Azione decidesse di congelarle in attesa del completamento della Liberazione del paese (cfr. Materiale dalle Fonti). Le dimissioni infatti vennero ufficialmente accettate dal CTLN solo il 2 giugno successivo. Il 9, Ragghianti passò così le consegne a Luigi Boniforti, congedandosi su La Nazione del Popolo con una lettera carica di riconoscenza per tutti coloro che avevano reso possibile entro il CTLN «lo spirito di unità, di fraterna comprensione, di superamento del necessario dibattito politico in proposte e risoluzioni che hanno avuto per oggetto costante l’interesse generale del popolo».

Gli attriti emersi con l’esecutivo della sezione azionista fiorentina, anziché legati esclusivamente a dissonanze caratteriali con alcune personalità dirigenti (Codignola anzitutto), erano in realtà gli effetti di un progressivo allontanamento politico che Ragghianti aveva compiuto proprio nel corso della lotta di liberazione dalle posizioni liberal-socialiste, maggioritarie nel gruppo azionista fiorentino, per avvicinarsi a quelle di democrazia repubblicana proprie di Max Bauer, Ugo La Malfa e Ferruccio Parri. Questo processo di differenziazione – che in Ragghianti implicava il rifiuto delle derive impresse al partito dalle tesi di Emilio Lussu e dall’interpretazione propria di Codignola del Partito d’Azione come di una forza socialista di nuovo tipo –  in occasione del congresso nazionale del Partito svoltosi a Roma nel febbraio 1946, portò il critico d’arte, assieme ai fiorentini Boniforti, Passigli, Niccoli e Giannattasio, a seguire gli scissionisti del gruppo di Parri e La Malfa entro il Movimento per la Democrazia repubblicana, nelle cui file Ragghianti si candiderà peraltro – ma senza successo –  alle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946.

La mancata costituzionalizzazione delle funzioni di autogoverno regionale sperimentate dal CLN, la caduta improvvisa del governo della Resistenza di Ferruccio Parri, la fine dell’esperienza unitaria del Partito d’Azione – realtà alle quali Ragghianti aveva legato la propria aspettativa di una radicale rigenerazione del paese nel senso di una “rivoluzione democratica” – produssero in lui un crescente disincanto, acuito dal carattere conservatore del nuovo costrutto politico, sociale, economico e culturale sancito dalla nascita dell’Italia repubblicana, incapace, a suo giudizio, di segnare una reale discontinuità col passato regime e di condurre a compiutezza la democrazia nata dalla Resistenza. Lasciata la propria militanza politica per dedicarsi all’insegnamento e a un’appassionata attività di studio e di organizzazione culturale, Ragghianti avrebbe in seguito fornito amare riflessioni sulla compiutezza democratica dell’Italia repubblicana e sulla mancanza di un partito della Sinistra democratica (o meglio di una Terza Forza intesa nel solco della tradizione di Carlo Rosselli come veramente liberale e socialista) in grado di contrastare il progressivo polarizzarsi della vita politica nei due blocchi conservatori e “autoritari” del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Se in un suo libro di riflessioni politiche licenziato alla fine degli anni Settanta Ragghianti sentenziò con estrema amarezza il fallimento delle aspettative resistenziali, arrivando persino a qualificare i «trent’anni di regime repubblicano» come «più o meno eguali ai vent’anni fascisti», non mancò però di sottolineare comunque l’alto valore politico e morale che, nella speranza pur incompiuta di una radicale ristrutturazione democratica del paese, dopo tutto aveva significato l’esperienza autonomista del CTLN:

Firenze, nell’agosto 1944 – scriveva Ragghianti – dimostrò che il Cln, in quanto rappresentante legittimo e riconosciuto della popolazione, poteva imporre ordinamenti che non erano previsti dall’Amg, ordinamenti di autonomia e di poteri molto più ampi e capillari. E furono riconosciuti, sia pure con aspra lotta. (C.L. Ragghianti, Traversata di un trentennio. testimonianza di un innocente, Editoriale Nuova, Milano 1978, p. 16)

Bibliografia di riferimento:

P. Bagnoli, Carlo Ludovico Ragghianti. Il dovere della politica, I e II, in «Nuova Antologia» n. 2254, aprile-giugno 2010 e n. 2255, luglio-settembre 2010.

A. Becherucci, Carlo Ludovico Ragghianti dalla presidenza del CTLN al Movimento per la Democrazia repubblicana, in «Rassegna storica toscana» a. 54, n. 1, gennaio-giugno 2008.

C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1975.

E. Panato, Il Contributo di Carlo L. Ragghianti nella Ricostruzione postbellica, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 2013.

C.L. Ragghianti, Disegno della Lberazione Italiana, Vallecchi, Firenze 1975.

Id., Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della resistenza e della Liberazione, Neri Pozza, Venezia 1954.

Id., Traversata di un trentennio. Testimonianza di un innocente, Editoriale Nuova, Milano 1978.

S. Rogari, Carlo Ludovico Ragghianti, in P.L. Ballini (a cura di), Fiorentini del Novecento, 3, Polistampa, Firenze 2004, pp. 149-159

E. Rotelli (a cura di), La ricostruzione in Toscana dal Cln ai partiti, vol. I, Il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, Il Mulino, Bologna 1980.




Don Milani: ieri, oggi, domani

Sono passati cinquanta anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani, perciò è naturale che siano molte le iniziative, celebrative, pubblicistiche e di ricerca, che, nel corso del 2017, si sono proposte di ricordarne la figura e l’opera e di tracciare un bilancio della sua presenza nella storia recente della Chiesa e della società italiana in un’ottica, finalmente, meno condizionata da quei contrasti ideologici che hanno a lungo caratterizzato l’interpretazione della sua personalità e della sua azione pastorale ed educativa. Grazie ad un  approccio più “storico” alla sua vicenda spirituale, umana e culturale oggi possiamo quindi rileggere con più serenità ed oggettività il ruolo che egli ha svolto nell’arco di quei due decenni del ‘900 (gli anni sessanta e settanta) particolarmente densi di trasformazioni sociali e culturali e complessi dal punto di vista del consolidamento della nostra giovane democrazia.

Il mio ricordo di don Milani, tuttavia, seguirà necessariamente una logica diversa, non storica ma molto soggettiva,  in ragione del legame, emotivo e personale, che sento ancora vivo con la figura di questo prete e con la sua esperienza, perchè esse hanno pesato molto nella mia vita, nelle mie scelte professionali, religiose e politiche.

Documento81-e1427904177742-1024x386

Don ALfredo Nesi con i ragazzi della scuola di Corea (Archivio Fondazione Nesi)

Ho conosciuto don Milani nel 1965. In quell’anno era tornato sulle pagine dei giornali a causa del processo per l’obiezione di coscienza e della famosa “Lettera ai giudici”. Io  insegnavo nella scuola elementare e facevo volontariato nel doposcuola del quartiere Corea di Livorno, dove operava un prete fiorentino, don Alfredo Nesi, amico di don Milani e suo ex–compagno di studi in seminario. Anche lui col pallino della scuola come “strumento di emancipazione sociale per le classi deboli”. Frequentavo anche Pedagogia a Firenze nell’allora Magistero e molto sentivo parlare e discutere  in questi ambienti di Barbiana, di questa scuola diversa da tutte le altre. Perciò, spinta dalla curiosità, chiesi a don Nesi di portarmi con lui in una di quelle  visite periodiche che faceva a Barbiana, insieme a gli studenti della sua “casa” e a qualche collaboratore.

Eravamo all’inizio dell’estate, ma la scuola di don Milani non andava mai in vacanza; trovammo lui ed otto ragazzi fuori, sotto il pergolato, intorno al tavolone. Come sempre accadeva per i nuovi arrivati non c’erano particolari cerimonie: la misura dell’accoglienza corrispondeva alla disponibilità a stare dentro il “programma” che la scuola di Barbiana prevedeva per quel giorno. Ricordo di quella calda giornata di luglio un dom Milani, già malato ed affaticato, intellettualmente spigoloso ed affatto compiacente, imprevedibile nelle argomentazioni, duro e rigoroso nel metodo con cui affrontava ogni problema, ogni spiegazione, ma anche orgoglioso come una chioccia dei suoi ragazzi e di  come lavoravano.

Ricordo quei ragazzi così diversi da quelli “di città” che io conoscevo : diversi nelle domande che facevano, nel modo di lavorare con il libri, di discutere di grammatica e di sintassi, di storia o di astronomia. Così a loro agio in quella “scuola” spartana, lontana dai “programmi” e lontana dal mondo, ma non fuori dal mondo.

Ricordo la scritta “I care”, di cui i ragazzi stessi mi spiegarono la storia ed il significato.

Ricordo di aver cominciato a capire quel giorno che per me “fare scuola” non poteva essere  un mestiere come un altro; era piuttosto una sfida ed un dovere e che sul “come fare scuola” avevo ancora tantissimo da imparare perché le cose che avevo  visto ed ascoltato quel giorno avevano messo in crisi molte delle certezze pedagogiche e didattiche che pensavo di possedere.

don-nesi-I-care

Don Alfredo Nesi a Barbiana (Archivio Fondazione Nesi)

Altre cose le ho capite leggendo, due anni dopo, “Lettere ad una professoressa”; altre ancora le ho capite insegnando per più di trent’anni nel Villaggio scolastico di Corea, le cui scuole hanno sempre cercato di mantenere un legame ideale con Barbiana e l’esperienza milaniana, pur con scelte di contesto diverse (scuola pubblica, insegnanti e programmi “normali”, ecc.).

Sono tornata a Barbiana nel ’70, tre anni dopo la morte del priore, e a maggio 2002 con tanti amici provenienti da ogni parte d’Italia in quella iniziativa, che da allora si ripete ogni anno, che non solo vuole ricordare la figura straordinaria di questo “educatore atipico”, ma vuole soprattutto dire, con la forza che viene dai simboli, che la scuola italiana di oggi e di domani, la scuola di un paese democratico ha lì una delle sue radici più vitali, da lì deve ancora trarre molto della propria identità.

Infatti ancora oggi la domanda è: cosa  resta di quella esperienza? cosa di quella idea di “scuola” è bene tenere vivo per l’oggi e per il domani? (visto che alcuni di questo prete dissero: “don Milani è più per domani che per oggi” e che lui stesso diceva di sé di essere “appassionatamente attento al presente ed ancor più al futuro” ).

Certo non il modello organizzativo; quella di Barbiana era una scuola non riproducibile ed anche un po’ assurda: 12 ore al giorno per 365 giorni; tutto in comune letture, pensieri, incontri… con un rapporto tra insegnante ed allievo del tutto particolare e nessuna distrazione rispetto a quello che era l’obiettivo fondamentale e totalizzante: imparare per essere liberi, passando attraverso una disciplina severa, uno studio ininterrotto. E tutto questo non evitava le bocciature perché quando andavano a fare gli esami nelle scuole “normali” spesso i ragazzi di Barbiana facevano fiasco. Hanno saputo scrivere collettivamente “Lettera ad una professoressa” ma di fronte al titolo “Davanti ad un’edicola” non riuscivano a scrivere uno straccio di “tema”…

Sicuramente, invece, vanno tenute vive le sfide culturali, piuttosto che pedagogiche su cui  quella scuola aveva scelto di cimentarsi. Prima fra tutte, ed anche  la più chiara e provocatoria, quella di essere strumento per liberare le coscienze. Siamo abituati a intrattenerci con molte definizioni di educazione, di formazione, di scuola che aggiorniamo via via, in cui però i termini “libertà” e “coscienza” sono elusi o minimizzati. “La buona scuola è quella che rende tutti uguali…”- diceva don Milani – ma dove sta  la misura dell’uguaglianza se non nella liberazione per ciascuno dai condizionamenti  sociali, economici,culturali, religiosi, consumistici, ecc. in modo che la coscienza personale possa esprimere fino in fondo il suo primato e ciascuno sia e si senta cittadino a pieno titolo di questo paese?”

Sta scritto anche nella nostra Costituzione che questa è la funzione della scuola, ma a distanza di 70 anni dalla sua proclamazione e a 50 dalla morte del priore, vedo ancora tanto bisogno di affermarlo e, quasi, di gridarlo.

don Milani

Don Milani a Barbiana

Un’altra sfida che il priore ci consegna è quella delle periferie. Il suo modo di essere uomo e  credente lo hanno portato inesorabilmente verso le “periferie” della società del suo tempo: periferie fisiche (S. Donato, Barbiana), e soprattutto periferie sociali e culturali (i lavoratori, contadini, gli analfabeti, i senza parola). La scoperta della scuola, della potenza della scuola avviene per lui in questi contesti così come lì matura la convinzione che il “sapere” è l’unico viatico con cui trarsi fuori dalla condizione di marginalità, di subalternità: uscirne insieme, perché questo è la politica.

Quali sono oggi le nostre periferie in cui  stanno i senza parola? Alcune sono facili da vedere (una per tutte: gli stranieri) altre sono più difficili da individuare, in un tempo in cui sembrano prevalere apparenti omologazioni, tutti sembrano uguali eppure mai come oggi sono forti le diversità, sono nuove e terribili le ingiustizie.

Una terza sfida è quella della parola. L’attenzione alla parola, ai linguaggi, alla comunicazione è stata centrale in tutta la pedagogia milaniana. Era quasi maniacale l’insistenza con cui sezionava quasi ogni parola, nella sua etimologia, nelle trasformazioni, nei significati, nelle sfumature, trasmettendo ai suoi ragazzi la consapevolezza che la parola è tutto ed esserne padroni è la chiave che apre ogni porta. Questo aspetto dimostra la grande modernità culturale di don Milani, che già negli anni ’60 aveva compreso il ruolo e l’importanza della comunicazione nella nostra società e come essa sarebbe potuta diventare, anche  in modo subdolo, la nuova padrona delle coscienze individuali.

Che ne è oggi della parola, nella nostra scuola e nella nostra società dove il numero degli “analfabeti di ritorno” si conta a milioni, nonostante che ormai quasi tutti abbiano frequentato la cosiddetta “scuola dell’obbligo” ed anche oltre ?

Fosse solo per questi tre elementi, la lezione di don Milani  conserva una grande attualità e non può che essere motivo di seria riflessione sia per chi fa scuola che per chi fa politica.




Piero Calamandrei: “la Costituzione che cammina”

Piero Calamandrei: “la Costituzione che cammina”. In questo epiteto calzante coniato nei primi anni Cinquanta del secolo scorso da alcuni suoi allievi e studenti fiorentini, si può ritrovare riassunta tutta l’autorevolezza morale, etica e politica che Calamandrei – giurista, docente universitario e politico (Firenze, 1889-1956) – seppe incarnare nei difficili e turbolenti anni di transizione dal fascismo all’Italia repubblicana. Forniva argomenti a questo popolare giudizio anzitutto il ruolo determinante avuto da Calamandrei entro l‘Assemblea Costituente nel contribuire all’elaborazione della carta costituzionale repubblicana, la quale, dell’apporto teorico del professore fiorentino, risultò poi influenzata in un gran numero di questioni, quali quelle inerenti la forma di governo, i diritti sociali, il ruolo dei partiti, i rapporti fra Stato e Chiesa, i temi della famiglia e dell’indissolubilità del matrimonio, infine l’assetto dell’ordinamento giudiziario. A ulteriore conferma del ruolo fondamentale giocato da Calamandrei nella sistemazione della carta costituzionale, c’era poi da annoverare l’indefesso impegno da lui profuso tra il 1948 e il 1956 nel difendere e diffondere con un numero impressionante di articoli, saggi, discorsi e conferenze il significato e l’importanza di quella stessa Costituzione, ancora in parte inattuata. Due momenti centrali, questi, del più vasto impegno civico e pubblico che Calamandrei portò avanti per tutto il primo decennio del dopo Liberazione nell’immaginare, sostenere e diffondere quell’idea nuova e più autentica di Italia che era scaturita dalla Resistenza e dall’esperienza costituente.

20171031_115850-min

Il numero monografico de “Il Ponte” dell’aprile-maggio 1955 dedicato alla Liberazione

Non si può non ricordare in tal senso il contributo intellettuale prestato con Il Ponte, la prestigiosa rivista da lui fondata a Firenze nell’aprile del 1945 nel tentativo di ristabilire al di sopra della voragine fascista una continuità spirituale nella storia d’Italia che, quasi riproponendo in pubblico quello che era stato un percorso privato e interiore di Piero, puntava idealmente a unire assieme il Risorgimento alla Resistenza e la Resistenza alla Costituzione. Un intreccio, questo, maturato attraverso un percorso biografico non lineare e pieno di risvolti, ma comunque coerente e meditato, che dall’originaria eredità familiare risorgimentale (quella “antagonista” mazziniana e radicale ricevuta dal padre Rodolfo e quella “patriottico-interventista” vissuta dallo stesso Piero, volontario nel ’15-’18), si era poi dipanato attraverso le delusioni del primo dopoguerra e le difficoltà dell’esperienza antifascista (un antifascismo nel suo caso «non certo eroico», perché speso lontano dalla clandestinità e dall’esilio patiti invece da compagni di lotta quali Salvemini o i fratelli Rosselli, ma comunque vissuto per sua stessa ammissione in modo «costante e senza incertezze», nonostante il giuramento prestato come professore universitario nel 1931 e la tanto discussa partecipazione nel 1939 alla riforma del codice di procedura civile) approdando infine come tappa decisiva alla Resistenza, esperienza da Piero non vissuta direttamente sul campo, ma scoperta e abbracciata idealmente nel 1944 grazie anche al contributo del figlio Franco, gappista nella Roma occupata.

Della Resistenza, d’altra parte, Calamandrei comprese presto l’alto valore morale di rigenerazione nazionale e il suo carattere di cesura in vista di un nuovo regime di libertà, legalità e giustizia, vivendola e sentendola perciò – secondo il giudizio che ne diede Ferruccio Parri – «con una passione più forte, più ansiosa che se avesse potuto parteciparvi» (Il Ponte, ottobre 1956). L’esperienza resistenziale, quindi, come momento di rottura e di riscatto dalla dittatura fascista e dall’oppressione straniera, ma anche come occasione con cui sostanziare in senso rivoluzionario la nascita di quel nuovo e atteso ordinamento costituzionale democratico e repubblicano che, spezzando ogni continuità col decaduto regime monarchico-fascista, Calamandrei vide in parte già prefigurato nella funzione di governo rivoluzionaria dei CLN e sancito per la prima volta de jure nella “costituzione provvisoria” del d.d.l. n. 151 del 25 luglio 1944, col quale il governo dell’Italia libera aveva affidato a una Costituente democraticamente eletta da convocarsi a guerra finita la definizione del futuro assetto istituzionale del paese.

Le grandi speranze nutrite da Calamandrei nella Costituente stavano appunto nell’attesa di poter tradurre in «formule giuridiche» e in un «programma legalitario di rinnovamento democratico» i valori di libertà e eguaglianza per i quali si erano impegnati tutti gli uomini liberi che avevano combattuto durante la lotta contro l’oppressione straniera e la dittatura fascista. Ciò secondo un progetto di democrazia che negli intenti di Calamandrei avrebbe dovuto essere non solo “politica” ma sempre più convintamente “sociale”. Il liberalismo di Calamandrei, grazie anche all’adesione al liberalsocialismo di Calogero e Capitini e al socialismo liberale di Rosselli, aveva infatti assunto negli anni di guerra venature sociali, di modo che in lui «liberalismo» e «socialismo», «libertà individuale» e «giustizia sociale», «diritti politici» e «diritti sociali» erano divenuti un problema solo. Se per Calamandrei gli inalienabili diritti di libertà civile e politica sanciti dalla Rivoluzione americana e francese avrebbero fornito ancora le garanzie attraverso le quali ogni persona avrebbe potuto affermare la propria dignità partecipando in regime di libertà alla lotta politica e alla formazione delle leggi, era però adesso indispensabile inserire tra questi diritti di libertà anche l’affermazione di un minimum di benessere economico, senza il quale – era convinto Calamandrei – i cittadini non avrebbero potuto effettivamente esplicare la propria individualità morale né partecipare attivamente al regime di libertà promesso loro dai tradizionali diritti di libertà politica. Oltre a questi ultimi, dovevano perciò essere garantiti anche diritti di libertà economica (quali il diritto alla casa, allo studio, al lavoro, alla salute, in una parola la libertà dalla miseria) che come conquiste del nuovo ordinamento uscito dalla guerra Calamandrei voleva iscritti nel programma della futura costituzione repubblicana «come affermazioni di diritti insopprimibili al pari di quelli scritti nelle Costituzioni sorte dalla Rivoluzione francese» (P. Calamandrei, Libertà e legalità, 1944).

La vera «prova del fuoco» della Costituente, per Calamandrei sarebbe stata perciò quella di riuscire a tradurre in realtà la proclamazione di questi diritti sociali mediante l’avvio di immediate e profonde riforme strutturali che mutassero in senso più egualitario il tradizionale assetto economico e sociale del paese, il che avrebbe fatto della Costituente «il prologo di una rivoluzione sociale» ancora da venire e della Costituzione il programma di una rivoluzione promessa (Id., Costituente e questione sociale, 1945). La passione con la quale Calamandrei, dopo esservi stato eletto nel giugno 1946 in rappresentanza del Partito d’Azione, operò in sede di Assemblea Costituente affinché le norme programmatiche in discussione, se non proprio dar subito adito a riforme strutturali economiche e sociali, quanto meno fossero in grado di indicare in modo nitido e con lungimiranza la via con la quale conseguire “di fatto” nell’immediato avvenire le agognate libertà individuali politiche e sociali, dovette però scontrarsi come noto col compromesso, «molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani, e quindi poco lungimirante», raggiunto tra la DC e i partiti social-comunisti attorno alla necessità di rimandare il varo delle riforme strutturali e l’attuazione delle norme programmatiche a uno scenario non prossimo, passibile di divenire sine die. Questo compromesso, che tradiva le aspettative di sostanziale eguaglianza sociale scaturite dalla Resistenza, finiva per dare a molti istituti previsti dalla Costituzione un certo carattere di approssimazione e genericità, soprattutto laddove la proclamazione con formule linguistiche assertive dei diritti individuali politici, civili e sociali contenuti nella prima parte del progetto di Costituzione più che a vere norme giuridiche azionabili e sanzionabili veniva affidata a precetti morali, programmi e propositi «camuffati da norme giuridiche», ma che tali non erano. Intervenendo nella discussione sul Progetto di Costituzione presentato all’Assemblea il 4 marzo 1947, a riguardo di quegli articoli che asserivano di garantire a tutti i cittadini il diritto al lavoro, alla salute, alla pari dignità sociale, all’istruzione, si domandava preoccupato Calamandrei con uno sguardo all’Italia di allora:

Quando io leggo questi articoli e penso che in Italia in questo momento, e chi sa per quanti anni ancora, negli ospedali – parlo degli ospedali di Firenze – gli ammalati nelle cliniche operatorie muoiono perché mancano i mezzi per riscaldare le sale, e gli operati, guariti dal chirurgo, muoiono di polmonite; quando io penso che in Italia oggi, e chi sa per quanti anni ancora, le Università sono sull’orlo della chiusura per mancanza dei mezzi necessari per pagare gli insegnanti, quando io penso a tutto questo e penso insieme che fra due o tre mesi entrerà in vigore questa Costituzione in cui l’uomo del popolo leggerà che la Repubblica garantisce la felicità alle famiglie, che la Repubblica garantisce salute ed istruzione gratuita a tutti, e questo non è vero, e noi sappiamo che questo non potrà essere vero per molte decine di anni, allora io penso che scrivere articoli con questa forma grammaticale possa costituire, senza che noi lo vogliamo, senza che noi ce ne accorgiamo, una forma di sabotaggio della nostra Costituzione! (Id., Chiarezza nella Costituzione, 4 marzo 1947).

La mancata chiarezza di alcune parti del progetto di Costituzione rischiava per Calamandrei di portare al «discredito delle leggi» e all’«incertezza del diritto» che erano stati i tratti distintivi della «falsificazione della legalità» operata dal fascismo. Tuttavia, la disincantata mestizia con la quale Calamandrei constatava la rinuncia della Costituente a introdurre subito le agognate riforme strutturali in forza di una più lenta trasformazione socio-economica da affidarsi ai meccanismi della democrazia parlamentare, non gli faceva però dimenticare che la Costituzione (approvata nella sua forma definitiva nel dicembre 1947 e da Calamandrei totalmente apprezzata per la sua alta qualità etico-politica) tracciava la via con la quale i governi nazionali negli anni a seguire avrebbero potuto attuare con l’attività legislativa ordinaria quei punti programmatici in fatto di riforme socio-economiche delineati nella carta. Riassumeva questo punto il passo di un discorso (non datato, ma antecedente al 1955) intitolato Significato sociale della Costituzione che in quegli anni Calamandrei aveva tenuto agli operai delle Officine Galileo di Firenze:

Occorre procedere a quella trasformazione economica della società che renda possibile la soddisfazione dei diritti sociali. Questo si può fare a caldo, con una rivoluzione violenta, come avvenne in Russia. Ma questo si può fare [anche] a freddo, con una lenta trasformazione democratica. La nostra costituzione ha scelto la seconda via (democrazia parlamentare, pluralità dei partiti, alternanza al potere). Ma scegliere la seconda via, che vuol dire andar piano, ma andare, non vuol dire star fermi. Vuol dire che bisogna fare leggi (che non poté fare la Costituente) ispirate a questo programma di rinnovamento sociale contenuto nella Costituzione. [Una] Costituzione rivoluzionaria nel fine, ma democratica nei metodi […] (ISRT, Archivio P. Calamandrei, 11.3.3).

Ma alla data in cui scriveva queste parole, il programma di rinnovamento sociale racchiuso nella Costituzione era ancora incompiuto. Con l’avvio dell’esperienza centrista e il successo elettorale riportato alle politiche del 1948, la maggioranza a guida DC, infatti, anziché procedere sulla strada dell’adempimento costituzionale aveva deliberatamente deciso di lasciare incompiuti molti aspetti della Carta. Non solo – lamentava Calamandrei – il governo non si era posto sulla strada delle riforme strutturali che avrebbero tradotto “di fatto” le norme programmatiche indicate nella prima parte della Costituzione, ma peggio esso si era deliberatamente astenuto dal portare a compimento anche il varo di quegli strumenti costituzionali di garanzia indicati nella parte organizzativa della Carta (la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, il referendum, l’ordinamento regionale …) che la Costituente aveva potuto solo delineare affidandone l’esecuzione alla prima legislatura repubblicana: «il governo», lamentava nel 1951 Calamandrei su Il Ponte, «non vuole che la Costituzione sia compiuta; non vuole che entrino in funzione gli strumenti per farla rispettare, perché sa che lo costringerebbero a rispettarla» (P. Calamandrei, La Festa dell’Incompiuta, 1951).

L’«incoscienza costituzionale» della classe di governo, che avrebbe fatto della prima legislatura repubblicana (1948-1953) il «quinquennio dell’inadempimento costituzionale», per Calamandrei era il segno del palese tradimento dello spirito di cooperazione democratica lasciato in eredità dalla Resistenza a vantaggio di un progetto di governo a guida DC che il Nostro vedeva assoggettato a una volontà di mera dominazione, come ben esemplificavano il fenomeno dell’ostruzionismo parlamentare di maggioranza e il varo della legge elettorale del 1953, o “legge truffa”, che modificava sostanzialmente il principio di rappresentanza proporzionale sancito nella Costituzione. Se il cospicuo premio di maggioranza previsto dalla nuova legge elettorale, prova per Calamandrei di scorrettezza costituzionale, alle elezioni del 7 giugno di quell’anno non scattò, fu anche grazie all’apporto in fase di campagna elettorale assicurato dall’esiguo ma battagliero gruppo di Unità Popolare, di cui il professore fiorentino era stato uno dei fondatori. Contro la strumentale polarizzazione politica di quelle consultazioni giocate tra comunismo e anticomunismo e il ricatto elettorale incentrato dalla DC sulla minaccia del «doppio terrore» “rosso” e “nero” (ma in realtà superato nella pratica dalle preoccupanti aperture di credito elettorale concesse in chiave anticomunista dalla DC alla Destra e persino a figure del vecchio fascismo) Calamandrei vide nel fallimento di quell’esperimento di ingegneria elettorale un segno di speranza per la ripresa dell’originario slancio riformatore dei partiti antifascisti, nello spirito che era stato proprio della Resistenza (Id., La Resistenza ha resistito, 1953). Rinasce così in Calamandrei la fiducia che la Costituzione riprenda il suo cammino interrotto e si intensifica perciò il suo impegno personale contro il «disfattismo costituzionale» della maggioranza, contro il tradimento politico della Resistenza, contro lo spirito di «desistenza» che incarna la sfiducia nella libertà e il ritorno del passato autoritario, e infine per l’affermazione della giustizia sociale: tutti aspetti di una sola battaglia in difesa del dettato costituzionale.

20171031_122242-min

Il resoconto della manifestazione organizzata al teatro Brancaccio apparso su “L’Unità” del 24 dicembre 1954 con al centro la foto di Calamandrei

Contro il progetto di “democrazia protetta” tentato nei primi anni Cinquanta dai governi centristi per “blindare” la Repubblica e restringere con norme ad hoc improntate a una sorta di “maccartismo italiano” la legittimità delle forze comuniste (come nel caso delle misure varate nel dicembre del 1954 dal DC Mario Scelba), Calamandrei insorge, condannando la limitazione dei diritti civili e politici per categorie di cittadini disposte discrezionalmente sulla base dei loro orientamenti politici e contrarie perciò ai principi di eguaglianza sanciti dalla Costituzione. Il 19 dicembre del 1954, Calamandrei interviene così a una manifestazione organizzata da Unità Popolare a Roma al teatro Brancaccio stigmatizzando le norme “anticomuniste” scelbiane e paventando il timore che esse potessero degenerare in vere e proprie liste di proscrizione su base politica.

Analogo impegno Calamandrei ripose negli stessi anni nel contrastare l’impiego frequente da parte dei governi centristi di dispositivi normativi appartenuti al regime fascista e colpevolmente rimessi in condizioni di operare. In particolare, contro il frequente utilizzo dell’art. 113 della legge di polizia del 1931 da parte del Ministro dell’Interno Scelba (dispositivo impiegato peraltro contro quei lavoratori che manifestavano per rivendicare i diritti al lavoro garantiti dalla carta costituzionale) Calamandrei invocava la necessità di «mantener fede alla Costituzione», la quale all’articolo 16 delle disposizioni transitorie (articolo proposto alla Costituente proprio da Calamandrei) aveva disposto entro un anno dall’entrata in vigore della carta la revisione delle «precedenti leggi costituzionali che non siano state finora esplicitamente o implicitamente abrogate» (Mantener fede alla Costituzione, 1950). Al Ministro DC della Pubblica Istruzione Giuseppe Ermini, Calamandrei contestò invece nel 1955 l’imposizione, sulla base di un decreto del 1935, di una preventiva autorizzazione ministeriale per lo svolgimento di congressi scientifici o internazionali da tenersi in Italia, un disposto, argomentava Calamandrei, contrario agli articoli 17 e 33 della Costituzione che sancivano la libertà di riunione e la libertà della scienza e che riportava perciò in auge lo spirito autoritario del defunto regime, quando «la cultura era non una libertà, ma una concessione» (La libertà della cultura nel decennale della Liberazione, 1955).

20171030_165911-min

L’articolo di Calamandrei “La disgrazia di essere innocenti” con cui propone un’assicurazione obbligatoria per la riparazione degli errori giudiziari (“Il Mondo” 29 settembre 1953)

Anche l’azione portata avanti da Calamandrei nella pratica forense, oltre che a difendere l’eredità dell’antifascismo e della Resistenza dagli attacchi giudiziari condotti contro alcuni suoi esponenti (Calamandrei fu tra l’altro patrono di parte civile nel processo per l’uccisione dei fratelli Rosselli e difensore di Ferruccio Parri al processo di appello da questo intentato contro le calunnie ricevute nel 1948 dal periodico «Il Merlo giallo»), era volta a contrastare le carenze normative costituzionali di alcuni procedimenti giudiziari spesso lesivi dei diritti civili degli imputati (come nel caso, ad esempio, del noto procedimento del 1953 contro i giornalisti Guido Aristarco e Renzo Renzi arrestati e processati per vilipendio alle forze armate o come in quello del 1956 svoltosi a Palermo contro l’intellettuale pacifista Danilo Dolci reo d’aver organizzato uno sciopero alla rovescia; tutti difesi da Calamandrei). Contro le conseguenze di procedimenti giudiziari viziati dal permanere di dispositivi normativi carenti sul piano costituzionale, Calamandrei propose l’idea di istituire una assicurazione obbligatoria contro gli errori giudiziari, anche qui in ottemperanza all’articolo 24 della Costituzione che aveva demandato al legislatore il compito di stabilire modi e mezzi con i quali procedere alla riparazione.

Decisivi nella campagna per l’attuazione costituzionale condotta da Calamandrei furono poi i suoi reiterati appelli alla nomina della Corte Costituzionale, il principale «strumento di progresso e trasformazione sociale secondo il programma della Costituzione» che la Carta aveva previsto ma che non era stato ancora attuato. Dopo l’insediamento dell’organo nel 1955, nel marzo 1956, col suo articolo Bonifica costituzionale, Calamandrei indicava la strada che la Corte, in vista del suo primo atto, avrebbe dovuto imboccare, a cominciare dall‘abrogazione di quei residui della legislazione fascista che, come la legge di polizia, minacciavano il pieno godimento dei diritti fondamentali garantiti dalla Repubblica. Tre mesi dopo, esultando per la prima sentenza della Corte con cui veniva cancellato il famigerato art. 113 del testo di polizia fascista, Calamandrei, dopo anni di immobilismo costituzionale, per la prima volta poté ammettere: «la Costituzione si è mossa» (Id. La Costituzione si è mossa, 1956).

A corollario di questo impegno nella difesa e nella attuazione della Costituzione sta altresì la partecipazione di Calamandrei per tutti i primi anni Cinquanta a un numero altissimo di incontri, conferenze, seminari indetti in diverse città e comuni della penisola da associazioni, istituti scolastici e università e volti alla promozione dei valori e del significato del testo costituzionale. Il dinamismo e la passione con i quali Calamandrei intervenne a ciascuna di queste iniziative per parlare a folle di studenti, operai e cittadini fecero di lui senza dubbio l’intellettuale al tempo più impegnato sul fronte costituzionale. Tra i molti appuntamenti, vale la pena ricordare il ciclo di conferenze dedicate alla Costituzione per i “Sabati dello Studente” dell’Università degli Studi di Firenze, da Calamandrei stesso inaugurato nel 1955. Come pure, la serie di sette conferenze sulla Costituzione organizzate da Unità Popolare alla Società Umanitaria di Milano, la cui lezione inaugurale fu tenuta da Calamandrei il 26 gennaio 1955 in una sala gremita di circa 400 studenti. Il Discorso sulla Costituzione da lui pronunciato (destinato poi ad avere larga circolazione, anche grazie alla successiva distribuzione nel 1960 come 33 giri per la Collana Letteraria della Cetra) si rivolgeva fiducioso ai giovani perché contribuissero a tener viva anche per le generazioni future quella carta costituzionale che – avvisava Calamandrei – come una macchina «perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità». Se per Calamandrei la democrazia era anzitutto «conquista di chiarezza», «sforzo di intelligenza e di coscienza morale» (Id., Il palio dei furbi, 1953), allora, contro l‘indifferenza politica e il conformismo del tempo, la coscienza dei giovani – da lui definita in passato la «fucina sempre accesa dell’eresia e dell’anticonformismo» (Id., Tre generazioni di studenti, 1955/1956) – gli appariva speranza sufficiente per continuare a conseguire e mantenere in futuro una democrazia autentica e sempre operante.