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Heinz Battke: pittore antinazista, ufficiale tedesco, collaboratore dei partigiani fiorentini.

1 – “Post factum”:

Alla metà di aprile del 1944 un grande ciclo di rastrellamenti scatenato dai comandi nazifascisti colpì i principali rilievi del fiorentino, da Monte Morello, al Mugello, da Monte Giovi ai monti del Casentino e dell’Appennino tosco-romagnolo. Negli stessi giorni, alcune delle principali bande partigiane fiorentine, che su quei monti erano nate all’indomani dell’8 settembre 1943, erano impegnate in un complicato trasferimento in direzione del Monte Falterona, al confine delle provincie di Firenze, Arezzo e Forlì, dove, stando agli ordini ricevuti, avrebbero dovuto dare luogo assieme alle formazioni romagnole  a una grande concentrazione partigiana. Ignare di quanto stava accadendo, nel corso del trasferimento queste bande incapparono nel grande rastrellamento nemico e, attaccate, finirono con lo sbandarsi.

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Heinz Battke, rocce sopra Vallombrosa. Stampa a mano, 1941 (GALERIE HANNA BEKKER VOM RATH, Francoforte sul Meno)

Un gruppo eterogeneo di partigiani appartenenti a varie formazioni che il rastrellamento aveva disperso (tra i quali gli uomini di una banda agli ordini del sottotenente Gino Volpi) trovò riparo in un rifugio sul Monte Secchieta al confine tra le province di Firenze e di Arezzo. La mattina del 16 aprile, un battaglione della 92° Legione della GNR di Firenze rimpinguato con altri militi repubblichini e qualche militare tedesco, partendo dal Passo delle Consuma raggiunse il rifugio in Secchieta e, dopo aver eleminate le sentinelle partigiane, ingaggiò un duro scontro col gruppo del Volpi. La sparatoria si protrasse per circa un’ora, fintanto che quest’ultimo, ferito, non ordinò il ripiegamento dei suoi. I partigiani, rotto l’accerchiamento, si diedero così ad una fuga disordinata nei boschi circostanti. Sette di loro restarono a terra senza vita sul luogo dello scontro, mentre alcuni dei fuggitivi vennero catturati e tradotti a Firenze: due di essi, in seguito, vennero fucilati e il resto deportato in Germania da dove solo in tre avrebbero fatto ritorno.

Tra coloro che riuscirono a fuggire dallo scontro vi era anche un partigiano diciottenne nativo di Rignano sull’Arno: Elio Palai detto “Franco”. Ferito gravemente all’addome da un proiettile, Palai riuscì a filtrare comunque attraverso le maglie dell’accerchiamento nemico fino a raggiungere l’abitato di Vallombrosa, nel comune di Reggello. Qui, il giovane chiese prima aiuto alla titolare del locale ufficio postale e poi bussò alla porta del Villino Medici, una pensione-ristorante appartenuta alla vicina Abbazia di Vallombrosa e allora gestita dalla famiglia Cerchiarini. Palai trovò l’ospitalità del padrone di casa e di alcuni inquilini che cercarono di prestargli le prime cure tenendolo nel contempo nascosto ai militi fascisti che, avendo saputo del giovane fuggitivo, lo stavano cercando per tutto il paese. Le condizioni di quest’ultimo erano serie e parve evidente a tutti che l’unica possibilità di salvarlo era quella di condurlo al più presto a Firenze per sottoporlo a un intervento chirurgico d’urgenza. L’impresa, con il rastrellamento che imperversava tutt’intorno, pareva improbabile quanto rischiosa.

Tra coloro che in quella circostanza si fecero avanti, una figura in particolare si distinse per abnegazione e spirito di sacrificio, non fosse altro per via della sua particolare identità. Rientrato da poco al Villino Medici dalla sua camminata mattutina, a prendere l’iniziativa nel tentativo di salvare Palai fu Heinz Battke, un pittore tedesco quarantaquattrenne nonché ufficiale della Wehrmacht congedato nel 1942 per ragioni di salute, il quale in quei mesi si trovava in convalescenza proprio a Vallombrosa. Come è possibile ricostruire dagli atti di un processo giudiziario che nel dopoguerra si tenne presso la Corte d’Assise Straordinaria di Firenze contro i responsabili del rastrellamento in Secchieta, Battke, senza perder tempo, fece chiamare al telefono un autista fidato, tale Angelo Bettini detto “Ciaccherino”, perché si portasse con la sua auto presso il Villino. Dopodiché, caricato il ferito, partì alla volta di Firenze. Lo stesso Battke, sentito il 10 aprile 1946 dal giudice istruttore fiorentino, avrebbe riferito in che modo egli poté pensare allora di eludere il serrato controllo stabilito sulle vie di circolazione da parte delle truppe rastrellanti: «Il Palai venne quindi condotto nella notte a Firenze in una macchina dove io presi posto in divisa di ufficiale tedesco per passare attraverso i vari blocchi stradali»[1]. Anche il proprietario del Villino Medici, Vezio Cerchiarini, nel dopoguerra confermò alle autorità inquirenti come l’autista quella mattina «trasportò il ferito a Firenze assieme al Sig. Backer [sic], ufficiale dell’esercito germanico che da tempo si trovava presso il villino Medici in convalescenza»[2]. L’auto riuscì ad arrivare in città e il Palai fu consegnato d’urgenza a un chirurgo ospedaliero che, tuttavia, in seguito a complicazioni, non riuscì a impedire il decesso del giovane, avvenuto la mattina del 17 aprile.

Nonostante l’esito tragico della vicenda, la figura del Battke e il suo modo di condursi, di certo non in linea con quanto quella sua divisa gli avrebbe imposto, non possono che sollevare una serie di domande e curiosità. La prima, è se quell’atto di generosità sia da intendere come una prova di spontanea umanità, magari isolata e occasionale, mossa dal tentativo di salvare la vita a un moribondo o se invece vada legata a un atteggiamento di alterità politica rispetto alla posizione che la sua nazionalità e il servizio militare ci si aspetta potessero fargli assumere nel contesto della guerra e dell’occupazione tedesca della penisola. Ancora gli incarti del sopracitato processo tenutosi nel dopoguerra ci aiutano a chiarire come nel suo caso quell’atto di generosità possa essere inteso nel senso di una sicura opposizione alla guerra nazifascista e di buona disposizione, se non di aperta solidarietà, nei riguardi del movimento di Resistenza italiano. Con le parole del già citato Cerchiarini: «il sig. Backer [sic] pur essendo suddito ed ufficiale germanico non diede mai prova di simpatia verso il regime ed i metodi tedeschi, e si assunse la responsabilità di portarlo [il Palai] a Firenze». Più esplicita ancora la madre del defunto partigiano che nel gennaio del 1945 ricordò alle autorità istruttorie che il figlio, dopo la fuga dallo scontro in Secchieta, «fu aiutato da un tedesco che era in relazione con i partigiani e che provvide a farlo trasportare a Firenze in casa di un chirurgo»[3]. Dunque, Battke, ci viene presentato qui alla stregua di un «buon tedesco», di probabili sentimenti antinazisti e in rapporti solidali coi partigiani fiorentini. Ma chi era Battke nel dettaglio e cosa ci faceva a Vallombrosa nell’aprile del 1944?

2 – Il personaggio:

Heinz Battke era nato nel 1900 a Berlino in una famiglia di estrazione sociale medio-alta. Avviato agli studi artistici, tra il 1918 e il 1921 aveva frequentato la scuola d’arte di Adolf Propp, studiando in seguito presso l’Accademia delle Arti di Prussia sotto la guida di Karl Hofer (pittore influenzato dagli impressionisti francesi e in seguito dichiarato “degenerato” dal Terzo Reicht) coniugando al contempo anche il lavoro di tipografo e grafico-incisore. Tra la fine degli anni Venti e la metà dei Trenta, Battke aveva compiuto numerosi soggiorni a Parigi e in Francia, nei Paesi Bassi, in Belgio, Danimarca, Austria e Svizzera. Tra il 1929 e il 1930 ebbe la possibilità di studiare anche a Firenze dove poi si sarebbe trasferito stabilmente nel 1935 al seguito della madre Ada. Questa si era infatti risposata in seconde nozze con il compositore e musicologo ebreo-austriaco Rudolf Cahn-Speyer il quale dal 1933 risiedeva nella città toscana dove intratteneva rapporti professionali col locale Conservatorio “Luigi Cherubini”. Oltre che con questa circostanza familiare, il trasferimento a Firenze di Battke va messo sicuramente in relazione con la rottura maturata allora con l’ufficialità culturale del regime nazista.

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Fotoritratto di Heinz Battke (da Joachim Cüppers, “Heinz Battke, Werkkatalog”, Hambug, Dr. Ernst Hauswedell & Co., 1970)

Nello stesso anno gli era stato infatti prospettato un ruolo di insegnante presso un’accademia tedesca che egli però rifiutò, dal momento che l’accettazione avrebbe comportato l’iscrizione al partito nazista. La conseguenza di ciò fu la sua formale espulsione, ufficializzata nel 1936, dalla Reichskulturkammer (la Camera della Cultura del Reich), l’organizzazione professionale degli artisti tedeschi istituita nel 1933 dalla Germania nazista allo scopo di controllare la vita culturale del paese e promuovere nell’arte gli ideali e i canoni estetici del nazismo. I lavori di Battke, a seguito di questo strappo, vennero pertanto dichiarati “degenerati”.

A Firenze, a dispetto del Regime fascista imperante, Battke poté trovare un ambiente favorevole alle proprie sensibilità artistiche e politiche. Come posto in luce tra gli altri dagli studi di Klaus Voigt, tra i molti artisti di area tedesca (diversi di origine ebrea) espulsi dalla Reichskulturkammer o comunque ostili all’ufficialità del regime nazista che decisero di rifugiarsi in Italia, un buon numero trovò una sponda a Firenze nei circoli culturali della Deutschen Künstlerstiftung “Villa Romana”, una fondazione promossa nel 1904 dal pittore tedesco Max Klinger tesa a sostenere i soggiorni artistici dei pittori connazionali in Italia[4]. Direttore di Villa Romana era dal 1935 il pittore Hans Purrmann, dichiarato due anni dopo “artista degenere” dal Reich. Di sentimenti antinazisti (nel maggio 1938, in occasione della visita di Hitler a Firenze, egli fu persino messo sotto custodia a scopo cautelativo presso il carcere delle Murate) Purrmann ebbe non poche difficoltà nel dirigere la fondazione (nel 1939 fu oggetto di un provvedimento di licenziamento, poi revocato) ma ciononostante riuscì a fare di Villa Romana un punto d’incontro di molti artisti e intellettuali tedeschi esuli dalla Germania nazista come lo scrittore Kasimir Edschmid, lo storico dell’arte Curt Glaser o la scrittrice Monica Mann, figlia di Thomas.

Anche Heinz Battke fu tra i frequentatori del circolo di Purrmann, nel cui ambito continuò a portare avanti i propri interessi artistici. Il contesto generale, d’altro canto, non risultava comunque semplice, né per lui né per i colleghi, per quanto Battke, a differenza di alcuni di loro, almeno dal lato economico poté fare affidamento sul sicuro patrimonio finanziario familiare[5]. Sul piano artistico, i lavori del suo periodo fiorentino rivelano un «radicale mutamento interiore» che si concretizza prevalentemente in «paesaggi disegnati a penna, con prati, cespugli, ruscelli e radici» quasi si trattasse di «una fuga dal nuovo ambiente»[6]. A seguito del varo della legislazione razziale italiana e poi con lo scoppio della Seconda guerra mondiale la posizione di questi artisti tedeschi esuli si fece più complicata. Molti di loro cominciarono ad aver difficoltà a sopravvivere coi soli proventi del proprio lavoro, mentre per gli artisti di origine ebrea sorse la minaccia di provvedimenti di cattura e internamento. Su alcuni, peraltro, pendeva anche il rischio di un eventuale arruolamento nelle forze armate tedesche, considerato che per coloro che si trovavano a compiere prolungati soggiorni all’estero per motivi di studio o lavoro poteva giungere tramite il consolato tedesco, cui molti si erano dovuti registrare, la chiamata alle armi. È quanto accadde proprio ad Heinz Battke. Nonostante egli avesse cercato invano di allontanarsi in tempo dall’Italia, nel 1941 fu arruolato nella Luftwaffe e, grazie alla sua conoscenza dell’italiano, aggregato come interprete presso una compagnia dislocata in Sicilia. Senza che se ne conoscano i dettagli, l’esperienza fu però breve, poiché nel 1942 egli fu formalmente congedato per problemi di salute[7]. Tornato a Firenze, Battke decise però di lasciare la propria abitazione posta in viale Milton e di sfollare assieme alla madre a Vallombrosa. Come avrebbe ricordato egli stesso al più tardo processo per i fatti di Secchieta, l’inizio del suo soggiorno nella frazione del comune di Reggello ebbe avvio il 12 dicembre 1942. Meta cara a molti artisti e letterati stranieri, Vallombrosa con la sua magnifica abbazia e le sue foreste circostanti era già stata sicuramente località di villeggiatura non solo per Battke (che del paesaggio attorno ci ha lasciato alcune vedute e disegni) ma molto probabilmente anche per altri artisti esuli del circolo di Villa Romana.

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Heinz Battke, giardino di un casolare al Saltino. Stampa, 1942 (GALERIE HANNA BEKKER VOM RATH, Francoforte sul Meno)

Non è certo un caso perciò che nel maggio del 1943, per sottrarsi ai pericoli della vita in città, proprio a Vallombrosa si rifugiarono tra gli altri lo stesso Purrmann (che poco dopo riparò in Svizzera), il direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze Friedrich Kriegbaum (il quale aveva cercato di opporsi alla penetrazione culturale nazista all’interno del prestigioso istituto tedesco di ricerca storico-artistica fondato in città nel 1897) e anche il pittore ebreo Rudolf Levy[8]. La tragica sorte toccata a quest’ultimo, peraltro, aiuta ulteriormente a mettere in luce l’antinazismo di Battke. Levy, pittore ebreo nativo di Stettino, dopo aver lasciata la Germania, nel 1938 a seguito della promulgazione della legislazione razziale fascista era rimasto bloccato ad Ischia, dove soggiornava ospite di un amico. Impossibilitato a procurarsi un visto per l’estero e sfuggito all’arresto solo perché già anziano (era nato nel 1875) Levy si era trasferito a Roma e poi a Firenze dove legò col gruppo di Purrmann, suo amico, facendo la conoscenza tra gli altri anche di Battke. Il 12 dicembre 1943, Levy fu però arrestato da agenti in incognito della polizia segreta nazista che erano riusciti ad attirarlo a Firenze sotto le mentite spoglie di committenti d’arte interessati al suo lavoro e quindi fu tradotto nel carcere delle Murate. Stando a quanto riportano i suoi profili biografici, Battke cercò disperatamente di liberare l’amico, non riuscendovi. Levy poco dopo fu avviato alla deportazione in Germania, decedendo per quanto si sa durante il trasferimento ad Auschwitz[9].

3 – Tra dissenso e “scelta” partigiana:

In mancanza di altra documentazione, questi precedenti aiutano a mettere meglio a fuoco il gesto coraggioso e disinteressato che Battke compì quella mattina del 16 aprile nel tentativo di salvare il partigiano Palai. Oltre a questo episodio, sulla sua attività di collaborazione col movimento partigiano fiorentino di cui riferiscono le testimonianze citate in precedenza non disponiamo di ulteriori riferimenti documentari, se non di semplici indizi. Va detto in tal senso che nel 1944 l’amministratore dei beni della famiglia Battke a Firenze era certo Piero Aglietti, un patriota fiorentino classe 1920 riconosciuto nel dopoguerra gregario in forza alla 4° Brigata Rosselli, il quale faceva da spola tra la città e Vallombrosa per conto dei Battke. Peraltro, lo stesso Agletti, quel 16 di aprile si trovava con gli altri al Villino Medici e poté dare una mano nell’organizzare il trasporto del ferito a Firenze. Un riconoscimento, seppur posteriore ai fatti, del contributo dato da Battke in quella circostanza lo si può trovare anche in un’intervista rilasciata nel dopoguerra da Paris Boccherini, partigiano della formazione tricolore “Perseo” che operava nella zona di Reggello. Riferendo la sua versione del rastrellamento del Secchieta del 16 aprile, Boccherini ricordò anche la figura del Battke, dando peraltro alcune preziose indicazioni sulle conseguenze a lui toccate in seguito all’episodio e poi a fine guerra:

[…] a Secchieta oltre gli 8 morti, vi fu da parte nostra un ferito, che colpito alla pancia si reggeva l’intestino con la mano, perché gli uscivano fuori. In quelle condizioni arrivò a Vallombrosa e bussò e vennero i tedeschi ad aprire allora riuscì a scappare nuovamente, bussò ad un’altra porta e venne un ufficiale tedesco (che era antinazista) che stava in Via Venezia e dietro un mio rapporto fu soltanto fatto portare al Campo di Concentramento (questo quando venne catturato). Questo ufficiale prese un Taxi e portò il ferito all’Ospedale di via Giusti, dove poi morì. Si chiamava Falai Franco. Il tedesco non era un Ufficiale dell’esercito nazista, ma un tedesco che si trovava in Italia da tempo e che era stato ufficiale. Passò dei guai con i suoi connazionali. Fu per questo che quando i tedeschi si ritirarono lui rimase qui in Italia e stava in una pensione di Via Venezia.[10]

Non è improbabile che, come dice Boccherini, a seguito dei fatti del 16 aprile Battke passasse dei guai con le autorità nazifasciste. Dalla documentazione del già citato processo risulta infatti come queste ultime si fossero presto accorte del ruolo avuto nella vicenda dall’ufficiale tedesco in congedo. Il fiduciario dei Battke, infatti, Piero Aglietti, che aveva partecipato al trasporto del ferito, venne rintracciato e sentito dalle autorità fasciste già il 17 aprile, probabilmente perché a decesso avvenuto del Palai il personale medico a cui si era rivolto avvisò d’ufficio chi di dovere per segnalare il fatto. Aglietti, chiamato a risponderne in Questura, aveva inizialmente cercato di attribuire a se stesso l’iniziativa del trasporto del partigiano ferito, così da «evitare di far avere delle seccature di carattere politico ai Signori Battke»[11]. Se, anche dopo accertata la sua posizione di responsabilità, al Battke non derivarono gravi conseguenze, è cero invece che, come ricorda nella sua testimonianza il partigiano Boccherini, a liberazione avvenuta, la dichiarazione di sua collaborazione con i partigiani che quest’ultimo dice d’avergli procurato  non fu in grado di evitare al Battke l’arresto da parte degli Alleati (nel settembre 1944) e il suo internamento nel campo di prigionia per tedeschi di Padula, a sud di Salerno. Qui, sarebbe rimasto fino al luglio 1945 quando, forse anche in conseguenza del suo cattivo stato di salute, fu rilasciato. Rientrato a Firenze, Battke riprese la propria attività artistica. Nel maggio del 1946 contribuì come membro del comitato organizzatore alla realizzazione presso la Galleria Firenze di una mostra dedicata alla memoria dell’amico Rudolf Levy. Dal 2 al 13 aprile 1949 presso la stessa galleria Battke tenne la sua prima personale del dopoguerra[12]. L’anno successivo, auspice la mecenate e gallerista tedesca Hanna Bekker vom Rath, seguì la prima mostra nella Germania del dopoguerra presso lo Städtisches Museum di Wuppertal. Trasferitosi definitivamente a Francoforte, Battke ottenne nel 1956 la cattedra di disegno presso il Städel Art Institute. La sua carriera artistica, di lì in poi, proseguirà nei decenni seguenti fino alla sua morte avvenuta il 15 gennaio 1966 nella città sul Meno.

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Heinz Battke, ritratto di Piero Aglietti, patriota fiorentino. Stampa, 1955 (GALERIE HANNA BEKKER VOM RATH, Francoforte sul Meno)

Senza disporre di ulteriori informazioni biografiche e documentarie, dell’episodio del 16 aprile 1944, così come della collaborazione del Battke col movimento partigiano fiorentino, rimangono solo le esili tracce che abbiamo qui esposto. In attesa di eventuali indagini ulteriori, la sua resta comunque una vicenda interessante in grado di apportare un piccolo ma significativo contributo alla comprensione del dissenso interno alla Germania nazista e ai suoi riflessi nel contesto dell’occupazione tedesca dell’Europa. Recentemente, anche la storiografia italiana è tornata a indagare con più attenzione il contributo che all’interno della Resistenza italiana giocò un numero considerevole di militari della Wehrmacht, prevalentemente disertori, che scelsero di collaborare a vario titolo coi partigiani italiani, in molti casi prendendo posto a fianco ad essi nella lotta contro l’occupante nazifascista[13]. Battke non fu certo un disertore della Wehrmacht passato ai partigiani, né la sua decisione di assumere un atteggiamento favorevole al locale movimento resistenziale configura forse in senso stretto una scelta partigiana, almeno non nel senso del prendere le armi contro i propri connazionali. Tuttavia, la sua biografia, gli ambienti e le persone con cui egli fu in contatto a Firenze a partire dalla metà degli anni Trenta, non meno che la decisione di esporsi personalmente quel 16 aprile 1944 nel prestare soccorso al partigiano Palai assumono il significato di una non velata opposizione al nazionalsocialismo e di un dissenso nei confronti di una guerra avvertita come ingiusta ed estranea. Di questa sua esperienza fiorentina, che non ha lasciato traccia di sé se non nei pochi incarti del tempo a cui ci siamo rifatti, vale perciò recuperarne la memoria, sperando che possa essere da stimolo per ulteriori ricerche, sia nell’ambito della biografia di questa figura di pittore antinazista che rispetto al contributo versato da altri suoi connazionali che tra il 1943 e il 1944 decisero di disertare dalle truppe di occupazione tedesche unendosi alla Resistenza fiorentina. Una vicenda quest’ultima di cui peraltro ancora non si dispone né di studi né di un primo tentativo, anche approssimativo, di censimento. Lacuna che, si spera, qualcuno possa presto colmare.

[1] Archivio di Stato di Firenze, Corte di Assise Straordinaria (d’ora in poi ASFi, CAS), fasc. 79/1948, Procedimento contro C. Ciaccia ed altri, deposizione di Heinz Battke del 10 aprile 1946, docc. 174-175.

[2] Ivi, interrogatorio di Vezio Cerchiarini, 17 marzo 1945, doc. 41.

[3] Ivi, dichiarazione di Maria Ulivieri nei Palai del 31 gennaio 1944 [ma 1945], doc. 21.

[4] K. Voigt, Zuflucht auf Widerruf, Exil in Italien 1933-1945. Erster Band, Stuttgart, Klett-Cotta, 1989 (traduz. ita: Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993); Id., Zuflucht auf Widerruf, Exil in Italien 1933-1945. Zweiter Band, Stuttgart, Klett-Cotta, 1993 (traduz.  ita.: Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Volume II, Firenze, La Nuova Italia, 1996). Su Villa Romana cfr. P. Kuhn, Zwischen zwei Neuanfängen: Die Villa Romana von 1929 bis 1959 (https://www.villaromana.org/upload/Texte/Archivtext3.pdf).

[5] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 503. Battke disponeva peraltro di una ricca e preziosa collezione di anelli per i quali coltivava interessi storico-antiquari, come attestano alcune sue pubblicazioni sul tema, cfr. Heinz Battke, Die Ringsammlung des Berliner Schlossmuseums: zugleich eine Kunst- und Kulturgeschichte des Ringes, Berlin, Leonhard Preiss Verlag, 1938; Id., Geschichte des Ringes: in Beschreibung und Bildern, Baden-Baden, Woldemar Klein, 1953.

[6] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 496.

[7] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Volume II, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 564-565.

[8] Si veda la scheda biografica di Purrmann nel sito dell’archivio privato del pittore (https://www.purrmann.com/it/leben_florenz.php)

[9] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Volume II, cit., pp. 573-574; M. Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze, razzie, arresti, delazioni in E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzioni, depredazioni, deportazione (1943-1945), Vol. I, Saggi, Roma, Carocci, 2007, p. 157. Per il tentativo di Battke di salvare Levy cfr. la sua scheda biografica ospitata sul sito del Museum Kunst der Verlorenen Generation (https://verlorene-generation.com/en/kuenstler/heinz-battke/)

[10] Archivio dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze, Fondo Sirio Ungherelli, b. 5, fasc. Mascagni Arduino, Bergamino Giuseppe, Boccherini Paris, trascrizione della testimonianza di Mascagni Arduino con precisazioni di Bergamino Giuseppe e di Boccherini Paris resa a Sirio Ungherelli (intervista non datata), p. 17.

[11] ASFi, CAS, fasc. 79/1948, Procedimento contro C. Ciaccia ed altri, interrogatorio di Aglietti Piero del 26 maggio 1944, doc. 17; ivi, interrogatorio di Aglietti Piero presso la Questura di Firenze del 17 aprile 1944.

[12] Mostra personale di Heinz Battke, Firenze, Galleria Firenze, 2-13 aprile 1949, Firenze, L. Del Turco, 1949.

[13] M. Carrattieri e I. Meloni (a cura di), Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana, Calendasco, Le Piccole Pagine, 2021; C. Greppi, Il buon tedesco, Bari-Roma, Laterza, 2021.




Giorgio La Pira un Sindaco per la Solidarietà e la Pace

Della complessa e poliforme figura di Giorgio La Pira, caratterizzata dall’impegno scientifico-accademico, politico-sociale e religioso-ecclesiale, ricordiamo alcuni tratti della figura di Sindaco attento ai cittadini e ai popoli.

1934  La Messa dei poveri

La Pira stesso descrisse la nascita e le caratteristiche della Messa dei Poveri: Bisogna dirlo subito: la S. Messa dei poveri in S. Procolo e poi alla  Badia ebbe la sua radice in un desiderio profondo di «avventura» cristiana di fede e di carità che avvivava allora, ed avviva ancora, la nostra anima. Nacque da un bisogno di «sborghesimento» del nostro cristianesimo: e ci furono di sprone e di guida le parole misteriose di quella parabola misteriosa: Andate pei crocicchi delle strade e chiamate quanti trovate, poveri, ciechi, storpi, zoppi, e conduceteli qui affinché si riempia la mia casa. Prendemmo il Vangelo alla lettera: andammo al dormitorio pubblico,  ricordo le impressioni delle prime visite fra quella massa così strana di clienti del dormitorio, e negli altri «crocicchi» dove era possibile trovare gli amici che cercavamo: conventi nei quali al tòcco veniva distribuita la minestra, cucine popolari e così via.
Vinte le difficoltà immancabili di ogni cosa nuova, il nostro progetto divenne realtà: una domenica della primavera 1934 una quarantina di poveri – gli ultimi davvero: ciechi, zoppi! – erano radunati nella Chiesa di S. Procolo per partecipare alla S. Messa. Al Vangelo furono dette poche parole; poi, recitate alcune preghiere, la Messa finì. Fu portata all’Altare una cesta di pane fresco: quel pane fu benedetto, fu recitato insieme un Padre Nostro e fu fatta ordinatamente la distribuzione. Uscimmo contenti, desiderosi di ripetere l’esperimento la domenica successiva: da allora, fortemente ingrandita, quell’esperienza di fede e di carità cristiana costituisce l’attesa e la gioia domenicale di molti. Quei primi quaranta sono morti quasi tutti: ma al loro posto più di millecinquecento anime sono settimanalmente unite per celebrare insieme il Sacrificio dell’amore. Nelle S. Messe di S. Procolo e di Badia si ripete in qualche modo la prima esperienza cristiana: perché ricchi e poveri, abbienti e non abbienti formano una sola famiglia: sono come i primi cristiani, cor unum et anima una[1].

1944 Nominato dal CTLN Presidente dell’Ente Comunale di Assistenza – ECA di Firenze.

L’ECA era un organismo statale, creato appena prima della seconda guerra mondiale in sostituzione della Congregazione di carità, al quale era affidata l’assistenza sociale nel territorio comunale e l’amministrazione delle Opere Pie. A Firenze l’attività dell’ECA, nel clima resistenziale del dopoguerra, venne gestita da 22 capillari Commissioni assistenziali cui erano delegate l’erogazione dei sussidi,  composte, tra gli altri membri, dal medico di zona, dal parroco e da un’assistente sanitaria. L’amministrazione militare alleata, AMG, sostenne l’ECA sia finanziariamente che con forniture alimentari. La città era arrivata alla seconda guerra mondiale con un elevato numero di senza casa dovuto all’abbattimento di ampie parti del quartiere di Santa Croce da parte dell’amministrazione fascista che voleva espellere dal centro i ceti popolari e costruire la “via dell’Impero” (zona piazza dei Ciompi-via Verdi, distruzione narrata con dolore da Pratolini ne Il Quartiere). A questi si aggiunsero quelli che avevano perduto la casa per le mine tedesche, per la distruzione del centro operata dai nazifascisti, per i bombardamenti alleati e per gli sfollati  dalle linee del fronte. L’ECA fu così chiamata a soccorrere migliaia di sinistrati fiorentini rimasti senza casa e senza lavoro. Nell’immediato dopoguerra, sotto la guida di Giorgio la Pira – che ne fu presidente dal 1944 al 1957 – l’ECA dette un importante contributo alla ricostruzione morale e materiale della città, sostenendo con consistenti distribuzioni di indumenti, generi alimentari, pasti caldi e medicinali, il tenore di vita della popolazione. Furono istituiti i Centri sinistrati, mense per i lavoratori e ampliato l’Albergo popolare. Nel lavoro all’ECA La Pira moltiplicò l’attività di condivisione e aiuto ai poveri già iniziata con l’azione della Messa dei poveri alla Badia fiorentina e a San Procolo.  A differenza dei sindaci e degli amministratori comunali dell’epoca che svolgevano attività di sostegno sociale, ma non avevano i compiti diretti di organizzare l’assistenza sociale (i Comuni li avranno solo dagli anni ’70 inoltrati), La Pira ebbe modo sia di conoscere direttamente la grande problematicità delle situazioni popolari sia la possibilità di agire.  Legò questo suo agire sulle emergenze e sulle prime necessità, all’azione politica che lo vedeva costituente, poi parlamentare e infine sottosegretario al lavoro. Esperienze che gli fecero vedere la stretta connessione tra la dignità della persona e la tutela delle famiglie; tra il lavoro, la casa, l’assistenza e l’istruzione dei figli. Non si limitò a questo: la vita civile e la dignità individuale potevano svolgersi pienamente soltanto nella solidarietà con l’altro, con la condivisione con gli altri uomini visti tutti come figli di Dio che necessitavano finalmente della pace per realizzarsi.  Lo spazio nel quale potersi realizzare come popolo di Dio, lo individuò nella città: la città dell’uomo nella quale lavorare per il Regno.

1946 Eletto alla Costituente nella DC, si legò al piccolo gruppo creato da Dossetti, collaborò a scriverne i principi fondamentali (diede il suo apporto per: gli art 2 e 3 sulla dignità della persona, la solidarietà, l’intervento dello stato per rimuovere gli ostacoli allo sviluppo personale e la libertà di espressione; l’art.7 sul rapporto tra stato e chiesa; l’art.11 che sancisce il ripudio della guerra e il sostegno alle organizzazioni internazionali per promuovere la pace).

1948 Deputato DC.

1949-50 Sottosegretario al Lavoro (ministro Fanfani) nel V° governo De Gasperi. La sua azione tese a favorire il dialogo tra i Sindacati e la Confindustria e le altre organizzazioni padronali strette nella rigidità. Seguendo gli economisti inglesi Keynes e Beveridge, La Pira indicò, come obiettivo fondamentale dell’azione politica, la “piena occupazione”: dare lavoro a tutti non era un miraggio, ma un obiettivo possibile. La politica doveva rispondere, diceva La Pira, alle attese della povera gente: proprio questo fu il titolo di un suo famoso articolo, che suscitò un profondo dibattito: Quale è l’attesa della povera gente (disoccupati e bisognosi in genere?) La risposta è chiara: un Governo ad obiettivo, in certo modo, unico, strutturato organicamente in vista di esso, la lotta organica contro la disoccupazione e la miseria. … c’è, anzitutto, una premessa di natura squisitamente cristiana: è vano, per un Governo, parlare di valore della persona umana e di civiltà cristiana, se esso non scende organicamente in lotta al fine di sterminare la disoccupazione ed il bisogno, che sono i più temibili nemici esterni della persona. Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima ed in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose! Vi sono disoccupati? Bisogna occuparli. Che significa, infatti, che tutta la legge ed i Profeti si riassumono nell’unico comandamento dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo? Che significa ama il prossimo tuo come te stesso? Vorrei io essere disoccupato, affamato, senza casa, senza vestito, senza medicinali? No, certo: e, quindi, questo no io lo devo anche pronunziare per i miei fratelli.
Se io sono uomo di Stato il mio no alla disoccupazione ed al bisogno non può che significare questo:  che la mia politica economica deve essere finalizzata dallo scopo dell’occupazione operaia e della eliminazione della miseria: è chiaro![2]

1951 venne eletto Sindaco di una coalizione quadripartita di centro, (DC, PLI, PRI, PSDI). Si dimise da parlamentare per incompatibilità.

Proseguì la ricostruzione e lo sviluppo della città, iniziata con l’amministrazione social-comunista del sindaco Fabiani. Per ottenere sostegni nazionali e internazionali ai nuovi progetti, si collegò strettamente all’ala progressista della DC e ai suoi esponenti al Governo insieme ai referenti dei fondi  americani per lo sviluppo. La Pira diede vita a un progetto esemplare “Il piano latte”: realizzare una Centrale del latte pubblica con la funzione sociale di sviluppare il territorio e migliorare la nutrizione dei bambini e ragazzi. Questo significava assicurare lavoro agli allevatori e al mondo contadino, occupare operai nel trattamento e la distribuzione del latte, fornire alla popolazione un alimento poco diffuso nei consumi cittadini. Lo sostennero Amintore Fanfani, ministro dell’Agricoltura, e Lodovico Montini referente del programma degli aiuti americani.

Gli aiuti permisero la costruzione della Centrale in via Circondaria (ora distrutta dai lavori per la Tav) e la condivisione sociale del finanziamento ricevuto, fornendo il latte gratuitamente in ogni scuola per ogni alunno (materne ed elementari).

Il tema della casa era centrale in città, ma l’importante inaugurazione del nuovo quartiere satellite dell’Isolotto, una città nella città sviluppata con l’INA casa,  e il programma delle case minime, non si rivelarono sufficienti. La Pira si trovò a dover sostenere un numero crescente di senza casa, di profughi  e di sfrattati e di fronte al rifiuto delle grandi proprietà di mettere a disposizione del Comune le case necessarie, utilizzò l’arma della requisizione per grave necessità pubblica: dare casa ai senza tetto.  Il provvedimento si basò su una legge del 1865 del Regno d’Italia, che dava facoltà ai sindaci di requisire qualsiasi proprietà privata in situazioni di emergenza.

1952 Se per La Pira l’incontro tra gli uomini era fondamentale, altrettanto lo era l’incontro tra i popoli.

L’inizio della sua azione internazionale, fortemente radicata nella dimensione cittadina e nel  suo fermento religioso innovativo, aperto alle riflessioni dei cristiani francesi e di Jacques Maritain, avvenne con la convocazione dei Convegni per la pace e la civiltà cristiana. Nel clima di divisione esasperata est-ovest imposto dalla guerra fredda, cercò  una conciliazione e una apertura all’incontro ripartendo dal ruolo della città di Firenze che in pieno Umanesimo, nel 1439,  ospitò il Concilio per la riunione dei cattolici e degli ortodossi. Allora l’unione era cercata all’interno del mondo cristiano, La Pira si interrogava se il messaggio cristiano non potesse essere stimolo all’incontro con altre spiritualità e religioni e i non credenti.

Nei saluti del primo Convegno del 1952 La Pira lo sottolinea: Venite a Firenze, asilo di spiritualità, di bellezza, di pace. Qui i problemi più severi e più aspri acquistano una mitezza e una duttilità quasi impreveduta. Qui si rende chiara la ragione che con tanta rapidità provocò nel 1439 l’atto di unità e di pace fra la Chiesa di Oriente e quella di Occidente. Questa è veramente la città universale della pace. Qui i valori dell’uomo si spiegano in tutta la loro ampiezza ed in tutta la loro gerarchia. Qui si rende visibile nelle cose la definizione che fa dell’uomo il valore massimo e finale dell’intera creazione.[3]

La condivisione profonda del messaggio cristiano guida l’azione di sindaco di La Pira che non può accettare di rimanere chiuso in un solo campo, occidentale ed atlantico, ma cerca i contatti con tutto il mondo  non dimenticando le diverse fedi, i popoli afflitti dal colonialismo, i perseguitati e gli esclusi. Con queste parole rivolte al corpo diplomatico presente in Italia e presso la Santa Sede, promosse la grande stagione dei convegni internazionali fiorentini che divennero quasi un alter ego culturale e religioso delle assemblee delle Nazioni Unite: A nome della città di Firenze ho l’onore e la gioia di inviarLe, in quest’alba del nuovo anno ed in questa vigilia dell’Epifania, un Messaggio che è insieme un augurio e un invito. L’augurio è, naturalmente, un augurio di pace per tutte le Nazioni. Il 1952 veda il rapido svilupparsi di quelle premesse, centrate sul valore della persona umana, che sono le condizioni indispensabili per ricomporre ad unità le parti, ancora staccate, dell’unica solidale civiltà umana e cristiana. I grandi progressi tecnici e gli sviluppi a scala mondiale della vita economica, sociale, politica e culturale, riprovano ogni giorno più chiaramente la strutturale unità del genere umano: quella strutturale unità del genere umano; quella strutturale unità così luminosamente manifestata nel Messaggio Evangelico e già posta nel Medioevo a base dell’unico, solidale edificio politico del mondo. … Lavorare per ricomporre tale unità, per fare delle Nazioni, nel rispetto dei loro inconfondibili caratteri, un’unica famiglia umana in modo da assicurare a tutti gli uomini la gioia del lavoro, della casa, della fraterna assistenza e della ricchezza culturale, spirituale e religiosa. Ecco il compito davvero grandioso affidato agli uomini del nostro tempo.[4]

La Pira non era solo, il cardinale Dalla Costa condivideva in pieno le sue aspirazioni e l’intera città era percorsa da un profondo rinnovamento e fermento religioso, che gli forniva una solida base nell’affermare: Firenze ha titolo a farsi stimolatrice per lo sviluppo e il coronamento di quest’opera. Essa, infatti si onora di essere stata consacrata dai suoi grandi reggitori medioevali, il 9 febbraio 1527, al Divino Rilevatore e Creatore di questa unità degli uomini, a Cristo ‘Rex florentini popoli’.[5]

I Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana furono un grande momento di speranza nel duro confronto della guerra fredda e investirono, dopo i cristiani, le altre religioni e, attraverso l’incontro delle città, il mondo comunista. Centrale in questo sviluppo dei contatti e dell’amicizia fu il ruolo della città elaborato da La Pira che vedeva Firenze appartenere: a tutte le nazioni, essendo, sotto certi aspetti, il centro artistico e culturale della civiltà cristiana ed umana. Proprio a questo fine la Città di Firenze si fa promotrice di un incontro fra insigni rappresentanti della cultura di vari paesi. Incontro destinato a uno scambio di idee sulle attuali condizioni della civiltà cristiana nel mondo e sulle permanenti capacità che essa possiede per essere valido strumento di pace e unificazione dei popoli.[6]

1954 Ginevra, La Pira pronunciò alla Croce Rossa Internazionale un discorso che teorizzò il ruolo delle città per la ri-costruzione di un mondo nuovo “L’epoca storica delle città”: La cultura e la metafisica della città sono diventate il centro nuovo di orientamento dì tutta la meditazione umana. Siamo ad una nuova ‘misura ‘ dei valori: la storia presente, ma ancora più quella futura, si serviranno sempre più di questo metro destinato a fornire la misura umana a tutta la scala dei valori. … Che sarebbe dell’umanità senza questi, centri essenziali del mondo civile e che diritto hanno gli Stati di distruggere queste ‘unità viventi’ in cui si concentrano ì valori essenziali della storia passata e futura?[7]

La città è quindi indispensabile per dare all’uomo un respiro di spiritualità e una salvaguardia di dignità: per questo il ruolo dei Sindaci deve assumere sempre di più, una caratteristica di grande spessore per tutelare la persona di fronte all’anonimato schiacciante della globalizzazione. Il diritto all’esistenza delle città nel loro, valore storico, artistico, culturale, politico e religioso si fa più grande a mano a mano che si chiarisce il significato profondo delle città stesse come orizzonte di riferimento della vita e delle esigenze primarie della persona e della famiglia.

 1955 Convegno dei Sindaci delle capitali. Arrivarono a Firenze i sindaci da tutto il mondo: dall’Occidente, dall’URSS e dai paesi dell’Est, dai nuovi paesi decolonizzati e anche dalla Cina. La Pira aprì così il convegno: La minaccia della guerra atomica ha appunto operato questo effetto: fece scoprire, a quanti ne hanno la responsabilità e l’amore, il valore misterioso ed in certo modo infinito della città umana. …come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita. … daremo vita, per così dire, ad uno strumento diplomatico nuovo: uno strumento che esprime la volontà di pace delle città del mondo intero e che tesse un patto di fraternità alla base stessa della vita delle Nazioni.[8]

Se la visione internazionale di La Pira era sostenuta da vari esponenti DC (Fanfani, Gronchi e Mattei), la sua spinta sociale e l’attenzione alla questione operaia insospettiva il mondo tradizionalista e capitalista. La crisi della fabbrica del Pignone, una fonderia di altissima qualità, nel 1953, vide il sindaco e la Chiesa fiorentina schierati contro il licenziamento di quasi duemila operai e impegnarsi fattivamente per il salvataggio dei lavoratori fiorentini insieme all’Eni di Mattei. Il successo ottenuto invece di mettere a tacere le critiche, moltiplicò gli attacchi alla sua azione.

Persino don Luigi Sturzo si fece interprete delle spinte liberiste, contrarie ad ogni intervento regolatore nell’economia, e criticò l’attività di sindaco di La Pira in un articolo dal titolo significativo: “Statalista La Pira?”

La Pira rispose, a colui che considerava una guida, con una lettera serena e esplicita nel motivare il suo impegno: Reverendo don Sturzo, bisognerebbe che lei facesse l’esperienza – ma quella vera! – che tocca fare al sindaco di una città di 400.000 abitanti, avente la seguente cartella clinica: 10.000 disoccupati (esattamente in marzo 9.740, di cui .5.686 di prima categoria, -cioè disoccupati, per effetto dei licenziamenti, e 2.971 di seconda categoria, cioè giovani in cerca di lavoro!): una glande azienda da quattro mesi crollata (Richard Ginori con 950 licenziamenti); non parliamo per fortuna della Pignone; altre aziende con licenziamenti in atto (Manetti e Roberts) o con ‘tentazioni’ di licenziamenti (non faccio nomi, per non turbare!), grosse crisi industriali nella periferia (tutto il Valdarno con migliaia di licenziati); 3.000 sfratti, (sfratti, autentici, sa!), 17.000 libretti di povertà con un totale di. 37.000 persone assistite dal Comune e dall’E.C.A. Scusi, davanti, a tutti questi ‘feriti ‘, buttati a terra dai ‘ladroni ‘ – come dice la parabola del Samaritano – cosa deve fare il sindaco, cioè il capo e in certo modo il padre ed il responsabile della comune famiglia cittadina? Può lavarsi le mani dicendo a tutti: scusate, non posso interessarmi dì voi perché non sono statalista ma un interclassista? La parabola del Samaritano, sola norma umana, non dice questo: dice anzi che il Samaritano scese da cavallo, prese il ferito (un nemico: giudeo), gli somministrò le prime cure, lo portò dal farmacista al quale disse: curalo, tornerò domani a pagare le spese.

Stia tranquillo: siamo stati ben vaccinati, lei è contro lo Stato totalitario soprattutto per persuasione; noi lo siamo in virtù di una persuasione autenticata da una terrificante esperienza che ci brucia ancora.

Non vorrei che con la scusa di non volere lo Stato totalitario non si voglia in realtà lo Stato che interviene per sanare le strutturali iniquità del sistema finanziario, economico e sociale, del cosiddetto ‘Stato liberista’ (che sta ‘a vedere’ con olimpica contemplazione la dolorosa zuffa che la privazione del pane quotidiano procura fra deboli e potenti).

Caro Don Sturzo, dovrebbe essere lei ad incitare noi più giovani alla meditazione più seria ed alla attuazione più decisa dei principi contenuti in una pagina poco letta ma molto luminosa della Quadragesima anno (paragrafo 37): ‘Principio direttivo dell’ economia’, dove è scritto: ‘Come l’unità della società umana non può fondarsi nella opposizione di classe, così il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze’.[9]

1956 venne rieletto nel Consiglio comunale con decine di migliaia di preferenze. È di nuovo sindaco, ma la giunta viene fatta cadere dai Liberali. Non si ritrovò una maggioranza e per Firenze sarà l’era del Commissario prefettizio.

 1961 venne nuovamente eletto sindaco di Firenze e formò una delle prime giunte di centro-sinistra. In questo terzo mandato la sua azione trovò forza dal rinnovato rapporto della Chiesa con la società e con la storia, sulla base delle novità che stavano affiorando nel pontificato di Giovanni XXIII e nel Concilio.

La visione internazionale si concentrò sul superamento dei conflitti coloniali e l’incontro delle diverse spiritualità religiose a partire dalle religioni di Abramo. Condivise lo spirito della conferenza di Bandung e della grande novità dei paesi Non allineati, pose centrale il sostegno all’azione delle Nazioni Unite, in una visione politica di neo-atlantismo e di riconoscimento delle nazioni emergenti.

“I Colloqui del Mediterraneo” (1958-1964) a cui diede vita, riuscirono persino a far incontrare francesi e algerini in guerra. I colloqui per la pace in Algeria si apriranno a Evian nello stesso giorno del terzo colloquio. Si stabilirono contatti tra israeliani, palestinesi e arabi e si stilarono patti di sviluppo culturale. Da quei colloqui, nonostante la morte mai chiarita di Mattei nel 1962, scaturirono importanti legami con i popoli del Nord Africa e fruttuosi rapporti commerciali.

Amministrativamente, con l’apporto dell’architetto Edoardo Detti, diede vita a un importante piano regolatore della città; sviluppò un nuovo quartiere a Sorgane e completò, seppur con prefabbricati, lo sviluppo dell’edilizia scolastica.

1962 Conferenza per la pace con padre Jean Daniéleou  s.j e padre Ernesto Balducci.

1963 Conferimento della cittadinanza onoraria al Segretario delle Nazioni Unite (ONU) U Thant.

1964 La Pira venne eletto come capolista DC nelle elezioni comunali, ma le divisioni interne al suo partito lo costrinsero a ritirare la candidatura a sindaco e a lasciare questa carica definitivamente.

1965 La missione per la pace non era certo esaurita. In collaborazione con il Ministero degli Esteri si fece promotore di una vasta azione diplomatica per una soluzione politica della guerra del Vietnam. Tenne a Firenze un incontro internazionale per la pace in Vietnam. La Pira si recò poi ad Hanoi, per incontrare Ho Chi Minh e Pham Van Dong, da dove formulò una articolata proposta di pace. La proposta di pace venne trasmessa al governo americano dal Presidente dell’Assemblea generale dell’ONU, l’italiano e amico Amintore Fanfani.

L’iniziativa, contestata da violenti quanto insulsi attacchi giornalistici, fallì.

La guerra in Vietnam proseguì per quasi un decennio infliggendo incredibili sofferenze e causando quasi 4 milioni di morti nella popolazione e quando finalmente si giunse a un accordo di pace questo riprese sostanzialmente le proposte formulate da La Pira.

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Convegni per la pace e la civiltà cristiana

1° Convegno: dal 23 al 28 giugno 1952, «Civiltà e Pace»

2° Convegno: dal 21 al 27 giugno 1953, «Preghiera e Poesia»

3° Convegno: dal 20 al 26 giugno 1954, «Cultura e Rivelazione»

4° Convegno: dal 19 al 25 giugno 1955, «Speranza teologale e

speranze umane»

5° Convegno: dal 21 al 27 giugno 1956, «Storia e Profezia»

Convegno a Firenze dei Sindaci delle capitali: 2-6 ottobre 1955

Colloqui del Mediterraneo

1° Colloquio:  dal 3 al 6 ottobre 1958

2° Colloquio:  dal 1 al 5 ottobre 1960

3° Colloquio:  dal 19 al 25 maggio 1961

4° Colloquio:  dal 19 al 24 giugno 1964

Conferenza per la pace 28 e 29 settembre 1962

Tra i relatori:  padre Jean Daniéleou  s.j. e padre Ernesto Balducci

Colloquio mediterraneo della cultura 21-25 giugno 1963

Tavola Rotonda Est-Ovest  IX Sessione a Firenze dal 4 al 7 Luglio 1964

 

[1] Vedi https://giorgiolapira.org/messa-di-san-procolo/
[2] G. La Pira, L’attesa della povera gente in «Cronache sociali», 15.04.1950   poi  Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1951
[3]  Civiltà e pace, Atti del primo Convegno internazionale per la civiltà e la pace cristiana, Firenze 23-28 giugno 1952, Firenze, Tip. L’impronta, 1953
[4] ibidem
[5] ibidem
[6] ibidem
[7]  L’epoca storica delle città, discorso al Comitato della Croce Rossa, Ginevra 1954 in Giorgio La Pira Sindaco, I, Firenze, Cultura Nuova Editrice, 1988
[8] Vedi https://giorgiolapira.org/il-colloquio-dei-sindaci-delle-capitali-2/
[9] G. La Pira, Lettera a don Luigi Sturzo, 20 maggio 1954




Una “storia modello”: la lunga guerra di Siro Rosi

Dal momento in cui sono state pubblicate le biografie dei toscani volontari in Spagna, grazie a una ricerca iniziata nel 2008, l’archivio dell’Istituto che l’ha promossa si è arricchito di documenti di varia natura. L’ultimo arrivo è un nucleo di carte su una figura di rilievo non solo locale, il grossetano Siro Rosi. A consegnarli la figlia, così come era stato il figlio dell’empolese Aureliano Santini, qualche anno prima, a depositare le copie dei quaderni di cronaca della guerra di Spagna del miliziano “Silvio”. Dai figli di Angelo Rossi, grossetano, nome di battaglia Trueba, è arrivata documentazione utile a ricostruire con esattezza le tappe di una lunga persecuzione e della militanza politica, tra guerra di Spagna, Resistenza e dopoguerra: carte di Questura, appunti di memoria, collezioni di giornali spagnoli di anni successivi alla fine della guerra civile, testimonianze dell’attività di partito in Italia, dopo la Liberazione.

Avvicinarsi al lungo periodo della storia dell’antifascismo – emigrazione politica, guerra di Spagna e un impegno fino alla Resistenza e oltre – mette di fronte al problema delle fonti. Il corpo del materiale documentario indispensabile richiede l’esplorazione di molti archivi, da quelli locali a quelli dei paesi che hanno visto il passaggio di donne e uomini dalle esperienze multiformi. Nel lungo tempo trascorso dagli eventi tanto è stato il lavoro di storici, dentro o fuori dalle università, di associazioni di reduci come l’AICVAS (ex-volontari antifranchisti), della rete degli istituti storici della Resistenza, di altre realtà associative, come l’Istituto Salvemini e altre che sarebbe lungo elencare. Così materiale documentario importante è stato raccolto, ordinato e studiato. In altri paesi europei la ricerca ha incluso storie e memorie riguardanti il rapporto tra gli antifascisti italiani ed eventi e fenomeni europei, in una successione di tempi che va dall’affermazione del fascismo in Italia al secondo dopoguerra. In alcuni casi progetti transfrontalieri hanno unito risorse e aperto spazi a nuove ricerche.

siro moglie

Siro Rosi e la moglie a Tolosa, 1947

Tra gli esempi, La memoria delle Alpi/La mémoire des Alpes, relativo agli anni della guerra e della Resistenza, (http://www.memoiredesalpes.net/index.php), da cui, come si legge nel sito dell’Istituto storico regionale piemontese della rete INSMLI che ne è promotore, insieme alla rete degli istituti della regione, «nel 2009 è partito un nuovo progetto regionale, dal titolo ”La memoria delle Alpi – Dalle Alpi all’Europa” che considera le Alpi occidentali come “laboratorio storico” dei complessi processi che hanno condotto le nazioni europee dalla II guerra mondiale, ai primi passi nella costruzione dell’unità, fino ai Trattati di Roma (marzo 1957)».

Si tratta di territori di ricerca, divulgazione e didattica utili nel contesto delle traversie di un’unione europea ancora allo stato embrionale, attualmente in grande affanno. Da qui l’importanza anche di piccoli contributi, anche poche carte che entrano nei nostri archivi e arricchiscono ricerche fondate inizialmente sull’esplorazione di grandi archivi pubblici. Come quello di cui si dà conto qui, che giunge mentre ancora il lavoro è in corso, anch’esso frutto di progetti internazionali dell’istituto grossetano, per tre anni sostenuti da risorse del governo spagnolo. Gli esiti per ora sono in un database presente in questo portale, in uno spazio dedicato nel sito dell’ISGREC, nel volume e nel documentario visibili in questa pagina.

Nel database la biografia di Siro Rosi è un poco più ampia delle 408 pubblicate: il profilo sintetico di un antifascista di lungo corso. Oggi le nuove carte subito digitalizzate consentono un incrocio tra vecchie e nuove fonti e mettono bene a fuoco proprio il carattere di esperienza europea comune a molti dei nostri antifascisti. In questo caso, si è in presenza delle vicende di una figura particolarmente rappresentativa. Memorie scritte, in versioni diverse, tra 1945 e 1971, lettere anche successive, fotografie con note autografe e data e luogo ci consegnano la sua narrazione. Carte via via sommatesi anche in seguito alle sue necessità di documentazione da esibire chiariscono passaggi complicati, ancora tutti da studiare, per trarne un esito storiograficamente significativo.

Rosi, nato a Sticciano, in provincia di Grosseto, classe 1915, è tra i sovversivi grossetani messi sotto controllo dalla Questura nei primi anni Trenta. Va in Spagna nel 1937 con il rischioso espediente dell’arruolamento tra i volontari filo franchisti, per passare non senza difficoltà al 3^Battaglione, 2^compagnia, Brigata Garibaldi. Combatte, è ferito, entra in Francia dopo la sconfitta dei repubblicani ed è costretto a una peregrinazione tra i campi di concentramento della Francia del Sud. Dall’ultimo, il Vernet, fugge nel 1941 e da lì comincia un’altra storia, di Resistenze prima in Francia, dove combatte e resta mutilato, poi in Italia, con ruoli di comando nelle formazioni partigiane della Lombardia. Finita la guerra, comincia l’ultima, lunghissima peregrinazione, sino al 1957. In Francia e Italia, in Polonia, in fuga per la condanna a morte per diserzione nel 1938, ancora non annullata, anche se commutata in carcere, cui si era aggiunta un’accusa relativa alla notissima questione dell’oro di Dongo. Il processo si tenne nel 1957 a Padova, la sua riabilitazione fu pronunciata dalla Corte d’appello di Roma il 18 dicembre 1962.

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Il retro della foto di Tolosa: autografo della moglie “in ricordo di una delle nostre ultime passeggiate a Tolosa. Baci” 18-7-1947

I tanti frammenti da cucire insieme a quel che già è noto di una vita non comune si completano con la testimonianza della figlia Liliana, nata a Varsavia, ma poi lontana dai genitori fino al loro rientro. Lo descrive cupo e solitario, grande affabulatore, ma solo in rarissime occasioni, le sue giornate a dipingere ritratti dei familiari e paesaggi di Maremma: insistente, quasi ossessivo il paesaggio della Fiumara, un tratto della costa maremmana, tra le tele che sono state donate all’istituto. Anche questa è una fonte. Liliana ci spiega quanto poco l’immagine del padre da lei conosciuto, affettuosissimo – “ogni mattina metteva nella mia camera una rosa” – corrispondesse al racconto della madre, che l’aveva conosciuto estroverso, pieno di energia positiva. La madre, sempre Liliana a raccontarlo, non lasciava mai, neanche quando era in casa, la borsa dei documenti. Lezione appresa dall’emigrazione in Francia con la famiglia e dalla vita accanto a Siro, in Europa, in gran parte da clandestini.

Le carte sono ancora da studiare, lo farà chi ha lavorato finora alle ricerche citate. Tuttavia meritano un richiamo alcuni pezzi, utili alla ricostruzione della singolarità di un’esperienza biografica, utili a suggerire piste di ricerca, indizi di un clima e di un’esperienza collettiva. Nel 1958, a poca distanza dal definitivo ritorno in Italia, una lettera dal Comitato nazionale francese dell’Association républicaine des anciens combattants lo ringrazia del contributo versato. La Francia è il paese del suo internamento e della prima Resistenza. In una lettera del 1976 risponde alla richiesta di notizie sulla “Resistenza attiva nel mezzogiorno della Francia”. “Il lungo tempo trascorso ha reso opachi i ricordi”, scrive. Ma cita Sereni, Dozza, Scotti, dirigenti del PCI che organizzano il “lavoro militare” nei dintorni di Tolosa, squadre di azione patriottica protette da famiglie di contadini italiani.

Nell’intervallo fra il processo e gli anni Settanta, arrivano pubblici riconoscimenti con croce di guerra, medaglie e diplomi, lettere attestanti il suo passato eroico con la firma di vecchi antifascisti, divenuti parlamentari e protagonisti di primo piano della politica. Citano il suo impegno politico e militare fra 1937 e 1945; in nessun documento compare la spinosa questione dell’oro di Dongo, legata all’uccisione di Mussolini, documentata da una minuziosa raccolta della rassegna stampa del dibattimento processuale. Nei resoconti giornalistici, gli argomenti di accusa e difesa, su una vicenda che poi ha conosciuto notorietà per presunti scoop giornalistici e un uso politico della storia.

A ricostruire il caleidoscopio di identità, ruoli e spostamenti che precedono il rifugio nell’Europa dell’est, serve una cartella di carte d’identità e lasciapassare, di Siro Rosi, Mario Marini, Juan Medinas, rilasciati da autorità italiane, spagnole, francesi, tedesche. La maggiore curiosità suscitano due quadernetti di appunti 10×15 dalle copertine consunte: pochi fogli, grafia piccolissima e molte sigle, quasi tutto scritto a lapis; uno con certezza appartiene al periodo delle Resistenze, in Italia o in Francia.

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Carta d’identità di Siro Rosi, rilasciata a Tolosa nel 1946, valida fino al 1949

È naturale che ci sia un gran desiderio e una prevedibile utilità marginale nel passare dal repertorio delle fonti a un lavoro di elaborazione critica. Non mancano studi importanti, ma ancora tanto potrà essere indagato sulla lunga parabola del nostro antifascismo tra Italia ed Europa. Come quelle di tanti altri, le carte di Siro Rosi aggiungono conoscenze, mentre avvicinano al «cono d’ombra che ancora copre eventi estremi della complicata storia del Novecento». Nelle sue memorie è la guerra di Spagna che vuole ricordare; né lui né l’amatissima moglie parlavano del passato comune. L’ultima avventura fu il duro esilio polacco. Il suo avvocato difensore, Emilio Rosini, lo trovò a Varsavia nel 1956 ««un appartamento squallido[che si affacciava] sulle rovine del ghetto, una vasta spianata di macerie». Solo in seguito sembra che Rosi abbia compreso di aver vissuto un decennio di inutile esilio.

L’esperienza che raccontano le carte, gli oggetti, anche i dipinti di Siro Rosi può apparire oggi abbastanza straordinaria, ma è tutt’altro che unica.È un frammento minimo della condivisione di quelle che Carlo Rosselli nel 1937 aveva definite “tutte le speranze di un’epoca”, divenuta in ultimo condivisione del troppo parziale esito di quelle speranze, nell’Italia postfascista, nell’Europa della guerra fredda.




Bruno Baldini, deportato politico.

Testo dell’intervento tenuto dalla nipote Silvia Cardini in occasione della deposizione della pietra d’inciampo in memoria di Bruno Baldini a Firenze il 20 gennaio 2022.

Siamo qui intorno a Bruno Baldini, nel quartiere in cui ha vissuto con sua moglie Maria, i suoi due figli Milo e Sonia e la vecchia madre Argìa.
La sua è stata una breve presenza e per di più intervallata da lunghi periodi di carcerazione e deportazione, eppure quando ho carcato di dare forma al ricordo che mi era stato tramandato l’ho sempre immaginato in questa strada e fra queste mura. Da questa casa è stato strappato per due volte, il 15 marzo del 1941 e il 21 maggio 1944, sotto lo sguardo impotente dei suoi familiari. La prima volta per attività cospirative contro il fascismo, la seconda senza imputazione dagli scherani della Banda Carità.
La tragedia di Bruno ha avuto forse avvio nel bar Migliorini a pochi passi da questa casa dove andava qualche volta dopo cena a discorrere con gli amici antifascisti del quartiere. Qualcuno ha sentito le sue parole di libertà e le ha riportate alle autorità fasciste. Forse è successo altrove, forse in modo diverso ma poco importa: la macchina dell’annientamento ha preso il via grazie a una delazione. Bruno era per sua natura una vittima predestinata della meschinità umana perché incapace di avvertirla, di prevenirla, di schermarsi. Era un uomo naturalmente solidale, incline alla gioia, aperto agli altri.
Il suo antifascismo era innanzitutto uno stile di vita. L’avversione politica alla dittatura faceva tutt’uno in lui con l’avversione umana al sopruso, all’ingiustizia, al predominio dell’uomo sull’uomo. Era nato benestante, in un villino in Via Luciano Manara dove -raccontava mia nonna- “si mangiava in salotto e la tavola era sempre apparecchiata”, in una famiglia che per censo avrebbe potuto trarre vantaggio dalla politica fascista e che invece la avversava.
Il bisnonno Emilio ad un certo punto aveva addirittura deciso di proteggere i figli trasferendosi in campagna, in certi suoi possedimenti a Dicomano, in luoghi dove l’occhiuta strategia del controllo e della delazione sarebbe stata indebolita dalle consuetudini paesane e dalla rarefazione dei rapporti umani.
Ma Bruno è troppo giovane per rinunciare alla vita di scambio e ai contatti con la città. Avvia una sua impresa nel quartiere di Santa Croce, un concessionario di motociclette Guzzi. E prende dimora in Via Gian Paolo Orsini con la moglie, anche lei ben determinata ad abbandonare l’ambiente paesano. Fra Bruno e Maria c’è sempre stata una comunità profonda di intenti, di progetti, di desideri. Una capacità di risorgere e di resistere. Hanno vissuto da giovanissimi quello stato di grazia che Bruno, in una lettera inviata dalle Murate dopo il primo arresto, chiama “ felicità a fior di labbra”. Poi hanno affrontato il distacco per l’invio al fronte di Bruno durante la grande guerra, il suo ferimento, il ritorno. Quando arrivano in Via Gian Paolo Orsini hanno già perso il loro primogenito stroncato a Dicomano da una broncopolmonite, hanno in comune un dolore profondo, due figli ancora da crescere e la vita davanti a sé. La casa ogni tanto risuona delle canzoni di Bruno che è stonato ma sa essere ancora felice.
È in questa casa che si consumerà il loro dramma.
Il primo atto avviene il 15 marzo del ‘41. La famiglia è riunita a pranzo quando si presentano i poliziotti dell’OVRA. Maria sussurra alla figlia più piccola di prendere il foglietto che si trova nella tasca della giacca del babbo e di farlo sparire. La piccola Sonia, sgattaiola in camera, fruga, trova e ingoia. Mastica accuratamente la prova del delitto senza nemmeno avere il tempo di leggere cosa c’è scritto. Un volantino, una lettera, un indirizzo? Non lo sa ma è sicuramente orgogliosa della sua prova di coraggio. Purtroppo non basta. Bruno viene prelevato dalla polizia e interrogato sotto tortura perché faccia il nome della sua rete. Bruno è maciullato, perde sedici denti, rantola ma non parla.
Vi ho detto che era un uomo con una grande capacità gioire, ma altrettanto grande doveva essere la sua capacità di resistere al dolore e alla cattiveria.
Quando penso al suo interrogatorio, e il pensiero mi diventa subito insopportabile, mi consola sapere che in questo quartiere e forse anche altrove ci sono individui e intere famiglie che hanno potuto godere della vita grazie a un uomo che sputava i denti ma non i nomi e gli indirizzi. Forse non lo sanno nemmeno ma esistono e questo è già tanto.
In aprile viene trasferito a Roma, in maggio processato dal Tribunale speciale e condannato a tre anni e sei mesi per delitto contro la personalità dello Stato. Alla famiglia viene notificata la beffarda richiesta di pagamento delle “spese di giustizia” che, sommate a una pena pecuniaria, ammontano a 890 lire e 10 centesimi. Maria a quel tempo aveva già avviato un laboratorio di sartoria in casa per mantenere i figli e la suocera. Quanti punti d’ago ci saranno voluti a pagare le spese di questa suprema ingiustizia? Lei comunque la paga.
Bruno viene trasferito a Fossano (Cuneo) dove non può ricevere per undici mesi nessuna visita.
Il 14 febbraio del 1942 arriva la notizia della Grazia che non è un atto di clemenza ma il risultato di una compravendita. Mia nonna ha sempre raccontato che amici antifascisti abbienti riuscirono a “ungere le ruote” del Ministero di giustizia ottenendo il trasferimento di Bruno da Regina Coeli alla colonia penale di Pisticci in Basilicata. Il suo nome rimane però nella lista dei soggetti pericolosi per la sicurezza dello Stato, da dove all’occorrenza potrà essere ripescato. Da Pisticci viene poi trasferito a Introdacqua in Abruzzo. Il 15 giugno del ’42 ritorna per grazia definitiva a Firenze.
Passa in questo quartiere due anni di tregua, trova lavoro come commesso in una ditta di tessuti in Via Tavolini e ne diventa presto il factotum perché in ogni contesto spende, senza risparmio, le sue capacità e la sua naturale gentilezza.
Il 21 maggio del 1944 mentre è a tavola con la famiglia suonano alla porta. Sono venuti di nuovo ad arrestarlo. Sono in tre: un italiano appartenente alla Banda Carità e due SS. Questa volta si fa a meno anche del capo di imputazione. A mia madre che piange, l’italiano dice: “Non fare così. Te lo riporto presto il tuo babbo”.
Bruno passa un giorno a Villa Triste, poi viene trasferito alle Murate. Scrive lettere piene di richieste di generi di prima necessità, di rassicurazioni e di amore. D’altra parte anche quando verrà trasferito nel campo di concentramento di Fossoli riuscirà a trovare qualcosa di rassicurante da dire alla sua Maria: nel campo di concentramento si può camminare e si respira aria pura.
Ultimo contatto una lettera del 14 giugno del 1944. Poi il buio.
Ad avere la notizia che Bruno è morto sarà Sonia, mia madre. Maria cuce notte e giorno per mantenere la famiglia, Sonia fa il giro di quelli che ritornano dai campi di concentramento per sapere qualcosa di suo padre. Tocca al vetraio Gandi dirle che suo padre non ce l’ha fatta ed è morto a Mauthausen stremato dalla fame e dalla dissenteria. Poi arriverà una lettera di tale Silvia Turci di Carpi che testimonia di aver visto partire in treno Bruno per la Germania o forse per l’Austria e di aver ricevuto da lui un biglietto in cui ancora una volta assicurava di stare bene. La lettera spedita il 22 giugno del 1944 arriva alla moglie a guerra ormai finita e quando hanno già saputo che è morto.
Il 12 ottobre giunge la comunicazione ufficiale della morte dalla Croce Rossa.
Il 25 maggio del 1984 il Presidente Sandro Pertini conferisce a Bruno Baldini il Diploma d’onore al combattente per la libertà d’Italia.
Per tutta la vita mio nonno mi è stato vicino, come se l’avessi conosciuto e potuto amare in carne ed ossa. Ringrazio mia nonna e mia madre per la loro straordinaria capacità di rendere la sua memoria vita pulsante e volta al futuro. Ringrazio il Comune, l’ANED, l’ISRT, la direttrice del Museo della deportazione e della Resistenza di Prato Camilla Brunelli, la professoressa Marta Baiardi, l’artista Gunter Demnig per aver voluto con me questa pietra d’inciampo a testimonianza di una vita resistente.




«L’esperienza del Pci non è stata ripetibile, si è fermata lì…»

Avvertenza: Nel trascrivere l’intervista si è cercato, ove possibile, di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando al minimo indispensabile  gli interventi correttivi sul testo. L’intervista è stata raccolta il 19 dicembre 2021

 

D- Daniela Lastri, lei nel 1989 era una attivista e dirigente del PCI fiorentino ed ha vissuto perciò le vicende politiche che portarono alla svolta della Bolognina e alla decisione di Occhetto di cambiare il nome al partito. Può dirci qualcosa della sua esperienza politica e istituzionale di allora?

R- In quel periodo, nel 1988-1989, io facevo parte a Firenze della segreteria cittadina del PCI. Ero già stata attiva in precedenza a vari livelli all’interno della Federazione giovanile comunista (FGCI), sia nell’organizzazione provinciale fiorentina che in quella regionale dove ero rimasta fino al 1982. Naturalmente, ancor prima ero stata un’attivista del movimento studentesco, prendendo parte a collettivi studenteschi e partecipando all’attività del movimento femminista del tempo. Nel 1989, come membro della segreteria cittadina del PCI, svolgevo il ruolo di responsabile del partito per la zona a Sud-Ovest della città, in quelli che allora erano i quartieri 4 e 5, una vasta area che dall’Isolotto si spingeva fino a Mantignano, in prossimità di Scandicci. Si trattava di quartieri “rossi”, con forte tradizione operaia e di voto a sinistra. Quella era l’area che io curavo per il partito. Fu una bella esperienza, intensa e ricca di attività. In quel periodo, mi ricordo, all’interno del partito c’era una grande attenzione alle diversità e ai processi sociali in corso. Il PCI di allora era un partito in continua evoluzione benché vi fossero oggettive difficoltà dovute al cambiamento dei gruppi dirigenti che si erano susseguiti dopo la scomparsa prematura nel 1984 del segretario Enrico Berlinguer; ma ciononostante si viveva all’interno di un partito che continuava a dare molta attenzione ai grandi movimenti politici e sociali di massa, soprattutto a quelli animati dai giovani e dalle donne, un partito che costituiva perciò ancora un grande contenitore al cui interno potevano trovare spazio le principali tendenze politiche e sociali del mondo della sinistra. A tal riguardo, ricordo che in quel periodo noi facemmo un’esperienza particolarmente significativa, perché in questa zona Sud-Ovest della città che io seguivo per il PCI costituimmo una segreteria di partito fatta di sole donne. Si trattò di un elemento di novità, legato a un’esperienza molto particolare e interessante sorta poco prima all’interno del PCI che era quella della Carta delle donne, proposta nel 1986, la quale, dopo lo sbandamento dovuto alla morte di Berlinguer due anni prima, era nata per rilanciare la presenza e il ruolo delle donne all’interno del partito, aprendo e dando spazio in particolare alle componenti provenienti dalla realtà del movimento femminista. La Carta delle donne nacque con questo intento: fare in modo che il PCI si rinnovasse parlando ai soggetti che erano «promotori di cambiamento», di novità, a partire appunto dalle donne. Fu una decisione importante per un partito che allora si stava ancora interrogando sulla strada da percorrere dopo la morte di Berlinguer. È stato, quello, un periodo di grande attenzione ai mutamenti e ai cambiamenti.

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Daniela Lastri (fonte: Consiglio Regionale della Toscana)

Contemporaneamente, mentre facevo quest’attività di responsabile del PCI in quella zona cittadina, portavo avanti anche l’attività di consigliera di quartiere. Con le elezioni amministrative del 1985 ero entrata infatti a far parte delle istituzioni cittadine, tanto che poco dopo, tra il 1988-89, diventai vicepresidente del quartiere 11, che allora accorpava la zona di Piazza della Libertà e le Cure. Si trattava peraltro di un quartiere completamente diverso sul piano politico-sociale da quello dell’Isolotto-Mantignano che curavo come responsabile di zona per il PCI. Ma entrambe queste realtà di partito, come pure i miei primi incarichi istituzionali cittadini, si sono poi rivelati particolarmente importanti per la mia formazione e per il proseguimento della mia attività politica successiva. Ricordo perciò questo periodo come un periodo di grande impegno ed esperienza, segnato da queste significative attività e da questa particolare sensibilità e attenzione vissuta all’interno del partito nei riguardi dei «soggetti del cambiamento».

Io mi trovai a far parte della segreteria cittadina del PCI alla vigilia di un cambiamento epocale nel quale una serie di eventi e vicende politiche internazionali misero a dura prova la forza e la presenza delle politiche del PCI. In quel frangente, la questione che caratterizzò la mia militanza, fu naturalmente quella del cambiamento del nome del partito che Occhetto predispose alla Bolognina e che poi si sarebbe concretizzata qualche tempo dopo. Io mi sono trovata a gestire questa fase molto delicata del PCI in una zona cittadina a caratterizzazione storica operaia dove, come ho detto, il partito aveva allora profonde radici nelle quali peraltro io stessa mi riconoscevo personalmente. Anche le mie radici familiari, infatti, erano legate a quel mondo operaio da cui provenivano i miei genitori, anch’essi militanti del PCI, attivi politicamente come segretari di cellula del partito e nel sindacato, in particolare mio padre. Venendo da quest’ambiente io non ho fatto mai fatica a riconoscermi in quella storia, quella del PCI, in cui affondavano le mie radici.

D- Dunque, lei ha vissuto gli effetti di quella svolta “in prima linea”, per così dire. Quali furono le sue reazioni di fronte a quell’annuncio? La colse di sorpresa o era qualcosa che si poteva immaginare?

R- La vicenda della Bolognina e di quello che ne è conseguito da un lato non è che ci avesse preso proprio di sorpresa, perché sulla questione del cambiamento del nome c’era una discussione interna al PCI che era iniziata già da diversi anni, anche nel gruppo dirigente nazionale del partito. Poi, bisogna tener conto che il PCI ormai costituiva da tempo un’esperienza storicamente e politicamente diversa da quella dei paesi del blocco sovietico e quindi dei partiti comunisti dell’Europa dell’Est. Avevamo avuto al centro della nostra azione le questioni dell’eurocomunismo, cioè di un comunismo europeista alternativo a quello del socialismo reale; inoltre la cosiddetta “via italiana al socialismo” costituiva oramai una prerogativa tipica del PCI, quindi gli elementi di diversità, di assoluta differenza con il modello sovietico erano sicuramente molto significativi. Penso ad esempio solo al concetto della “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”, che Berlinguer espresse nel 1981 dopo le vicende politiche polacche in una nota conferenza stampa. La vicenda polacca del 1981 non a caso ha marcato profondamente questa diversità del PCI; naturalmente il partito aveva già intrapreso la propria strada separata dal modello sovietico almeno a partire dal 1968, prendendo una posizione sui fatti di Praga radicalmente diversa rispetto a quella tenuta nel 1956 di fronte alla repressione disposta in Ungheria. Ricordo come mio padre in quell’estate del 1968, di fronte agli avvenimenti cecoslovacchi, ribadisse come noi comunisti italiani fossimo oramai radicalmente lontani da quell’esperienza. E di lì a seguire, infatti, ci saremmo trovati sempre più circondati da vicende internazionali che in qualche modo ci allontanavano sempre più nettamente da quel modello al quale in passato eravamo stati legati. Penso all’invasione dell’Afganistan del 1979, ma anche alla vicenda delle proteste di piazza Tienanmen della primavera-estate del 1989 organizzate da studenti, giovani e operai contro il regime cinese: quello costituì un evento dirompente per quanto riguardava le nostre sensibilità, il nostro modo di interpretare il socialismo rispetto a quei regimi autoritari. Non per nulla, l’esperienza cinese anticipò quanto sarebbe accaduto di lì a poco nel novembre di quell’anno con la caduta del muro di Berlino. Tutte queste vicende internazionali che attraversano quel periodo storico ci vedevano perciò come comunisti italiani molto critici nei riguardi del regime sovietico, per cui la presa di posizione della Bolognina fu una scelta che certamente ci colpì ma in qualche modo si configurò quasi come una necessità, una svolta che era cioè la conseguenza di un quadro internazionale ormai fortemente incrinato e che non aveva più niente a che vedere con i valori ideali del socialismo, della democrazia ma anche della libertà; temi fondamentali e dirompenti che erano stati sempre al centro dell’idea di una “via italiana al socialismo”.

D- Perciò si trattò di una decisione necessaria? In ogni caso come fu gestita secondo lei quella svolta?

R- Personalmente ho sempre sostenuto la necessità di quella svolta, non senza naturalmente riconoscere tutte le sofferenze e le difficoltà che ne conseguirono. Non si deve dimenticare infatti che la discussione che si aprì da lì in poi fu in grado di provocare attriti e lasciare profonde ferite, non solo politiche ma anche umane, incrinando amicizie e rompendo la solidarietà tra persone che fino a poco prima avevano militato fianco a fianco nel partito. Ma l’aspetto più delicato di quella svolta secondo me fu la non preparazione, il non essere stati cioè adeguatamente preparati ad affrontare politicamente quell’evento e soprattutto il non essere stati messi nella condizione di poter maturare attorno a quella decisione un’effettiva condivisione. Questo è stato l’elemento negativo di quella vicenda, il non aver avuto la possibilità di una maggiore discussione preliminare, perché la discussione in realtà ci fu, ma vi fu solo successivamente all’annuncio, mancando invece una più aperta riflessione interna al partito prima di arrivare alla svolta comunicata alla Bolognina. Le cose erano sicuramente mature per fare quel passo, però quello che è stato giustamente criticato è stato il metodo con cui si è arrivati a prendere questa decisione e poi i tempi con la quale essa è stata attuata; elementi che spiegano in parte il disagio e il disorientamento che abbiamo vissuto successivamente nelle varie scissioni che ci sono state e che hanno sicuramente prodotto un indebolimento del PCI. Credo che questi siano stati i principali limiti che abbiamo scontato con difficoltà in quel periodo di trasformazione.

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Nel 1986 fu promossa, diffusa e discussa su iniziativa di Livia Turco membro della segreteria del PCI la “Carta itinerante delle donne”, un documento che si proponeva di aprire la vita politica del partito alle istanze del femminismo e fare in generale della partecipazione attiva delle donne la chiave di volta di una nuova politica di partito. (in foto : “L’Unità”, 18 ottobre 1986)

Credo peraltro che il PCI, il quale già negli anni Settanta e a inizio anni Ottanta aveva più volte pensato all’opportunità della modifica del nome, infondo poteva essere maturo già allora per un passo simile, perché come ho detto noi comunisti italiani costituivamo un’esperienza ben diversa rispetto alle altre realtà della sinistra socialista, non solo rispetto all’esperienza sovietica, ma anche rispetto ai compagni spagnoli, francesi e portoghesi. D’altro canto, anche se già all’epoca era forse maturo per un passo simile, va detto però che il PCI era abituato a fare le scelte con grande gradualismo, proprio perché, essendo un grande partito di massa ed avendo al proprio interno tante esperienze politiche significative, aveva bisogno di gradualità. Per cui, considerato questo contesto precedente, il modo repentino con cui nel 1989 fu annunciata alla Bolognina la decisione del cambio di nome ebbe per altri versi un effetto dirompente, divenendo un elemento di grande disagio che in seguito ha costituito per molti attivisti un ostacolo nel tentativo di comprendere le ragioni per le quali al tempo fu deciso di procedere in quel modo, con quelle modalità. Io naturalmente accettai quest’idea di cambiamento, probabilmente anche perché per formazione provenivo dal movimento giovanile e dalla FGCI, una realtà in cui la necessità che il partito si adeguasse rapidamente ai cambiamenti sociali in corso costituiva una prerogativa. I grandi mutamenti politici e internazionali vissuti in quegli anni ci conferivano probabilmente una maggiore predisposizione al cambiamento. Era un orientamento, cioè, che in quanto nuove generazioni avevamo ben presente.

Ricordo che nel 1979, non ancora ventenne, ebbi la possibilità di visitare la Germania dell’Est. Vi andai per una decina di giorni con una delegazione invitata in viaggio premio a prendere visione di come funzionassero le cose in quel paese. Ciò di cui rimasi allora colpita era la presenza molto significativa dei mezzi dell’esercito sovietico disposti in ogni angolo di strada…impressionante! Come impressionante era anche la scarsa presenza di segni di libera attività associativa. Era tutto molto precostituito. Si avvertiva per la verità l’esistenza di uno Stato sociale efficiente e quindi un’attenzione molto significativa da parte del governo della Germania dell’Est a tutto ciò che riguardava l’istruzione e la cultura, la salute e i servizi all’infanzia, ma d’altro canto eravamo consapevoli che ci facessero vedere solo le cose belle che funzionavano. Il problema era però tutto il resto. A Berlino mi impressionarono ad esempio le urla di protesta che si sentivano provenire dalla parte Ovest della città contro le misure militari prese a difesa del muro nella zona Est, mentre si assisteva anche a lanci di oggetti. Palpavi insomma con mano qual era la difficoltà che si viveva in quei paesi. Noi giovani che tornavamo da quei viaggi ci rendevamo conto come non era assolutamente sostenibile il percorso politico di quei paesi e ancor più capivamo come noi comunisti italiani fossimo diversi, come il PCI italiano fosse profondamente diverso e non avesse ormai più niente a che vedere con quelle esperienze.

Quindi, tornando alla Bolognina, la svolta ci prese sì forse un po’ alla sprovvista, ma le questioni di sostanza erano già aperte all’interno del partito. C’è stata semmai una questione di metodo, la mancanza cioè di una discussione più calma fatta senza precipitarsi; però la crisi dei partiti comunisti in Europa era ormai sotto gli occhi di tutti e l’evento stesso della caduta del muro era un fatto quasi naturale. Gorbačëv stesso era la testimonianza di un cambiamento imminente. Semmai, spiace che l’Europa e gli Stati Uniti non abbiano sostenuto allora quel processo di democratizzazione interna apertosi in Unione Sovietica con Gorbačëv ma abbiano invece concorso a che quel processo si richiudesse e a che si creassero le condizioni per quanto successo poi nel 1991, con il fallito colpo di stato, e poi con la successiva frammentazione dell’Unione Sovietica.

D- Insomma, a mancare nel 1989 è stata un’adeguata discussione interna al PCI? Ma, visti i tempi, ve ne sarebbero state le condizioni?

R- Sul problema della mancata discussione, in realtà non è che il PCI non abbia avuto il tempo di discutere, perché noi abbiamo fatto due congressi dopo la svolta della Bolognina, quello del 1990 e poi l’anno successivo quello che segnò la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra (Pds). Io nel 1990 sono stata eletta per la prima volta nel consiglio comunale di Firenze e noi ci chiamavamo PCI-PDS, per dire. Perciò, il percorso di discussione dalla Bolognina al momento in cui siamo arrivati ai congressi è stato abbastanza lungo… col successivo passaggio dai Democratici di Sinistra (DS) al Partito Democratico (PD) tutto questo per esempio non è successo; lì sì, semmai, che non vi è stata discussione e tutto è stato molto veloce e sbrigativo. Quindi, nel 1989 il problema non è stato tanto quello di non aver discusso, perché la discussione c’è stata, però è stata una discussione che è seguita a una decisione in qualche modo già presa. Allora, la discussione non la si fece nel gruppo dirigente, probabilmente non la si è fatta perché altrimenti sarebbe successo quello che era successo negli anni Settanta, col rischio che si fermasse tutto. Per fare una discussione di quel tipo, nel 1989, probabilmente ci voleva una maggiore autorevolezza dei segretari, un’autorevolezza di un Berlinguer, di un segretario così…ma insomma, col senno di poi è difficile dire. Io trovo che la discussione successivamente c’è stata ed è stata una lunga discussione che ha creato ferite significative, talvolta anche irreparabili. Il cammino intrapreso dall’annuncio della svolta nel 1989 al momento in cui questa svolta si è concretizzata è stato molto pesante, però è avvenuto tramite discussioni interne impegnative ma serie, anche a livello dei circoli e delle sezioni. Ricordo discussioni accese anche nella segretaria fiorentina di cui facevo parte e nei circoli delle zone di Firenze di cui ero allora responsabile per il partito. Anche lì ci sono state inevitabilmente delle rotture, tanto che alcune componenti della mia segreteria hanno fatto scelte diverse alla mia, c’è chi è andato ad esempio con Rifondazione comunista chi, ancora successivamente, nella Sinistra Democratica anziché nel Partito Democratico. Io, ad esempio, nei vai partiti che si sono succeduti al PCI, mi sono trovata sempre in componenti di minoranza; all’interno dei Ds ho appartenuto per esempio alla corrente minoritaria di Giovanni Berlinguer. Ci sono state insomma evoluzioni e percorsi vari e diversi, ma questo è normale. L’aspetto da sottolineare è che in fondo noi siamo stati comunque capaci di fare una discussione, lacerante, però l’abbiamo fatta. Quello che invece è insopportabile, dal mio punto di vista, è quello che è successo successivamente, con la nascita dei partiti che hanno succeduto prima il PCI e poi il Pds. Io ritengo, infatti, che la discussione che c’è stata successivamente, ad esempio al momento della nascita del PD, sia stata pesantemente condizionata da ragioni che avevano a che fare con la crisi dei partiti tradizionali e del sistema politico in generale. Io personalmente sono stata negativamente colpita dal modo in cui è maturato il passaggio tra i DS e il PD: lì non c’è stata discussione, è stato quasi un dato di fatto. Mentre lo scioglimento del PCI era stato, come ho detto, una necessità, nel caso del passaggio tra DS e PD era come se tutto fosse avvenuto per fatti che riguardavano, più che una vita interna di partito, una politica “esterna” che era completamente cambiata a seguito della crisi del sistema dei partiti. Si è manifestato cioè in quell’operazione il senso della contingenza, il fatto che vi fossero più motivi contingenti di lotta politica più che vere manifestazioni di necessità politica. Questo aspetto, credo, ha condizionato moltissimo in senso negativo il passaggio dai DS al PD. Io penso che purtroppo con la nascita del PD, noi abbiam perso quel connotato fondamentale che veniva dal PCI e che era stato mantenuto col PDS e, in qualche modo, almeno fino ai Ds e che era quello di essere ancora entro l’orizzonte del socialismo, del socialismo italiano ovviamente. Il PD ha rotto invece questo orizzonte perché con lui si è interrotta di fatto quella storia.

Naturalmente, gli anni Novanta hanno condizionato moltissimo le scelte che sono state fatte all’interno della politica dei partiti, anche di quelli della sinistra, nei quali ha finito per prevalere sul piano economico l’idea neoliberista e su quello politico la tendenza alla personalizzazione e al leaderismo. Ciò ha rovinato completamente il senso del partito tradizionale: non a caso si è affermata a un certo punto l’idea dei “partiti leggeri”, i partiti dove non importa neppure che ci siano i circoli, le sezioni, i luoghi della formazione. I partiti oggi si sono trasformati così in partiti degli elettori che guardano molto alla personalizzazione, al leaderismo, all’individualismo; il senso del collettivo della comunità si è completamente perso. Questo è un problema che riguarda naturalmente tutto il sistema politico così come si è andato evolvendo dalla metà degli anni Novanta fino all’inizio del Duemila. Ed è un elemento su cui ancora stiamo riflettendo. Questi ultimi vent’anni hanno condizionato molto anche i partiti che venivano dall’esperienza della sinistra, non per nulla la sinistra di oggi continua a interrogarsi circa il problema delle idealità e dell’orizzonte entro cui stare. Simo ancora nel mare aperto. La fermezza, la strutturazione di un partito come era i PCI o anche il PDS oggi non c’è più. Io credo che noi avremmo dovuto fermarci alla creazione del PDS, quello doveva essere il nostro orizzonte.

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Durante il Congresso nazionale della FGCI tenutosi al Palalido di Milano nel maggio 1982, il segretario del PCI Enrico Berlinguer invitò i giovani a organizzare un congresso di “futurologia” che affrontasse varie discipline: dalle scienze fisiche, chimiche e biologiche, alla demografia, all’antropologia, all’informatica. Ciò per stimolare una riflessione politica a partire dalla conoscenza degli studi più recenti su alcuni problemi di pressante attualità, quali il rapporto tra risorse e popolazioni, tra sviluppo e ambiente.

D- Dunque, da quel che dice, l’eredità del PCI sui partiti della sinistra italiana sembra oramai perduta. Pensa che rimanga di quell’esperienza un’eredità politica immateriale al di fuori dei partiti e nella società?

R- L’esperienza del PCI è un’esperienza che non è stata ripetibile, si è fermata lì. Io ritengo che l’esperienza del PCI è stata tutto dentro anche il PDS e anche in parte entro i DS, perché i DS hanno aperto anche all’esperienza dei laburisti, dei cristiano sociali, un’esperienza che stava in un contesto che era ancora inscritto in quell’orizzonte politico a cui accennavo prima. Ma il PCI è un partito irripetibile. Solo forse il PDS in parte ne conservava lo spirito, ma successivamente…il PD col PCI non c’entra nulla, ha rotto la tradizione di quel partito e ha creato una cesura netta con quella tradizione. Il mio giudizio su questo punto è molto tagliente, ma lo è per averlo vissuto…oggi purtroppo non si ritrova quell’esperienza. Dove la si può trovare? Difficile dire…il PCI negli ultimi anni della sua vita stava facendo cose innovative, pensava molto a rappresentare il mondo del lavoro, ai giovani e alle donne, queste erano le realtà a cui teneva particolarmente. Ribadisco: la Carta delle donne di cui dicevo prima è stata una delle intuizioni che meglio attestano questa volontà innovativa del PCI di guardare ai «soggetti del cambiamento», donne e giovani. Sui giovani, ricordo, ci fu un tentativo significativo negli ultimi anni di vita di Berlinguer. Nel 1982, quando io ero ancora nella FGCI, lui ci propose a Milano l’idea di fare un congresso sulla “futurologia” e in questo dava il senso di un leader che guardava lontano, che vedeva nei giovani la vera prospettiva di cambiamento. Quel congresso che ci propose anticipava i tempi… forse, magari esagero, ma in fondo mi fa pensare all’esperienza dei Fridays for Future di oggi, il collegamento cioè con le istanze di innovazione e cambiamento che fermentavano allora nella società… le questioni delle prime tecnologie informatiche allora agli inizi, del rapporto tra sviluppo e scienza, la volontà insomma di misurarci con quello che di particolarmente innovativo stava succedendo allora in quei campi…ad oggi, ripensando a quell’esperienza, forse emerge una certa amarezza e rimpianto di non aver capito in quel momento quanto ci fosse di veramente innovativo in quell’impostazione politica e quindi quanti guai avremmo evitato di passare se avessimo dato uno sviluppo concreto a quell’impostazione. Ma d’altro canto, penso che l’esperienza del PCI costituisca un’esperienza storico-politica che appartiene al suo tempo e che oggi noi non possiamo replicare, salvo forse recuperare almeno alcuni di quegli elementi di novità che la contraddistinguevano…anzitutto la necessità di guardare ai soggetti del cambiamento, alle donne, ai giovani, con un’attenzione particolare alle nuove istanze di mutamento sociale…oggi questo probabilmente lo si ritrova in alcuni movimenti politici e sociali, ma che non sono però riferibili al PCI, non c’entrano nulla, anzi. Però, io credo che, se quel partito fosse andato avanti, se fosse stato in grado di introiettare concretamente le istanze di cambiamento presenti nella società del tempo, forse oggi potremmo essere più avanzati rispetto alle questioni ecologiche, sul problema ambientale, sulle questioni della salute pubblica, avremmo avuto sicuramente un rapporto diverso con la scienza…ed oggi la pandemia ci ha dato la prova di quanto questo rapporto corretto manchi. Ma in ultimo, io penso che un’esperienza politica importante come quella del PCI oggi difficilmente la possiamo ritrovare in altri contesti, in ambito politico e partitico sicuramente no. Possiamo perciò impegnarci a valorizzare quello che nella società di oggi è presente di innovativo…questo è molto utile, anche per la politica, nonostante oggi, purtroppo, non veda con grande evidenza qualcosa che ci dia questa prospettiva. Da questo punto di vista, siamo ancora in cammino




De Carpis e Del Moro: comunisti internazionalisti livornesi

Sesta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

DE CARPIS Archisio (Grigo, Moro, Gogolo)

(Livorno 14.9.1898- Livorno 10.2.1969)

 Nato a Livorno nel 1898 da Diomede ed Ida Ciabattari, ha frequentato le scuole elementari; di professione è facchino della Compagnia Lavoratori Portuali. Partecipa alla Prima Guerra Mondiale arruolato nel 6° bersaglieri. Militante del Partito Socialista, seguace di Amadeo Bordiga e della Frazione Astensionista del medesimo partito, nel 1919 rimane ferito dai dei colpi di rivoltella durante un comizio repubblicano tenuto da ex interventisti nel quartiere di San Marco. Nel 1921 è tra i fondatori della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, per il quale svolge opera di attiva propaganda tra i lavoratori del Porto; partecipa a tutte le manifestazioni del Partito e in occasione di elezioni firma anche programmi e manifesti e contribuisce a tenere in vita la Camera del Lavoro, divenendo collaboratore di Athos Lisa, dirigente socialista e poi comunista della stessa. Nel febbraio del 1924 viene fermato perché sospetto di aver organizzato un comizio svoltosi brevemente nel quartiere La Venezia tenuto da un comunista fiorentino. Nel giugno dello stesso anno viene fermato a Roma all’uscita della Casa del Popolo ove si era recato per organizzare un convegno comunista che era stato indetto in quella sede dall’Esecutivo Sindacale dei portuali e dei marittimi. Nel maggio 1925 invia 30 lire al compagno di partito Alfredo Bonsignori, detenuto presso il carcere dell’isola di Nisida (Napoli) per motivi politici, come soccorso economico; tuttavia tale somma non è stata fatta recapitare al destinatario dalle autorità. Nel febbraio del 1926 viene nuovamente arrestato e nel corso di una perquisizione alla sua abitazione sono ritrovati  e sequestrati dei documenti, quali lettere della CGL, della FIOM e della FILIA, riguardanti il tentativo di riorganizzazione della Camera del Lavoro a Livorno; tuttavia viene liberato poco dopo ma continua a essere costantemente vigilato. Nel novembre 1926, al momento dello scioglimento coatto del Pcd’I deciso dal regime fascista,  viene arrestato e condannato a due anni di confino di polizia prima alla colonia penale delle isole Tremiti (Foggia) poi a quella  dell’isola di Ustica (Palermo) ed infine a quella dell’isola di Ponza (Latina). Rilasciato nell’ottobre del 1928, ritorna a Livorno; viene iscritto nella rubrica di frontiera per impedirne l’espatrio. Nel luglio del 1930, nel corso della perquisizione dell’abitazione gli viene sequestrato un libro di Michail Zoscenko dal titolo “Il vino nuovo-racconti sovietici”, che presenta sulla copertina la falce e il martello. Nuovamente arrestato nel maggio 1932 perché entrato in contatto con un dirigente dal partito venuto da fuori, è sospettato di far parte dell’organizzazione clandestina del partito stesso; per tali motivi viene deferito al Tribunale Speciale, tuttavia beneficia dell’amnistia e scarcerato. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si rende irreperibile, dandosi alla macchia insieme ad Armando Gigli, nella zona tra Vicopisano e Staffoli, partecipando al movimento di resistenza sino alla Liberazione di Livorno il 19 luglio 1944. Nel secondo dopoguerra diventa segretario provinciale e poi nazionale della CGIL/FILP (Federazione Italiana Lavoratori dei Porti) continuando la militanza nel Pci. Muore a Livorno nel 1969.

FONTI: Archivio di Stato di Livorno, fondo Questura, serie A8, busta n. 1391;  Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; L’Antifascista, mensile dell’ANPPIA, marzo 1969; N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1026, Roma 1977; F. Pieroni Bortolotti, Il Partito Comunista d’Italia  a Livorno: 1921-1923, estratto  dalla Rivista Storica del Socialismo, n. 31, maggio- agosto 1967; F. Pieroni Bortolotti, Note sul primo antifascismo livornese, Firenze 1971; F. Pieroni Bortolotti, Il 19 a Livorno, estratto da Ricerche Storiche, anno XXVII, N. 1, gennaio – aprile 1987; F. Pieroni Bortolotti, La lotta del Fronte Operaio a Livorno contro il Fascismo (1925-1926), studi e documenti, www. italia-resistenza.it.; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006; M. Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti Livornesi in Unione Sovietica, Edizioni ETS, Pisa, 2017; Testimonianza orale g.c. all’autore dalla figlia Vladimira De Carpis nell’aprile 2017.

DEL_MORO_PIETRO_1903_002DEL MORO  Pietro

(Livorno 1.6.1903- Livorno 12.8.1963)

Nato a Livorno nel 1903 da Carlo e Regina Meini, ha frequentato fino alla seconda elementare; di professione è marmista. Nel 1918 ha perso entrambi i genitori a causa probabilmente dell’epidemia di spagnola, ragion per cui è costretto a vivere nel Ricovero di Mendicità sino all’aprile del 1921. In questo periodo si iscrive al neonato Pcd’I e ne diventa un propagandista attivo oltre che un ottimo diffusore della stampa di partito, ma anche di opuscoli, manifesti e volantini. Nel luglio 1926 viene fermato perché diffonde clandestinamente opuscoli e volantini, ma successivamente viene rilasciato. Nell’agosto dell’anno successivo viene nuovamente  arrestato e condannato per aver scritto una lettera di minacce, insieme ad altri comunisti livornesi, nei confronti del Console degli Stati Uniti d’America, in occasione della condanna a morte ed esecuzione degli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati ingiustamente di omicidio; per tale motivo viene condannato a 4 mesi  e 20 giorni di carcere. Ancora nel dicembre del 1927, per la sua pericolosità politica, è condannato dalla Commissione provinciale a due anni di confino di polizia a Lipari (Messina); viene liberato dopo un anno e ritorna a Livorno. Trova lavoro come marmista presso la ditta Catani, tuttavia nel giugno 1931 viene arrestato all’isola di Gorgona, insieme ad altri undici livornesi, per tentativo di espatrio clandestino determinato da motivi politici e viene condannato a sei mesi di carcere, che sconta. Viene continuamente arrestato per motivi politici e sempre rilasciato a partire dal 1932 e negli anni seguenti. Nell’agosto 1934, nuovamente arrestato per aver favorito la fuga di compagni livornesi in Corsica e per aver diffuso, tramite scritti anonimi imbucati nelle cassette della posta, materiale propagandistico comunista, viene proposto per il confino; tuttavia a causa delle sua condizioni di salute, poiché è affetto da sordomutismo progressivo causato dalla sifilide, è scarcerato e diffidato. Per i medesimi motivi viene arrestato nel giugno 1936 e condannato a 4 mesi di carcere. Con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del 1940, le sue condizioni di salute e socio-economiche peggiorano ulteriormente, tuttavia si rende ancora responsabile di diffusione di suoi manifestini antifascisti e antiborghesi, dove si qualifica a volte come anarchico. A causa della diffusione di scritti contro la guerra e contro la Germania e la politica dell’Asse, vista la sua irriducibilità a desistere in tale atteggiamento, le autorità fasciste, nel dicembre 1942, decidono di ricoverarlo coattivamente presso il manicomio di Volterra, utilizzando come pretesto le sue precarie condizioni di salute. Viene rilasciato alla caduta del Fascismo. Muore a Livorno nel 1963.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Antifascisti  nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1026, Roma 1977; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006.




Macchi e Gasparri: comunisti internazionalisti livornesi

Quinta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

GASPARRI  Menotti (Mela, Scipione, Astarotte)

(Livorno 18.12.1907- Madrid 21.11.1936)

 Nato a Livorno nel 1907 da Flaminio e Francesca Franceschi, orfano di padre, frequenta sino alle seconda elementare; di professione è vetraio. Iscritto giovanissimo alla Federazione giovanile del Partito Socialista, nel 1923 diviene militante attivo del Pcd’I. Nell’aprile del 1924 viene segnalato insieme ad altri giovani comunisti, come diffusore di manifesti e volantini per il 1 maggio, evita di essere malmenato dai fascisti poiché uno dei suoi compagni, Carlo Di Prato, li convince che essi erano andati a prendere lezioni di mandolino dal maestro Pìattoli. Nel 1926 viene fermato per strada perché cantava canzoni sovversive insieme ad altri compagni; per tali ragioni viene eseguita una perquisizione presso la sua abitazione dove vengono scoperte diverse copie del giornale comunista “L’Unità” che gli vengono sequestrate. In quel periodo e sino a tutto il 1927 risulta essere in corrispondenza con Astarotte Cantini, comunista livornese già anarchico, emigrato dapprima in Francia e in seguito in Unione Sovietica, il quale gli invia copia del giornale “Fronte Antifascista”, stampato a Parigi dagli esuli italiani; tale corrispondenza riprenderà nel 1929 e ancora negli anni seguenti. Nel novembre 1927 viene tratto in arresto a Livorno per ordine della Questura di Pisa per propaganda comunista; aveva infatti diffuso nella“ Cristalleria Torretta” fabbrica dov’è impiegato come vetraio, il giornale della gioventù comunista “Avanguardia”, ed in particolare aveva consegnato una copia del suddetto giornale al suo compagno di lavoro, Ugo Moretti il quale, a sua volta, aveva diffuso tale giornale a Putignano, paese in provincia di Pisa, del quale lo stesso Moretti è originario. Per questa attività di diffusione clandestina, viene deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e condannato ad un anno di reclusione che sconta interamente a Roma. Successivamente entra in corrispondenza epistolare con il livornese Osvaldo Bonsignori, soldato del 77° reggimento fanteria di stanza a Bergamo, anch’egli comunista, il quale lo aggiorna sul morale della truppe e sulle condizioni di vita dei soldati, ma la corrispondenza viene intercettata dalla polizia nel luglio 1930. In quegli anni diventa capo della cellula comunista della vetreria Rinaldi, dove lavora e al cui interno è tra coloro che organizzano la diffusione di giornali ed altri stampati comunisti per tutta la città di Livorno e per tali motivi viene denunciato insieme al comunista Carlo Di Prato, per associazione e propaganda sovversiva. Nel giugno del 1931 viene fermato insieme ad altri compagni nei pressi dell’isola della Gorgona (Livorno) e denunziato per tentativo di emigrazione clandestina e condannato nel luglio successivo a 10 mesi di reclusione, ridotti a 6 in appello. Uscito dal carcere nel dicembre 1931, pur venendo costantemente sorvegliato dalle autorità fasciste, riesce a rendersi irreperibile e nel marzo 1932, emigra clandestinamente in Francia con un passaporto falso spagnolo, stabilendosi dapprima a Marsiglia e successivamente in Belgio. In Francia assume, tra gli altri, gli pseudonimi di Alfredo Scipioni, Astarotte Puntoni, Mariur Frasuan e Alfredo Fiori; più tardi assumerà il nome di battaglia di Scipione. A Marsiglia lavora come scaricatore di porto presso la “Società Generale dei Trasporti Marittimi” ed è fiduciario del Pci, per il quale svolge attività politica pressoi marittimi con la diffusione di giornali ed altri stampati. Grazie a questa attività riesce, tramite i naviganti ad inviare stampa clandestina ed altro materiale di propaganda comunista in Italia; inoltre svolge il compito di emissario per il Pci in varie località, tra cui Bastia, Arles, Tolosa, Marsiglia e Parigi. Nel 1934 si trasferisce ad Arles, nel Sud della Francia, dove lavora nella miniera di Rochebelle e partecipa all’organizzazione della cellula comunista. Espulso dalla Francia si reca in Belgio per qualche mese, per poi tornare in Francia a Parigi, dove assume i consueti pseudonimi. Ai primi del 1936 è segnalato in Unione Sovietica, dove viene ricoverato, su sua esplicita richiesta,  in un sanatorio nel Caucaso per poter curare problemi di salute che lo affliggevano da tempo, causati da un’operazione subita in Francia per ulcera allo stomaco. Rientrato in Francia dopo pochi mesi, allo scoppio della guerra civile spagnola, accorre in Spagna nell’ottobre del 1936, inquadrandosi nel battaglione “Garibaldi”, successivamente divenuto XII Brigata Internazionale. Muore in combattimento il 21 novembre 1936 nella difesa di Madrid, nel settore della Città Universitaria, località Casa del Campo.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; F. Bucci, S. Carolini, C. Gragori, G. Piermaria, Il Rosso, Il Lupo e Lillo. Gli antifascisti livornesi nella Guerra civile spagnola, La ginestra, Follonica, 2009; G. Pajetta, I Livornesi oltre i Pirenei, i volontari livornesi nella guerra antifascista di Spagna 1936-1939,www.aicvas.org/livornesi/pirenei, 2012; Antifascisti  nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), I volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, le biografie, Isgrec, Arcidosso, 2011; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006; M. Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti Livornesi in Unione Sovietica, ETS, Pisa, 2017, ad nomen; Livornesi alla guerra di Spagna 1936-1939, pubblicazione a cura dell’Archivio di Stato di Livorno e del Centro Filippo Buonarroti Toscana, Livorno, 2020, ad nomen.

MACCHI_MACCHIAVELLO_1892_004MACCHI Macchiavello Giuseppe Amaddio

(Collesalvetti (Livorno) 20.8.1892 – Collesalvetti (Livorno) 3.6.1960)

Nato a Colognole, frazione del Comune di Collesalvetti (Livorno) il 20 agosto 1892 da Adolfo (contadino piccolo possidente) e Merope Stagi o Stazzi (casalinga), possiede la licenza elementare e di professione è fabbro. Nel 1908 a soli diciassette anni aderisce alla federazione giovanile socialista e negli anni seguenti al Partito socialista. Nel corso delle Prima Guerra Mondiale, in quanto militante socialista ed internazionalista, svolge attiva propaganda antimilitarista, tanto che viene diffidato dall’Arma dei Carabinieri di Collesalvetti. Nel dicembre 1918 a guerra conclusa viene condannato a sei mesi di reclusione per diserzione, pena che sconta interamente in varie carceri d’Italia. Tornato a Collesalvetti, diviene segretario della sezione socialista di Colognole e nel 1920 viene eletto consigliere comunale sempre per il Psi al Comune di Collesalvetti. Nel 1921 diventa militante comunista ed è tra i fondatori a Colognole, insieme al fratello Mario, della sezione Spartacus del Partito Comunista d’Italia, della quale diviene immediatamente segretario. In questa sezione Macchi svolge opera di penetrazione politica tra i lavoratori agricoli del Comune di Collesalvetti, per cui in quegli anni la sezione da lui diretta arriva a contare oltre quaranta iscritti. Sempre nel 1921 viene nominato assessore nell’amministrazione comunale di Collesalvetti, il cui sindaco è il comunista Alessandro Panicucci e dietro sua proposta viene approvata all’unanimità dalla Giunta comunale la rimozione dei busti di Vittorio Emanuele III e di Umberto I. Nel corso del 1922 sciolta la Giunta comunale di Collesalvetti ad opera del governo fascista, si trasferisce con la famiglia a Roma, dove trova lavoro presso l’officina meccanica Piperno. Nel maggio 1928 a Roma viene arrestato e deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato in quanto membro dell’organizzazione comunista clandestina romana, diretta da Giuseppe Amoretti e per tale attività viene condannato a quattro anni di reclusione. Infatti Macchi è responsabile della diffusione della stampa di partito non soltanto nel Lazio ma anche in Toscana, e per tali motivi, grazie alla sua particolare abilità, riservatezza e dedizione al lavoro clandestino svolto, è tenuto in grande considerazione dal Centro del partito, che ripone in lui massima fiducia. Nel corso del 1928 e del 1929 la moglie Gina Gambaccini, madre delle sue tre figlie piccole, inoltra più volte domanda di grazia per il marito, a cause delle precarie condizioni di vita in cui erano ridotta la famiglia dovute al suo arresto, inoltra anche la domanda per ottenere un sussidio sociale. Tuttavia la moglie ottiene dal governo soltanto una sussidio mensile di ottanta lire per soli quattro mesi e la domanda di grazie viene inoltre respinta poiché in sede giudiziale viene dimostrato che la famiglia Macchi ottiene costantemente dei sussidi dal Partito comunista in clandestinità. Macchi una volta liberato nel maggio 1932 per aver scontato l’intera pena detentiva, viene sottoposto per alcuni mesi a libertà vigilata, dalla quale viene poi esentato per intervenuta amnistia, ma viene tuttavia costantemente vigilato dalla polizia politica. Nell’aprile 1933, rimasto vedovo e con tre figlie a carico, si trasferisce a Livorno, dove svolge il mestiere di fabbro ferraio in proprio e per il suo passato politico viene inserito nell’elenco delle persone da arrestare in determinate circostanze perché ritenuto capace di compiere atti sovversivi. Nel 1938 si risposa con Giuseppina Gragnani dalla quale avrà il figlio Marxino (Marzino), nato nel 1940. Nel maggio 1938 viene sottoposto ad ammonizione poiché la sera del 24 maggio al Teatro Lazzeri di Livorno, unico tra gli astanti, non si era alzato quando l’orchestra aveva suonato gli inni nazionali, la Marcia Reale e Giovinezza. Nel giugno 1943 viene arrestato nuovamente in quanto, dopo una perquisizione domiciliare vengono rinvenuti ritagli di giornale, manoscritti vari e corrispondenza a sfondo sovversivo, corrispondenza che egli teneva in particolare con Athos Aringhieri, un contadino di Castell’Anselmo, frazione di Collesalvetti, in passato appartenente alle organizzazioni sindacali rosse. Trasferito per sfollamento nel carcere di Perugia, viene proposto all’ammonizione dalla quale viene tuttavia sospeso nell’agosto del 1943 a causa della caduta del Fascismo. Dopo l’armistizio del settembre del 1943 diventa comandante partigiano. Nel 1944, al momento della Liberazione è nominato dal CLN sindaco del Comune di Collesalvetti per il PCI carica che mantiene sino al 1951. In occasione della Rivoluzione Ungherese dell’ottobre/novembre 1956 è tra coloro che deplorano e condannano l’intervento sovietico a Budapest, venendo per questo motivo emarginato dalla dirigenza togliattiano del PCI. Muore a Collesalvetti il 3 giugno 1960.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen. Antifascisti nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; F. Bertini, Con il cuore alla Democrazia, Debatte editore, Livorno, 2007; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze 2006.




“Altri muri sono sorti…”

Virginio Monti (Lucca, 1947) negli anni ’60 milita nel movimento studentesco lucchese e nelle file della sinistra extraparlamentare marxista-leninista; dopo la militanza in Democrazia proletaria si iscrive a Rifondazione comunista, dalla quale esce per aderire al Movimento per la confederazione dei comunisti. Studioso della storia della Resistenza e del movimento operaio, argomenti ai quali ha dedicato numerose pubblicazioni per la casa editrice lucchese Tra Le Righe; il suo ultimo libro è “La questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca” (2021).

Quali sono state le tue prime esperienze di militanza politica?

Le mie prime esperienze risalgono al 1968 con il movimento studentesco lucchese: militavo nei Comitati D’Azione e che hanno portato a tante lotte studentesche e occupazioni importanti, come quella del comune di Lucca [1]. Da bravi extraparlamentari agivamo e partecipavamo alle numerose lotte operaie, poiché l’unità di studenti e operai era necessaria a sviluppare una lotta rivoluzionaria allo Stato borghese, ai padroni e a tutti coloro che avevano abbandonato gli ideali della Resistenza e poco facevano per imporre il dettato costituzionale.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia proletaria? E perché proprio DP e non il PCI?

Dopo la mia esperienza in un’organizzazione M-L, come gli altri compagni provenienti da organizzazioni come AO, LC, Potere Operaio (non quello pisano), dalla Lega dei Comunisti, dal Movimento Lavoratori per il socialismo(MLS), la scelta di non aderire ma di proseguire a contrastare la linea politica del PCI era già stata fatta e attuata. Il PCI e il PSI erano già interni alle logiche dei partiti liberali e borghesi, puntelli di una società italiana che non aveva né rinnovato né trasformato le istituzioni, la magistratura, i corpi di polizia, le prefetture, le dirigenze scolastiche, rispetto al periodo precedente l’avvento della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza, abbondantemente tradita.

Cosa significava la scelta comunista in un territorio tradizionalmente conservatore come la Lucchesia?

Intanto devo dire che la scelta comunista non coincideva necessariamente con l’appartenenza al PCI, anzi nel corso degli anni ’60 e ’70,e da lì in poi ha riguardato tanti compagni in aperto contrasto con la politica del PCI e della CGIL, scivolata verso strade concertative con il sistema capitalistico e i suoi tradizionali referenti politici.

Ovviamente essere comunisti e vivere in un territorio come quello della Val di Lima, Valle del Serchio e Garfagnana, dominato nel dopoguerra dalla DC, non era facile: dichiararsi comunisti e comunque essere di sinistra, compreso il PSI, almeno rispetto ad altre aree della Versilia o del Livornese e del Pisano, dove vi sono sempre stati numerosi centri di aggregazione per il popolo della sinistra (dalle Case del popolo alle presenze aggregative – seppur sporadiche – delle più rappresentative forze della sinistra extraparlamentare e anarchica). Ambienti dove il cuore almeno si rifocillava.

Da noi i compagni migliori sono stati costretti ad emigrare in massa per poter lavorare, soprattutto gli ex partigiani che se non avevano un’attività in proprio erano costretti ad andarsene chi in Francia, chi in Germania o nelle miniere del Belgio a prendere la silicosi, oppure in Svizzera e persino oltreoceano (seppur in misura minore). Ricordiamoci che in Italia fra il 1951 e il 1960 ci sono state 3.939.000 partenze, e dal 1961 al 1970 sono emigrate 2.632.650 persone, per lo più uomini e capofamiglia; chi trovava lavoro da noi a parità di mansione riceveva sì e no il 50% di quello che era un salario nel resto dell’Europa.

Alla fine ovunque essere comunisti voleva dire avere mille difficoltà, subire persecuzioni che si estendevano ai familiari: chi è rimasto a lavorare in Italia – che facesse il cavatore sulle Apuane o il figurinaio a Bagni di Lucca – sa cosa voglio dire. Se venivi licenziato – con o senza giusta causa – potevi essere il miglior lavoratore del mondo… una volta marchiato come comunista di posti dove lavorare non ne trovavi più, e succede tutt’ora perché la precarizzazione è aumentata e alla scadenza del contratto la storia lavorativa si conclude quasi sempre e senza bisogno di giustificazioni particolari.

DP si è sempre dichiarata contraria al modello di socialismo proposto dall’Unione Sovietica. Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino, e due anni dopo l’URSS si scioglie: il tuo pensiero su questi eventi?

All‘abbattimento pacifico e festoso del muro di Berlino, avvenuto il 19 Novembre 1989, segue due anni dopo la scomparsa del Patto di Varsavia; il 26 Dicembre 1991 si dissolve la stessa URSS. Qualsiasi persona di buon senso era portata a credere che si erano create le condizioni ottimali per avviare un percorso di pace e di un progressivo disarmo, a cominciare dall’armamento nucleare. Invece per Washington è l’occasione per rafforzare la propria presenza economico-politico-militare nell’area strategica del Golfo, portando alla guerra in Iraq.  Viene varato “il nuovo concetto strategico dell’alleanza”, dove si ribadisce che la “direzione militare come fattore essenziale” sarà al servizio di un concetto più ampio di sicurezza: tale strategia è fatta propria dall’Italia con le missioni in Iraq, Somalia, Kosovo (quando verrà coniata la formula della “guerra umanitaria per difendere gli aggrediti”, e l’allora presidente del consiglio D’Alema parlerà di “diritto di ingerenza umanitaria”).

Dopo la caduta del muro di Berlino altri muri sono sorti, poco conosciuti perché parlano la lingua dell’imperialismo occidentale, e da allora l’Alleanza Atlantica va alla conquista dell’Est, inglobando una quindicina di nazioni che circondano la Russia. Il processo della grande NATO e del nuovo modello di “difesa” successivo alla caduta del muro ci dicono che il mondo è cambiato in peggio e chissà come finirà.

Negli stessi anni il Partito comunista italiano avvia quel processo di trasformazione che nel 1991 porterà alla fondazione del PDS (Partito democratico della sinistra). Come studioso e militante di una formazione marxista ma critica nei confronti del PCI, qual è il tuo pensiero sulla svolta della Bolognina?

Il 12 Dicembre 1989, anniversario della strage di Piazza Fontana e tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino, al rione Bolognina del quartiere Navile a Bologna, l’allora segretario del PCI Achille Occhetto annunciò la necessità di una “svolta”, che porterà il 3 Febbraio 1991 allo scioglimento del PCI stesso. Occhetto usò termini vaghi e generici come “non continuare su vecchie strade”, “impegnarsi in grandi trasformazioni e cambiamenti come ha fatto Gorbaciov in URSS”, “unificare le forze di progresso”, “dobbiamo inventare strade nuove”. DP mai aveva pensato all’Unione Sovietica come esempio da seguire per l’edificazione del socialismo e dare concretezza al pensiero di Marx, Engels e dello stesso Lenin; per noi demoproletari l’URSS era un paese socialista a parole e imperialista nei fatti, guidato dal partito e dal suo capo né più né meno come un paese capitalista. La “svolta” compiuta però riguardava l’abbandono dell’ideologia e di una pratica comunista e la necessità di tenere in vita un partito di classe per la difesa e lo sviluppo delle classi sfruttate e subalterne. Per rimanere in tema voglio ricordare che, con le elezioni del 2001, si compie la parabola del vecchio PCI e della stessa Rifondazione Comunista (quest’ultima iniziata proprio con l’opposizione alla svolta di Occhetto e allo scioglimento del PCI e conclusa con l’approdo di Cossutta prima e di Bertinotti poi nelle sabbie mobili del centrosinistra. Sarà un caso, ma con l’assenza di una forza comunista organizzata il dissanguamento della democrazia costituzionale e della sinistra di classe sono andati di pari passo.

Il viaggio del PCI verso la sua scomparsa è forse già iniziato nel 1973, quando Berlinguer propose il “compromesso storico”dalle pagine della rivista “Rinascita”, riflettendo sul colpo di stato in Cile: per dare seguito al suo pensiero il PCI si astenne al monocolore DC – guidato da Andreotti – nell’Agosto del 1976. Ma il passaggio completo e definitivo del PCI dal campo delle forze social-comuniste a quello capitalistico (sul quale si dovevano e si potevano fare delle “riforme di struttura”) c’è stato quando nel 1981 Berlinguer affermò che preferiva restare sotto “l’ombrello protettivo della NATO”, perchè quello scudo non impediva di costruire il socialismo nella libertà per DP si trattava di contrastarli entrambi. Ma Occhetto non era Berlinguer, capace anche di fare autocritica e rettifiche sul campo, e per lui e il resto della compagine dirigente – tranne il vecchio Pietro Ingrao – quella svolta è stata l’abbandono dell’ideale comunista e dell’antimperialismo, per passare alla partecipazione attiva nella costruzione del sistema elettorale maggioritario e nella direzione dell’americanizzazione della politica auspicata da Licio Gelli, accettando la NATO come forza militare indispensabile per accompagnare l’economia e la politica occidentale alla conquista dell’egemonia planetaria.

[1] A titolo di approfondimento si rimanda al volume AA. VV., E la vita cambiò. Il ’68 a Lucca (Carmignani, Pisa 2018), che raccoglie numerosi scritti di militanti del ’68 lucchese; la testimonianza di Virginio Monti, allora giovane studente dell’ITIS, si trova alle pagine 139-148, ed è tratta dal libro scritto da Monti stesso Il futuro passato. Gli anni ’60 e l’imperdibile ’68 (Tra Le Righe, Lucca 2018).