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Scioperare contro Hitler: una testimonianza

All’inizio del 1944 la direzione del PCI per l’Alta Italia riunì i rappresentanti dei comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e decise di organizzare uno sciopero generale nelle regioni del triangolo industriale. L’iniziativa venne poi discussa con gli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia ed estesa al Veneto, all’Emilia ed alla Toscana. Alla data stabilita (1° marzo 1944) circa un milione di lavoratori entrò in lotta, dando vita al più grande movimento di massa verificatosi in Europa sotto l’occupazione nazista. Pieno di rabbia, Hitler ordinò personalmente a Rudolph Rahn, suo ambasciatore a Salò, di far deportare il 20% degli scioperanti, ed anche se «il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per ‘difficoltà tecniche’ inerenti ai trasporti e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica» (Pietro Secchia-Filippo Frassati, Storia della Resistenza, vol. I, Roma, Editori riuniti, 1965, p. 476), tuttavia settecento operai vennero deportati da Torino e varie centinaia da Milano.

In Toscana, a causa di ritardi verificatisi nella preparazione, l’agitazione cominciò il 3 marzo. A Prato lo sciopero, appoggiato da tutti i partiti antifascisti, fu preparato dal PCI nel primo bimestre del 1944. I repubblichini risposero con i rastrellamenti alla buona riuscita dell’agitazione: centotrentasette persone vennero deportate nei campi di sterminio tedeschi (Ebensee, Gusen, Hartheim, Mauthausen … ): i superstiti furono soltanto ventuno.
Tra i principali organizzatori dello sciopero vi fu Renzo Martelli, un coraggioso combattente antifascista che nel 1941 era stato arrestato e deferito al Tribunale speciale, riportando una condanna a sette anni di reclusione con sentenza del 28 aprile dell’anno successivo (su Renzo Martelli, oggi scomparso, cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, H-M, Milano, La pietra, 1976, ad vocem). Il 9 settembre 1991 Renzo mi rilasciò un’intervista sui giorni dello sciopero a Prato che venne pubblicata alcuni anni dopo da Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 31 luglio 1997. Ne riproponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento con lievi modifiche.

Nel libro Un popolo alla macchia (Roma, Editori riuniti, 1975) Luigi Longo scrive che gli scioperi del marzo ’44 furono decisi dalla direzione del PCI per l’Alta Italia unitamente ai comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del ’43. Questa iniziativa venne poi approvata dai CLN (pp. 134-135). Quale organismo decise lo sciopero a Prato?

A Prato fu il CLN che deliberò lo sciopero su proposta dei comunisti. Parallelamente alla discussione che si svolgeva all’interno del CLN, il PCI organizzò alcune riunioni in località La Catena [Quarrata, N.d.C.], per discutere gli aspetti organizzativi dello sciopero. A tali riunioni prese parte Giuseppe Rossi, segretario provinciale del partito. A Prato i principali organizzatori dello sciopero furono – oltre al sottoscritto – Dino Saccenti, Bruno Rosati, Cesare Rosati, Alimo Gori ed Alberto Innocenti.

Sempre Luigi Longo afferma che lo sciopero generale fu attuato nelle principali città dell’Alta Italia il 1° marzo 1944 (p. 136), e che in Toscana esso cominciò due giorno dopo “per il ritardo nella preparazione” (p. 139). Da che cosa dipese questo ritardo?

Tale ritardo fu dovuto alla difficoltà di raggiungere, a proposito della proclamazione dello sciopero, l’unanimità in seno al CLN (che non deliberava a maggioranza, ma, per l’appunto, all’unanimità). Lo sciopero avrebbe comunque avuto luogo perché il PCI era deciso ad organizzarlo anche senza l’appoggio degli altri partiti ciellenistici. La proposta comunista di indire lo sciopero fu sostenuta soprattutto dai socialisti e dagli azionisti. Gli altri erano più tiepidi. I democristiani si pronunciarono a favore dello sciopero, ma il loro apporto sul piano organizzativo fu poi molto limitato.

Aspetti organizzativi. Come venne preparato lo sciopero a Prato? Come furono avvisati gli operai e che cosa fu fatto perché l’astensione dal lavoro fosse la più ampia possibile?

Nei 3-4 giorni che precedettero lo sciopero il PCI costituì delle squadre che agivano durante il coprifuoco lasciando dei manifestini sui davanzali delle finestre, sotto le porte, in campagna, ecc. La notizia dello sciopero fu inoltre diffusa oralmente. Infine il PCI organizzò, la mattina del giorno in cui lo sciopero doveva cominciare, dei posti di blocco, formati da 3 o 4 uomini armati, sulle principali vie di accesso alla città (io facevo parte del nucleo che si trovava alla Madonna del Berti). Lo scopo era quello di rimandare indietro gli operai che si recavano al lavoro, ma solo facendo opera di persuasione, evitando naturalmente minacce o violenze. Le armi servivano nel caso in cui fossimo stati sorpresi dai nazifascisti. Da rilevare che alcuni operai decisero di andare regolarmente in fabbrica senza darci ascolto.

Quali erano gli obiettivi dello sciopero?

Pace e libertà per il popolo italiano. Non furono allora avanzate rivendicazioni di carattere salariale, ecc. L’obiettivo prioritario era la liberazione del Paese.

Quale fu l’estensione dello sciopero? Grosso modo, quante fabbriche ne furono interessate e quanti furono gli scioperanti?

Lo sciopero riuscì bene. Ci furono delle defezioni, ma nella maggioranza delle fabbriche non si lavorò. Sarebbe tuttavia scorretto parlare di astensione generale dal lavoro.

Quale fu la durata dello sciopero? A questo riguardo le cose non sono del tutto chiare.

Lo sciopero cominciò il 4 marzo e si concluse il 7 col rientro graduale degli operai nelle fabbriche. Il 10 io fui incaricato dal centro fiorentino del partito di riorganizzare una formazione partigiana nei dintorni di Vicchio [la Compagnia Ceccutti, N.d.C.] e partii alla volta del Mugello. Ora, se lo sciopero fosse stato ancora in corso a quella data o nei giorni immediatamente precedenti (8 e 9 marzo) io, che ne ero stato uno degli organizzatori, non avrei evidentemente lasciato Prato. Ciò sarebbe stato alquanto strano.

Quale fu il comportamento degli industriali? Anche a questo riguardo le cose non sono del tutto chiare (cfr. Alessandro Affortunati, Vaiano e la sua Casa del popolo. Il movimento operaio nella Valle del Bisenzio, Prato, Pentalinea, 2000, pp. 75-76).

Gli industriali lavoravano per i tedeschi. Essi guardarono quindi con sfavore allo sciopero, ma non mi risulta che le loro responsabilità siano state particolarmente pesanti. Ci furono comunque degli episodi (per esempio al Lanificio Campolmi) che diedero adito a sospetti.

Carlo Ferri ne La valle rossa (Vaiano, Viridiana, 1975, p. 95) scrive che lo sciopero provocò l’interruzione di ogni collegamento fra la città ed i partigiani. A questo riguardo ci fu dunque una carenza organizzativa che si risolse nella mancanza di coordinazione fra la città e la formazione che si trovava ai Faggi?

Lo sciopero creò indubbiamente degli scompensi, ma una formazione partigiana deve essere autonoma. I partigiani che si trovavano ai Faggi dovevano dunque risolvere da soli il problema dei rifornimenti. Non potevano aspettarsi di ricevere allora particolari aiuti dalla città.

Secondo quali modalità ebbero luogo i rastrellamenti attuati dopo lo sciopero?

Non furono seguite modalità particolari: i tedeschi catturavano tutti quelli che capitavano loro a tiro. Va sottolineato il fatto che i repubblichini ebbero gravissime responsabilità nei rastrellamenti perché erano loro che conoscevano bene i luoghi, le fabbriche e le persone.

A tanti anni di distanza quale bilancio ritieni di poter fare dello sciopero del marzo ’44?

Lo sciopero sollevò il morale della gente nonostante le deportazioni. Dimostrò che agire era possibile, se se ne aveva la volontà, ed è significativo il fatto che, dopo la fine dello sciopero, il numero delle persone che salivano in montagna aumentasse. A Prato, come nel resto del Paese, lo sciopero del ’44 fu una tappa importante della lotta di liberazione.




Andrea Devoto

Il lavoro di Andrea Devoto (fiorentino, 1927-1994), psichiatria, psicologo, ma anche storico, attraversa tutta la seconda metˆà del Novecento. Docente in psicologia sociale, fu tra i primi a occuparsi dei lager. Nel 1960 usciva La tirannia psicologica (Sansoni), seguito a un anno di distanza da Il linguaggio dei lager: annotazioni psicologiche (in «Il movimento di Liberazione in Italia», n. 65, 1961), mentre nel 1962 pubblicava Psicologia e psicopatologia del lager nazistan. 9, 1962). Giàˆ nel 1964 dava alle stampe uno strumento di orientamento, la Bibliografia dell’oppressione nazista (Olschki, a cui aggiungevaˆ un secondo volume nel 1983), dove elencava le prime opere di memorialistica, antologie e studi.

In questa prima fase, un’epoca durante la quale gli studi erano ancora pochi, Devoto, lavorava assiduamente alla ricostruzione di quanto avvenuto, ricostruendo i meccanismi di funzionamento dei campi, collezionando immagini, elaborando e confrontando le piante dei lager, delineando le differenze tra KL e VL. Al tempo stesso, iniziava a riflettere, partendo dalla propria disciplina, su quanto avvenuto alle persone, sulla loro esperienza fisica ma anche emotiva-mentale durante il trasporto e poi dentro il lager, discutendo i primi lavori usciti sul tema, come quelli di Betteleheim (giˆà del 1943), Kogon (1946), Frankl (1947) e Cohen (1952). Devoto rifletteva sui processi all’interno dei quali passava la vittima, dallo sradicamento, con la conseguente crisi d’identitàˆ e il portato di stress continuo, fino alla desocializzazione/risocializzazione dell’individuo nel nuovo contesto concentrazionario, che poteva portare a vari esiti, dalla resa completa allo sviluppo di meccanismi di autodifesa fino a forme di resistenza, sia individuali che collettive.

Il suo interesse per le istituzioni totali, seguendo Goffman, lo porta ad analizzare le esperienze della deportazione e del lager alla luce delle categorie analitiche a lui più familiari. L’oppressione nazista può˜ essere scomposta in tre aspetti: persecuzione, deportazione e sterminio, ed il lager, come sistema, un elemento fondante del nazismo, uno strumento di cui nessun regime “assolutista” potràˆ mai più fare a meno nel futuro. Devoto sostiene, anticipando molti, la necessitàˆ di smettere di considerare il nazismo, ed i suoi crimini, come un qualcosa di unico e di irripetibile. Si deve semmai capire come sia possibile giungere, in determinate situazioni, ad estremizzazioni del genere. Ritiene pertanto che si possano mutuare utili strumenti d’indagine facendo collegamenti e paragoni con situazioni, se non normali, almeno accettate, quali i disastri, le istituzioni totali, l’aggressivitàˆ e l’uso della violenza.

Da psicologo, lavorando sui testimoni, sviluppa ricerche prossime ai metodi della storia orale. Non a caso, partendo dai testimoni, arrivaˆ ad interrogarsi e ad analizzare le esperienze dei sopravvissuti dopo la liberazione. Comincia qui la seconda fase del suo lavoro, giunta a piena maturazione negli anni ′80, in collaborazione con l’Aned del Piemonte. Non solo la raccolta delle testimonianze, ma anche le forme e i modi per la loro condivisione paritaria ed empatica, che liberi i sopravvissuti dalla sindrome di diversitàˆ che trattiene ancora il lager dentro di loro.

Per Devoto non solo un’operazione psicologica e didattica, ma una vera e propria proposta di pace da rivolgere al mondo. Su questa scorta lavoraˆ con l’Aned alla raccolta di circa 70 interviste a sopravvissuti toscani tra il 1987 ed il 1989. Sono gli anni in cui, come testimonia il suo archivio recentemente riordinato, Devoto si dedica a un’opera, rimasta incompiuta, per la quale prevedeva vari titoli compresi nella dizione “dall’isolamento alla condivisione del ricordo”, e che solo parzialmente hanno visto la luce in forma stampata nell’ultimo frutto dei suoi lavori, affidato nel 1992 ad Ilda Verri Melo, dal titolo emblematico de La speranza tradita.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




Un secolo ed un architetto: Giovanni Michelucci

Il 7 aprile 2014 siamo giunti alla terza presentazione del documentario, sottotitolato in inglese, Giovanni Michelucci. Elementi di vita e di città, regia di Cristiano Coppi, al Cinema Odeon di Firenze realizzato con la Provincia di Pistoia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole con il contributo della Regione Toscana e in quest’occasione con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia in collaborazione con l’Università di Firenze, Dipartimento di Architettura DIDA/Festival Internazionale di Architettura in video MEDIARC.

Le precedenti presentazioni erano state al cinema Globo di Pistoia nel dicembre 2012 e al Museo MAXXI di Roma nel maggio 2012.

Il documentario racconta i cento anni vissuti da Giovanni Michelucci e i momenti che hanno segnato la sua vita di uomo e di architetto. Attraverso filmati dell’epoca, riprese delle sue opere più importanti e interviste, il documentario vuole descrivere la complessità ed il fascino di un personaggio di cui tanto si è scritto ma che ancora oggi conserva molti aspetti da esplorare. Collaboratori, architetti e storici dell’architettura, come Claudia Conforti, Paolo Portoghesi, Corrado Marcetti, Mauro Innocenti, Marco Dezzi Bardeschi, Francesco Dal Co, solo per fare qualche nome, hanno raccontato le molteplici sfumature di uomo che ha attraversato un secolo, il secolo breve cogliendone i mutamenti. La puntuale regia di Cristiano Coppi si è avvalsa di un comitato scientifico composto da Andrea Giraldi, Matilde Montalti e Alice Vannucchi.

Nato il 31 dicembre 1890 a Pistoia in una famiglia proprietaria di un’officina per la lavorazione artigianale e artistica del ferro, si diploma all’istituto Superiore di Architettura dell’Accademia di Belle Arti, nel 1914 ottiene la licenza di professore di disegno architettonico; insegnerà presso l’istituto superiore di architettura di Firenze e sarà eletto Preside della Facoltà di Architettura nel 1944.
Durante la grande guerra Michelucci realizza una cappella sul fronte orientale vicino a Caporetto: più volte sarà costretto a confrontarsi con gli effetti della catastrofe (la ricostruzione del centro di Firenze dopo la seconda guerra mondiale, la risistemazione del quartiere popolare di S. Croce dopo l’alluvione, la chiesa a Longarone dopo la tragedia del Vajont). Dopo la guerra lascia le “Officine Michelucci”. All’ambiente artistico pistoiese, in cui svolge un ruolo importante di riferimento intellettuale, appartiene anche Eloisa Pacini, raffinata pittrice, che sposa nel 1928 conosciuta frequentando politici, intellettuali, pittori e musicisti mondanità di Roma dove vive dal 1925.
La sua adesione al regime fascista e oculate frequentazioni lo portano nel 1933 ad essere coordinatore del gruppo toscano e alla vittoria nel concorso per la Stazione di S. Maria Novella a Firenze con un’opera di valore internazionale per le qualità funzionali e per l’inserimento nel contesto storico e urbano.
3Dopo la guerra, che osserva da lontano isolandosi  nella sua casa alla Cugna, immersa nella natura della montagna pistoiese e che sarà nuova fonte di ispirazione,  crea la rivista “La Nuova Città”, espressione di un nuovo atteggiamento verso la società, dialogante e partecipativo, propone per la ricostruzione della zona attorno a Ponte Vecchio ipotesi innovatrici che s’infrangono di fronte alla tendenza conservatrice della città. Nel 1948 Michelucci lascia la presidenza della Facoltà di Architettura di Firenze passando alla facoltà d’ingegneria di Bologna; continua la ricerca di un nuovo linguaggio dell’architettura: la concezione dello spazio percorribile, la città variabile, un nuovo rapporto antico-moderno che si esprime anche nell’uso congiunto della pietra e del mattone con il cemento armato, l’acciaio e i nuovi materiali, così le idee prendono forma come  per la Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, a Campi Bisenzio, conclusa nel 1964, trait d’union di un paese in pieno miracolo economico, nella quale Michelucci anticipa i temi di una Chiesa in mutamento come sarà sancito dal concilio Vaticano II, o con la Chiesa di Borgo Maggiore, nella Repubblica di S. Marino.

6Nel 1967 progettò con Mauro Innocenti l’ospedale di Sarzana affrontando così il tema della degenza, ma la costruzione, avviata nel 1974 si protrasse per decenni e non poté vederla ultimata.

Nel 1972 nel saggio Brunelleschi mago,pubblicato con l’editore  ed amico pistoiese Tellini, con la postfazione di Mario Aldo Toscano. Bruno Zevi scrive su “L’Espresso” dei colloqui informali e antiaccademici di Michelucci con Brunelleschi. Il titolo è suggerito da un passo di Kafka “Perché mago? Non so, ma è capace di provocare un vivo sentimento di libertà…”. Wanda Lattes in un  intervista a Michelucci presso la sua casa al Roseto a Fiesole descrive il libro come un “volumetto elegante, raffinato senza illustrazioni, spoglio di banali concessioni alla civetteria consumistica” con chiaro intendimento pedagogico e civico, nato non ambizione filologica ma come proseguimento di quelle lezioni impartite per anni in cattedra. Mario Toscano l’ha ascoltato per anni, poi ha iniziato a registrare i suoi discorsi spontanei; uno scritto che nasce quindi come discorso socratico tra un docente e tanti non individuati discenti.

michelucciNel 1974 muore la moglie Eloisa ed inizia un nuovo decennio creativo e progettuale. Nel 1982 Giovanni Michelucci costituisce con la Regione Toscana ed i comuni di Fiesole e Pistoia la “Fondazione Michelucci”, mentre una donazione di disegni al Comune di Pistoia costituisce il “Centro di documentazione Giovanni Michelucci” di Pistoia.

Le pagine de La Nuova Città,  riflettono su temi come Carcere e città, Scuola e periferia, Città e follia, e portano all’ideazione del Giardino degli incontri nel carcere fiorentino di Sollicciano, un progetto sviluppato dal 1986 con i detenuti per creare un luogo di incontro  con i familiari, ultimato nel 2007. Il 31 dicembre 1990 muore a Fiesole.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.




La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.




Parlare di Norma, settant’anni dopo

Può stupire che siano occorsi settant’anni prima del tentativo di ricostruire compiutamente un episodio eclatante, come l’ uccisione di una donna medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, il 23 giugno 1944 a Massa Marittima, alla vigilia della Liberazione. Ma non più di tanto, in ragione di un contesto complicato da capire e narrare, e di una lotta resistenziale tra le più aspre del territorio.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

Era una giovane donna di ventitre anni Norma Parenti, nata a Monterotondo Marittimo, presso Massa Marittima. Fu “prelevata” dalla trattoria di famiglia insieme alla madre, trascinata via, lei sola trattenuta e barbaramente uccisa. L’arresto fu opera di soldati tedeschi, le sevizie e l’uccisione videro con certezza la partecipazione di fascisti. Le ragioni dell’arresto e della condanna a morte: l’aiuto offerto alle bande partigiane, l’audacia, percepita come sfrontata provocazione dalle autorità della Repubblica Sociale.

Ma non è stata scritta una biografia di Norma, né quando si cominciarono a scrivere storie di Resistenza, meno che mai quando le ondate revisioniste tesero a ribaltare stereotipi, sminuirla o reinterpretarla. Il primo e a lungo unico testo pubblico in memoria di Norma è un opuscolo dell’UDI, in cui è “giovane sposa e madre”, “avviata al suo doloroso calvario”. La richiesta della medaglia d’oro al valor militare indirizzata al Ministro della guerra il 12 gennaio 1945 dalla “Commissione dell’UDI per la Guerra” e le carte allegate danno conto di un impegno forte dell’UDI, del Partito Comunista massetano e del Comune fino a quella data. C’è tra i documenti una scarna relazione del comandante della banda Camicia rossa, Mario Chirici; null’altro finora è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione Nazionale.

Di Norma in un intenso, breve richiamo parla Wanda Parracciani, staffetta sull’Amiata, fra le fondatrici dell’UDI, alla Conferenza organizzativa del PCI a Grosseto nell’agosto del 1944. Quella di Wanda è una relazione tutta politica sul ruolo delle donne nella ricostruzione; della loro Resistenza parla per legittimarne il ruolo in tempo di pace, perché, sostiene, “la donna non intende fermarsi a quello che ha fatto in circostanze eccezionali”. Norma è definita martire, eroina e “compagna”. In realtà è il marito a comparire nei documenti “rappresentante del P.C.I. nella Commissione epurazione” di Massa Marittima.

Frammenti della vicenda e qualche tratto della personalità si leggono negli anni Settanta, nel volume Donne e Resistenza in Toscana e nello studio di Marcella Vignali Clero e Resistenza nella Provincia di Grosseto. Si devono attendere i Duemila per trovare nella letteratura locale dati, testimonianze, ma non un organico studio. È così che si arriva a un risveglio di interesse nei dintorni di un appuntamento imposto dal calendario civile: il settantesimo. Il 2014 è l’anno della pubblicazione di un volume di testimonianze inedite, della produzione di un documentario, di due spettacoli teatrali. Si racconta del fortunoso ritrovamento di una scatola di fotografie di Norma, ora in mostra nel Palazzo del Comune, fonti per gli scritti e le rappresentazioni.

Un progetto in attesa di essere realizzato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea e dal Comune di Massa Marittima – Norma e le altre – pone domande su questa e altre figure femminili, per scavare nel tessuto della cultura civile e politica locale. Qui la tradizione mazziniana si era radicata nell’Ottocento con esiti importanti: un forte partito repubblicano, la nascita precoce del movimento sindacale, una presenza che attraversa un secolo di quella particolarissima cultura operaia, patrimonio dei lavoratori delle miniere. Ma Massa Marittima è anche luogo di lacerazioni forti: allo scontro consumatosi tra fascismo e antifascismo si sommerà già durante la Resistenza e nel dopoguerra il conflitto tra le due anime dell’antifascismo, la repubblicana e la comunista. Le donne danno prova di una maturità politica che le inserisce nella vita dei partiti e nelle istituzioni: consigliere, assessori nel tempo della ricostruzione. Ma anche testimoni dolenti e vittime di lutti – enorme quello della strage di Niccioleta, seguito da un processo che squassò le famiglie del villaggio minerario, ma con echi profondi nella stessa vicinissima Massa Marittima. Furono condannati non gli esecutori del massacro degli 83 minatori e i responsabili tedeschi della strategia del terrore, ma i fascisti, accusati di aver sollecitato e indirizzato i carnefici. Testimonianze raccolte in tempi diversi restituiscono una narrazione toccante, che disegna il clima di quello che doveva essere il tempo del superamento delle devastazioni della guerra totale, mentre più che altrove ne conservava profonde ferite.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

È stata scritta la storia della strage della Niccioleta e tuttora si continua a scavare. Della Resistenza, con una certa continuità si è parlato, anche polemicamente, e si è scritto. Su Norma il tempo dei silenzi è stato più lungo delle fasi di memoria. La distanza ha accresciuto la difficoltà di raggiungere un’interpretazione. Rigida e ferma nel suo essersi schierata a fianco delle bande partigiane e contro i fascisti e i loro alleati occupanti, quanto indefinibile rispetto alle categorie delle appartenenze politiche. Cattolica fervente, moglie di un comunista, sempre presente dove c’era da aiutare, nutrire, nascondere, convincere gli indecisi a raggiungere le bande alla macchia, seppellire morti partigiani. Scrisse Marcella Vignali che Norma era attiva nel Circolo Giovanna d’Arco dell’Azione Cattolica, distribuiva volantini con la falce e il martello e dopo la Liberazione “una delle più belle e attendibili testimonianze sulla personalità di Norma” fu offerta al Teatro Mazzini dal Vescovo di Massa Marittima.

La memoria recente di una massetana, bambina all’epoca, trasmette il pensiero della madre: “era un po’ impulsiva, la sua era una scelta dettata da una vitalità estrema, non una scelta politica”. Il suo racconto dei giorni dell’uccisione, del ritrovamento del cadavere e del funerale, raccolti dalla madre e dalle altre tocca i contorni umani: la disobbedienza di Norma al divieto di dare sepoltura al corpo del partigiano Guido Radi evoca l’archetipo femminile della legge del cuore – il sacrificio di Antigone. Tuttavia quella pietas è al confine tra pubblico e privato: la trasgressione all’ordine imposto dal potere nazifascista invia un messaggio che è anche politico a chi assiste al suo gesto.

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Norma Parenti con un bambino, probabilmente il figlio Alberto, s.d.

Così, dall’incerta definizione delle ragioni dell’agire di Norma emerge uno dei nodi più difficili da sciogliere per la Resistenza, sempre, a maggior ragione per la Resistenza femminile: la scelta. Gli scatti che la ritraggono descrivono una ragazza vivace, forse trasgressiva, certo molto bella. La retorica della “sposa e madre” e di una “eroina del secondo Risorgimento” – il linguaggio delle prime celebrazioni – si confonde con un’immagine di modernità che vediamo oggi, ma in tutta evidenza era presente anche allora. Forse è stato così che, passato il momento della compassione e dell’esaltazione del sacrificio necessario per la rinascita politica del paese, non è stato facile per nessuna delle parti assumersi, dandole una appartenenza, la memoria di Norma. C’è poi l’atrocità di quell’uccisione, delle sevizie che il corpo rivelò. La domanda sulla scelta di Norma è insieme domanda sulla scelta di lei come vittima, capro espiatorio, il più adatto a imporre uno sfregio tanto profondo da essere insopportabile a una città che aveva espresso un’opposizione tenacissima al nazifascismo: una ragione in più per spiegare la difficoltà a cimentarsi con una ricostruzione storica puntuale.

Finora, è l’intuito dell’artista – la regista e attrice Irene Paoletti – quello che forse ha saputo meglio restituire il clima cupo di terrore che fu preludio dell’orribile morte di Norma e la rabbiosa e meditata offesa con cui, ormai alla vigilia della rotta, il fascismo volle imprimere un marchio duraturo sulla città. È un caso, non unico, in cui l’arte aiuta la storia.




Il caso “Facio”, il comandante partigiano ucciso dai suoi compagni

E’ l’alba del 22 luglio 1944: ad Adelano di Zeri una scarica di colpi di fucile rompe il silenzio di queste vallate dell’alta Lunigiana fra Toscana, Liguria ed Emilia. Dante Castellucci, il comandante partigiano «Facio», comunista e garibaldino, è morto: ha solo 24 anni ma è già un eroe della lotta contro tedeschi e fascisti. Eppure a fucilarlo non sono i soldati nemici, ma un gruppetto di partigiani della IV Brigata Garibaldi della Spezia. Il suo accusatore è Antonio Cabrelli «Salvatore», di oltre vent’anni più anziano, che ha imbastito contro «Facio» un processo-farsa dalla condanna già scritta, portandolo davanti a un improvvisato tribunale di guerra per i reati di tradimento e sabotaggio.

Quella di «Facio» è una storia di vita, per quanto breve, capace di attraversare e vivere da protagonista grandi temi ed eventi del Novecento italiano. Calabrese, nato nel 1920 a Sant’Agata di Esaro, con la famiglia emigra ancora bambino nel Nord-Pas de Calais, nella stessa città in cui vivono grandi antifascisti italiani come Ermindo Andreoli e i fratelli Gino ed Eusebio Ferrari. I Castellucci rientrano in patria all’alba della Seconda Guerra mondiale e Dante viene chiamato alle armi nell’esercito italiano: spedito sul fronte prima in Francia e poi in Unione Sovietica, il 25 luglio del 1943 si trovava in permesso per convalescenza. Da intellettuale autodidatta scrive, dipinge, suona il violino. Entra in contatto con le famiglie antifasciste emiliane dei Sarzi e dei Cervi, organizzando con esse le prime forme di Resistenza. Divenuto il braccio destro di Aldo Cervi, nel dicembre del 1943 viene arrestato assieme ai sette fratelli ma, fingendosi un soldato straniero, viene rinchiuso nel carcere parmense della Cittadella dal quale riesce ad evadere pochi giorni prima della fucilazione dei compagni a Reggio Emilia. I sospetti del Pci reggiano, che emette una circolare di arresto nei confronti di Castellucci, lo spingono a entrare in contatto col Cln di Parma, dove il dirigente comunista Luigi Porcari lo manda alle dipendenze del Battaglione garibaldino «Picelli» comandato da Fermo Ognibene «Alberto». In Lunigiana, «Facio» si rende protagonista di ripetuti attacchi alle postazioni nemiche, guadagnandosi in breve tempo la fiducia dei compagni e la stima delle popolazioni civili ancora oggi riscontrabile presso i testimoni dell’epoca, fino a divenire Comandante del battaglione dopo la morte di Ognibene. Il 17 marzo 1944 «Facio» fa il suo ingresso nel mito resistenziale con la battaglia del Lago Santo: chiuso in un rifugio con otto uomini male armati, resiste oltre ventiquattr’ore, senza perdite, all’accerchiamento di oltre cento soldati nazifascisti; alla fine i nemici contano decine di morti e feriti e sono costretti alla ritirata ordinata. La battaglia di Lago Santo ricopre il «Picelli» di un alone di leggenda e «Facio», con Fermo Ognibene caduto in battaglia due giorni prima, ne diventa il comandante.

Dante Castellucci Facio in un'immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Dante Castellucci in un’immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Il battaglione interpreta benissimo le tattiche della guerriglia, compiendo attacchi fulminei e spostando continuamente la propria posizione. Disorienta i comandi nazifascisti, convinti di trovarsi di fronte a una formazione composta da centinaia di uomini. Tutela l’incolumità della popolazione civile, perché senza fornire un punto di riferimento territoriale, non concede la possibilità della rappresaglia nazista. Il «Picelli» è anche un esperimento politico e sociale, come nei dettami della lotta partigiana che ha il fine di rovesciare ruoli e costumi della società fascista. Il comandante vive e agisce alla pari dei suoi uomini, li guida in azione, siede a mensa con loro e si serve sempre per ultimo, rinunciando spesso alla propria razione, ed è l’ultimo a usufruire del vestiario ricevuto da un lancio o sottratto al nemico. Quando Laura Seghettini, pontremolese appena uscita dal carcere fascista, entra a far parte del battaglione, non viene destinata al ruolo di staffetta o di aiutante, ma diventa partigiana combattente fino ad assumere il ruolo di vice-comandante. Per poche settimane, Laura sarà anche la compagna di «Facio»: i due già progettano una sorta di «matrimonio in brigata», ma la vita in quei mesi corre troppo veloce.

foto segnaletica di antonio cabrelli_da Archivio centrle dello Stato_Casellario politico centraleAntonio Cabrelli «Salvatore», nominato da «Facio» commissario politico di un distaccamento del «Picelli», intende proseguire la sua scalata ai vertici del movimento partigiano spezzino: ha progettato la costituzione di una brigata garibaldina che faccia capo alla federazione comunista della Spezia e ai comandi liguri, ma il «Picelli» dipende ancora da Parma, cui «Facio» deve tutto. «Salvatore», così, sottrae il distaccamento «Gramsci» dalle dipendenze del «Picelli», lo trasforma in brigata e se ne autoproclama commissario politico. Per portare a termine il suo piano, deve sbarazzarsi dell’ostacolo più grande, rappresentato dal «brigante calabrese», come lo chiama lui: tra i due corrono lettere infuocate con accuse e minacce reciproche; Dante Castellucci sfugge a un agguato tesogli a tradimento; «Salvatore», allora, agisce con l’inganno.

La mattina del 21 luglio 1944 «Facio» viene chiamato al comando della brigata appena fondata da «Salvatore», con la scusa di chiarire la questione di alcuni materiali sottratti a un aviolancio. Convinto di dover affrontare solo un’accesa discussione, si fa accompagnare da due uomini fidati. Appena giunto nella sede del comando, il comandante del «Picelli» viene disarmato, aggradito e picchiato da Cabrelli, che ha imbastito un tribunale di guerra nel quale è, al contempo, accusatore e giudice. Poche ore dopo «Facio» viene condannato a morte per i reati di furto, sabotaggio e tradimento.

L’ultima notte la passa con «Laura», che nel frattempo lo ha raggiunto, sorvegliato da uomini della IV Brigata che a un certo momento gli offrono la via di fuga: «non sono scappato dai fascisti, non scapperò dai compagni» sono le parole di Dante Castellucci. Verga alcune lettere alla famiglia e agli amici emiliani. Scherza, com’è nel suo carattere, racconta qualche barzelletta e riesce pure a dormire un poco, come racconta «Laura».

Alle prime luci del 22 luglio viene prelevato e portato davanti al plotone d’esecuzione: è lui stesso a esortare i partigiani che non trovano il coraggio di sparargli addosso. Con «Facio» muore una delle più interessanti ed efficienti espressioni che il movimento partigiano aveva espresso fino ad allora.

Luca Madirgnani (Carrara, 1977), dottore di ricerca presso l’Università di Siena, assegnista presso l’Insmli, collabora con l’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età Contemporanea Apuana; si occupa di Didattica della Storia nella scuola. Ha pubblicato saggi e articoli sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo; l’ordine pubblico e la violenza politica; la Storia della Resistenza e il movimento partigiano. E’ in corso di stampa per Il Mulino il volume Il Caso-Facio. Eroi e traditori della Resistenza.