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La canzone popolare non morirà

Alcuni anni fa ebbi modo di intervistare Caterina Bueno (1943-2007) per Azione sindacale, il periodico della CGIL di Prato. Per realizzare l’intervista avevo, al massimo, dieci giorni. Ci misi più di tre mesi (Caterina non era facilmente contenibile nello schema domanda/risposta), però nacque un’amicizia. L’intervista uscì nel numero del 1° maggio 1992. La ripubblico oggi su ToscanaNovecento come affettuoso omaggio ad una donna di eccezionale intelligenza e sensibilità che ho avuto la fortuna di conoscere.

Esiste anche in Italia una musica indipendente da quella “ufficiale”: è la musica popolare che si suona con strumenti, scale e modi diversi.
Caterina Bueno è una delle massime esponenti di questo genere musicale che ha fatto conoscere anche all’estero. Interprete e ricercatrice appassionata di canti popolari, ha girato in lungo ed in largo la Toscana raccogliendo dalla viva voce di contadini e di operai centinaia di ore di registrazione: il suo repertorio spazia dalle melodie medievali ai canti del dopoguerra, e la sua nastroteca costituisce un patrimonio di grande valore culturale.
Con Caterina abbiamo avuto un interessante colloquio. Ne proponiamo il testo ai lettori.

Qual è, a tuo avviso, la definizione più corretta di canzone popolare? Quali sono gli elementi che la caratterizzano (e che permettono di separarla nettamente da certa paccottiglia folcloristica), quali ne sono i contenuti?

La canzone popolare è innanzitutto l’espressione di un modo di concepire l’esistenza ed il mondo, è l’espressione di una cultura che si è sviluppata in maniera autonoma rispetto alla cultura egemone. E questo è un punto da tenere ben fermo se si vuole distinguere la vera canzone popolare dal cosiddetto “folk”, un termine che io non amo perché molto spesso è sinonimo di insincerità e di edulcorazione. Poi è essenziale il modo in cui la musica viene tramandata ed utilizzata: le canzoni popolari si tramandano di regola oralmente e non devono essere mercificate, trasformate in prodotti di consumo. Quanto ai contenuti della canzone popolare, essi sono estremamente vari: la canzone popolare, infatti, è stata in pratica, diciamo fino all’epoca della grande guerra, il giornale degli analfabeti, l’unica fonte di informazione per migliaia di persone sparse in tutta la Penisola. Molto spesso il suo contenuto è legato ad avvenimenti politico-sociali di carattere locale o nazionale, ma accanto a questo filone, che è poi quello della protesta e della lotta, ve ne sono molti altri, per esempio quello dei canti di lavoro (basti pensare ai canti della mietitura) o quello di carattere intimistico che comprende svariati motivi, fra i quali spiccano alcune bellissime ninnenanne, nel contempo semplici e poetiche.

Come è avvenuto il tuo incontro con la musica popolare?

È avvenuto nell’ambiente in cui sono cresciuta, un ambiente che mi permetteva di essere in contatto con il mondo contadino. Essendo di origini spagnole, quindi “straniera” fra i miei compagni di scuola, ero molto affascinata da quelle sfumature della lingua che allora permettevano al bambino di un quartiere di riconoscere quello di un altro. Il mio primo incontro fu dunque col dialetto, anzi con la lingua toscana, poi nacque in me un interesse specifico per la musica popolare: i primi motivi li ho ascoltati dalla voce della mia tata, una balia asciutta mugellana che sapeva cantare da donna e da uomo.

La tua attività di cantante si fonda su un lungo lavoro di ricerca sul campo. Quali sono gli strumenti culturali indispensabili perché tale lavoro risulti proficuo?

Certamente bisogna essere mossi da una reale curiosità ed avere le idee ben chiare sull’oggetto della ricerca, sui motivi che è interessante (e possibile) rintracciare. A questo scopo io ho lavorato a lungo in biblioteca, sulle raccolte di canti popolari conservate in Marucelliana, per costruire gli itinerari delle mie indagini, ma soprattutto mi sono basata sul sentito dire. Poi mi sono procurata un registratore ed ho cominciato a setacciare le nostre campagne. All’inizio questo lavoro di ricerca è stato tutt’altro che facile: c’era da vincere la mia timidezza e la comprensibile ritrosia delle persone alle quali chiedevo di cantare, specialmente delle donne. Spesso mi sono fatta presentare dal sindaco di questo o di quel comune, altre volte ho dovuto inventare dei pretesti per giustificare le mie richieste. Ma, a parte queste difficoltà, il lavoro che ho svolto è stato proficuo, sia perché ho trovato molte canzoni sia perché ho potuto conoscere delle realtà talora insospettabili, della gente che spesso aveva storie lunghe e difficili alle spalle. E questo è stato per me un grande arricchimento interiore.

I canti popolari sono una testimonianza estremamente significativa della concezione della vita delle classi subalterne. Sarebbe quindi molto interessante sapere, ad esempio, quale immagine essi danno del lavoro, della religione, del potere…

Il lavoro è sentito come un peso, perché gli operai ed i contadini sanno di lavorare per il profitto altrui. Nei canti di lotta c’è una precisa consapevolezza della natura classista della società, consapevolezza che non è evidentemente frutto di studi, ma di vita vissuta. Molto significativo è in questo senso un contrasto (che ho raccolto a Vingone) dove una contadina dice ad una marchesina queste precise parole: “Se le sue vesti valgono un tesoro / se vive in festa tra cavalli e cani / quel che mangia o consuma, o mia signora / gli è il prodotto di noi che si lavora”. Qui non c’è ombra di timore reverenziale: c’è la coscienza di essere sfruttati e c’è il coraggio di manifestare apertamente il proprio pensiero. Quanto alla religione, ciò che balza subito agli occhi è il fatto che nella campagna toscana una religiosità popolare radicata convive con un forte spirito anticlericale: Cristo è dalla parte dei poveri, i suoi rappresentanti no. Ai preti viene rimproverato di predicare la rassegnazione e di tradire lo spirito del Vangelo. Un altro punto da sottolineare è l’umanizzazione dei santi, della Madonna e di Cristo stesso. La Toscana è insomma molto più laica delle regioni vicine, segnatamente dell’Umbria. Il potere, infine, viene identificato con lo stato, e quest’ultimo è visto come un’entità lontana ed ostile che si fa viva con la povera gente solo quando si tratta di spremerla o di mandarla a morire in guerra. Qualcuno parlerà di pessimismo, dirà che la canzone popolare dà un’immagine tragica della vita, ma a chi parla così sfugge il fatto che la canzone popolare non fa altro che riflettere delle esperienze di vita e che queste esperienze di vita sono state spesso realmente tragiche.

Tra le tue canzoni più famose vi sono gli stornelli di Italia bella mostrati gentile ed il rispetto intitolato Maremma. Puoi parlarci di questi due brani?

Gli stornelli di Italia bella li ho raccolti nel Casentino, a Stia e nel castello di Porciano. La loro origine va ricercata nelle tensioni innescate dall’emigrazione di fine secolo, un fenomeno che interessò in una certa misura anche la Toscana. A Stia una fabbrica molto importante per il paese era entrata in crisi ed aveva dovuto chiudere. Alla chiusura seguirono i licenziamenti e l’esodo verso l’America. Nacquero così questi stornelli che si segnalano per spontaneità, per assenza di retorica. Il rispetto cui accennavi è invece legato alle migrazioni stagionali verso la Maremma ed è di incerta datazione. Forse risale all’Ottocento e si deve alla poetessa pastora Beatrice del Pian degli Ontani, una ragazza della montagna pistoiese che, nel giorno dello sposalizio, fu colta da uno stato di esaltazione e cominciò ad improvvisare dei bellissimi versi. Chissà, forse aveva bevuto un bicchiere di troppo. Sta di fatto che lei, analfabeta, ci ha lasciato delle cose straordinarie che le diedero una grande notorietà, tant’è vero che ricevette la visita di personaggi illustri dell’epoca, fra cui Giuseppe Giusti e Niccolò Tommaseo. Ma la persona a lei più vicina fu la moglie del conte Cini di San Marcello Pistoiese, Francesca Alexander. Entrambe erano infatti molto religiose.

Nella tua carriera è stata certamente molto importante la partecipazione agli spettacoli Bella ciao (presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel ’64, con la regia di Filippo Crivelli) e Ci ragiono e canto (rappresentato per la prima volta nel ’66 al Teatro Carignano di Torino, con la regia di Dario Fo). Che cosa volevano comunicare al pubblico questi spettacoli?

Ambedue si proponevano, in sostanza, di ricordare e di difendere il patrimonio politico e culturale delle classi popolari diffondendolo fra la gente, ed avevano alle spalle un lavoro di preparazione molto serio, anche da parte dei vari interpreti. Per Bella ciao fu utilizzato in parte il materiale impiegato per uno spettacolo che avevo presentato nel ’63 alla Casa del popolo Andrea del Sarto, qui a Firenze. Lo spettacolo (cui presero parte anche due grandi attori oggi scomparsi, Giorgio Naddi e Roberto Vezzosi) si chiamava Sottostoria d’Italia e, partendo dall’Unità, arrivava fino all’epoca di De Gasperi. Si trattava di un mélange di canzoni e di brani teatrali cui si accompagnavano notizie ricavate dai giornali. Ci ragiono e canto aveva dentro di sé una ricerca ancora più vasta e, rispetto a Bella ciao, era caratterizzato da un maggior approfondimento musicale e gestuale.

Si sa che Luigi Tenco aveva l’intenzione di incidere un disco di canti popolari. Francesco De Gregori è stato tuo chitarrista e ti ha dedicato una delle canzoni dell’album Titanic. Ciò induce a pensare che la musica popolare abbia contribuito al formarsi di una coscienza politica nell’ambito della canzone d’autore italiana. Qual è la tua opinione a questo riguardo?

La musica popolare ha certamente svolto una funzione di codesto genere. I cantautori intendevano infatti svecchiare la canzone italiana e, da questo punto di vista, i canti popolari hanno offerto loro una molteplicità di spunti musicali e contenutistici. Per quanto riguarda Francesco, credo che la familiarità con i temi popolari gli sia stata molto utile per acquistare quell’immediatezza di espressione che oggi tutti gli riconoscono. Si potrebbero fare i nomi di Jannacci, di Gaber, di Paoli, di De André, per arrivare fino a Gianna Nannini, che sulla musica popolare sta preparando la sua tesi di laurea.

La nostra canzone d’autore si è ispirata in larga parte alla chanson à texte francese. Che cosa ne pensi di artisti come Jacques Brel, Georges Brassens e Léo Ferré?

Penso che abbiano contribuito al rinnovamento della società francese e che abbiano cantato l’amore in maniera poetica e personale. E penso anche che queste cose siano tutt’altro che facili. Brassens, in particolare, era molto sensibile alla canzone popolare mediterranea. In una delle sue poesie (Supplique pour être enterré à la plage de Sète) ricorda la villanella, il fandango, la tarantella, la sardana e ciò è indice di un interesse sincero e di una ricerca non superficiale. Peccato che autori come quelli che ricordavi siano praticamente sconosciuti in Italia. C’è un problema di lingua, certo, però non si può fare a meno di osservare che questo problema esiste anche per l’inglese e che mentre le cose meno belle ed interessanti hanno sempre un pubblico pronto ad ascoltarle, le altre, quelle più valide, un pubblico se lo devono faticosamente costruire. Senza contare le responsabilità dei discografici, che promuovono in genere le canzoni più insulse e volgari.

La musica popolare italiana affonda le sue radici nella società contadina. Ma i movimenti migratori dell’epoca del boom hanno sconvolto in pochi anni strutture sociali secolari, inurbando con violenza le masse rurali. A questo fenomeno è seguita la nascita di una musica popolare nelle borgate e nelle periferie delle grandi città?

Secondo alcuni studiosi, senz’altro sì. Io però credo che (pur essendo emerso qualcosa di valido nelle grandi metropoli industriali nel campo della canzone di protesta) sia ancora troppo presto per esprimere dei giudizi. Il maturare di una reale capacità espressiva da parte di gruppi sociali sradicati dalla loro terra è un processo che richiede tempi lunghi. Bisogna superare la smania dell’integrazione che porta a nascondere la propria cultura, poi bisogna socializzare con persone che hanno le stesse origini e gli stessi problemi per rendersi conto del contrasto esistente col mondo in cui si è stati proiettati. E solo a questo punto si può acquisire quella capacità espressiva di cui parlavo. Le cose, quindi, non sono tanto semplici.

Quali sono oggi i filoni più interessanti e le prospettive della nostra musica popolare?

I filoni più interessanti sono senza dubbio quelli che stanno scomparendo, che rischiano di andar perduti per sempre: il ricercatore ne è attratto perché vuole impedire che ciò accada ed è felice quando riesce a raggiungere questo scopo. Quanto alle prospettive, tutto dipende dal modo in cui verrà utilizzato il materiale disponibile, dalla capacità di rendere una certa atmosfera e di suscitare un’emozione in chi ascolta. Lavorare su del materiale nuovo ed originale non è facile, questo è sicuro, ma la canzone popolare esiste da sempre e non è quindi il caso di recitarle il de profundis: non credo che vorrà morire proprio ora.




Un secolo ed un architetto: Giovanni Michelucci

Il 7 aprile 2014 siamo giunti alla terza presentazione del documentario, sottotitolato in inglese, Giovanni Michelucci. Elementi di vita e di città, regia di Cristiano Coppi, al Cinema Odeon di Firenze realizzato con la Provincia di Pistoia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole con il contributo della Regione Toscana e in quest’occasione con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia in collaborazione con l’Università di Firenze, Dipartimento di Architettura DIDA/Festival Internazionale di Architettura in video MEDIARC.

Le precedenti presentazioni erano state al cinema Globo di Pistoia nel dicembre 2012 e al Museo MAXXI di Roma nel maggio 2012.

Il documentario racconta i cento anni vissuti da Giovanni Michelucci e i momenti che hanno segnato la sua vita di uomo e di architetto. Attraverso filmati dell’epoca, riprese delle sue opere più importanti e interviste, il documentario vuole descrivere la complessità ed il fascino di un personaggio di cui tanto si è scritto ma che ancora oggi conserva molti aspetti da esplorare. Collaboratori, architetti e storici dell’architettura, come Claudia Conforti, Paolo Portoghesi, Corrado Marcetti, Mauro Innocenti, Marco Dezzi Bardeschi, Francesco Dal Co, solo per fare qualche nome, hanno raccontato le molteplici sfumature di uomo che ha attraversato un secolo, il secolo breve cogliendone i mutamenti. La puntuale regia di Cristiano Coppi si è avvalsa di un comitato scientifico composto da Andrea Giraldi, Matilde Montalti e Alice Vannucchi.

Nato il 31 dicembre 1890 a Pistoia in una famiglia proprietaria di un’officina per la lavorazione artigianale e artistica del ferro, si diploma all’istituto Superiore di Architettura dell’Accademia di Belle Arti, nel 1914 ottiene la licenza di professore di disegno architettonico; insegnerà presso l’istituto superiore di architettura di Firenze e sarà eletto Preside della Facoltà di Architettura nel 1944.
Durante la grande guerra Michelucci realizza una cappella sul fronte orientale vicino a Caporetto: più volte sarà costretto a confrontarsi con gli effetti della catastrofe (la ricostruzione del centro di Firenze dopo la seconda guerra mondiale, la risistemazione del quartiere popolare di S. Croce dopo l’alluvione, la chiesa a Longarone dopo la tragedia del Vajont). Dopo la guerra lascia le “Officine Michelucci”. All’ambiente artistico pistoiese, in cui svolge un ruolo importante di riferimento intellettuale, appartiene anche Eloisa Pacini, raffinata pittrice, che sposa nel 1928 conosciuta frequentando politici, intellettuali, pittori e musicisti mondanità di Roma dove vive dal 1925.
La sua adesione al regime fascista e oculate frequentazioni lo portano nel 1933 ad essere coordinatore del gruppo toscano e alla vittoria nel concorso per la Stazione di S. Maria Novella a Firenze con un’opera di valore internazionale per le qualità funzionali e per l’inserimento nel contesto storico e urbano.
3Dopo la guerra, che osserva da lontano isolandosi  nella sua casa alla Cugna, immersa nella natura della montagna pistoiese e che sarà nuova fonte di ispirazione,  crea la rivista “La Nuova Città”, espressione di un nuovo atteggiamento verso la società, dialogante e partecipativo, propone per la ricostruzione della zona attorno a Ponte Vecchio ipotesi innovatrici che s’infrangono di fronte alla tendenza conservatrice della città. Nel 1948 Michelucci lascia la presidenza della Facoltà di Architettura di Firenze passando alla facoltà d’ingegneria di Bologna; continua la ricerca di un nuovo linguaggio dell’architettura: la concezione dello spazio percorribile, la città variabile, un nuovo rapporto antico-moderno che si esprime anche nell’uso congiunto della pietra e del mattone con il cemento armato, l’acciaio e i nuovi materiali, così le idee prendono forma come  per la Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, a Campi Bisenzio, conclusa nel 1964, trait d’union di un paese in pieno miracolo economico, nella quale Michelucci anticipa i temi di una Chiesa in mutamento come sarà sancito dal concilio Vaticano II, o con la Chiesa di Borgo Maggiore, nella Repubblica di S. Marino.

6Nel 1967 progettò con Mauro Innocenti l’ospedale di Sarzana affrontando così il tema della degenza, ma la costruzione, avviata nel 1974 si protrasse per decenni e non poté vederla ultimata.

Nel 1972 nel saggio Brunelleschi mago,pubblicato con l’editore  ed amico pistoiese Tellini, con la postfazione di Mario Aldo Toscano. Bruno Zevi scrive su “L’Espresso” dei colloqui informali e antiaccademici di Michelucci con Brunelleschi. Il titolo è suggerito da un passo di Kafka “Perché mago? Non so, ma è capace di provocare un vivo sentimento di libertà…”. Wanda Lattes in un  intervista a Michelucci presso la sua casa al Roseto a Fiesole descrive il libro come un “volumetto elegante, raffinato senza illustrazioni, spoglio di banali concessioni alla civetteria consumistica” con chiaro intendimento pedagogico e civico, nato non ambizione filologica ma come proseguimento di quelle lezioni impartite per anni in cattedra. Mario Toscano l’ha ascoltato per anni, poi ha iniziato a registrare i suoi discorsi spontanei; uno scritto che nasce quindi come discorso socratico tra un docente e tanti non individuati discenti.

michelucciNel 1974 muore la moglie Eloisa ed inizia un nuovo decennio creativo e progettuale. Nel 1982 Giovanni Michelucci costituisce con la Regione Toscana ed i comuni di Fiesole e Pistoia la “Fondazione Michelucci”, mentre una donazione di disegni al Comune di Pistoia costituisce il “Centro di documentazione Giovanni Michelucci” di Pistoia.

Le pagine de La Nuova Città,  riflettono su temi come Carcere e città, Scuola e periferia, Città e follia, e portano all’ideazione del Giardino degli incontri nel carcere fiorentino di Sollicciano, un progetto sviluppato dal 1986 con i detenuti per creare un luogo di incontro  con i familiari, ultimato nel 2007. Il 31 dicembre 1990 muore a Fiesole.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.




“Oggi e domani”

“Pace”, “lotta al fascismo”, “democrazia” e “socialismo”: intorno a queste  parole si è sviluppato il lungo percorso umano e politico di Enzo Enriques Agnoletti che attraversa il cuore del Novecento.

Cresciuto in una famiglia della borghesia intellettuale e laureatosi in Legge con Piero Calamandrei, a cui restò sempre legato dalla frequentazione della La Nuova Italia, casa editrice animata da giovani intellettuali antifascisti, fino all’impegno dell’immediato dopoguerra ne “Il Ponte” prima come redattore fino alla direzione della rivista dopo 1956 per circa un trentennio succedendo proprio al suo maestro.

Il percorso di formazione e attività politica e intellettuale di Enzo Enriques Agnoletti è sicuramente legato al ruolo di primo piano svolto nel corso della Resistenza fiorentina e toscana nelle file del Partito d’Azione, il partito della “rivoluzione democratica” che tanta parte ebbe nell’opposizione e nella lotta al fascismo e di cui fu anche rappresentante all’interno del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN) oltre che estensore di manifesti e documenti di tale organismo. Tra questi l’ordine del giorno del 3 gennaio 1944 in cui chiede che il Ctln si costituisca come “governo provvisorio di Firenze e provincia” e quello dell’11 agosto dello stesso anno in cui si invita la popolazione all’insurrezione contro il nazifascismo.

La stampa clandestina azionista a partire dal periodico “Oggi e domani” a “La Libertà” lo vide tra i principali animatori e redattore assai attivo mentre la sua militanza antifascista lo porterà al carcere e al confino. Insieme a Carlo Ludovico Ragghianti e soprattutto Ernesto Codignola proprio nella stampa azionista tratteggia già durante la clandestinità i lineamenti di una concezione di stato democratico e federalista in netta rottura non solo ovviamente con il ventennio mussoliniano ma anche con lo stato liberale e monarchico.

Il nesso Resistenza-Costituzione-Repubblica democratica a partire dall’insegnamento di Calamandrei è da lui declinato con particolare attenzione anche ai diritti sociali oltre che civili e con una forte accentuazione di una prospettiva di trasformazione in senso socialista. A dieci anni dalla liberazione lo stesso Calamandrei aveva notato come “…per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa” ovvero quello che veniva individuato come il carattere “programmatico” della carta costituzionale (pieno diritto al lavoro, decentramento, ampio riconoscimento dei diritti civili e sociali ecc.). Nella sua lunga militanza Agnoletti, insieme all’amico e collaboratore Ernesto Codignola e al gruppo fiorentino di matrice azionista, cercò di essere costantemente attento a questa dimensione senza dimenticare, aspetto legato anche alla sua conoscenza della lingua inglese come traduttore per alcuni anni della casa editrice La Nuova Italia, la dimensione internazionale dei problemi geopolitici che la giovane Repubblica democratica. Da qui anche l’impegno per un’Europa federale ed autonoma dai blocchi politico-militari guidati delle superpotenze della Nato (Usa) e del Patto di Varsavia (Urss).

Ma l’attività di Agnoletti non si limitò a quella strettamente culturale incarnando da subito una figura di intellettuale-militante, tipica dell’antifascismo europeo novecentesco, oggi del tutto scomparsa e che lo spingerà dopo aver condiviso con Ernesto Codignola le esperienze della diaspora azionista (e la stagione di Unità popolare, a fianco di Ferruccio Parri, nata per contrastare la cosiddetta “legge-truffa” maggioritaria del 1953) alla militanza nel Partito socialista fino all’espulsione nel 1981 insieme all’amico Codignola in netto contrasto con il nuovo corso del partito inaugurato dalla segreteria di Bettino Craxi.

Vicesindaco nella giunta del centrosinistra fiorentino guidata da Giorgio la Pira dal 1961 al 1964 il suo nome resta anche legato alla stagione che vede Firenze come uno dei principali centri della distensione internazionale, della “diplomazia dei popoli”, oltre all’elaborazione del piano regolatore, lo sforzo per fare della città un modello di dialogo tra il mondo cattolico e le forze laiche e socialiste. E  in questo senso la nettezza delle sue posizioni a favore del  Divorzio e contro il Concordato tra Stato e Chiesa cattolica non si tradurranno mai in atteggiamenti di pregiudiziale chiusura verso l’universo religioso ma resteranno rivolti sempre a forte critica verso scelte e posizioni ben precise della Chiesa cattolica (e della Democrazia cristiana) non impedendogli rapporti di stima e amicizia con una figura centrale del cattolicesimo democratico fiorentino e nazionale come Giorgio La Pira.

Negli anni sessanta e settante molte delle sue energie verranno incanalate nelle solidarietà con il Vietnam e contro la guerra in Indocina ad opera degli Usa. Sono gli anni, soprattutto la seconda metà degli anni sessanta e la prima dei settanta del novecento, di intensi scambi e qualificate collaborazioni con associazioni, fondazioni e organismi internazionali, a partire dal Tribunale Russell, che lo vedono impegnato intensamente, in prima persona spesso a proprie spese.

Eletto nel 1983 nelle liste della Sinistra indipendente al Senato (di cui ricoprirà anche la carica di vicepresidente) l’anno dopo sarà tra i più convinti oppositori dell’istallazione dei missili a Comiso.

Presidente della Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane) dal 1976 al 1986 non ha mai interrotto il suo impegno per la valorizzazione del patrimonio dell’antifascismo e della Resistenza, italiana ed europea, soprattutto delle sue correnti socialiste, Agnoletti è sempre stato vicino all’Istituto storico della Resistenza in Toscana, presso cui sono depositate anche parte delle sue carte relative all’attività di resistente mentre l’archivio personale ha trovato posto presso l’Istituto universitario europeo.

Lo sdegno morale per le ingiustizie e le atrocità di cui quasi ogni mattina abbiamo notizia leggendo i giornali” da Agnoletti attribuito ad Olaf Palme, leader socialdemocratico svedese a lui vicino, è in realtà la stessa molla etica e politica che ha guidato la sua lunga e ricca esistenza dall’impegno partigiano a quello internazionalista, dalle sponde dell’Arno a quelle del Mekong del martoriato Vietnam trasformando l’indignazione “in scelta politica concreta, che deve naturalmente tenere conto delle circostanze”.

Bibliografia essenziale

Giuseppe Sircana Ad vocem, Treccani.it

Enzo Enriques Agnoletti. L’utopia incompiuta del socialismo, a cura di Andrea Becherucci e Paolo Mencarelli, “Il Ponte”,LXX, nn.1-2 (gennaio-febbraio 2014)




Romano Bilenchi, a 25 anni dalla morte

Venticinque anni fa, il 18 novembre 1989, moriva nella sua casa di via Brunetto Latini, a Firenze, Romano Bilenchi. Aveva da poco compiuto 80 anni (era infatti nato il 9 novembre 1909 a Colle di Val d’Elsa), aveva lavorato fino all’ultimo ai suoi progetti letterari, portando avanti quella tenace volontà di riscrittura (che significa anche ripensamento, riconsiderazione, analisi) che da sempre caratterizzava come un tratto distintivo il suo lavoro.

Nella sua casa – da cui ormai da anni non si allontanava più, per l’aggravarsi della malattia che lo affliggeva – aveva esercitato il suo ruolo di intellettuale, di coscienza critica e di testimone del suo tempo; lo aveva fatto in modo appartato e dimesso, senza spocchia o boria, discutendo tuttavia animatamente e calorosamente, con grande schiettezza, insomma dialogando nel senso più pieno del termine, con chiunque, amici intellettuali, giovani, semplicemente amici, si rivolgesse a lui, anche con la curiosità di ascoltare le sue parole, gli infiniti episodi della sua vita, da autentico “narratore orale” quale era stato definito.

Nel momento in cui ci si avvicina a Romano Bilenchi, ci si scontra immediatamente con la complessità irriducibile della sua figura e con la stratificazione di interessi (culturali, letterari, politici) che la connotano (dunque di prospettive o punti di vista con cui è possibile accedervi). E’ proprio questo elemento a rendere particolarmente arduo il tracciarne un profilo, un ritratto, che risulterà sempre inevitabilmente una copia sbiadita e parziale del modo di essere di Bilenchi.

Certo, l’approccio più immediato e all’apparenza (solo all’apparenza, però) più facile è quello che lo vede testimone impegnato inromano-bilenchi-160x250 prima persona nelle vicende del suo tempo, che lo vede cioè attraversare il labirinto del Novecento, con le ideologie, le incurvature, le idealità, le delusioni che lo hanno caratterizzato. Bilenchi muore proprio in quel 1989 che vede la caduta del muro di Berlino, ovverosia di uno dei simboli del percorso travagliato del Novecento, che chiude il ‘secolo breve’ e questa coincidenza di date getta una luce particolare sul nostro discorso.

Bilenchi si muove nello spazio temporale del Novecento attraversandone i momenti più emblematici: pur venendo da una tradizione familiare socialista, aderisce in gioventù al fascismo, con la forza ‘eversiva’ di un giovane che vede in quel movimento lo strumento per rompere con il passato, nella convinzione di voler partecipare alla costruzione di un mondo nuovo, di una nuova società, fondata su nuovi valori morali.

Ma l’adesione al fascismo non significa affatto una identificazione acritica o un annullamento della coscienza critica; al contrario Bilenchi si trovò ad esercitare la sua adesione da uomo libero, e fu proprio questo esercizio di libertà del pensiero, unito all’incondizionato riconoscimento del valore in sè dell’amicizia, ad erodere dal di dentro le sue convinzioni e a collocarlo su un nuovo fronte. Si è definito Bilenchi ‘fascista di sinistra’, così come si è parlato di ‘fascismo rivoluzionario’, per sottolineare il fortissimo senso antiborghese e anticapitalistico delle sue posizioni. Definizioni che a stento racchiudono la complessità delle scelte e del pensiero bilenchiani.

“Fascista lo sono stato quando ero più giovane, soprattutto quando ero un ragazzo. (…) ora se debbo dirle la verità non lo sono più”: così ad Ezra Pound, ma è solamente una delle tante ammissioni (o confessioni) di un mutamento ideologico che Bilenchi ci consegna con una folgorante, essenziale semplicità.

bilenchi-bottone“Non essere più fascista” ci rivela in controluce la sensazione sgradevole e amara di speranze tradite, di disillusioni e delusioni andata maturando nel corso di tanti anni e insieme l’esercizio di una coscienza critica inesausta, che lo conduce a scelte diverse, a trovare nuovi orizzonti, dunque un nuovo spazio ideologico in cui riversare il peso delle speranze e degli ideali per un mondo nuovo.

Bilenchi si muove con passione e passioni, sul versante delle ideologie del Novecento, non è un gretto opportunista o un voltagabbana, ma un uomo che crede e difende i suoi valori appassionatamente, che sa compiere scelte di campo. Passione e amicizia costituiscono chiavi di lettura significative nel percorso umano e politico di Bilenchi.

Se era stato un fascista non accomodante e per molti aspetti scomodo, Bilenchi sarà ancora un comunista non ortodosso, capace di coniugare la carica sovversiva, antiborghese, anticapitalistica del comunismo con la sua idea di libertà e di uomo. Altra definizione, quella di comunista liberale, che presenta gli stessi limiti di cui dicevamo.

Bilenchi aderì al PCI con convinzione, senza dubbio, ma per tutto il resto della vita ebbe bisogno di ripercorrere e spiegare (spiegarsi) quello che era successo a lui e ad un’intera generazione. Da qui, il lavorio continuo di riscrittura, di scavo e di illuminazione sui percorsi segreti della sua parabola. Da qui emerge ancora l’intreccio indissolubile tra la passione politica e la scrittura, la letteratura. Ma emerge anche, senza retorica, la categoria dell’amicizia, che è la chiave per penetrare nell’uomo, nella personalità di Bilenchi e che ha ispirato alcune delle sue pagine più belle.

L’amicizia, la condivisione di destini, non sempre e non necessariamente di idee, la comprensione tra uomini costituiscono un valore ininterrottamente affermato da Bilenchi, nell’arco della sua esistenza e della sua produzione letteraria. “L’unica cosa che vale è l’amicizia e tenersi stretti tra coloro che, o fessi o intelligenti, sono in buona fede”: così scrive, nel 1935, a Mino Maccari, offrendoci un’altra scoperta ammissione, di cristallina semplicità ma insieme di grande vigore.

romano bilenchiDopo la liberazione di Firenze e dopo l’impegno in prima persona nella Resistenza, Bilenchi si dedica ad una intensa attività pubblicistica, a testimonianza del suo impegno civile. Straordinaria è l’esperienza del “Nuovo Corriere”, da lui diretto, che diventa a poco a poco un momento di incontro e confronto delle forze democratiche fiorentine, un momento di feconda apertura culturale. Per otto anni, Bilenchi si concentra sul lavoro giornalistico, trascurando la letteratura; vi tornerà dopo la ferita del 1956, dopo cioè la chiusura del quotidiano, riprendendo così il lavorio di scavo e riscrittura a lui congeniale, con nuovi progetti editoriali.

Bilenchi infine rientra nel PCI nel 1972, nel momento in cui si apre una nuova fase politica per il partito, tornando così ad impegnarsi in prima persona per la costruzione di una nuova sinistra.

Le date che, sommariamente, abbiamo indicato rappresentano autentici snodi della storia del Novecento italiano e vedono sempre Bilenchi impegnato ad offrire contributi significativi. Accanto a questo, intrecciata con tutto questo, la passione per la letteratura, l’esercizio, anche se talvolta trascurato per lunghi periodi, della scrittura, con prove che lo collocano tra i più grandi autori del Novecento. E certo quest’ultimo, non secondario aspetto della personalità di Bilenchi, pure noi lo abbiamo trascurato e ce ne rammarichiamo, consapevoli dell’inestricabile intreccio di passioni che ci offre.




La fontana “Riti di primavera” il capolavoro di Jorio Vivarelli realizzato in collaborazione con Oskar Stonorov e ispirato alle “Le Sacre du Printemps” di Igor Stravinskij.

Sono trascorsi cinquant’anni da quando nel dicembre del 1964 Jorio Vivarelli vinse il Concorso Internazionale bandito dalla Città di Philadelphia e dal Fairmount Park Association  con il progetto, elaborato in collaborazione con gli architetti Stonorov e Haws, di una grandiosa fontana destinata al centro urbano di quella città. L’opera allora si affermò per la sua straordinaria innovazione formale tratta com’è dai motivi ispirati ad un’opera di Stravinskij “La sagra della primavera”, sorprende ancora oggi quanti, come il critico Ragghianti, hanno potuto ammirarne “la rotazione centrifuga dei corpi quasi, un rito di danza nel contesto delle forme scultoree”.

Chi era Oskar Stonorov? Scopriamolo guardando il suo ritratto

Jorio Vivarelli ritrae l’architetto Oskar Stonorov subito dopo aver appreso della sua precoce scomparsa in seguito ad un disastroso incidente aereo nel maggio del 1970. Si tratta di un ritratto che Vivarelli tiene in casa fino alla fine dei suoi giorno e che entra nella collezione della Fondazione pistoiese, a lui intitolata, solo dopo la scomparsa dell’artista pistoiese avvenuta il 1 settembre del 2008. Si tratta di un ritratto teso ad evocare la personalità dell’amico architetto Oskar Stonorov nato nel 1905 a Francoforte sul Meno figlio di padre russo, poi naturalizzato statunitense. Bruno Zevi nel numero speciale de «L’architettura cronache e storia» del giugno 1972 lo descrive dotato di “una personalità multiforme, straordinariamente energica e incisiva”; a sua volta Frederick Gutheim nella stessa rivista scrive: «Stonorov era uno sportivo oltre che un artista, andava a cavallo, giocava a tennis, nuotava. Guidava una delle auto di moda dell’epoca, una Moon. Era pianista dotato, frequentava le sale da concerto come i nights. La sua formazione cosmopolita era rafforzata dalla conoscenza di quattro lingue, ma non si può dire che venisse ammirato dagli americani. Era ben accetto da coloro che avevano familiarità con il mondo dell’arte, come Lewis Mumford, e dall’influente circolo di persone che si raccoglievano intorno al Museum of Modern Art di New York».

Vivarelli traduce la “straordinaria energia” dell’amico concentrandosi nello sguardo pungente, nelle sopracciglia ben alzate, nelle pupille che sembrano schizzar fuori dalle orbite, aggiunge poi un sorriso-smorfia per sottolineare quanto fosse puntiglioso, critico e attento verso se stesso e  verso gli altri. Il lungo collo infine, sottolinea la postura eretta e un’andatura scattante, propria di chi affronta la vita di petto. Si direbbe, guardando il ritratto, che Stonorov non era certo, a prima vista, un soggetto, affabile!

Stonorov era stato tra i primi a scegliere la frontiera americana dopo aver studiato al Polytechnique di Zurigo e aver lavorato nello studio di Andrè Lurcat a Parigi dove fece amicizia con Willy Boesiger e Giovanni Vedres con i quali più tardi collaborò al riordino degli archivi di Le Corbusier e partecipò, sotto la sua diretta supervisione, alla stesura dei testi che composero «L’opera completa di Le Corbusier et Pierre Jeanneret» il cui primo volume fu pubblicato nel 1929. In quell’anno Stonorov si stabilì in America, prima a New York nello studio di Harvey Corbett poi, a Philadelphia, dove nel 1930 aprì uno studio con i 6.000 dollari che si era aggiudicato piazzandosi al secondo posto, con il tedesco Alfred Kastner, nel concorso per il Palazzo dei Soviets a Mosca.

A Philadelphia realizzò il primo progetto pubblico di edilizia del New Deal, dedicato a un eroe del sindacalismo Carl Mackley Houses, che fu salutato con favore da Henry Wright e Lewis Mumford in un articolo della rivista «Fortune».

Successivamente disegnò con George Howe e Louis Kahn un piano residenziale per alcune città della Pennsylvania. Con Kahn nel 1943 scrisse «Why City Planning Is Your Responsibility» e nel 1944 «You and Your Neighborhood… A Primer for Neighbohood Planning».

L’anno in cui Stonorov incontrò Vivarelli era il 1951 allorché, assieme a Carlo Ludovico Ragghianti, si stava occupando di allestire a Palazzo Strozzi una mostra antologica dedicata a Frank Lloyd Wright che ritornava in Italia per ricevere a Firenze la cittadinanza onoraria e a Venezia la laurea honoris causa. Quella mostra ebbe il merito di far conoscere all’Italia la grandezza di Wright e l’architettura cosiddetta “organica”.

La passione di Stonorov per la scultura lo portò a incontrare Renzo Michelucci recandosi una domenica mattina nella sua fonderia a Pistoia. Jorio, che vi lavorava, ricordò così quel loro primo incontro. «Era domenica mattina, dovevo consegnare un lavoro e stavo facendo ore di straordinario. Sentii suonare alla porta, all’inizio feci finta di niente ma poi la scampanellata riprendeva con ancora più insistenza. Mi alzai molto contrariato e aprii la porta, vidi un uomo alto, calvo con due spalle da lottatore. “Sono l’architetto Stonorov mi faccia entrare”. “Qui lei non mette piede se non chiede il permesso al Cavalier Renzo Michelucci, la sua casa è quella là” e richiusi la porta mentre questi continuava a replicare. “Lei non sa chi sono io!” Non passò neanche dieci minuti che Stonorov tornò in fonderia con Michelucci rosso per la rabbia».

Il secondo incontro tra Stonorov e Vivarelli avvenne all’inaugurazione della mostra di Wright a Firenze. Da quel momento fra i due nacque un’amicizia che durò quindici anni e permise a Vivarelli, di lì a poco, di lavorare negli Stati Uniti dove insieme progettarono e realizzarono grandi opere. Stonorov, come Michelucci, nutriva un’attenzione particolare nei confronti dei problemi legati all’edilizia delle comunità in genere e dei lavoratori in specie. La sua idea era supportata dal convincimento che l’architettura potesse migliorare le condizioni di vita dell’uomo. Stonorov che si definiva «lecorbusiano per intelletto, wrightiano per istinto e toscano di adozione».

Fu così che Vivarelli e Stonorov realizzarono per Walter Reuther, presidente del grande United Auto Workers Union, il Villaggio nel Black Lake (UAW Family Center Education) che doveva coinvolgere in “toto” la vita del lavoratore e rendere umana e gradevole la vita dei workers.

Sempre ispirato dal concetto di un’arte al servizio della comunità, Stonorov negli anni Sessanta, invita Vivarelli, appena giunto negli Stati Uniti, a pensare a sculture e monumenti che stessero nelle piazze come punti d’incontro degli spazi urbani nelle nuove città. Fu così che Stonorov coinvolse Vivarelli nel progetto per la realizzazione di un quartiere a Philadelphia costruito secondo i concetti pensati da Reuther, un quartiere dove le varie classi sociali si fondevano senza entrare in conflitto, rispettose ognuna del proprio ruolo.

Adamo e evaL’affinità tra Stonorov e Vivarelli nasceva dal fatto che il primo, avendo studiato presso lo scultore Aristide Maillol, ammirò subito la forza della modellazione plastica e la grande abilità manuale di Vivarelli e quindi insieme modellarono fontane come quella chiamata “Tuscan Girls” per il Palazzo Plaza in Benjamin Franklin Parkway, il bronzo “Adamo ed Eva” sempre a Philadelphia, la fontana “Le Bagnanti” per la piazza dello Stephen College nella città di Columbia nel Missouri.

 Il capolavoro indiscusso dei due amici, Vivarelli-Stonorov è “Riti di Primavera” del 1964 opera che risulterà vincitore del concorso internazionale indetto negli Stati Uniti dalla Città di Philadelphia per l’erezione di un grande monumento nella centralissima Piazza Kennedy.  La giuria era composta da nomi prestigiosi quali gli scultori Norman Rice nonché da Philp Price, presidente della Fairmont Park Art Association e già nel dicembre del 1963la stampa ne dà il primo annuncio ricordando che «… a vincere il concorso, cui avevano partecipato 200 artisti di tutto il mondo e un solo italiano, è stata l’opera “Riti di primavera” che trae ispirazione da motivi del compositore russo Stravinskij. Ha un’altezza di 9 metri, un diametro di 30 ed è composta da grandiosi gruppi bronzei. Sorgerà nel moderno centro di Philadelphia accanto alle opere che da venti anni si stanno attuando in questa città secondo lo sviluppo urbanistico e artistico previsto dal Piano Regolatore»

Riti di primaveraDobbiamo purtroppo ricordare che la nuova amministrazione della città di Philadelphia non riuscì ad inserire il progetto nel nuovo piano finanziario e lo abbandonò. Per tale ragione il modello di Riti di primavera è rimasto finora un soggetto di grande respiro scenico conservato dall’autore. Un vero peccato che nessun Ente locale o regionale abbia ancora pensato a trasformarlo in un monumento pubblico che, per la sua straordinaria bellezza, adornerebbe anche il più importante spazio urbano.

La scultura “Riti di primavera” prende ispirazione da “Le Sacre du Printemps” composta da Igor Stravinskij che è stata definita la “Nona sinfonia del XX secolo”.

La prima rappresentazione della “Sagra della primavera” del compositore russo ebbe luogo il 28 maggio del 1913 al Theatre des Champs Elisee di Parigi sotto la direzione di Pierre Monteaux con una orchestra tra le più colossali mai viste prima d’allora, infatti, oltre al folto stuolo di archi, Igor Stravinskij inserì ottavini, flauti, oboi, il corno inglese, clarinetti, fagotti, 8 corni, 4 trombe, tromboni, tube, timpani, grancasse, tamburelli, piatti, cimbali antichi e uno strumento sudamericano chiamato guiro.

Da una tale massa di strumenti scaturì una “granitica sonorità orchestrale” che, spazzando via le tante Primavere sdolcinate del passato, produsse un nuovo concetto di bellezza fatto di armonie e sonorità incredibili che s’abbattevano violentemente sull’ascoltatore con una sonorità brutale, selvaggia e aggressiva per rappresentare  le forze scatenate dalla natura.

Stravinskij descrisse una primavera che nasce dalle viscere della terra, con forze primordiali cito le sue parole“si contorcono negli spasmi della riproduzione”. I barbari e crudeli riti della Russia pagana celebravano l’avvento della primavera e culminano con il sacrificio della vergine.

Il capolavoro appartiene al periodo stilistico fauvista del compositore russo di origine poi naturalizzato francese e in seguito statunitense. Nato nel 1882 lasciò la Russia per la prima volta nel 1910 dirigendosi a Parigi per assistere al balletto ”L’uccello di fuoco”. Durante il soggiorno compose tre importanti opere per balletti russi; “Uccello di fuoco”, “Petruska” e “La sagra della primavera”.

Le tre opere segnano l’evoluzione del cammino stilistico di Stravinskij: “Uccello di fuoco” ha uno stile che si accosta a quello di Korsakov, mentre “Petruska” è l’avvento della bidimensionalità sonora per giungere, infine, alla dissonanza polifonica e selvaggia della “Sagra della primavera”. Come disse lo stesso Stravinskij, “con queste prime l’intento che riposto dietro a queste opere era quello di “a quel paese” il pubblico”. E ci riuscì benissimo, infatti la premiere della Sagra del 1913 si trasformò in una sommossa, come più oltre vi dirò.

Costume di scenaNel balletto il compositore mette in scena un rito pagano di inizio primavera tipica della Russia antica. Una giovinetta viene scelta per ballare fino allo sfinimento e la sua morte era un sacrificio offerto agli dei per renderli propizi in vista della nuova stagione.

Sono molti i passaggi famosi, ma due appaiono degni di particolare menzione: in primo luogo il motivo di apertura del fagotto con note portate all’estremo del suo registro, quasi fuori estensione, per simulare un risveglio di primavera, in secondo luogo il poliaccordo di otto note eseguito dagli archi e accentuato da corni in controtempo.

La ritmica ossessiva unita alla politonalità suscitò scandalo nella Parigi dell’epoca.

L’azione del balletto come la musica si struttura in due parti: la melodia del fagotto sembra provenire da profondità ancestrali accompagnata da tremolii e trilli che evocano il fremito della natura che sboccia e germoglia. Poi irrompe un suono martellante e sincopato formato da accordi sovrapposti (settima di mi bemolle accordo perfetto di fa bemolle maggiore) che introducono la Danza degli adolescenti.

È come una flagellazione, un corto circuito dal quale tutto scaturisce e prende vita tramite un ritmo ossessivo, implacabile che attraversa gli episodi delle Città rivali, del Corteo del Saggio e dell’Adorazione della terra.

Nella seconda parte il sacrificio inizia con un preludio nel quale l’intensità della linea melodica evoca un’atmosfera triste e meditativa.

Il Saggio e le fanciulle immobili guardano il fuoco davanti alla collina sacra: devono scegliere l’Eletta, colei che sarà sacrificata per propiziare la fertilità della Terra.

Subentrano poi violenti accordi che con cadenza martellante introducono l’episodio dei “Cerchi misteriosi degli adolescenti” mentre incalza la danza frenetica della Glorificazione dell’Eletta.

Arriva, infine, la danza sacrificale dell’Eletta.

La danza cresce vorticosamente, il ritmo diventa parossistico, tutti gli uomini sono selvaggiamente eccitati, la musica gronda nel più profondo del proprio essere (così scrisse Bechèr).

Il rito pagano nella inesorabile logica del sacrificio ci colpisce con la sua barbara violenza riportandoci alle origini ancestrali dell’esistenza umana.

Jean Cocteau parla di dolori dell’infanzia della terra e, parafrasando un’opera poetica di Virgilio definisce la partitura della Sagra una “Georgica della preistoria”.

La prima esecuzione del brano in quel lontano 29 maggio del 1913 provocò una violentissima reazione del pubblico. La musica fu coperta dai fischi e dalle grida.

Stravinskij fuggì dal teatro e ma fu inseguito, raggiunto e malmenato. Sfinito e con una vertebra rotta si ammalò a tal punto da essere ricoverato in ospedale.

Riporto qui di seguito un efficacissimo commento su quella serata fatto dallo stesso Stravinskij.

“I danzatori avevano provato per mesi e sapevano benissimo quel che facevano, anche se spesso quel che facevano non aveva niente a che vedere con la musica. ” Conterò fino a quaranta mentre tu suoni, – mi diceva Nizinskij (il maestro di ballo),- e vedremo dove ci incontreremo”. Non arrivava a capire che, benchè potessimo ad un certo punto incontrarci, questo non voleva dire necessariamente che fossimo andati insieme durante il percorso. Anche i danzatori seguivano più la battuta di Nizinskij che quella della musica. Nizinskij contava in russo, naturalmente, e poiché i numeri russi oltre il dieci sono polisillabi nei tempi veloci né lui né gli altri potevano tener dietro alla musica. Fin dall’inizio della rappresentazione si sentirono moderate proteste contro la musica. Poi, quando il sipario si alzò sul gruppo di fanciulle della “danza degli adolescenti”, la tempesta scoppiò. Dietro di me gridavano Taci Basta Basta le più agitate erano, naturalmente, le signore più eleganti di Parigi. Visto che il tumulto continuava e, pochi minuti dopo lasciai furioso la sala… Arrivai dietro il palcoscenico, dove vidi Diaghilev che faceva manovrare le luci in sala nell’ ultimo sforzo di far tornare la calma in teatro. Per tutto il resto della rappresentazione stetti dietro le quinte vicino a Nizinskij reggendolo per le code del frac, mentre lui in piedi su una sedia urlava dei numeri ai danzatori come un timoniere.

La danza cresce vorticosamente, il ritmo diventa parossistico, tutti gli uomini sono selvaggiamente eccitati, la musica gronda nel più profondo del proprio essere (così scrisse Bechèr). Il rito pagano nella inesorabile logica del sacrificio ci colpisce con la sua barbara violenza riportandoci alle origini ancestrali dell’esistenza umana.

Jean Cocteau parla di dolori dell’infanzia della terra e, parafrasando un’opera poetica di Virgilio definisce la partitura della Sagra una “Georgica della preistoria”. La prima esecuzione del brano in quel lontano 29 maggio del 1913 provocò una violentissima reazione del pubblico. La musica fu coperta dai fischi e dalle grida.

Stravinskij fuggì dal teatro e ma fu inseguito, raggiunto e malmenato. Sfinito e con una vertebra rotta si ammalò a tal punto da essere ricoverato in ospedale. Riporto qui di seguito un efficacissimo commento su quella serata fatto dallo stesso Stravinskij.

“I danzatori avevano provato per mesi e sapevano benissimo quel che facevano, anche se spesso quel che facevano non aveva niente a che vedere con la musica. ” Conterò fino a quaranta mentre tu suoni, – mi diceva Nizinskij (il maestro di ballo),- e vedremo dove ci incontreremo”. Non arrivava a capire che, benchè potessimo ad un certo punto incontrarci, questo non voleva dire necessariamente che fossimo andati insieme durante il percorso. Anche i danzatori seguivano più la battuta di Nizinskij che quella della musica. Nizinskij contava in russo, naturalmente, e poiché i numeri russi oltre il dieci sono polisillabi nei tempi veloci né lui né gli altri potevano tener dietro alla musica. Fin dall’inizio della rappresentazione si sentirono moderate proteste contro la musica. Poi, quando il sipario si alzò sul gruppo di fanciulle della “danza degli adolescenti”, la tempesta scoppiò. Dietro di me gridavano Taci Basta Basta le più agitate erano, naturalmente, le signore più eleganti di Parigi. Visto che il tumulto continuava e, pochi minuti dopo lasciai furioso la sala… Arrivai dietro il palcoscenico, dove vidi Diaghilev che faceva manovrare le luci in sala nell’ ultimo sforzo di far tornare la calma in teatro. Per tutto il resto della rappresentazione stetti dietro le quinte vicino a Nizinskij reggendolo per le code del frac, mentre lui in piedi su una sedia urlava dei numeri ai danzatori come un timoniere.




Ilio Barontini. Un protagonista dell’antifascismo internazionale

Ilio Barontini nasce a Cecina (Livorno) il 28 settembre 1890 da due genitori di origini contadine ed è il secondo di cinque figli. Il padre in seguito ad una malformazione che ne causò il ricovero a Roma riuscì a frequentare una scuola professionale e grazie alle competenze lì acquisite fu chiamato dalla famiglia Wassmuth (famiglia valdese da lungo residente a Livorno) ad occuparsi delle loro fabbrica di pipe in città. Ilio presto si sposerà e avrà due figlie, Nara nata nel 1915 ed Era nata nel 1923.

Viene richiamato alle armi durante la 1ᵃ Guerra ma dopo un breve periodo viene destinato alla produzione bellica alla Breda di Milano. Alla fine del conflitto entra come operaio nelle officine ferroviarie della stazione di Livorno. Nel 1920 lo troviamo esponente del Consiglio provinciale del Sindacato Ferrovieri e nel Comitato federale del Psi. Sempre nel 1920 diviene consigliere del Comune di Livorno ed è presente nella giunta Mondolfi con la delega alle finanze come assessore supplente.

Aicvas0003Nel 1921 aderisce alla formazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIᵃ Internazionale. Assume da subito ruoli di rilievo e si trova a difendere, in contrasto con il centro del Partito, l’adesione dei comunisti agli Arditi del Popolo a fianco degli anarchici, repubblicani e socialisti. Svolgerà un ruolo centrale nel’organizzazione dello sciopero della fine di luglio, organizzato dall’Alleanza del Lavoro. Fu in quell’occasione, in cui la città labronica si trasformò in un vero e proprio scontro armato, che vennero distrutte le sedi della Camera del Lavoro, dello SFI e del PCd’I e avvenne l’assalto all’abitazione dei fratelli Gigli con la morte di Pietro.

Dopo la marcia su Roma viene licenziato insieme a tutti i ferrovieri attivi nella lotta contro lo squadrismo. Tra il 1923 e il 1924 subisce tre arresti, con proscioglimento e assoluzione per insufficienza di prove. Diventa un militante “dormiente” e entra e va a lavorare nella ditta del padre.

Dal 1931 si trova in Francia dove lavora tra gli emigrati e per conto del centro del Partito comunista fino a quando, alla fine del 1932 parte per l’Unione Sovietica dove svolgerà un lavoro politico tra i lavoratori marittimi e poi entrerà come operaio in una fabbrica aereonautica dell’Armata Rossa. Durante il soggiorno sovietico frequenterà il corso per quadri dell’Internazionale. Nel 1935 torna in Francia e da qui poi verrà inviato a combattere in Spagna come ufficiale di Stato maggiore della XII Brigata internazionale. Partecipa alla battaglia in difesa di Madrid, a quella di Albacete e poi al combattimento presso il fiume Jarama. Nel frattempo è divenuto commissario politico del battaglione che si trova sotto il comando militare di Randolfo Pacciardi. Quando Pacciardi sarà ferito in battaglia, il comando, anche militare, passa a Barontini che dirigerà la battaglia di Guadalajara, battaglia che si protrae più di dieci giorni. Dopo questa prova viene nominato commissario politico di Divisione ma alla fine di settembre a causa di un comportamento che verrà sanzionato dal nuovo comandante Klèber come poco ortodosso con l’assenso di Togliatti e contro il parere di Vidali e della Teresa Noce, ritorna in Francia.

In Francia, da parte del Centro estero del Pci, per mezzo di Di Vittorio, gli viene ordinato di recarsi a combattere in Etiopia accanto alla resistenza etiope dove sarà poi raggiunto dallo spezzino Domenico Rolla e da Anton Ukmar. Prenderanno i nomi di battaglia dei tre apostoli: Paulus, Petrus e Johannes, e agiranno in tre zone diverse del paese. Barontini nel territorio di sua competenza riuscirà anche a stampare un giornale bilingue, “La voce degli Abissini”. Sulla loro testa verrà messa una taglia e facendosi il pericolo troppo grave, i tre rientrano passando da Khartoum dove Barontini è accolto dal generale Alexander che più tardi gli conferirà la Bronze Star. Sarà un’esperienza che probabilmente gli tornerà utile per la resistenza armata contro i tedeschi, sia in Francia che in Italia.

Immagine Barontini da diapIn Francia è già in atto l’occupazione tedesca e Barontini rientrato col nome di battaglia “Giobbe” nel sud della Francia, organizza i gruppi dei franc tireurs preparando anche azioni clamorose come quella contro l’Hotel Terminus di Marsiglia, sede del comando delle SS che sarà fatto saltare per aria. Dopo l’8 settembre ritorna clandestinamente in Italia e per ordine del Partito è inviato a costruire i GAP (Gruppi d’azione patriottica).

Con il nome di “Fanti” si sposta tra Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Veneto e Lombardia. Dall’ottobre 1943 è a Bologna dove dirige la lotta armata. Nel maggio del 1944 con il nome di battaglia “Dario” dirigerà per il Pci, l’azione politica delle formazioni partigiane. A giugno prende il governo del Comando Unico Militare dell’Emilia Romagna. Dirigerà con esito positivo la battaglia di Porta Lame a Bologna del novembre 1944 e quella di Monte Formia nel modenese. Alla fine della guerra ritorna a Livorno, entra nel Comitato Centrale del Partito comunista, viene eletto deputato all’Assemblea costituente e segretario della Federazione del Partito comunista a Livorno.

Con le elezioni de 1948 diventa senatore della Repubblica con l’incarico di sottosegretario della Commissione Difesa. Quelli che in quel periodo l’hanno conosciuto ne hanno tramandato un’immagine mitica e, se vogliamo, anche stereotipata. Vestito di un impermeabile sdrucito sembrava aver mantenuto le abitudini della clandestinità, atteggiamento non solo probabile ma comprensibile e, non solo suo, ma di tutti quelli che nel ventennio si erano dovuti guardare non solo le spalle, considerati gli anni cupi in cui si erano trovati a vivere. La morte sopravverrà repentina per un incidente stradale il 22 gennaio 1951. Insieme a lui moriranno altri quadri dirigenti di quel Partito che si vedrà decapitato da cause esterne e imponderabili e per il quale comincerà una lunga fase di transizione verso un nuovo gruppo dirigente.

Oltre alla decorazione della Bronze Star ricevette da Giuseppe Dozza, sindaco di Bologna, il titolo di cittadino onorario della città. Ricevette anche dal’Unione Sovietica il prestigioso Ordine della Stella Rossa.




Bianca Bianchi: dall’antifascismo esistenziale al “virus della politica”

Bianca Bianchi nasce a Vicchio il 31 luglio 1914. La sua educazione alla politica ha origine nell’ambiente familiare, in particolare grazie alla personalità del padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, con il quale ogni pomeriggio Bianca intrattiene lunghe chiacchierate, durante le quali impara che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”. Ogni giovedì inoltre salta la scuola e accompagna il padre alla sezione del partito dove fuori, durante il mercato settimanale, in piedi su un tavolo, tiene appassionati comizi.

Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore a Rufina, presso l’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre che, ripiegata sul modello domestico, non comprenderà mai l’attrazione della figlia per lo studio e per la volontà di evadere dal mondo provinciale. Trova però un valido sostenitore nel nonno Angiolo, contadino antifascista, figura importante nella sua formazione intellettuale dopo la morte del padre, che stimolerà Bianca con discussioni letterarie, religiose e politiche.

Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale “Gino Capponi”, prima, e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea con una tesi dal titolo Il pensiero religioso di Giovanni Gentile, discussa con il relatore prof. Ernesto Codignola, che l’anno successivo viene pubblicata.

IMG_3280Inizia da subito ad insegnare: le viene offerta una cattedra a Genova, dove non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione degli argomenti riguardanti la civiltà ebraica, tenendo lezioni personali in proposito. Tale comportamento insubordinato le vale l’allontanamento dall’istituto genovese. Le viene affidato allora un nuovo incarico a Cremona, da dove viene, anche questa volta, presto licenziata, a causa del primo compito in classe proposto ai suoi studenti, in cui ha chiesto di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro. In particolare aveva invitato un suo studente di origine ebraica ad essere sincero e a scrivere liberamente il proprio pensiero. Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria. L’ “esilio” a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, in realtà permette a Bianca di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime. Il soggiorno però è breve e nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella, in difficoltà nel contesto bellico.

Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, si impegna, in quell’opera di soccorso e di travestimento di massa dei soldati sbandati, messa in atto dalle donne italiane, in quello che è stato definito maternage di massa (Bravo). Partecipa poi, su invito del prof. Codignola, che era stato il suo relatore di tesi, alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla resistenza. In particolare distribuisce volantini antifascisti e, qualche giorno prima dell’insurrezione fiorentina, le viene affidato il compito di trasportare un carretto carico di armi. L’esperienza della resistenza è breve, ma per Bianca ha un valore importante, perché permette il passaggio dall’antifascismo esistenziale, vissuto individualmente, ad una maturazione politica consapevole, vissuta in condivisione con i compagni partigiani.

È dunque dopo la fine della guerra che Bianca passa alla vita politica attiva. Il momento della svolta è rappresentato, nel ricordo stesso di Bianca Bianchi (si veda il documento allegato), dalla presa di parola, che avviene durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945. Bianca accoglie l’invito dell’oratore al contraddittorio, criticando il suo fare da “pompiere” che sembrava voler spegnere gli ideali di rinnovamento, e invita invece a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani. Alla fine del comizio un gruppo di socialisti avvicinano la giovane, invitandola ad iscriversi al PSIUP. Bianca Bianchi inizia a frequentare la sezione di via San Gallo, per “ascoltare e osservare”, ma la sua passione e la sua convinzione di “poter contribuire a creare un mondo di eterna primavera” la fanno passare ben presto all’azione. Si iscrive al partito, organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi tra la base, anche grazie alle sue abilità oratorie.

Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente infatti, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della giovane età della Bianchi, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito, Sandro Pertini. Nonostante la delusione, Bianca Bianchi continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale, raggiugendo così, alle elezioni del 2 giugno, un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista Pertini (15384 voti) ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente.

Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca Bianchi a favore della scuola pubblica, opponendosi fermamente alla parificazione tra le scuole pubbliche e quelle private, previsto dall’art. 27 (poi 33) della Costituzione.

IMG_3308Al Congresso del partito del 9-13 gennaio 1947 inoltre, dopo una lunga e sofferta riflessione, decide di seguire la minoranza di Saragat, a cui la legava anche una profonda amicizia, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. La sua carriera politica prosegue poi nel 1948, quando viene eletta nella I legislazione in Sicilia.

Da ricordare poi la sua battaglia a favore di una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, iniziata in seguito alla sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusasi con l’approvazione della legge nel 1953.

Tra il 1953 e il 1970 Bianca Bianchi non viene rieletta nelle successive legislature e riprende quindi l’impegno nel settore dell’istruzione, curando la rubrica de La Nazione, Occhio ai ragazzi e fondando la “Scuola d’Europa”.

Rientra in politica nel 1970, per una legislatura, eletta consigliera comunale a Palazzo Vecchio a Firenze, e successivamente continua ad occuparsi dei temi dell’istruzione e si dedica alla letteratura, intrisa di quella passione e di quel “virus della politica” che aveva caratterizzato tutta la sua vita.

Si è infine spenta il 9 luglio 2000.




Oriano Niccolai, il creativo rosso

Racconta Oriano Niccolai, classe 1930, di essersi fatto tutta la Sardegna a dorso di mulo per girare documentari, in 16 mm, per la propaganda politica del Partito comunista. Era il 1968 e grazie al benestare di Enrico Berlinguer, conosciuto negli anni Cinquanta a Livorno, Niccolai organizzò quello che fu probabilmente l’esordio di una campagna elettorale multimediale nella storia del Pci. Con Berlinguer, allora non ancora segretario nazionale, passò una nottata girovagando tra le strade di Cagliari per esporgli la sua idea innovativa di comunicazione politica. E quell’anno, per le elezioni regionali sull’isola, non furono solo comizi e manifesti: per la prima volta vennero utilizzati musica, report e documentari.

Oltre 2000 manifesti
Non è da molto che la storiografia ha cominciato ad occuparsi delle forme della comunicazione politica dei partiti di massa del dopoguerra. Un contributo originale e significativo è arrivato di recente proprio dalla riscoperta dell’opera di Niccolai, grazie al progetto che gli ha dedicato l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco). Selezionando tra gli oltre 2mila manifesti presenti nel suo archivio (di cui quasi due terzi realizzati da Niccolai dagli anni Cinquanta ad oggi), l’Istoreco ha allestito una mostra a lui dedicata Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, da cui è scaturito poi un catalogo curato da Margherita Paoletti e Valentina Sorbi (vedi a fianco).

Il creativo rosso
Difficile definire con categorie standard il profilo biografico di Niccolai: non certo un intellettuale, né un semplice creatore di manifesti. La penna del giornalista del “Tirreno” Luciano De Majo, in occasione dei suoi ottant’anni, gli trovò una definizione originale: «il creativo rosso». Creativo perché non solo funzionario addetto allo stampa e propaganda, non solo grafico e impaginatore, ma anche disegnatore, autore, giornalista. Un creativo a tutto tondo, che è stato in grado di anticipare i tempi ideando per la Federazione di Livorno, e poi in diverse parti d’Italia, delle moderne campagne di comunicazione, capaci di utilizzare strumenti nuovi e diversi registri per veicolare il messaggio politico.

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Spicca il volo dal “Nido delle Aquile”
D’altra parte la formazione di Niccolai è imbevuta di pittura e cinema. A Livorno, sua città natale, giovanissimo frequenta gli ambienti di pittura cittadini, per poi grazie a Nelusko Giachini e, soprattutto, Silvano Filippelli, appassionarsi al cinema francese e all’arte del far manifesti. Alla fine degli anni ’40 comincia dunque a frequentare “il Nido delle Aquile”, cioè l’Ufficio propaganda della Federazione comunista livornese, un gruppo effervescente composto da intellettuali, giornalisti, disegnatori e critici d’arte. In questa fucina Niccolai impara ad andare oltre l’idea del grafico tout court, diviene un comunicatore: testo e immagine cooperano in pari grado alla comunicazione del messaggio. Da qui la grande attenzione alle tecniche giornalistiche di impaginazione e la sperimentazione di nuove forme di comunicazione, come la striscia luminosa lunga più di 350 metri, costruita per la Festa dell’Unità di Livorno del 1979.

L’uomo delle isole
Di lui si accorgono i vertici nazionali, che da Livorno lo inviano in giro per l’Italia a mettere la sua esperienza nella comunicazione al servizio delle Federazioni più deboli. Nel 1968 in Sardegna, poi nel 1971, a seguito di un gemellaggio delle Federazioni di Livorno e Pisa con quella di Caltanissetta, cominciano i suoi pellegrinaggi in Sicilia. Fino al 1984 saranno undici i suoi viaggi in terra siciliana (in particolare per le elezioni regionali del 1976). E poi la Calabria nel 1978 per tenere corsi sulla propaganda e le tecniche di comunicazione. Privilegiato poi il rapporto con l’Isola d’Elba in cui lavora moltissimo fino alla fine degli anni Ottanta.

Da Rodari a Steiner, passando per Zancanaro
Quello con Berlinguer non è il solo incontro importante nella vita di Niccolai, tutto il suo percorso è costellato di incontri e amicizie di rilievo: con Gianni Rodari, nel 1949 a Reggio Emilia (con cui lavorò poi fianco a fianco nella campagna elettorale nazionale del 1958), con Albe Steiner negli anni Sessanta a Bologna, con Tono Zancanaro con cui lavorò negli anni siciliani. Niccolai è curioso e innovativo, gli incontri ne forgiano l’estro e la personalità, ma è capace di rielaborare un suo percorso autonomo, lontano dalle esagerazioni retoriche della lotta politica tra blocchi. Nei manifesti di Oriano, scrive Sergio Staino nel catalogo della mostra, «tutto si muove nella ricerca di un giusto equilibrio tra l’informazione del messaggio e la sottolineatura espressiva dello stesso».

Articolo pubblicato nel marzo 2014.