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Andrea Devoto

Il lavoro di Andrea Devoto (fiorentino, 1927-1994), psichiatria, psicologo, ma anche storico, attraversa tutta la seconda metˆà del Novecento. Docente in psicologia sociale, fu tra i primi a occuparsi dei lager. Nel 1960 usciva La tirannia psicologica (Sansoni), seguito a un anno di distanza da Il linguaggio dei lager: annotazioni psicologiche (in «Il movimento di Liberazione in Italia», n. 65, 1961), mentre nel 1962 pubblicava Psicologia e psicopatologia del lager nazistan. 9, 1962). Giàˆ nel 1964 dava alle stampe uno strumento di orientamento, la Bibliografia dell’oppressione nazista (Olschki, a cui aggiungevaˆ un secondo volume nel 1983), dove elencava le prime opere di memorialistica, antologie e studi.

In questa prima fase, un’epoca durante la quale gli studi erano ancora pochi, Devoto, lavorava assiduamente alla ricostruzione di quanto avvenuto, ricostruendo i meccanismi di funzionamento dei campi, collezionando immagini, elaborando e confrontando le piante dei lager, delineando le differenze tra KL e VL. Al tempo stesso, iniziava a riflettere, partendo dalla propria disciplina, su quanto avvenuto alle persone, sulla loro esperienza fisica ma anche emotiva-mentale durante il trasporto e poi dentro il lager, discutendo i primi lavori usciti sul tema, come quelli di Betteleheim (giˆà del 1943), Kogon (1946), Frankl (1947) e Cohen (1952). Devoto rifletteva sui processi all’interno dei quali passava la vittima, dallo sradicamento, con la conseguente crisi d’identitàˆ e il portato di stress continuo, fino alla desocializzazione/risocializzazione dell’individuo nel nuovo contesto concentrazionario, che poteva portare a vari esiti, dalla resa completa allo sviluppo di meccanismi di autodifesa fino a forme di resistenza, sia individuali che collettive.

Il suo interesse per le istituzioni totali, seguendo Goffman, lo porta ad analizzare le esperienze della deportazione e del lager alla luce delle categorie analitiche a lui più familiari. L’oppressione nazista può˜ essere scomposta in tre aspetti: persecuzione, deportazione e sterminio, ed il lager, come sistema, un elemento fondante del nazismo, uno strumento di cui nessun regime “assolutista” potràˆ mai più fare a meno nel futuro. Devoto sostiene, anticipando molti, la necessitàˆ di smettere di considerare il nazismo, ed i suoi crimini, come un qualcosa di unico e di irripetibile. Si deve semmai capire come sia possibile giungere, in determinate situazioni, ad estremizzazioni del genere. Ritiene pertanto che si possano mutuare utili strumenti d’indagine facendo collegamenti e paragoni con situazioni, se non normali, almeno accettate, quali i disastri, le istituzioni totali, l’aggressivitàˆ e l’uso della violenza.

Da psicologo, lavorando sui testimoni, sviluppa ricerche prossime ai metodi della storia orale. Non a caso, partendo dai testimoni, arrivaˆ ad interrogarsi e ad analizzare le esperienze dei sopravvissuti dopo la liberazione. Comincia qui la seconda fase del suo lavoro, giunta a piena maturazione negli anni ′80, in collaborazione con l’Aned del Piemonte. Non solo la raccolta delle testimonianze, ma anche le forme e i modi per la loro condivisione paritaria ed empatica, che liberi i sopravvissuti dalla sindrome di diversitàˆ che trattiene ancora il lager dentro di loro.

Per Devoto non solo un’operazione psicologica e didattica, ma una vera e propria proposta di pace da rivolgere al mondo. Su questa scorta lavoraˆ con l’Aned alla raccolta di circa 70 interviste a sopravvissuti toscani tra il 1987 ed il 1989. Sono gli anni in cui, come testimonia il suo archivio recentemente riordinato, Devoto si dedica a un’opera, rimasta incompiuta, per la quale prevedeva vari titoli compresi nella dizione “dall’isolamento alla condivisione del ricordo”, e che solo parzialmente hanno visto la luce in forma stampata nell’ultimo frutto dei suoi lavori, affidato nel 1992 ad Ilda Verri Melo, dal titolo emblematico de La speranza tradita.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel marzo 2014.




La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.




Guidare la diplomazia in tempo di guerra

Il 5 novembre del 1914, a poco più di tre mesi dalla dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, Sidney Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847-Roma, 24 novembre 1922) prestava giuramento come nuovo Ministro degli Esteri nel secondo governo presieduto da Antonio Salandra. Il politico toscano, chiamato alla guida della politica estera italiana nel pieno della conflagrazione mondiale, vi sarebbe rimasto fino al giugno del 1919, divenendo pertanto il quarto ministro degli esteri dell’Italia liberale per durata di incarico, dopo Visconti Venosta, Tommaso Tittoni e Antonino di San Giuliano. In questi quattro anni e mezzo Sonnino svolse un ruolo centrale nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell‘Intesa e rappresentò nel 1919 assieme a Orlando gli interessi italiani alla Conferenza di Pace di Parigi.

Con Sonnino, Salandra, oltreché un amico personale e un antico alleato, aveva voluto chiamare alla guida della politica estera uno dei leader dell’Italia liberale di maggior esperienza che proprio con quella nomina coronava una lunga carriera pubblica iniziata giovanissimo nella diplomazia italiana quando, poco dopo la laurea conseguita a Pisa in giurisprudenza, aveva servito come volontario tra il 1867 e il 1871 presso le Legazioni italiane di Madrid, Vienna e Berlino.

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell'Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell’Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Precoce studioso, secondo la migliore lezione di Pasquale Villari, della questione sociale e contadina nonché della rappresentanza parlamentare, Sonnino elaborò sin dalla gioventù un proprio pensiero politico che a un progetto di consolidamento delle istituzioni interne legava la necessità di condurre sul piano internazionale una politica estera che consentisse il raggiungimento di una completa sicurezza dei confini nazionali e al contempo permettesse il rilancio di un ruolo attivo dell’Italia nel contesto mediterraneo e del Vicino Oriente, anche tramite la ricerca di una politica di espansione coloniale considerata come mezzo utile al miglioramento delle condizioni dell’emigrazione italiana.
Convinto che molti di questi obiettivi si potessero conseguire sul piano diplomatico, Sonnino giudicò positivamente l’ingresso dell’Italia nel 1882 nella Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Germania, un blocco di potenze ritenuto in grado di assecondare gli interessi di espansione e sicurezza del governo di Roma, nonché fornire una soluzione pacifica al completamento dell’unificazione nazionale. In particolare, l’eventuale applicazione dell’articolo VII del trattato di alleanza, che prevedeva in caso di una espansione asburgica nei Balcani la concessione di ipotetici compensi territoriali all’Italia, poteva costituire, secondo Sonnino, lo strumento col quale ottenere pacificamente i territori irredenti del Trentino e della Venezia Giulia. Questa lettura pratico-strategica della alleanza basata più su un calcolo degli obiettivi esteri nazionali che su ragioni ideologiche (tanto che Sonnino la intese come «un connubio che non esclude il divorzio») assieme al principio di nazionalità guidarono tra Otto e Novecento le sue convinzioni sulla politica estera.

Chiamato nel novembre 1914 da Salandra al Ministero degli Esteri in seguito alla morte improvvisa di San Giuliano, Sonnino agì in continuità con la politica di quest’ultimo, sostituendo però un atteggiamento più dinamico all’incertezza e all’attendismo del San Giuliano. Anziché attendere dall’andamento della guerra il profilarsi di un vincitore per porvisi vicino, Sonnino, persuaso anche di una rapida vittoria austro-tedesca si convinse che, per evitare i pericoli di un isolamento internazionale del paese, fosse necessario rompere la neutralità dichiarata dal governo italiano il 2 agosto e scendere in guerra a fianco di Vienna verosimilmente entro la primavera del 1915, non prima però di aver concordato con quest’ultima, anche in cambio dell’intervento italiano, la natura delle compensazioni territoriali che in base all’art. VII sarebbero spettate all’Italia a seguito delle nuove conquiste balcaniche compiute dall’esercito asburgico.
Contrariamente a quanto spesso sostenuto, Sonnino rimase fino all’ultimo sostenitore della fedeltà alla Triplice e fu in realtà solo l’intransigenza del governo austroungarico nell’ignorare le precise richieste italiane di compensazione territoriale che spinsero il governo Salandra-Sonnino a troncare le trattative con Vienna e negoziare in segreto con le potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) il Patto di Londra. L’accordo, firmato il 26 aprile 1915 e mantenuto segreto, fu un grande successo diplomatico di Sonnino perché dava soddisfazione agli obiettivi della politica estera italiana ricercati nei decenni precedenti. Oltre a garantire un equilibrio nel Mediterraneo centro-orientale e prevedere qualche allargamento delle colonie italiane, il patto stabiliva che in cambio dell’intervento l’Italia avrebbe così ottenuto, oltre al Trentino e al Sud Tirolo (con confine sul Brennero), il controllo della Venezia Giulia e dell’Istria (ad eccezione di Fiume), della Dalmazia settentrionale e della gran parte delle isole, di Valona e del suo retroterra.

Firmato segretamente l’accordo e denunciata la Triplice solo il 3 maggio, il 20 Sonnino presentò al Parlamento una raccolta di atti diplomatici che documentavano le fallite trattative tra Roma e Vienna e illustravano le ragioni della guerra (il cosiddetto Libro Verde). L’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 mentre l’adesione all’Intesa fu resa pubblica solo il 30 novembre. Sonnino il 1° dicembre, in un discorso tenuto alla riapertura delle Camere, poté presentare le ragioni e gli obiettivi della guerra a fianco dell’Intesa. Il rapporto diplomatico con gli alleati si rilevò però subito complicato per via dell’atteggiamento sospettoso degli anglo-francesi che ritenevano l’Italia poco affidabile, imputandole di condurre una sorta di guerra separata con Vienna sulla base dei soli interessi nazionali (in effetti la dichiarazione di guerra alla Germania, richiesta all’Italia dal Patto di Londra, sarebbe giunta solo il 28 agosto 1916). Fu soprattutto Sonnino che con lento lavoro diplomatico poté ricucire in parte i rapporti, assicurare il rispetto dei patti da parte dell’Italia e divenire l‘uomo forte dell’Intesa a Roma: egli «è il solo che ha l’autorità all’interno ed inspira vera fiducia all’estero», scriveva nel 1916 sul suo diario Guglielmo Imperiali ambasciatore italiano a Londra. Tuttavia, l’andamento complessivo delle operazioni belliche sfuggito oramai a ogni previsione, il successivo intervento statunitense a fianco dell’Intesa nell’aprile del 1917 e lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia, mutarono non solo la situazione politica interna ma soprattutto gli equilibri politici e diplomatici. La pubblicazione inattesa da parte della stampa sovietica dei contenuti del Patto di Londra costrinse Sonnino nel dicembre 1917 a difendere in parlamento le ragioni del segreto diplomatico e a respingere le richieste di dimissioni presentate dall’opposizione. Sul piano internazionale, negli ultimi anni del conflitto Sonnino continuò a lavorare soprattutto per creare il terreno favorevole affinché al futuro tavolo della pace potessero essere mantenuti gli accordi sanciti nel Patto di Londra.

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell'inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell’inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Il suo rifiuto, tra la fine del 1916 e gli inizi del 1917, di accettare le offerte di parte tedesca per fa siglare all’Italia una pace separata con Vienna era motivato proprio dal timore che con questa sarebbero andate in frantumi le acquisizioni promesse all’Italia col Patto. Tuttavia, al pari di molti altri leader europei, Sonnino non colse probabilmente fino in fondo che l’intervento statunitense in Europa e soprattutto la politica di pacificazione del Presidente Wilson avrebbero imposto una netta presa di distanza dalle logiche di potenza e dalle dinamiche della diplomazia segreta che in passato avevano retto le relazioni tra gli stati europei e che alcuni ritenevano di poter riproporre ancora dopo il 1918. Le future condizioni di pace indicate da Wilson nei celebri 14 punti smentivano queste aspettative e in particolare respingevano la legittimità delle rivendicazioni italiane riconosciute nel Patto di Londra, bollandole come imperialiste. Sonnino stesso, ricercando sempre con gli alleati un’applicazione integrale dei termini del Patto di Londra si dimostrò forse troppo intransigente, trascurando l’eventualità di adeguare la sua posizione ai nuovi equilibri internazionali mutati a seguito dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

 Queste premesse, assieme all’allineamento franco-britannico sulle posizioni statunitensi, al termine della guerra avrebbero fortemente condizionato i lavori della Conferenza di Pace tenutasi a Parigi tra il 18 gennaio 1919 e il 21 gennaio 1920. La classe dirigente liberale italiana, nonostante avesse incassato il successo politico di Vittorio Veneto e della conseguente conquista italiana dei territori irredenti, vi si presentò delegittimata da una crisi di rappresentanza parlamentare e incalzata dall’opposizione socialista e cattolica. Sonnino, la cui presa sulla politica estera italiana era ora subordinata al protagonismo del nuovo presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, rappresentò meglio di altri il simbolo di questa fragilità nazionale. Ormai settantunenne e dopo circa quattro anni «di estrema tensione nervosa, senza un giorno di riposo», come ebbe a scrivere lui stesso, Sonnino non riuscì a far valere le sue doti diplomatiche né a sfruttare la sua profonda conoscenza delle lingue per avvantaggiare la posizione italiana: alla conferenza «Sonnino tace in tutte le lingue che sa ed Orlando parla in tutte le lingue che non sa» recitava un motto molto diffuso al tempo. Sonnino, dovette peraltro allinearsi alla impostazione diplomatica data da Orlando che anziché chiedere la semplice applicazione del Patto di Londra, come da lui suggerito, puntava anche a ottenere l’annessione di Fiume. L’opposizione statunitense alle rivendicazioni dell’Italia sulla Dalmazia (dopo che le erano stati invece riconosciuti i diritti sul Trentino e l’Istria occidentale) e la proposta di Wilson di fare di Fiume una città libera impedirono di raggiungere in sede di trattative un accordo e furono alla base nell’aprile 1919 dell’abbandono dalla conferenza della delegazione italiana e poi delle dimissioni del governo Orlando-Sonnino il 23 giugno successivo.

Lo statista toscano, da quel momento e negli anni seguenti fu spesso additato come il responsabile del fallimento della diplomazia italiana e della vittoria mutilata. Il giornale della federazione socialista fiorentina, “La Difesa”, nell’agosto 1919 lo chiamò ad esempio «l’inetto bocciato di Parigi», «unico e vero responsabile della rovina d’Italia per averla coinvolta e trascinata, contro volontà, nell’inumana carneficina». Per Giovanni Amendola, il metodo diplomatico di Sonnino tenuto a Parigi fu causa «di tutte le cecità e di tutte le rovine», mentre più tardi Togliatti vi avrebbe rintracciato «il vero responsabile del fallimento della diplomazia italiana». In realtà, se è vero che a Parigi la stella di Sonnino apparve assai opaca, va però detto che la macchina diplomatica da lui diretta nel corso della guerra si era rivelata efficiente e la sua politica estera coerente con il raggiungimento degli interessi nazionali.

Se per alcuni dei suoi detrattori la sua visione degli interessi italiani nell’Adriatico fu ritenuta troppo moderata o accondiscendente alle rivendicazioni degli altri Stati balcanici questo lo si dovette in parte al fatto che la sua politica estera non fu mai di tipo imperialista ma tenne anzi conto delle altre nazionalità oltre che della propria. La decisione pur dolorosa assunta all’inizio del 1915 assieme a Salandra di non includere tra i territori richiesti dall’Italia nel Patto di Londra la città di Fiume, fu presa anche perché si ritenne giusto che in caso di dissoluzione dell’Impero asburgico l’Ungheria o, in caso di indipendenza da questa, la Croazia potessero avere uno sbocco sul mare per le esigenze commerciali delle loro popolazioni. Più in generale, la defaillance della politica estera italiana al termine dei negoziati di Parigi, anziché addossarsi solo a Sonnino dipese più che altro dalla profondità della crisi interna alla classe dirigente liberale, dalle contraddizioni di un paese affetto da evidente arretratezza economica e sociale, nonché in sede diplomatica dall’intransigenza statunitense e dall’atteggiamento ostile di Francia e Gran Bretagna, oltreché dall’effettivo difetto negoziale della delegazione italiana. Il giudizio severo che toccò allo statista toscano fu perciò in buona parte esagerato. Guglielmo Imperiali, che pure dalla politica estera del toscano aveva spesso dissentito, scrisse sul suo diario dopo l’abbandono di Sonnino della conferenza di Pace: «non posso però non inchinarmi dinanzi all’onestà, rettitudine ed altissimo sentimento patriottico dell’uomo, di cui gli sforzi e l’importanza dei risultati comunque già ottenuti meritavano miglior sorte».




Il caso “Facio”, il comandante partigiano ucciso dai suoi compagni

E’ l’alba del 22 luglio 1944: ad Adelano di Zeri una scarica di colpi di fucile rompe il silenzio di queste vallate dell’alta Lunigiana fra Toscana, Liguria ed Emilia. Dante Castellucci, il comandante partigiano «Facio», comunista e garibaldino, è morto: ha solo 24 anni ma è già un eroe della lotta contro tedeschi e fascisti. Eppure a fucilarlo non sono i soldati nemici, ma un gruppetto di partigiani della IV Brigata Garibaldi della Spezia. Il suo accusatore è Antonio Cabrelli «Salvatore», di oltre vent’anni più anziano, che ha imbastito contro «Facio» un processo-farsa dalla condanna già scritta, portandolo davanti a un improvvisato tribunale di guerra per i reati di tradimento e sabotaggio.

Quella di «Facio» è una storia di vita, per quanto breve, capace di attraversare e vivere da protagonista grandi temi ed eventi del Novecento italiano. Calabrese, nato nel 1920 a Sant’Agata di Esaro, con la famiglia emigra ancora bambino nel Nord-Pas de Calais, nella stessa città in cui vivono grandi antifascisti italiani come Ermindo Andreoli e i fratelli Gino ed Eusebio Ferrari. I Castellucci rientrano in patria all’alba della Seconda Guerra mondiale e Dante viene chiamato alle armi nell’esercito italiano: spedito sul fronte prima in Francia e poi in Unione Sovietica, il 25 luglio del 1943 si trovava in permesso per convalescenza. Da intellettuale autodidatta scrive, dipinge, suona il violino. Entra in contatto con le famiglie antifasciste emiliane dei Sarzi e dei Cervi, organizzando con esse le prime forme di Resistenza. Divenuto il braccio destro di Aldo Cervi, nel dicembre del 1943 viene arrestato assieme ai sette fratelli ma, fingendosi un soldato straniero, viene rinchiuso nel carcere parmense della Cittadella dal quale riesce ad evadere pochi giorni prima della fucilazione dei compagni a Reggio Emilia. I sospetti del Pci reggiano, che emette una circolare di arresto nei confronti di Castellucci, lo spingono a entrare in contatto col Cln di Parma, dove il dirigente comunista Luigi Porcari lo manda alle dipendenze del Battaglione garibaldino «Picelli» comandato da Fermo Ognibene «Alberto». In Lunigiana, «Facio» si rende protagonista di ripetuti attacchi alle postazioni nemiche, guadagnandosi in breve tempo la fiducia dei compagni e la stima delle popolazioni civili ancora oggi riscontrabile presso i testimoni dell’epoca, fino a divenire Comandante del battaglione dopo la morte di Ognibene. Il 17 marzo 1944 «Facio» fa il suo ingresso nel mito resistenziale con la battaglia del Lago Santo: chiuso in un rifugio con otto uomini male armati, resiste oltre ventiquattr’ore, senza perdite, all’accerchiamento di oltre cento soldati nazifascisti; alla fine i nemici contano decine di morti e feriti e sono costretti alla ritirata ordinata. La battaglia di Lago Santo ricopre il «Picelli» di un alone di leggenda e «Facio», con Fermo Ognibene caduto in battaglia due giorni prima, ne diventa il comandante.

Dante Castellucci Facio in un'immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Dante Castellucci in un’immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Il battaglione interpreta benissimo le tattiche della guerriglia, compiendo attacchi fulminei e spostando continuamente la propria posizione. Disorienta i comandi nazifascisti, convinti di trovarsi di fronte a una formazione composta da centinaia di uomini. Tutela l’incolumità della popolazione civile, perché senza fornire un punto di riferimento territoriale, non concede la possibilità della rappresaglia nazista. Il «Picelli» è anche un esperimento politico e sociale, come nei dettami della lotta partigiana che ha il fine di rovesciare ruoli e costumi della società fascista. Il comandante vive e agisce alla pari dei suoi uomini, li guida in azione, siede a mensa con loro e si serve sempre per ultimo, rinunciando spesso alla propria razione, ed è l’ultimo a usufruire del vestiario ricevuto da un lancio o sottratto al nemico. Quando Laura Seghettini, pontremolese appena uscita dal carcere fascista, entra a far parte del battaglione, non viene destinata al ruolo di staffetta o di aiutante, ma diventa partigiana combattente fino ad assumere il ruolo di vice-comandante. Per poche settimane, Laura sarà anche la compagna di «Facio»: i due già progettano una sorta di «matrimonio in brigata», ma la vita in quei mesi corre troppo veloce.

foto segnaletica di antonio cabrelli_da Archivio centrle dello Stato_Casellario politico centraleAntonio Cabrelli «Salvatore», nominato da «Facio» commissario politico di un distaccamento del «Picelli», intende proseguire la sua scalata ai vertici del movimento partigiano spezzino: ha progettato la costituzione di una brigata garibaldina che faccia capo alla federazione comunista della Spezia e ai comandi liguri, ma il «Picelli» dipende ancora da Parma, cui «Facio» deve tutto. «Salvatore», così, sottrae il distaccamento «Gramsci» dalle dipendenze del «Picelli», lo trasforma in brigata e se ne autoproclama commissario politico. Per portare a termine il suo piano, deve sbarazzarsi dell’ostacolo più grande, rappresentato dal «brigante calabrese», come lo chiama lui: tra i due corrono lettere infuocate con accuse e minacce reciproche; Dante Castellucci sfugge a un agguato tesogli a tradimento; «Salvatore», allora, agisce con l’inganno.

La mattina del 21 luglio 1944 «Facio» viene chiamato al comando della brigata appena fondata da «Salvatore», con la scusa di chiarire la questione di alcuni materiali sottratti a un aviolancio. Convinto di dover affrontare solo un’accesa discussione, si fa accompagnare da due uomini fidati. Appena giunto nella sede del comando, il comandante del «Picelli» viene disarmato, aggradito e picchiato da Cabrelli, che ha imbastito un tribunale di guerra nel quale è, al contempo, accusatore e giudice. Poche ore dopo «Facio» viene condannato a morte per i reati di furto, sabotaggio e tradimento.

L’ultima notte la passa con «Laura», che nel frattempo lo ha raggiunto, sorvegliato da uomini della IV Brigata che a un certo momento gli offrono la via di fuga: «non sono scappato dai fascisti, non scapperò dai compagni» sono le parole di Dante Castellucci. Verga alcune lettere alla famiglia e agli amici emiliani. Scherza, com’è nel suo carattere, racconta qualche barzelletta e riesce pure a dormire un poco, come racconta «Laura».

Alle prime luci del 22 luglio viene prelevato e portato davanti al plotone d’esecuzione: è lui stesso a esortare i partigiani che non trovano il coraggio di sparargli addosso. Con «Facio» muore una delle più interessanti ed efficienti espressioni che il movimento partigiano aveva espresso fino ad allora.

Luca Madrignani (Carrara, 1977), dottore di ricerca presso l’Università di Siena, assegnista presso l’Insmli, collabora con l’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età Contemporanea Apuana; si occupa di Didattica della Storia nella scuola. Ha pubblicato saggi e articoli sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo; l’ordine pubblico e la violenza politica; la Storia della Resistenza e il movimento partigiano. E’ in corso di stampa per Il Mulino il volume Il Caso-Facio. Eroi e traditori della Resistenza.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.