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“…all’infuori di un immenso amore”: per un profilo intellettuale di don Aldo Mei a 75 anni dalla morte

L’autore ringrazia la Chiesa parrocchiale di Fiano per l’accoglienza e la disponibilità dimostrate durate la redazione del presente articolo.

Si trova ai piedi delle mura di Lucca, venendo da Porta Elisa, a pochi passi dal baluardo San Salvatore, in uno scenario idealmente coronato dai rami degli alberi della verde passeggiata pedonale voluta da Maria Luisa di Borbone che si snoda lungo tutto il perimetro del monumento-simbolo della città: un’alta pietra squadrata – decorata unicamente da una croce bianca e da un’epigrafe – fatta erigere dalla Misericordia di Lucca per onorare la memoria di don Aldo Mei, “indegno parroco di Fiano” (così si firma nella sua ultima lettera-testamento), fucilato in quello stesso luogo dai tedeschi la sera del 4 agosto 1944 dopo esser stato costretto a scavare la propria fossa, oggi delimitata da un filare di pietre e ricoperta da bianca ghiaia. Da allora non è passato anno senza che la comunità locale non si sia riunita per ricordare la figura del giovane parroco – trentaduenne al momento della condanna a morte, essendo nato a Ruota (Capannori) il 5 marzo 1912 – a cominciare da quel 5 agosto 1945 quando, dopo una solenne e partecipata messa, l’arcivescovo Antonio Torrini (dalle cui mani dieci anni prima Aldo aveva ricevuto l’ordinazione presbiterale) benedice il cippo in memoria del parroco.

Una vicenda, ha scritto don Marcello Brunini, che “inizia nel silenzio e nell’umiltà […], si nutre di Vangelo […], si completa nell’offerta totale della vita, nel martirio non cercato, ma accettato come dono”: una vita breve (ma del resto don Aldo sa bene che essa è solo una preparazione alla “vera patria”, alla presenza di Dio), che una malattia scheletrica segnerà profondamente costringendo Aldo a indossare un busto di ferro, vissuta all’impronta di una fortissima fede, come emerge dagli scritti pubblicati nell’antologia Testimone sempre, editi da Maria Pacini Fazzi nell’ormai lontano 1987. Fede e amore: quell’amore che solo può essere accettato come “totalitario”, come il parroco scrive nel suo diario nel dicembre 1942, quando la guerra e i suoi effetti sulla popolazione fianese cominciano a incidere sempre più sulla comunità, con la partenza per il fronte di numerosi giovani; quella guerra definita come “la più atroce che ci ricorda la storia”, dove “si contano i carri armati, gli aereoplani, gli ordigni di guerra, ma gli uomini morti o feriti o dispersi, non si contano, affatto!”. E in questa guerra dove “funeste ideologie […] peggio delle antiche ideologie pagane”, scrive ancora don Aldo nel gennaio 1943, spingono gli uomini nelle braccia dei nuovi Moloch (lo Stato, il partito, il duce), non ci si può sottrarre ad una scelta, e “l’indegno parroco” non si tira indietro: la sua è una scelta dettata dalla carità verso le vittime. Amare e ad aiutare dunque le vittime, “i poveri, i reietti, i rifiuti della società” (i partigiani cui somministra i sacramenti, i renitenti e i perseguitati che nasconde) non meno che gli avversari: quanto a questi ultimi“amarli sempre”, in completa aderenza al dettato evangelico, “soprattutto quando insultano, quando avviliscono, quando perseguitano, quando crocifiggono”. Amare fino in fondo, come quella sera del 4 agosto sotto gli spalti delle mura, quando don Mei muore benedicendo i propri carnefici, e una pallottola trafigge la mano alzata a benedire.

Negli anni la figura del giovane parroco fianese è divenuta un simbolo di quella rete di resistenza civile e disarmata che proprio nella provincia di Lucca ebbe il suo fulcro nella Chiesa, vedendo la partecipazione di numerosi protagonisti – da Arturo Paoli a Sirio Niccolai fino a Guido Staderini, senza dimenticare i monaci certosini di Farneta (trucidati e deportati ai primi del mese di settembre 1944 per aver nascosto una ventina di persone di religione ebraica): fin dal primo anniversario della morte gli scritti di don Aldo – in particolare il testamento – vengono stampati e diffusi, seguiti da una biografia redatta da Mansueto Lotti i cui proventi servono a coprire le spese del monumento eretto a Fiano. A far conoscere su scala nazionale Aldo sarà però la raccolta Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (1952), più volte ristampata nel corso degli anni da Einaudi; un anno dopo viene citato nella Storia della Resistenza Italiana di Roberto Battaglia. In tutti questi anni e in quelli successivi non si interrompono inoltre i pellegrinaggi alla tomba (che dal 1987 si trova nella chiesa di Fiano), .le commemorazioni e i cortei, come quello imponente che nel 1964, ventesimo anniversario della morte, attraversa la città partendo dalla Pia Casa – dove Aldo era stato imprigionato dopo l’arresto – e si conclude sul luogo del martirio, alla presenza dei fratelli e della madre del parroco (itinerario più volte riproposto e che negli ultimi anni ha visto la partecipazione dell’attore lucchese Marco Brinzi nei panni ideali di Aldo); infine le numerose pubblicazioni, come il Martirologio del clero italiano edito dall’Azione Cattolica sempre nel ’64 (in concomitanza con l’avvio del processo di beatificazione e canonizzazione), la già citata antologia di scritti editi da Maria Pacini Fazzi e i numerosi contributi dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca, che hanno ulteriormente approfondito tanto la figura di Aldo Mei quanto il ruolo dei religiosi nella Resistenza e ai quali recentemente sono andati ad aggiungersi, in occasione del settantacinquesimo anniversario, mostre fotografiche (L’amore non muore. Don Aldo Mei martire della carità,curata da Emmanuel Pesi) film-documentari (Questa terra impastata di sangue, per la regia di Stefano Ceccarelli e la sceneggiatura di Marco Brinzi e Luciano Luciani) e persino fumetti (Come into my house. Nove storie di Fuga e Resistenza, scritto e disegnato da Emmanuel Pesi e Luca Lenci).

Non ha mai smesso di affascinare don Aldo, con la sua figura esile, l’aria mite, i grandi occhiali sfoggiati nelle fotografie d’epoca, resistente disarmato che sacrifica la propria vita nel nome del Vangelo (“Mio Dio”, scrive il 13 novembre 1942, “datemi di guardare con sereno coraggio all’Eroismo Evangelico”) e dell’amore – “muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio”, recita quello che è forse il più celebre passo tratto da una delle sue ultime lettere, quella indirizzata ai genitori, “io che non ho voluto vivere che per l’amore!”. Questa in ultima analisi l’eredità di Aldo Mei, che altro non ha avuto da lasciare che il proprio esempio, impossibile da rinchiudere entro i confini dell’agiografia, trasversale fino all’universalità, che parla a credenti e non credenti:”nulla da lasciare”, come recitano le righe tracciate a lapis sul breviario poco prima dell’esecuzione, “all’infuori di un immenso amore”.

Gli abiti indossati al momento della fucilazione, conservati presso la chiesa parrocchiale di Fiano (foto di S. Lazzari)




Emilio Angeli: il “nonnino” della Resistenza toscana

«Chi ricorda la situazione livornese dal ’45 al ’48 sa che cosa voleva dire, allora, agire nel piano sociale per una idea cattolica apertamente professata. [Emilio Angeli] era ancora dolorante per le percosse e le fratture riportate dalla aggressione di centinaia di scalmanati e ripartiva per affrontare in altre parti il rischio di nuove aggressioni. “Non sono questi i guai” diceva sorridendo e ricominciava la sua battaglia. Erano giorni in cui solo i manifesti murali del “Fides” osavano affrontare il terrorismo comunista per far conoscere le cose vere della città. La polizia non era sufficiente per proteggere, la gente era spaventata: affiggere quei manifesti, periodicamente, tra continue minacce significava rischiare letteralmente la vita: ma il sor Emilio insieme ad Alfio e a pochi altri, sempre diversi, non mancava mai. Non si trattava di episodi ma di una lotta continua ed estremamente rischiosa condotta in difesa dei valori cristiani con l’umiltà di chi la credeva un semplice dovere»[1].

Così scriveva il 20 gennaio 1957 sul «Fides» don Renato Roberti, nel terzo anniversario della morte di Emilio Angeli, il «nonnino»[2] della Resistenza toscana.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Due giorni prima il vescovo coadiutore di Livorno monsignor Andrea Pangrazio inaugurava in memoria del padre di don Roberto Angeli il «Centro di Assistenza Sociale Emilio Angeli»[3], situato vicino al Cantiere Orlando tra Borgo S. Jacopo e via Micheli. Quel Centro avrebbe raggruppato il “cuore” delle attività del Comitato Livornese Assistenza (CLA) di cui nel 1948 Emilio «fu uno dei più entusiasti e preziosi iniziatori»[4]: in Borgo S. Jacopo col tempo si raggrupparono un notevole numero di attività, tra cui una Casa di educazione per adolescenti, la Scuola Tipografica «Stella del Mare», un Centro medico-psico-pedagogico, un Refettorio e ricreatorio post-scolastico oltre agli Uffici e servizi vari del CLA[5]. Per la Pontificia Commissione Assistenza (PCA) e per il CLA, Emilio Angeli aveva speso senza risparmiarsi l’ultimo decennio della sua vita, occupando il tempo che gli restava libero finito il turno di operaio alla Motofides. «Senza mio padre – affermò don Angeli – non avremmo potuto fare per i ragazzi quello che abbiamo fatto»[6]. Scrive don Roberti: «Con lo stesso impegno e la stessa generosità del periodo clandestino si dava anima e corpo al successo dell’opera, ne amava intensamente le finalità e non c’era niente che egli considerasse estraneo alle sue premure e alle sue fatiche. […] Più di una volta, per un insieme di circostanze, si è trovato praticamente solo a sostenere il peso della organizzazione di tutto il C.L.A. Allora saltava notti in bianco, pasti, conversazioni estranee, e si moltiplicava per fare tutto quello che occorreva. […] I bimbi delle colonie, dei doposcuola, dei ricreatori, li amava, li difendeva»[7].

Gli scontri coi comunisti nel dopoguerra, anche seri e gravi[8], non furono niente a confronto con le nerbate e con le torture subite da Emilio Angeli nelle carceri di via Tasso a Roma durante gli interrogatori a cui fu sottoposto dal responsabile del Massacro delle Fosse Ardeatine in persona, Herbert Kappler, il famigerato comandante del Servizio di Sicurezza  (Sicherheitsdienst-SD), e della polizia segreta nazista (Geheime Staatspolizei-Gestapo) di Roma.

Tradito da un certo Ghirelli, che operava ai margini della Resistenza romana, Angeli fu arrestato dalla Gestapo sul ponte Milvio. «Fui portato in via Tasso in Roma – ricordava Angeli nel 1945 – bella villa, finestre murate, dimora delle S.S. luogo principale di tortura di Roma. Spogliato, perquisito, privato di quanto possedevo fui portato in cella dove si trovavano altri sei disgraziati. La mia persona parve alle S.S. tedesche molto importante perché fui subito sottoposto a lunghi e estenuanti interrogatori interrotti da nerbate perfino sotto le piante dei piedi. Il mio viso serviva come esercizio di box anche al colonnello Kappler comandante delle S.S. a Roma. Il mio viso era diventato gonfio come un pallone ciò durò per cinque giorni alla fine dei quali si sentenziò: “domani sotto torchio parlerete…”»[9]. Kappler «credeva nientemeno che fosse un generale – scrive don Angeli nel capitolo dedicato a suo padre nel Vangelo nei Lager – […] Questo – disse una volta Kappler ai suoi collaboratori dopo un’estenuante seduta, mentre il detenuto a testa bassa, taceva ancora ed il pavimento era chiazzato di sangue – questo è veramente un soldato…»[10].

Nel dopoguerra il Maresciallo d’Italia generale Giovanni Messe decorò Emilio Angeli con la Medaglia d’argento al Valor Militare con la seguente motivazione: «Nel corso di un lungo periodo di attività clandestina collaborava alla attività di due nuclei informativi operanti in territorio italiano occupato dai tedeschi. Arrestato e sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori, manteneva ferma e dignitosa fierezza. Condannato a morte riusciva ad evadere e a raggiungere le truppe alleate»[11]. Anche il rabbino capo di Livorno, Alfredo Toaff, riconobbe che quello di Angeli fu un «esempio fulgido di bontà, di fede e di eroismo»[12].

Sia don Angeli che Renato Orlandini descrivono il fortunato epilogo del suo arresto[13]. Emilio Angeli lo ricordava così: «Per una ventina di giorni fui lasciato in pace e me ne chiedevo la ragione quando la sera del 3 giugno fui condotto in una sala dove mi legarono le mani dietro la schiena. La stessa sorte toccò ad altri 28, a un certo momento giunse in cortile un piccolo camion dove ci fecero salire, dopo il quattordicesimo non ce ne stettero altri, io ero il quindicesimo. Il maresciallo mi respinse e il carico partì. Noi ritornammo nella sala, si prolungava di qualche ora la nostra agonia, anche allora Iddio mi protesse. La macchina non fece ritorno e alle ventiquattro fummo slegati e ricondotti in cella. La mattina del 4 giugno sentimmo gran confusione, erano i tedeschi che dal palazzo di via Tasso fuggivano perché si sentiva la mitraglia e il cannone vicino Roma. Alle sette del mattino eravamo liberi, la popolazione ci aveva aperto le porte».

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Ma perché c’era stato tanto accanimento contro Emilio Angeli? E in cosa consistette il suo «lungo periodo di attività clandestina»?

Merlini lo sintetizza così: «Si trattava di salvare tanti ebrei perseguitati, di portare aiuti a tanti soldati italiani e a tanti prigionieri alleati braccati sui monti, di raccogliere informazioni militari, di divulgare la stampa clandestina e soprattutto di dare vita ai primi gruppi di partigiani. E il “nonnino” compariva dappertutto, con tutti i mezzi, ad aiutare ed a risolvere le più disperate situazioni»[14].

[1] R. ROBERTI, Alla generosità della sua lotta non può mancare il premio del Signore, in «Fides», 20 gennaio 1957. Emilio Angeli era nato nel 1887 e morì nel gennaio del 1954.

[2] «Lo chiamavamo così perché, a noi ventenni, un cinquantenne o poco più sembrava vecchio. E, in effetti, era il più anziano del nostro gruppo [dei cristiano-sociali]», cfr. R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, MCS, Livorno 1989, p.49

[3] A Emilio Angeli vennero intitolate anche la Colonia montana presso Cutigliano (Pistoia) e nel 1969 il Soggiorno montano in località Talento presso Marliana (Pistoia), cfr. 1948-1964 Gli anni e le attività, in «Il Ponte», notiziario del Comitato Livornese Assistenza, n.2, aprile 1964 e 30 anni, «Il Ponte», n.1, maggio 1976

[4] Cfr. Emilio Angeli, «Il Ponte», n. 2, aprile 1964

[5] Cfr. Il Vescovo e il Prefetto inaugurano il nuovo Centro di Assistenza Sociale “Emilio Angeli”, in «Fides», 20 gennaio 1957

[6] Cfr. Il «nonnino» che aveva per amici i bambini, in «Fides», 24 gennaio 1954

[7] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954

[8] In Archivio Centro Studi don Roberto Angeli, si trova una lettera di don Angeli a Gianfranco Merli, datata 1963, in cui il sacerdote ricordando il decennio 1945-1955 e gli scontri con i comunisti afferma che «a mio padre, che scortava i nostri “attacchini” [del “Fides” edizione murale], venivano rotte due costole». In R. ROBERTI, Perché voglio parlare di don Pessina, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1991 don Roberti sostiene che nel dopoguerra «il “nonnino”, il babbo di don Angeli, l’eroico antifascista, torturato dai nazisti a Roma in via Tasso, senza che riuscissero a farlo confessare, aggredito dai comunisti a S. Jacopo e bastonato a sangue – ricoverato all’ospedale con due costole rotte – accusato e punito come un “bieco fascista”»; concetto ribadito in Id., Delitto di leso giornalismo, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1996: «il babbo di don Angeli, l’eroico “Nonnino” della Resistenza, lo picchiarono a sangue i comunisti».

[9] La testimonianza inedita si trova nell’Archivio ISRT, Fondo Clero, Busta n.6, Fascicolo XIII, Diocesi di Livorno.

[10] R. ANGELI, Vangelo nei lager: un prete nella Resistenza, Stella del Mare, Livorno 1985,  pp. 20-21

[11] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954.

[12] ibid.

[13] R. ANGELI, Vangelo nei lager, cit.,  pp. 21-22 e R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, cit., pp. 48-50

[14] L. MERLINI, In memoria di Emilio Angeli, in «Il Tirreno», 20 gennaio 1954




“Relazioni pericolose” nell’Africa orientale italiana

Il blitz compiuto dal collettivo femminista Non una di meno contro la statua di Indro Montanelli dei giardini di Porta Venezia a Milano lo scorso 8 maggio, ha nuovamente riportato al centro dell’agone mediatico il controverso rapporto tra gli italiani e il loro passato coloniale. I motivi che stanno alla base del gesto provocatorio delle attiviste (l’imbrattamento della statua con della vernice rosa lavabile), riguardano infatti una storia avvenuta in Etiopia tra il 1935 e il 1936, quando l’allora ventiseienne giornalista di Fucecchio prestava servizio nel Regio Esercito come comandante di un reparto di ascari impegnato nella guerra di aggressione scatenata da Mussolini contro il Paese africano. Milano. Statua di Indro Montanelli imbrattata. Di Clarita Di Giovanni

Com’è noto, in quel frangente, Montanelli intrattenne per alcuni mesi una relazione di concubinato (o per usare un termine più specifico, di madamato) con una ragazzina eritrea di soli 12 anni che egli aveva “acquistato” dal padre. Di questa esperienza – accusano le attiviste – Montanelli non si è mai pentito né scusato, neanche in tempi recenti quando le sensibilità verso tali tematiche erano ormai ampiamente mutate; al contrario ne ha sempre rivendicato la legittimità in virtù delle profonde differenze culturali tra il mondo civilizzato e l’Africa [1]. Valga come esempio paradigmatico l’ultima volta in cui il giornalista parlò della sua madama dalle colonne del Corriere della Sera, il 12 febbraio del 2000:

Mi presentai al comandante di Battaglione, Mario Gonnella, un piemontese di lunga e brillante esperienza coloniale, che mi diede alcuni consigli sul modo di comportarmi con gl’indigeni e con le indigene. Per queste ultime, mi disse di consultarmi col mio «sciumbasci», il più elevato in grado della truppa, che dopo trent’anni di servizio sotto la nostra bandiera conosceva i gusti di noi ufficiali.
Si trattava di trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie […] e di stabilirne con il padre il prezzo. Dopo tre giorni di contrattazione a tutto campo tornò con la ragazza e un contratto redatto dal capo-paese in amarico, che non era un contratto di matrimonio ma – come oggi si direbbe – una specie di «leasing», cioè di uso a termine. Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500), più l’acquisto di un «tucul», cioè una capanna di fango e paglia del costo di 180 lire.La ragazza si chiamava Destà e aveva 14 anni [sic!]: particolare che in anni recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. […]Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei Ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi dovunque mi trovassi […]. Arrivavano portando sulla testa una cesta di biancheria pulita, compivano – chiamiamolo così – il loro «servizio», sparivano e ricomparivano dopo altri quindici o venti giorni [2].

Fin dall’inizio della dominazione italiana in Eritrea sul finire del XIX secolo, il madamato si era imposto come la cornice istituzionale in cui si realizzavano i rapporti asimmetrici – e non di rado violenti – tra i coloni italiani e le donne indigene. L’esistenza di questo tipo di convivenza more uxorio che spesso si completava con la nascita di figli, veniva giustificata facendo riferimento al demoz (o dumoz), un complesso contratto matrimoniale a termine diffuso in alcune zone della colonia e caratterizzato da reciproci obblighi da parte dei contraenti; tra di essi il riconoscimento dei figli nati all’interno del rapporto, il pagamento da parte dell’uomo di un compenso annuo alla donna, e l’obbligo, sempre da parte dell’uomo, di provvedere alla prole nel momento in cui il legame fosse stato sciolto. Tuttavia, come hanno osservato Barbara Sòrgoni e Giulia Barrera, le convivenze stabili che coinvolgevano coloni italiani e donne eritree interpretavano il demoz in una forma peculiare che ovviamente andava tutta a vantaggio dell’uomo bianco: in qualche caso esso si configurava come una variante della prostituzione, in ragione del compenso che l’uomo doveva pagare alla donna; in qualche altro caso il madamato diveniva una sorta di concubinaggio attraverso cui l’uomo bianco poteva avere rapporti sessuali con la madama ed usufruire dei suoi servizi in ambito domestico, senza esser sottoposto ad alcun obbligo legale [3]. A prescindere che prevalesse l’una o l’altra interpretazione, raramente i figli nati da relazioni di questo genere venivano riconosciuti dal padre e pertanto erano destinati il più delle volte alla marginalità sociale. Allo stesso modo le donne abbandonate dai partner italiani si ritrovavano escluse dai contesti familiari di provenienza, non trovando spesso altra strada che quella della prostituzione.

Ufficio Postale

E. De Seta, Ufficio postale
Cartolina ad uso delle truppe nell’AOI
Milano, Edizioni d’Arte Boeri, 1935-36

Già nei primi anni del XX secolo, tra il 1909 e il 1914, l’amministrazione coloniale italiana aveva tentato di porre un freno a fenomeni di questo tipo attraverso una serie di norme incorporate in uno speciale diritto coloniale che miravano a ridurre al minimo qualsiasi commistione tra coloni (in modo particolare i funzionari coloniali) e popolazioni indigene [4]. Tuttavia, fu solo con l’avvio della fase imperiale del fascismo che l’orientamento segregazionista, già contenuto in nuce nella legislazione di epoca liberale, trovò uno sviluppo coerente e definitivo attraverso un progressivo irrigidimento del confine tra i “cittadini italiani” e i “sudditi eritrei ed etiopici”. L’arrivo a Massaua, tra il 1935 e il 1936, dei soldati e lavoratori italiani mobilitati per la guerra con Etiopia, aveva infatti alterato drammaticamente le proporzioni tra i maschi bianchi – passati da qualche migliaio a più di mezzo milione in brevissimo tempo – e le donne indigene, traducendosi in un aumento vertiginoso delle relazioni interetniche (il madamato, ma anche matrimoni e rapporti occasionali). Al fine di depotenziare il pericolo rappresentato da questa situazione promiscua, il regime fascista emanò quindi, nella seconda metà degli anni Trenta, una legislazione coloniale articolata su un impianto ideologico fortemente razzista che disciplinava la vita quotidiana in colonia, istituendo spazi differenziati per gli italiani e i nativi e riducendo al minimo i contatti tra le razze. I provvedimenti più importanti riguardavano la definizione delle categorie di “cittadino” e “suddito” (R.dl. 1 giugno 1936, n. 1019, Sull’ordinamento e l’amministrazione dell’Africa orientale italiana), la difesa del “prestigio della razza” e il divieto assoluto di rapporti matrimoniali o sessuali interetnici (L. 30 dicembre 1937, n. 2590, Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi; R.dl 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana; R.dl. 29 giugno 1939, n. 1004, Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa Orientale), la definizione dello status giuridico dei meticci (L. 13 maggio 1940, n. 822, Norme relative ai meticci) [5].

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E. De Seta, Al mercato
Cartolina ad uso delle truppe nell’AOI
Milano, Edizioni d’Arte Boeri [1935-1936]

Sebbene tali leggi furono largamente eluse dagli italiani presenti in colonia, che fino alla caduta dell’impero continuarono a praticare il madamato e unirsi a donne indigene nonostante il rischio di finire in carcere, esse ebbero indubbiamente degli effetti devastanti sulla popolazione italo-africana. Essendo stati equiparati ai nativi dal punto di vista giuridico, sul finire degli anni Trenta, i meticci nati dalle unioni miste videro infatti svanire le già tenui possibilità di acquisire la cittadinanza italiana [6] così come l’opportunità di accedere alle «scuole e gli altri istituti di carattere sociale ed educativo, che storicamente avevano servito le comunità a retaggio misto» [7]. Nella gerarchia imperiale imposta dal fascismo per salvaguardare il prestigio della razza italica, il meticcio finì insomma per rappresentare un elemento destabilizzante che doveva essere in qualche modo occultato o comunque assorbito all’interno della categoria dei nativi.

I programmi di ortopedia sociale proposti dal regime fascista per ridefinire lo spazio imperiale secondo dettami razziali si scontravano però con l’esistenza dei cosiddetti «insabbiati», cioè uomini che non solo avevano familiarizzato con l’elemento indigeno ma la cui esistenza era ormai radicata profondamente nella condizione coloniale. Nel periodo di cui ci stiamo occupando, l’accusa di insabbiamento veniva rivolta, molto spesso, ai «vecchi coloniali». Con questa espressione si definivano tutti quei funzionari statali, agenti di commercio e militari che, avendo passato gran parte della propria vita in colonia, avevano contribuito a strutturarne la vita sociale, economica e culturale, grazie anche alla conoscenza degli usi, dei costumi e delle lingue delle popolazioni locali. Non di rado essi avevano instaurato relazioni più o meno formali con donne indigene e riconosciuto i figli nati da tali unioni.

Alberto Pollera. Foto in: Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939
Alberto Pollera.
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

A questo proposito è di estremo interesse affrontare il caso di Alberto Pollera, la cui peculiare esperienza di amministratore coloniale ed etnografo ci permette di osservare i temi che abbiamo precedentemente passato in rassegna all’interno di un contesto di vita vissuta, che si svolse quasi interamente nel Corno d’Africa coprendo tanto la fase liberale del colonialismo italiano, quanto quella fascista [8]. Quinto di undici figli, Pollera nacque in una famiglia della piccola aristocrazia lucchese il 3 dicembre 1871. Ottenuto il diploma liceale entrò nel 1890 all’Accademia Militare di Modena, dove rimase per tre anni, per poi trasferirsi prima a Brescia e poi, dopo sua esplicita richiesta, nella neonata colonia Eritrea dove giunse nel 1894 con il grado di sottotenente. Un anno dopo viene raggiunto dal fratello Ludovico, anch’egli destinato a divenire un funzionario coloniale di un certo rilievo. Dopo esser entrato a far parte del Corpo Speciale d’Africa al comando del governatore Oreste Baratieri, fu coinvolto, pur senza parteciparvi direttamente, nella disfatta di Adua (1° marzo 1896), poi in alcune operazioni militari contro i dervisci e nella delimitazione del confine tra l’Eritrea e il Sudan anglo-egiziano. Nel 1903, svestita l’uniforme militare, divenne per sei anni un funzionario civile incaricato di amministrare la turbolenta regione del Gasc e Setit come “primo residente”. Fu nel periodo immediatamente precedente a questo incarico che egli conobbe Unesc Arai Araià Capté, una giovane donna originaria della regione di Axum, dalla quale ebbe quattro figli: Giovanni e Michele, nati nel 1902, Giorgina, scomparsa prematuramente a un anno tra il 1907 e il 1909 e infine Giorgio (1912). Stabilitasi ad Asmara con i figli, Unesc Arai rimase al fianco di Pollera per alcuni anni e, dopo la fine del loro rapporto, continuò ad essere mantenuta dall’ex compagno che le aveva acquistato un’abitazione. In seguito, Pollera fu nominato commissario della provincia del Seraé (1909-1917) e regio agente a Dessiè e ad Adua, in territorio etiope, fino al suo temporaneo collocamento a riposo nel 1928. Egli tuttavia, in quello stesso anno, accettò di prendere parte alla spedizione organizzata da Raimondo Franchetti in Dancalia, occupandosi dei preparativi logistici e mettendo a disposizione le sue conoscenze in ambito antropologico. Come molti altri funzionali costretti – in un certo senso – a conoscere gli usi, i costumi e le lingue delle popolazioni locali per poter assolvere al meglio alle pratiche dell’amministrazione coloniale, Pollera era infatti divenuto un “etnografo per necessità”, dedicandosi nel corso della sua vita alla stesura di numerose monografie di carattere storico-giuridico-antropologico [9]. In questa attività egli poté contare sull’aiuto determinante di Chidan Menelik, la sua seconda compagna, che aveva conosciuto nel 1912 e che gli diede altri tre figli: Mario (1913), Marta (1915) e Alberto (1916).

A differenza di altri coloniali che abbandonavano i meticci nati dalle relazioni con donne africane al loro destino, Alberto riconobbe tutti i suoi figli, sebbene dal punto di vista giuridico egli non potesse legittimarli. Secondo il codice civile italiano, infatti, il padre naturale non poteva legittimare i propri figli naturali a meno di non sposarne la madre. Come abbiamo visto in precedenza però, in colonia tale strada non era percorribile, i quanto di decreti governatoriali del 1909 e del 1914 integrati nel diritto coloniale rendevano virtualmente impossibili i matrimoni misti, costringendo il cittadino a dare le dimissioni dal pubblico impiego in caso di nozze con una donna indigena. Nonostante la mancanza di legittimazione, i figli di Pollera poterono comunque frequentare scuole italiane e poi, intorno alla prima metà degli anni Venti, spostarsi in Italia per completare gli studi presso alcune strutture educative religiose.

La visione che il funzionario lucchese aveva del colonialismo spiega almeno in parte questi peculiari atteggiamenti nei confronti delle compagne e dei figli. Facendo riferimento ai suoi scritti, Pollera fu senza dubbio animato, da un lato, dall’ideale della missione civilizzatrice compiuta dai bianchi in Africa, e dall’altro, da un razzismo paternalistico giustificato da un paradigma evoluzionistico attraverso cui le razze umane venivano collocate su una scala di sviluppo. Pur rimanendo convinto della superiorità degli europei sugli africani e dei diversi livelli di civilizzazione che a loro volta contraddistinguevano le popolazioni colonizzate, egli rigettava però ogni riferimento al determinismo biologico. In altre parole, egli attribuiva un carattere temporaneo alla presunta inferiorità di certi popoli rispetto ad altri, in quanto tale inferiorità non era stabilita da dati naturali o biologici, ma piuttosto da fattori storici, sociali e culturali. «Il diverso grado di civiltà esistente nel paese del quale parliamo [l’Etiopia] – affermava Pollera nel corso di una conferenza tenuta a Torino nel 1927 –, non deriva da una congenita ragione di razza, ma da cause estranee che ne hanno arrestato o ritardato lo sviluppo, cessate le quali un risveglio non è solo possibile ma probabile» [10]. La condizione di inferiorità dei popoli africani, insomma, non era una condizione immutabile ma transitoria e dunque facilmente superabile attraverso lo studio, l’educazione e, più in generale, l’«aiuto» dell’uomo bianco.

Alberto Pollera  con i figli Giorgio ( a sinistra) e Gabriele (a destra) Foto in: Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Alberto Pollera con i figli
Giorgio ( a sinistra) e Gabriele (a destra)
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Sebbene il razzismo paternalistico di Pollera fosse una concezione molto diffusa nell’Italia di inizio secolo, alla metà degli anni Trenta, esso appariva come l’anacronistica espressione di un pensiero piuttosto isolato in un panorama culturale ormai egemonizzato da forme di determinismo che di fatto ponevano in relazione diretta la psiche e le facoltà mentali al dato razziale inteso in senso biologico. Negando ogni possibile progresso alle «razze inferiori», tale orientamento, propugnato in maniera sempre più massiccia da antropologi di regime come Lidio Cipriani, fornì la base scientifica su cui fu legittimata la legislazione razziale nell’Africa Orientale Italia.

In questa fase crebbe l’isolamento di Pollera all’interno del contesto coloniale, nonostante egli avesse continuato a ricoprire cariche importanti (console di Gondar, in Etiopia dal 1929 al 1932; responsabile della biblioteca governativa e capo della sezione studi e propaganda presso l’Ufficio affari generali del personale del governo dell’Eritrea ad Asmara dal 1932 al 1939; consigliere personale del governatore dell’Eritrea Daodiace a partire dal 1937). Da un lato egli fu colpito dall’”offensiva” lanciata dai nuovi funzionari fascisti verso i “vecchi coloniali” accusati – come abbiamo visto in precedenza – di infangare il prestigio della razza e di essere ormai avvezzi ai costumi dei nativi. Dall’altro, come funzionario di stato, Pollera dovette conciliare la sua immagine pubblica con la sua sfera privata, gli imperativi richiesti ad un esponente del governo coloniale ai suoi legami affettivi con la compagna e i figli. In questo senso è facile riscontrare molte contraddizioni tra una adesione, probabilmente superficiale e di facciata, alle politiche governative e prese di posizione nette a favore dei meticci nati da unioni miste tra cittadini e sudditi.

La famiglia Pollera, riunitasi in Eritrea a partire dai primi anni Trenta, visse sulla sua pelle il mutato clima della colonia: la figlia Marta, ad esempio, fu espulsa dall’organizzazione delle Giovani Fasciste poiché meticcia; il figlio Giovanni allontanato dai luoghi di ritrovo in cui soleva recarsi per lo stesso motivo; la compagna Chidan tenuta lontana dalle cerimonie ufficiali dove non sarebbe potuta più comparire. Lo stesso Alberto eluse accuratamente ogni pretesto di vita mondana per ripiegare su un onorevole concubinaggio a cui metterà fine poco prima della sua morte, sposando la sua compagna nel 1939.

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Marta Pollera, figlia di Alberto
Foto in: B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939

Pur accettando, almeno ufficialmente, alcuni punti della politica razziale fascista (il divieto di matrimonio tra donne italiane e indigeni; la limitazione, entro una certa misura, del fenomeno del concubinaggio; la preferenza dei meticci nati da padre italiano e madre locale su quelli nati dall’unione opposta), Pollera si oppose in più occasioni alla legge del 1936 sull’ordinamento dell’Africa Italiana che ometteva ogni riferimento alla cittadinanza per i meticci, aprendo così la strada alla cancellazione di questa possibilità dalla legislazione vigente [11]. La sua preoccupazione maggiore era infatti legata al fatto che i suoi figli sebbene riconosciuti, rimanevano tecnicamente “illegittimi” e pertanto avrebbero potuto perdere da un momento all’altro la cittadinanza italiana ed essere parificati, dal punto di vista giuridico, agli nativi. Nel 1937 la questione fu portata davanti alla Corte d’Appello di Addis Abeba che alla fine riconobbe la piena cittadinanza ai figli del funzionario.

L’anno successivo, mentre i legislatori stavano preparando la legge che avrebbe definitivamente risolto il problema del meticciato dal punto di vista giuridico (la futura L. 13 maggio 1940, n. 822, Norme relative ai meticci), Pollera tornò ad occuparsi della questione relativa agli Italo-Eritrei indirizzando un appello accorato direttamente a Mussolini.

Scrive Pollera il 10 dicembre 1938:

Questi nostri figli meticci sono dunque per sangue del padre, per fisico prestante, per l’educazione, per sentimenti, perfettamente italiani. Sono ufficiali, funzionari, professionisti, commercianti, artigiani, onesti operai; e le femmine buone madri di famiglia, coniugate ad Italiani, ebbero prole per qualità intellettuali, morali, e fisiche spesso superiori agli italiani di razza pura […]. L’Albo d’oro dei caduti durante la guerra europea, ed in quella etiopica, segna i nomi di diversi nostri figli meticci, partiti volontari, colla benedizione paterna, perché da noi educati ad amare quella Patria per la quale non inutilmente consumammo la vita in terra d’Africa. Noi vogliamo, o Duce, restare orgogliosi della loro memoria, e non dover rimpiangere di averli spinti all’olocausto della propria vita per una Patria che avesse a rinnegarli […]. Nessuno pensa di chiedere modificazioni ad una legge che promana da Voi: chiediamo solo che detta legge sia chiarita con senso di umanità, come fu promesso [12].

Il passaggio centrale di questo brano mette in luce il tentativo di Pollera di ricomprendere i meticci nati da unioni miste all’interno della comunità nazionale, segnalando come prova tangibile di questo fatto la disponibilità dimostrata da quest’ultimi a morire per la Patria. Così facendo, il funzionario lucchese rievocava la dolorosa esperienza della perdita del figlio Giorgio che, arruolatosi come volontario per la guerra italo-etiopica, cadde in combattimento contro i ribelli abissini nei pressi del fiume Omo Bottego, al confine con il Kenya, il 12 dicembre 1936, ricevendo una medaglia d’oro al valor militare.

Nelle intenzioni dell’autore, l’appello a Mussolini avrebbe dovuto parlare a nome di tutti gli Italo-Eritrei che si trovavano ancora nello stato di figli riconosciuti e che la nuova proposta di legge sembrava voler integrare nella categoria di “suddito”. La sentenza che aveva sancito il riconoscimento della cittadinanza italiana ai Pollera, era stata probabilmente viziata dall’influenza del padre nella società coloniale, come sembra esser confermato dal fatto che decine di richieste analoghe furono respinte, nello stesso periodo, dai giudici della Corte d’Appello di Addis Abeba.

Alla fine, la legge sul meticciato, emanata nel maggio 1940 pochi mesi dopo la morte di Pollera, non ebbe effetti retroattivi, conservando la cittadinanza al novero ristretto degli Italo-Eritrei che l’avevano già ricevuta o fossero in procinto di riceverla all’entrata in vigore della legge stessa. Tuttavia, allo stesso tempo, per la stragrande maggioranza dei meticci dell’Africa Orientale Italia si apriva una fase drammatica: ogni residua possibilità di essere riconosciuti dai padri naturali, di essere adottati da cittadini, di ricevere un’istruzione adeguata e di ottenere la cittadinanza italiana si perdeva per sempre.


Note:

[1] Questa storia deve la sua popolarità ad alcune interviste televisive rilasciate dal giornalista nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Nel 1972, durante il programma L’ora della verità condotto da Gianni Bisiach, Montanelli parlò per la prima volta della sua madama ricevendo un duro attacco da parte della giornalista femminista di origine eritrea Elvira Banotti che lo accusava di giustificarsi sulla base di pregiudizi razzisti di tipo biologico – e non solo culturale – nei confronti delle popolazioni del Corno d’Africa. Dieci anni dopo, in un’intervista rilasciata ad Enzo Biagi per la Rai, egli fece di nuovo riferimento alla propria esperienza coloniale in Etiopia cambiando però versione sull’età (da 12 a 14 anni) e sul nome (da Fatima a Destà) della ragazzina, forse per porsi al riparo da eventuali critiche. Cfr. la sezione Multimedia.
[2] La Stanza di Montanelli in «Corriere della Sera», 12 febbraio 2000.
[3] Sull’istituto del madamato e la sua diffusione i riferimenti sono Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori Editore, Napoli 1998 e Giulia Barrera, Sex, Citizenship, and the State. The Construction of the Public and Private Spheres in Colonial Eritrea, in Perry Willson (a cura di), Gender, Family, and Sexuality: The Private Sphere in Italy 1860-1945, Palgrave Macmillan, New York 2004.
[4] Mi riferisco ai R.D. 19 settembre 1909, n. 839 e R.D. 10 dicembre 1914, n. 16. Nel primo caso, l’articolo 43 specifica che è «inibito ai funzionari coloniali di coabitare con donne indigene»; nel secondo caso l’articolo 42 specifica invece che «il funzionario coloniale che contragga matrimonio con una indigena è considerato dimissionario».
[5] Per una panoramica sulla legislazione razziale Cfr. Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 441-424.
[6] Il vuoto legislativo relativo allo status dei meticci era stato colmato con la L. 6 luglio 1933, n. 999, Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia, attraverso cui i figli nati nelle colonie d’Eritrea e Somalia da un genitore di «razza bianca» rimasto ignoto, avrebbero ottenuto la cittadinanza italiana previo possesso di specifici requisiti culturali e morali e al compimento del diciottesimo anno d’età. La legge prescriveva inoltre accurati procedimenti di «diagnosi antropologica etnica» al fine di discernere il «bianco scuro» dal «nero bianco» e dunque di ridurre la platea dei potenziali beneficiari.
[7] Gian Paolo Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011, p. 246.
[8] Sulla vita di Alberto Pollera il riferimento imprescindibile è Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939, Bollati Boringhieri Torino 2001.
[9] Tra le più importanti segnaliamo I Baria e i Cunama, Reale Società Geografica, Roma 1913; La donna in Etiopia, Ministero delle Colonie, Roma 1922; Lo Stato Etiopico e la sua Chiesa, SEAI, Roma-Milano 1926; La battaglia di Adua del 1° marzo 1896 narrata nei luoghi ove fu combattuta, Carpigiani e Zipoli, Firenze 1928; Le popolazioni indigene dell’Eritrea, Cappelli, Bologna 1935; Storie, Leggende e Favole del Paese dei Negus, Marzocco, Firenze 1936; L’Abissinia di ieri, Scuola Tipografica Pio X, Roma 1940.
[10] Alberto Pollera, Che cos’è l’Etiopia, Tipografia editrice Riva, Torino 1927, p. 6.
[11] Cfr. supra la già citata L. 6 luglio 1933, n. 999, Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia.
[12] Lettera di Alberto Pollera a Benito Mussolini, Asmara 10 dicembre 1938 citata in Barbara Sòrgoni, Etnografia e colonialismo, cit., p. 210.



Torquato Cecchi: dall’anarchia all’amicizia con Soffici

Torquato Cecchi nacque a Poggio a Caiano il 5 gennaio 1872 da Camillo e Albina Rocchi, muratore. Dopo aver militato nelle file del PSI, aderì al movimento libertario e  prese parte ai moti del maggio 1898. Dovette per questo emigrare all’estero, prima a Vienna e poi in Francia, paese dal quale venne espulso nel 1900. Rientrato in Italia, nel 1901 era segnalato come un propagandista anarchico molto attivo, che per diffondere le sue idee si recava di frequente in varie città.

La sera del 28 agosto 1901, in occasione di un contraddittorio svoltosi a Poggio a Caiano fra l’avvocato Campodonico, monarchico, ed il socialista Alberto Furno, Cecchi – si legge nel fascicolo del Casellario politico centrale a lui intestato – mobilitò “molti socialisti ed anarchici di Sesto, Peretola […] Brozzi e frazioni limitrofe, facendo occupare ad essi quasi tutto il teatro, ed eccitandoli […] a commettere disordini che furono scongiurati mediante la di lui espulsione dalla sala”. Nel 1906 – insieme con Eusebio Nepi, futuro sindaco socialista di Carmignano – fu tra i fondatori dell’Unione comunale di consumo di Poggio a Caiano. Con lo pseudonimo di “Trincetto”, collaborò anche all’Avanti! ed alla Riscossa, il settimanale  dei socialisti del collegio di Campi Bisenzio. Nel 1911 (anno in cui si trasferì nel comune di Signa) risulta che Cecchi non si occupava più di politica. La grande guerra segnò poi una svolta nei suoi convincimenti politici, svolta alla quale non fu verosimilmente estranea l’influenza di Ardengo Soffici, di cui era diventato amico.

Cecchi cominciò così a guardare con favore al fascismo e nel 1920 – grazie a Soffici, che gli fece conoscere l’editore Vallecchi e gli fornì anche la xilografia per la copertina – poté pubblicare un libro di versi intitolato A bordo (il volume è stato ripubblicato nel 2003 dal Comune di Poggio a Caiano, con un’interessante Introduzione di Silvano Gelli, da cui abbiamo tratto alcune delle notizie riportate in questo articolo). Cecchi tornò così alla poesia, una delle passioni della sua giovinezza, che lo aveva visto cimentarsi con altri poeti estemporanei della zona in accese tenzoni in ottava rima. “Quanti leggeranno A bordo – scrive Gelli nella sua introduzione – non troveranno forse un grande poeta, ma vi scopriranno l’attualità di certi pensieri […] e la freschezza di alcune semplici rime, ancora piacevoli da gustare a distanza di ottanta anni”.

Ormai scivolato su posizioni conformistiche, fra il 1922 ed il 1923, Cecchi scrisse qualche articolo su giornali fiancheggiatori del movimento mussoliniano (fra cui L’avvenire di Prato, settimanale dei combattenti locali). Nel 1928 la polizia segnalò che Cecchi si dimostrava favorevole al regime, ma il prefetto di Firenze non ritenne opportuno radiarlo dallo schedario dei sovversivi a causa dei suoi precedenti politici. Ancora vigilato nel 1940, morì dieci anni dopo munito – come si suol dire – dei conforti religiosi.




Un paio di scarpe per la vita: il percorso della famiglia Fischer da Prunetta ad Auschwitz

La famiglia ebrea croata Fiser (alla tedesca Fischer) era originaria di Zagabria, città in cui i suoi membri vivevano piuttosto agiatamente grazie ai proventi di una azienda operante nel commercio del legname. Era composta da Teresa, da sua cognata Jelka e dai figli di quest’ultima e cioè Regina, Paolo e Otto, sposati rispettivamente con Mira Weiss e Vera Furst. Con loro vivevano anche Nada e Felicita, sorelle di Regina e loro madre Gisela Heim (Haim) Weiss.

La loro tranquilla esistenza cambiò radicalmente quando nel 1941 la Iugoslavia venne occupata dalle truppe nazi-fasciste. Zagabria e Belgrado caddero di fronte alle truppe tedesche il 10 aprile, Lubiana, Mostar, Dubrovnick, Cetinje nei giorni successivi per mano degli italiani.

I nazionalisti ustascia sotto la guida di da Ante Pavelic, creato il nuovo stato indipendente di Croazia, cominciarono presto la “pulizia etnica” ai danni di serbi, ebrei e rom definiti “i peggiori nemici del popolo croato”. Le loro stragi furono tali che le truppe italiane decisero per evitare di compromettersi di issare più il tricolore davanti ai comandi delle truppe nazionaliste.

Di fronte al pericolo di cadere vittima delle persecuzioni i membri della famiglia Fischer abbandonarono il palazzo di famiglia e fuggirono a Spalato, allora sotto il controllo italiano. La loro intenzione, come quella di molti ebrei iugoslavi e non, era quella di penetrare in territorio italiano, dove le leggi razziali erano, almeno fino a quel momento, applicate in modo meno feroce.

Da Spalato furono poi internati a Prunetta, sulla montagna pistoiese, in quanto appartenenti a una nazione nemica e quindi “capaci di qualsiasi azione deleteria”. Prunetta era con Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia città, Ponte Buggianese e Serravalle Pistoiese, una delle zone ad internamento libero presenti sul territorio pistoiese.

Foto panoramica di Cuorgné

Foto panoramica di Cuorgné

L’internamento libero offriva condizioni di vita migliori rispetto a quelle caratterizzanti i campi di concentramento, in particolare una certa libertà di movimento, la possibilità di svolgere varie professoni e di rapportarsi con la popolazione locale.

Da alcuni documenti risulta che alcune donne del gruppo e cioè Gisela, Nada e Felicita prima di giungere in Toscana furono condotte a Cuorgné, all’epoca comune della Val d’Aosta, oggi in provincia di Torino. Facevano parte infatti di un gruppo di una cinquantina di ebrei, in molti casi di origine askenazita o sefardita, che fu ospitato, assai benevolmente secondo molti, nella cittadina per alcuni mesi.

Dalla cittadina valdostana le tre donne furono condotte poi a Prunetta, dove già risiedevano gli altri membri della famiglia. E’ possibile che siano state le donne stesse, per ricongiungersi con i familiari, a chiedere alle autorità di essere spostate.

Da una lettera spedita all’arrivo in Toscana alla famiglia che le ospitò a Cuorgné è possibile dedurre quanto si fossero trovate bene nella cittadina dell’Italia Settentrionale [foto copertina articolo].

La situazione per i Fischer, così come per gli altri ebrei italiani o stranieri presenti nel pistoiese, non fu caratterizzata, almeno inizialmente da episodi drammatici.

Alcuni anziani ancora oggi ricordano la presenza degli ebrei nella piccola località appenninica. Il giornalista Giorgio Andreotti ricorda in particolare che:

“… erano soprattutto donne, una di loro era incinta (Mira ndr). Mia madre lavorava alle Poste e mi raccontava che spesso alcune di loro si recavano all’ufficio postale per spedire lettere e cartoline…

La situazione per la famiglia purtroppo mutò radicalmente dopo l’8 settembre 1943.

In realtà un primo evento drammatico si era già verificato nei mesi precedenti l’armistizio. Il 23 luglio 1943 Paolo Fischer infatti era stato arrestato dal maresciallo di San Marcello Pistoiese Antonino Gitto con l’accusa di aver acquistato, forse al mercato nero, della marmellata. La detenzione dell’uomo durò pochi giorni ma mise probabilmente in evidenza a tutti che la situazione generale si stava ormai deteriorando.

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Il 6 settembre, due giorni prima dell’armistizio, si verificò l’unico lieto evento che caratterizzò in quegli anni lontani il piccolo nucleo familiare e cioè la nascita di Massimiliano (Max), il figlio di Otto e Vera. Ovviamente, data la situazione, il bimbo non venne registrato come ebreo.

Pochi giorni dopo, il 10 settembre il capo della polizia Carmine Senise diramò l’ordine di liberare gli ebrei stranieri dall’internamento. L’ordine fu revocato tre giorni dopo. Solo pochi ebrei poterono così approfittare di questa contingenza e fuggire. I Fischer, a causa delle precarie condizioni economiche in cui si trovavano, purtroppo non lo fecero.

Il 23 settembre Paolo fu nuovamente arrestato, questa volta assieme ad Otto. Condotti a Montecatini e affidati ai nazisti furono condotti nei campi di prigionia riservati agli ex militari iugoslavi dell’Europa Settentrionale.
La vicenda della donne, a questo punto rimaste senza la protezione degli uomini di casa, incrociò quella della famiglia di Ernesto e Margherita Bragagnolo che dalla piana pistoiese erano sfollati a Prunetta per sfuggire ai bombardamenti finendo così a vivere nella stessa abitazione dei Fischer. I due erano tornati in Italia dopo essere emigrati negli Usa. Ernesto, era un industriale calzaturiero proprietario di un negozio di scarpe in via San Martino. Soprannominato per il suo passato “l’Americano” era considerato dalle autorità un “sovversivo”. Sottoposto a vigilanza era anche stato arrestato dai repubblichini e recluso per cinque giorni nel carcere di Pistoia.

L’aiuto di Ernesto e Margherita fu fondamentale per la sopravvivenza delle Fischer nell’inverno del ’43. Paolo Fischer nella denuncia che questi scrisse a guerra finita contro il maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se e il segretario del PNF di Prunetta afferma che le donne

vivevano con l’aiuto e l’amicizia costante dei Sigg. Bragagnolo, e sentivano crescere di giorno in giorno, il pericolo intorno a loro, capivano che presto la maglia si sarebbe chiusa anche sulle loro teste. Il Renato Geri (il segretario del PNF di Prunetta ndr) non si stancava di ripetere a destra e a manca: “Mi occorre la casa dei Fischer, ci farò la sede del fascio” e sorvegliava continuamente le nostre donne per ghermirle alla prima occasione“.

Le Fischer, probabilmente disperate, cercarono per salvarsi l’aiuto del maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se Gitto. Secondo Paolo, questi promise che, in cambio dell’acquisto di un paio di scarpe per suo figlio, le avrebbe avvertite nel caso fosse stata organizzata una retata per catturare gli ebrei rifugiati sulla montagna pistoiese attraverso l’invio di una busta bianca priva di contenuto. All’arrivo della “strana missiva” le donne si sarebbero evidentemente dovute nascondere.

Queste, convinte dal Gitto, acquistarono le calzature richieste presso il negozio di proprietà del Bragagnolo situato nel centro di Pistoia. Lo stesso Ernesto dichiarò tristemente a guerra conclusa di avere ancora la partita di questa vendita ancora aperta, dal momento che aveva ceduto le scarpe sulla fiducia e non in cambio di denaro.

Regina

Regina

Il 23 gennaio 1944 Regina, rammenta ancora Paolo, “… Regina sentì con intuito femminile… che la tempesta si addensava, chiese consiglio al maresciallo, ma questi continuò a rassicurarla, continuando che le avrebbe avvertite prima di un eventuale rastrellamento“.

Le fosche previsioni della donna si avverarono nell’arco di pochi giorni. Il 25 gennaio tutte le donne furono arrestate senza che nessuna busta priva di contenuto fosse giunta ad avvertirle della retata. Il maresciallo le aveva quindi tradite. L’unica a salvarsi, almeno momentaneamente, fu Vera, che non venne arrestata solo perché il piccolo Massimiliano era malato. Derubate dei loro pochi averi furono condotte da agenti di Pubblica Sicurezza e quindi da italiani nel carcere di Santa Caterina in Brana a Pistoia e da qui prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, dove tutte perirono.

In ricordo di Regina e delle altre alcuni anni fa in Piazza della Sala a Pistoia, laddove nel Medioevo sorgeva il ghetto ebraico, è stata posta una lapide.

Il 31 gennaio i carabinieri con grande freddezza tornarono a Prunetta con l’intento di arrestare Vera e il piccolo Massimiliano ormai guarito. Questi non venne preso solo per la ferma e coraggiosa opposizione di Ernesto Bragagnolo e di sua moglie Margherita Festi, con i quali rimase fino al ritorno di Paolo e Otto dalla prigionia.

Vera venne accompagnata in questura dove “… il commissario De Martino le disse che se voleva partire con i suoi per la Germania poteva andare subito“.

Gli ultimi giorni di Gennaio furono assai cupi per gli ebrei sfollati a Pistoia. La maggior parte degli ottantotto israeliti catturati in provincia di Pistoia fu arrestata dai nazisti in ritirata e dalla polizia locale proprio in questo periodo. Si trattava nella maggior parte di persone, come i Fischer, proveniente da altri paesi e quindi priva di aiuti ed amicizie sul posto o di italiani molto poveri. Nel diario di Nina Molco conservato a Pieve Santo Stefano si legge che “Tutti quelli che erano qui (a Prunetta ndr), e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare“. Solo in cinque tornarono: Michele Baruch Behor, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone.

Il 4 febbraio 1946 Paolo Fischer denunciò come detto il maresciallo Gitto e il segretario del PFR di Prunetta Geri per l’arresto e lda deportazione dei suoi familiari.

La denuncia non ebbe seguito perché gli imputati, accusati di collaborazionismo, beneficiarono del decreto di amnistia promosso da Togliatti in virtù del quale i giudici dichiararono il non luogo a procedere in quanto il reato era estinto.

Finita la guerra i Bragagnolo tornarono ad abitare a Pistoia nella casa di Via San Martino. Massimiliano rimase con loro. Dopo alcuni anni quest’ultimo andò a vivere a Prunetta con suo zio Paolo.

Solo nel 1951 Otto, il padre di Massimiliano, tornò in Italia dai campi di prigionia. Con suo figlio si stabilì a Torino dove intraprese l’attività di commerciante. Massimiliano si laureò in Economia e Commercio e iniziò l’attività di commercialista che continua ancora oggi.

foto 5Nelle scorse settimane Massimiliano con suo figlio Giorgio Otto e i numerosi nipoti è tornato a Prunetta dove, accolto dalla comunità locale, ha potuto rivedere i luoghi della sua infanzia.

È l’unico testimone di una storia lontana che evidenzia, a distanza di decenni, come, accanto ai molti che si adeguarono alle leggi allora in vigore, altri non chinarono il capo, scegliendo di difendere i valori della giustizia e della libertà.

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Storia locale” n. 32 e gentilmente concesso dagli Autori.




Corrado Mascagni, un soldato toscano nella Grande Guerra

Corrado Mascagni era nato a Rosignano Marittimo il 9 aprile 1898. Nel piccolo paese toscano in cui viveva con la famiglia, nel marzo del 1917 gli giunse la chiamata dell’esercito. Nell’anno più terribile della Grande guerra europea, a diciannove anni ancora da compiere, fu costretto a partire per Savona dove fu assegnato alla compagnia distaccata nella vicina località di Finalborgo. Mascagni aveva completato la sesta elementare e sviluppato una passione per la lettura che lo porterà per tutta la vita a collezionare libri dei generi più vari. Ciò gli garantì una certa padronanza di linguaggio, e qualche strumento critico, che gli fu utile per orientarsi nell’esperienza dolorosa della guerra e nella successiva rielaborazione di quel tremendo ricordo.

Come molto giovani della sua generazione, uscita falcidiata da quella grande carneficina, non poté sottrarsi al bisogno incessante di uomini della macchina bellica. Trasferito per un periodo di addestramento in un campo a Dego, piccolo Comune sul Bormida, il 24 luglio partì in direzione del fronte. Giunto in zona di guerra e aggregato all’85° reggimento fanteria di marcia ad Aquileia, finita l’offensiva di agosto passò al primo battaglione del 118° reggimento che faceva parte della brigata Padova. Dopo la partecipazione a qualche scontro sul fronte visse in prima persona il drammatico evento della “rotta” di Caporetto.

L’esperienza traumatica della guerra e di quella tragica ritirata segnarono profondamente il suo immaginario e la sua identità personale. Nel 1966 volle non a caso compiere un viaggio sui luoghi di quegli eventi, scattando fotografie accompagnate da precise annotazioni che ne rivelano la ragguardevole capacità di ricordare quel lontano passato. Giusto alcuni mesi prima aveva sentito del resto il bisogno di ordinare tutti quei densi ricordi in un puntuale manoscritto a cui diede il termine, improprio, di “Diario”. Non si tratta infatti di una narrazione stesa in tempo reale ma redatta a significativa distanza dagli eventi vissuti. Più che di diario di guerra in senso stretto il suo inedito testo è un tipico esemplare di memoria proveniente dalla voce di un testimone diretto.

In un momento di grande interesse per le scritture popolari come fonti storiche, e in coincidenza con il centenario della fine di quel terribile avvenimento che ha segnato in profondità la storia e la memoria dell’Europa, l’Istoreco di Livorno, grazie al sostegno della Provincia e del Comune natale di Mascagni, ha deciso di promuovere la pubblicazione critica e commentata di quel manoscritto conservato per anni dal nipote Andrea.

caporetto-modi-di-direFra i fattori che hanno consigliato la stampa e che costituiscono uno dei principali elementi di legittimazione di questo testo memorialistico vi sono l’interesse e il rilievo dei fatti narrati, l’affidabilità dei ricordi attestati dalla precisione, facilmente riscontrabile, con cui l’autore ricorda ed espone con essenzialità antiretorica molti dettagli.

Al pari di tanti altri che ci hanno lasciato volontaria o involontaria testimonianza dell’evento epocale a cui la giovane recluta di Rosignano fu chiamata suo malgrado ad assistere, il manoscritto ci dice qualcosa di piuttosto consueto. Vi riecheggiano i temi di tanta scrittura popolare di guerra: la nostalgia di casa, la convivenza quasi quotidiana con i disagi della fame o con il tormento dei pidocchi, il costante rumore degli spari o delle esplosioni in sottofondo, l’assillante ripetitività delle mansioni militari, il senso macerante dell’attesa, le angherie di molti superiori, gli eroismi o la viltà dei singoli. Anche nelle molte pagine dedicate alla rotta di Caporetto i dettagli e gli episodi riportati (dai violenti saccheggi all’abbandono dei feriti e dei più deboli al loro destino, dal panico diffuso per l’incalzare degli austriaci alla ricerca angosciosa del cibo) coincidono con la narrazione di altri memorialisti del drammatico evento.

Ma allo stesso tempo con la sua soggettività, differente da quella di tutti gli altri, Mascagni ci comunica cose assolutamente personali che afferiscono alla sua esperienza. Pur nelle maglie spersonalizzanti della macchina bellica, nelle sue regole ferree e spietate, resta lo spazio per l’emergere dei suoi sentimenti, dei suoi stati d’animo, ma anche di sue autonome iniziative. Se affiora nelle pagine un profondo senso di lealtà, che lo porta a svolgere con coscienziosa dedizione ogni compito militare assegnatogli, nei momenti più drammatici l’etica che alimenta questo stesso sentimento, non privo talora di sfumature e risvolti di senso comune patriottico, lascia spazio a un più ampio e universale umanesimo, a un moto di pietà quasi cristiana. In quei frangenti sembrano allora assottigliarsi, fino quasi a scomparire, le feroci contrapposizioni alimentate dagli odi nazionali, come nel caso dell’atteggiamento di profonda pena provato alla vista della massa sbandata dei prigionieri austro-ungarici dopo l’armistizio; o ancora si aprono nel fluire neutro e realistico della narrazione, come squarci improvvisi e illuminanti, prese di posizione, subito riassorbite dai doveri pratici dettati dalle esigenze richieste dell’ingranaggio bellico, sull’assurdità e l’insensatezza della guerra. Posto di fronte all’estremo, all’esperienza cioè della scoperta della morte, il senso dell’umana solidarietà pare insopprimibile a ogni imposizione ideologica o disciplinare.

Il primo incontro con un cadavere è così un’esperienza sensorialmente forte che arriva attraverso la propria mano «intrisa di sangue» ritratta di scatto dalla «faccia sfracellata» di un «povero disgraziato», il cui corpo giace nella cavità di un piccolo riparo di fortuna in cui Mascagni ha cercato di trovare invano momentaneo riposo; un’amara sorpresa che lo spinge ad annotare quanto «Questa veramente fu la prima impressione che mi rimase per valutare a pieno quali e quante siano le brutture della guerra». Non si può poi trattenere lo sgomento nell’essere obbligati dai comandi ad assistere alla fucilazione di un giovane caporal maggiore, attraverso la cui straziante vicenda si fa «una conoscenza diretta […] di ciò che è la legge iniqua della guerra». Si tratta solo delle prime di una serie di vittime che lastricheranno tutto il prosieguo della narrazione, dove non di rado si muore in maniera assolutamente antieroica per accadimenti fortuiti o per decisioni spietate; del resto di fronte all’impressionante racconto della scelta di far saltare un ponte «ancora brulicante di soldati» per l’incalzante arrivo degli austriaci durante la rotta del 1917, con popolaresca saggezza Mascagni annota: «la guerra non ha legge che perdona».

Non essendo le motivazioni della stesura del testo, diversamente dai suoi tempi («Riscritto dopo 44 anni»), chiaramente esplicitate, si può supporre che proprio la percezione delle implicazioni morali delle vicende vissute che affiora da questi episodi abbia fatto da notevole impulso al bisogno di raccontarle confidandole alle pagine di un quaderno.

Se il contesto d’ambiente iniziale della cronistoria fatta da Mascagni è quello, comune ad ogni coscritto, delle immediate retrovie del fronte e della linea di trincea, grande spazio è riservato alla lunga marcia imposta dalla ritirata, che segna buona parte della vicenda militare di Mascagni arrivato in zona di guerra poche settimane prima dell’evento spartiacque di Caporetto. Le vicende dell’arretramento del fronte e del suo consolidamento si saldano nell’anno seguente con quelle che portano alla controffensiva finale e all’armistizio del 4 novembre. La memoria si chiude a dopoguerra inoltrato, spingendosi fino agli inizi del 1920, momento del definitivo congedo.

1wwL’incipit narrativo non manca di un’involontaria efficacia letteraria, conducendoci senza preamboli direttamente dentro il clima della guerra e delle retrovie del fronte, quasi a trasmettere il senso di impreparazione e il modo improvviso con cui il giovane narratore fu gettato dalla provincia toscana in un evento più grande di lui. La scrittura procede con il succedersi degli avvenimenti, in cui la parte del leone la fa, sia nell’economia del testo che nello sconvolgimento emotivo che produce suoi protagonisti, il dramma della disfatta di Caporetto. Una tragedia che rompe l’equilibrio e la monotonia della vita al fronte e che imprime d’un tratto un maggiore dinamismo, specchio della concitazione del momento, alla stessa narrazione; in soli cinque giorni, in una marcia a tappe forzate e quasi senza soste, Mascagni e i suoi compagni di sventura coprirono del resto ben 155 chilometri di territorio. Ma la loro discesa agli inferi impose anche un’accelerazione macroscopica ad alcune delle logiche più dure della guerra e alla sua carica di violenza. Alla violenza primordiale innescata dall’istinto di sopravvivenza, alle fatiche delle marce quotidiane, all’ossessionante ricerca di cibo, alla decimazione dei reparti e delle compagnie e ai morti e ai feriti lasciati al loro destino. Se l’epopea di Caporetto in cui Mascagni è pienamente coinvolto è familiare a tutti, è invece meno noto il contesto in cui si svolse l’epilogo della sua vicenda. La sua guerra finì infatti ben oltre il termine armistiziale del conflitto, impegnato come molti altri mobilitati a partecipare al processo di normalizzazione delle aree a ridosso del fronte. Nella parte conclusiva del manoscritto lo troviamo così coinvolto nella faticosa opera di costruzione di cimiteri di guerra chiamati a dare sepoltura alla gran quantità di morti insepolti o sotterrati alla meglio fra le trincee; cimiteri militari edificati tuttavia anche per dare risposta a uno dei maggiori problemi di ordine culturale lasciati in eredità dall’immane disastro della prima guerra mondiale, quello dell’elaborazione di un lutto di portata spaventosa e di un conseguente sentimento di perdita senza precedenti.

Partecipa inoltre al controllo e al “governo” di un altro grande dramma, quello della smisurata quantità di persone fatte prigioniere, persone che nel suo piccolo è chiamato a gestire con l’affidamento di incarichi di responsabilità, e con cui intesse rapporti di sincera amicizia, trovando persino in un giovanissimo orfano mussulmano di origini bosniache un valido assistente trattato con atteggiamento quasi paterno. Un rapporto personale di cui ci è rimasta una bella fotografia, qui a fianco riprodotta, che Mascagni volle “regalare” a quell’ex nemico, divenuto in poche settimane suo fedele alleato, durante un’uscita a metà fra lavoro e svago a Bassano del Grappa. Tornati al campo di prigionia, la fotografia incontrò talmente l’entusiasmo di altri prigionieri che Mascagni ne fece stampare sessanta copie perché fra le tende in cui cechi, slovacchi, serbi, austriaci, ungheresi e tedeschi, dalmati, rumeni, bulgari venivano ospitati alla meglio molti la avessero come ricordo. Una concessione quasi frivola, dopo tante tragedie e tanta spaventosa serietà, che rivelava tuttavia una carica di grande umanità e a conti fatti il sentimento di estraneità verso la guerra di tanti semplici commilitoni dei vari fronti in lotta. L’ubriacatura nazionalistica non era finita, pronta a riesplodere solo meno di vent’anni dopo, ma per il comune milite di Rosignano quella stagione si era definitivamente chiusa in quel campo di tende freddo e desolato, sorto per caso, in un angolo sperduto di un’Europa devastata




«…quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire»

Cingolani-Guidi

Angela Guidi Cingolani

Nella primavera del 1946 le italiane hanno votato nella prima tornata di consultazioni amministrative, ma sono le elezioni del 2 giugno del 1946 ad essersi impresse nella memoria collettiva come un evento storico: quasi 13 milioni di donne, ora pienamente cittadine, hanno votato per eleggere l’Assemblea costituente e hanno scelto tra Monarchia e Repubblica. Tredici donne hanno già partecipato a un altro importante organismo, la Consulta Nazionale, composta da 430 esponenti dell’antifascismo nominati dai partiti politici. Tra loro 5 future madri costituenti[1], tra cui Angela Guidi Cingolani, prima donna a parlare in un’Assemblea istituzionale – la Consulta, appunto – e a chiedere ai colleghi uomini di essere considerata

«come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale»

Filomena Delli Castelli

Filomena Delli Castelli

Alle elezioni del 2 giugno sono entrate in lista pochissime donne, poco meno del 7% di tutti i candidati. Sono state elette 21. Poche, quindi, si sono guadagnate l’onore e l’onere di partecipare attivamente al varo della nuova Costituzione. Ma chi sono? Quali esperienze hanno alle spalle? Cosa rappresenta e cosa potrà fare questo 3,7% su un totale di 556 deputati?

Delle 21 madri costituenti, nove sono del Partito Comunista[2], tra cui cinque fondatrici/attiviste dell’UDI; nove appartengono alla Democrazia Cristiana[3], tra cui 5 tra attiviste o dirigenti della FUCI, altre attiviste del CIF o dell’Azione cattolica; due sono socialiste[4]; una soltanto, Ottavia Penna Buscemi, è eletta nella lista ”Uomo Qualunque”. Impressionante il numero di preferenze che le elette hanno avuto, basti pensare che Bianca Bianchi nel collegio di Firenze ha preso il doppio delle preferenze di Sandro Pertini, il partigiano, l’eroe, il perseguitato dal regime, l’incarnazione di tutto ciò che è stata la vittoriosa lotta antifascista.

Bianca Bianchi

Bianca Bianchi

Rita Montagnana Togliatti

Rita Montagnana Togliatti

La più anziana è Lina Merlin, 59 anni; la più giovane è Teresa Mattei, 25 anni; entrambe parteciperanno ai lavori della “Commissione dei 75”, il ristretto gruppo che materialmente scriverà la Costituzione. Sette madri costituenti[5] sono nate tra il 1887 e il 1900; hanno esperienze politiche e sindacali alle spalle: Angela Merlin è stata una delle prime donne iscritte al Partito socialista, collaboratrice di Matteotti; Rita Montagnana, già iscritta al Partito socialista, è stata con Teresa Noce tra le fondatrici del PCI nel 1921; Angela Guidi è stata iscritta al Partito popolare di Don Sturzo. Molte di loro sono state costrette durante il fascismo a scappare all’estero; Montagnana e Noce, mogli rispettivamente di Togliatti e Longo, sono state esuli in tutta Europa, hanno partecipato alla guerra civile spagnola, in seguito hanno fatto parte dei movimenti resistenziali nei paesi di accoglienza, subendo anche il carcere e l’internamento.

Lina Merlin

Lina Merlin

Teresa Mattei

Teresa Mattei

La maggior parte delle donne che fa parte di questo “gruppo anagrafico” ha una cultura suffragista per via dei forti legami dei partiti clandestini con i movimenti europei. Anche le cattoliche, fortemente impegnate nell’associazionismo, sono state perseguitate o “attenzionate” dalla polizia politica; Maria Federici ha avuto un trascorso all’estero, al seguito del marito, militante antifascista; Elisabetta Conci, presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), di Roma, è conosciuta come la “pasionaria bianca” per la tempra con la quale porta avanti le proprie battaglie politiche e religiose.

Altre sette madri costituenti[6] sono nate tra il 1902 e il 1908, hanno quindi compiuto almeno gli studi superiori non universitari nel periodo liberale, trovandosi poi a dover fronteggiare le privazioni di libertà del periodo successivo. Alcune, soprattutto le comuniste, hanno condiviso la sorte dell’esilio: Adele Bei, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi. Le cattoliche Laura Bianchini, Maria De Unterrichter e Angela Gotelli hanno trovato nell’azionismo cattolico e nella FUCI, di cui sono diventate anche dirigenti, il terreno di formazione culturale e politica. Ottavia Penna, eletta con l’Uomo Qualunque ha assistito i siciliani poveri e i fanciulli abbandonati, ribellandosi alle dure regole del regime sull’ammasso di beni alimentari in periodo di guerra e al mercato nero.

Teresa Noce

Teresa Noce

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Maria Federici Agamben

Le 7 madri costituenti più giovani[7] sono nate tra il 1913 e il 1921, sono cresciute e hanno compiuto gli studi durante il regime, hanno respirato pienamente l’ideologia fascista. Non hanno avuto esperienza diretta di attività politica e sindacale, pur tuttavia al fascismo si sono ribellate; molte hanno tratto ispirazione dalle tragiche vicende dei familiari perseguitati o vittime del regime e dell’alleato occupante (lo sono, ad esempio, il padre e il fratello – poi morto suicida per non tradire i compagni partigiani – di Teresa Mattei e i fratelli e il marito di Nadia Gallico).

Il loro primo apprendistato politico, quindi, si è compiuto principalmente nell’ambiente privato per poi riversarsi, in maniera spesso dirompente, sulla scena pubblica. Eclatante, ad esempio, il gesto di una appena adolescente Teresa Mattei: la contestazione pubblica delle lezioni in difesa della razza le costa l’espulsione da tutte le scuole del Regno.

Ottavia Penna Buscemi

Ottavia Penna Buscemi

Elisabetta Conci

Elisabetta Conci

Quasi tutte, comuniste, socialiste e cattoliche, giovani e meno giovani, sono state protagoniste del movimento di Liberazione. Lina Merlin, Laura Bianchini e Angela Gotelli sono state membri del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia; Angela Minella ha fatto parte di una Brigata Garibaldi del savonese; Teresa Mattei è stata combattente di una formazione garibaldina a Firenze e organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna nell’alta Toscana, così come Nilde Iotti in Emilia Romagna e Lina Merlin in Lombardia. Filomena Delli Castelli, Maria Nicotra e Angela Gotelli sono state crocerossine, quest’ultima con compiti di grande responsabilità negli scambi tra ostaggi civili e prigionieri tedeschi; Bianca Bianchi ha fatto la staffetta in Toscana; Maria Federici e Angela Guidi hanno appoggiato in vari modi la lotta antifascista a Roma.

Nilde Iotti

Nilde Iotti

Resistenza civile e Resistenza militare: tutto si è intrecciato nella storia di queste donne. Compresa la Resistenza all’estero: quella di Nadia Gallico in Francia; di Elettra Pollastrini, Rita Montagnana e Teresa Noce prima in Spagna nelle Brigate Internazionali, poi durante la guerra nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Hanno subito il carcere e il confino anche Adele Bei (già attiva nel movimento di Liberazione in Belgio) e Maddalena Rossi, così come Angelina Merlin nei primissimi anni della dittatura.

Adele Bei

Adele Bei

Geograficamente le 21 elette rappresentano tutte le zone d’Italia: Trentino (2), Piemonte (3), Lombardia (2), Veneto (1), Liguria (1), Emilia Romagna (2), Toscana (2), Marche (1), Abruzzo (2), Lazio (1), Puglia (1), Sicilia (2). Nadia Gallico è nata a Tunisi ma ha forti legami con la Sardegna, terra d’origine del marito, Velio Spano, antifascista e perseguitato politico, anch’egli costituente.

angiola minella2Ben 14 delle elette hanno una laurea, le più in filosofia, lettere e pedagogia ma non mancano laureate in lingue e letterature straniere e in chimica.

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Maria Maddalena Rossi

Quattordici hanno lavorato come insegnanti/maestre; Lina Merlin è stata sospesa dall’insegnamento perché si è rifiutata di prestare giuramento al partito fascista, obbligatorio per i dipendenti pubblici; Bianca Bianchi perché insegnava cultura ebraica nelle sue ore di lezione. Le altre sono state operaie o artigiane (4), una ha lavorato come ispettrice del lavoro. Molte in alcuni passaggi della vita sono state redattrici/giornaliste, occupandosi principalmente della stampa e della propaganda rivolta alle donne. Alcune di loro proseguiranno questa attività anche durante o dopo l’attività parlamentare, la maggior parte di loro nella redazione di “Noi donne”, giornale dell’UDI.

Maria Nicotra

Maria Nicotra

Quattordici madri costituenti sono sposate al momento dell’elezione, molte di loro hanno figli. Lina Merlin è vedova da un decennio; Teresa Mattei, accompagnata ad un uomo sposato, rimarrà incinta durante i lavori dell’Assemblea costituente, la prima “ragazza madre” delle Istituzioni repubblicane. 5 le “coppie costituenti”: Teresa Noce e Luigi Longo; Rita Montagnana e Palmiro Togliatti, Nadia Gallico e Velio Spano; Maria de Unterrichter e Angelo Raffaele Jervolino; Angela Maria Guidi e Mario Cingolani.

Nadia Gallico Spano

Nadia Gallico Spano

Per alcune di loro la situazione familiare avrà ripercussioni sulla carriera politica: isolate progressivamente dal Partito dopo le separazioni da Togliatti e Longo, Rita Montagnana (che sarà abbandonata per un’altra costituente, Nilde Iotti) e Teresa Noce (che saprà dai giornali dell’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota richiesto e ottenuto dal marito) usciranno in breve tempo dall’arena politica; Teresa Mattei, la “maledetta anarchica” nella definizione di Togliatti, “scandalosamente” incinta, entrerà in forte dissidio con un Partito moralista e bigotto e deciderà di non ricandidarsi alle elezioni del 1948. Tre comuniste: per loro lo “scandalo”, subìto o provocato, segnerà la fine dell’esperienza politica.

Elettra Pollastrini

Elettra Pollastrini

Ad esclusione di Mattei, che concluderà l’esperienza politica con la Costituente, la maggioranza delle costituenti, ben 8 di loro, si fermerà dopo la prima legislatura (1948-1953); 3 dopo la seconda (1953-1958), 5 dopo la terza (1958-1963), 3 dopo la quarta (1963-1968). Nilde Iotti, che tra i tanti primati[8] potrà vantare anche quello di essere stata la prima Presidente della Camera nel 1979, sarà eletta ininterrottamente fino alla XIII legislatura nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Laura Bianchini

Laura Bianchini

Non tutte le madri costituenti prenderanno parte ai lavori della “Commissione dei 75”, composta da tre sottocommissioni. Della prima, che si occuperà dei diritti e dei doveri dei cittadini, farà parte Nilde Iotti; Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce saranno membri della terza, che si occuperà dei diritti economico-sociali. Nessuna donna farà parte della seconda, dedicata all’ordinamento costituzionale. Ottavia Penna si dimetterà dopo pochissimi giorni dalla Commissione dei 75, lasciando il posto all’on. Gennaro Patricolo. Angela Gotelli entrerà nella prima sottocommissione nel febbraio 1947 in sostituzione dell’on. Carmelo Caristia.

Angela Gotelli

Angela Gotelli

L’attività di queste 5 madri costituenti si concentrerà soprattutto sul ruolo delle donne nel nuovo assetto sociale, lavorativo e familiare, riuscendo a far inserire nella Carta articoli, commi e in alcuni casi poche ma significative parole (si pensi al “senza discriminazioni di sesso” dell’art. 3 Cost., che dobbiamo a Lina Merlin), che saranno alla base del successivo sviluppo della legislazione a garanzia dei diritti delle cittadine. Le altre 16 saranno molto attive in Assemblea generale con interrogazioni su vari argomenti, non solo concentrate su tematiche tradizionalmente femminili. Quello che colpisce, seguendo il filo delle attività che le lega l’una all’altra, è la consapevolezza che la partecipazione alla Costituente e il varo della Costituzione sono solo i primi passi di un più lungo e tormentato percorso che – sperano tutte, cattoliche, comuniste, socialiste – porterà all’uguaglianza sostanziale tra i due sessi. Per usare le parole di Teresa Mattei: «Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo». Parole profetiche in un’epoca come la nostra dove i diritti delle donne – e con essi la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica – sono rimessi costantemente in discussione.

Vittoria Titomanlio

Vittoria Titomanlio

NOTE:
[1] Elettra Pollastrini, Laura Bianchini, Teresa Noce, Adele Bei e Angela Guidi Cingolani.
[2] Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi
[3] Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio
Maria De Unterrichter Jervolino
Maria De Unterrichter Jervolino
[4] Angelina Merlin e Bianca Bianchi
[5] In ordine di anno di nascita: Angelina Merlin, Rita Montagnana, Elisabetta Conci, Angela Guidi Cingolani, Vittoria Titomanlio, Maria Federici, Teresa Noce
[6] Maria De Unterrichter Jervolino, Laura Bianchini, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Angela Gotelli, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini
[7] Maria Nicotra, Bianca Bianchi, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Leonilde Iotti, Teresa Mattei
[8] Nel 1987 è incaricata dal Presidente della Repubblica Cossiga di mandato esplorativo per la soluzione della crisi di governo, sfociata poi nelle elezioni anticipate; un doppio primato: fu la prima donna e la prima comunista a ricevere tale incarico.



Dal Serchio al Piva: i lucchesi della “Garibaldi”

Dal settembre 1943 al marzo 1945 nei Balcani migliaia di soldati italiani provenienti dal disciolto Regio esercito combattono contro i tedeschi nelle file di quegli stessi movimenti di resistenza sino ad allora ferocemente cacciati e repressi: brigate partigiane interamente composte da italiani si formano in tutti i paesi precedentemente occupati dalle nostre truppe e soprattutto in Jugoslavia, dove il fenomeno assume una particolare consistenza e si registra la presenza di numerosi combattenti toscani. Come il fiorentino Brunetto Parri, militante comunista e disertore in Croazia al fianco dei partigiani di Tito, nome di battaglia “Spartaco” (in memoria dell’omonimo ferroviere Lavagnini, ucciso dagli squadristi nel 1921); o il carabiniere massese Mazzino Ricci, il “Ridji” protagonista di una canzone popolare montenegrina che ne canta l’abilità con la mitragliatrice Breda.

È proprio in Montenegro che ci imbattiamo in numerosi soldati originari della provincia di Lucca, appartenenti ai reparti della divisione di fanteria da montagna “Venezia”: inviata nel paese nel luglio 1941 allo scopo di reprimere l’insurrezione che minaccia di compromettere il controllo italiano sulla regione, dopo l’otto settembre – con i suoi oltre 12mila effettivi – costituirà assieme ai reparti alpini della “Taurinense” il nucleo principale della divisione italiana partigiana “Garibaldi”, costituita ufficialmente il 2 dicembre 1943. Di alcuni di questi soldati perdiamo ogni traccia prima dell’armistizio: come i massarosesi Attilio Lipparelli di Quiesa (classe 1921) e Idilio Albiani di Pieve a Elici (1912), le cui ultime notizie risalgono rispettivamente al mese di agosto e al 3 settembre 1943 (sebbene per Albiani si parli di una sua presenza non confermata a Belgrado nel 1944). Più fortunati saranno i loro concittadini Francesco Coppedè e Angelo Cosci, rientrati in Italia nel giugno 1945 il primo e in aprile il secondo: quello di Cosci è un caso più unico che raro, essendo egli approdato alla “Garibaldi” dopo aver servito nel LXXXVI battaglione delle camice nere, rimaste alleate dei tedeschi. Restano ignoti i motivi dietro la sua scelta.

Al momento dell’armistizio la “Venezia” presidia l’area orientale del paese ai confini con il Kosovo, dove le truppe tedesche ancora non sono giunte: il comandante della divisione, generale Oxilia, si pronuncia fin da subito per la resistenza, ma è incerto rispetto alla condotta da adottare nei confronti dei partigiani così come dei reparti collaborazionisti cetnici, ferocemente anticomunisti. Mentre l’azione del generale è paralizzata dalla questione delle alleanze, i tedeschi cominciano a muoversi: uno dei primi tentativi di infiltrazione delle linee di difesa italiane è sventato dalla XI compagnia del capitano Paolo Bardini di Seravezza, che fa aprire il fuoco su una colonna di autocarri tedeschi che si erano messi in movimento col favore della notte.

Nel mese di novembre la “Venezia” è ormai convertita alla guerra partigiana, dopo gli accordi di Kolasin fra il capitano Mario Riva e il comandante partigiano Peko Dapcevich stipulati alla fine di settembre (e ratificati in ottobre dai comandi italiani). Non è una facile convivenza per soldati nati e cresciuti sotto il fascismo, nutriti da anni di propaganda anticomunista: come scriverà il reduce Enrico Bedini, di Gombitelli, “la parola comunista mi dava un senso di terrore. Avevo sentito parlare di loro come degli orchi delle fiabe e il mio animo era impressionabile come quello di un fanciulletto”. Numerosi soldati cadono in combattimento in quelle settimane: l’ufficiale Lando Mannucci, allora a capo del I battaglione che difende Kremna dall’assedio di reparti tedeschi e bulgari, ricorda la presenza di tre lucchesi fra i caduti (Guido Mencacci, Bruno Munari e Giovanni Salvietti, decorati alla memoria). Il 30 novembre, pochi giorni prima della fondazione della “Garibaldi”, cade invece durante l’assalto ad un caposaldo tedesco, colpito da una bomba nemica, Ottavio Cavalzani (nato a San Gennaro di Lucca nel 1914).

La neo-costituita divisione vive subito un duro battesimo del fuoco: il 5 dicembre i tedeschi scatenano quella che nella storiografia jugoslava viene ricordata come la “VI offensiva”, giunta tanto più inaspettata in quanto avviata alle soglie di quello che si preannuncia come un inverno particolarmente rigido; è probabilmente nelle primissime fasi di questa operazione che viene fatto prigioniero Luigi Gemignani – classe 1921, di Massarosa – per il quale si apre la dura stagione dell’internamento (dapprima per mano dei tedeschi, che lo deportano forse in Bielorussia, quindi nuovamente quando i sovietici liberano il campo dove era stato internato, reclamando gli italiani come prigionieri di guerra, prima di tornare in Italia nel novembre 1945).

Nelle settimane successive all’attacco tedesco le brigate sono divise, e devono combattere duramente contro il clima, la fame e i ripetuti agguati nemici: a tutto questo si aggiunge, nel gennaio 1944, un’epidemia di tifo. I comandi partigiani, a fronte della situazione sempre più drammatica, decidono in febbraio di inviare parte delle forze italiane in Bosnia, anche alla luce della carestia che ha colpito il Montenegro, la cui popolazione non può più sostentare i combattenti: è probabilmente durante una di queste marce interminabili attraverso il territorio bosniaco – vera e propria epopea del dolore che segna indelebilmente la memoria della “Garibaldi” – che il fante Giovanni Paladini, nato a Mutigliano nel 1921, subisce il congelamento di entrambe le gambe, fortunatamente non grave al punto da richiederne l’amputazione, ma che gli lascerà problemi di circolazione che lo tormenteranno tutta la vita. Sono mesi durissimi, durante i quali, ricorderà ancora Paladini in uno dei rari racconti che farà alla famiglia degli anni di guerra, il cibo scarseggia al punto che i soldati debbono nutrirsi di bucce di patate: la drammaticità di quei frangenti non incrina però l’affetto di Paladini per la popolazione locale, che raramente nega la propria solidarietà e assistenza agli italiani. Nello stesso anno sempre in Bosnia nel mese di maggio cade, dopo una strenua resistenza allo scopo di favorire l’arretramento dei propri uomini su posizioni più facilmente difendibili, Giovanni Giuliani, nato a Barga nel 1921, già caporale di reggimento nella “Venezia”. Solo poche settimane prima la Bosnia è stata il teatro della tragedia del capitano Pietro Marchisio, ucciso dal tifo e dalle marce estenuanti per riportare nel più sicuro Montenegro i propri uomini: è un lucchese, il sergente maggiore Emilio Boy, ad aiutare Marchisio ad attraversare la pericolante e malridotta passerella di assi e corda sul fiume Piva, trasportando il capitano e molti altri soldati ammalati sulle sue spalle.

Spostandoci dalla Bosnia alla Serbia troviamo Amadeo Paolettoni, lucchese, classe 1921, già della “Venezia” e poi attivo nella brigata “Italia” (l’altra grande formazione partigiana interamente italiana attiva in Jugoslavia), caduto a Belgrado nell’ottobre 1944 durante una missione di rifornimento munizioni. Poco più di due mesi dopo, il 1° gennaio 1945, il Montenegro è completamente liberato, e verso la metà di febbraio i reparti garibaldini – reduci dalla battaglia per la liberazione di Mostar in Erzegovina combattuta quello stesso mese – ricevono l’ordine di concentrarsi a Dubrovnik in vista del rimpatrio, che avviene a partire dall’otto marzo: non tutti i soldati però rientrano immediatamente. Numerosi sono i dispersi che per quasi un anno continueranno ad affluire alla base italiana di Dubrovnik, così come non mancano i casi nei quali gli stessi jugoslavi, ancora in guerra, trattengono gli italiani – soprattutto il personale sanitario – presso le proprie brigate: è quello che accade all’ufficiale medico Giuseppe Marchetti, nativo di Pescaglia, rimasto in servizio in qualità di direttore chirurgico dell’ospedale militare della XXIX divisione d’assalto Erzegovina fino al 24 maggio 1945.