MUSA LIBERTARIA. Virgilia D’Andrea

Le ricerche storiche talvolta nascono da semplici curiosità, salvo poi rivelare imprevisti motivi d’interesse, e questo è uno di quei casi.
Di Virgilia D’Andrea, sindacalista anarchica, poeta e propagandista vi sono diverse biografie, ma in nessuna di queste avevo trovato traccia di una sua conferenza di cui sapevo soltanto il titolo, insolito: Musa libertaria.
Ne ero venuto a conoscenza, nel corso di una ricerca sulla storia della Camera sindacale del lavoro di Livorno, fra il 1920 e il ’22, prima del fascismo.
Infatti, la sera del 15 giugno 1922, Virgilia D’Andrea, allora trentaquattrenne, tenne una partecipata conferenza presso la Camera sindacale, aderente all’USI, situata in viale Caprera, nel popolare quartiere della Nuova Venezia.
Nei giorni precedenti in varie zone della città erano avvenuti ripetuti scontri tra fascisti e sovversivi, anche con rivoltellate, e la tensione era alta così come lo sarebbe stata nelle settimane seguenti, per cui il titolo di quella conferenza poteva apparire quanto meno fuori luogo, anche se per l’anarchica di Sulmona la poesia era un’arma.
Questo il sintetico resoconto della serata che venne pubblicato sul periodico degli anarchici livornesi «Il Seme» del 18 giugno 1922:

Improvvisamente il giorno 12 corr. un telegramma giunto alla Camera del Lavoro Sindacale, annunciava l’arrivo della valorosa compagna Virgilia D’Andrea, invitando a preparare una conferenza per il giovedì sera.
Per quanto il tempo fosse ristretto la C.d.L.S. fece subito delle circolari di avviso a tutte le sezioni aderenti, nonché ai gruppi ed ai partiti di avanguardia, invitandoli a fare la necessaria propaganda per la riuscita della conferenza, disponendo poi per l’affissione di un manifesto murario che ne avesse dato l’annuncio, ma che all’ultim’ora la Questura non volle permettere con la scusa dell’ordine pubblico.
Inutile commentare intorno a questo artificioso sabottamento [sic] dell’imprevista conferenza, che però non è riuscito ad impedire che la vasta sala fosse gremita di lavoratori tra cui buon numero di donne e fanciulle.
Alle ore 21, presentata con acconce parole, dal nostro [Riccardo] Sacconi, la compagna D’Andrea imprese il suo dire, svolgendo maestrevolmente il tema: Musa libertaria.
Ci è impossibile seguire la valente oratrice nella sua fine e forbita dicitura, solo ci limitiamo a dire che simili conferenze dovrebbero essere fatte più spesso ed ascoltate anche da chi dimentico di ogni forma di vivere civile vive compiendo le più tristi azioni non escluso il delitto.
L’impressione dell’uditorio fu superiore all’attesa, ed in tutti è rimasto vivo il desiderio di potere al più presto provare ancora un simile godimento intellettuale, che noi speriamo la buona compagna non vorrà negarci.

Sfogliando le cronache del quotidiano anarchico «Umanità nova», si apprende che nei mesi precedenti Virgilia D’Andrea aveva proposto e svolto un tour di conferenze pro-Umanità nova in varie città, richiedendo che il costo del biglietto per assistervi fosse di almeno una lira; i temi proposti erano Musa libertaria, Il valore del sentimento nella vita, I nostri prigionieri, «che meglio si addicono al suo temperamento oratorio e alle sue facoltà».
Da «Umanità nova» del 4 gennaio 1922 si apprende che la sera del 31 gennaio 1921, presso un teatro di Rimini, nonostante i problemi frapposti dalla polizia, aveva tenuto, a sostegno del giornale anarchico, una conferenza dal titolo analogo: Musa liberatrice:

la compagna D’Andrea [che] per oltre un’ora tenne il pubblico legato alla parola sua vibrante e commossa. Rievocò il periodo di calma tranquilla dell’anteguerra, disse dell’ubbriacatura guerresca e continuò declamando le sue poesie, tutte vibranti di pura ed umana passione.

Come avvenuto a Rimini e Livorno, però i relativi resoconti di tali iniziative non riferivano i temi toccati nel corso della conferenza e, a quanto mi risulta, il testo della stessa non è mai stato pubblicato e comunque non figura nelle diverse raccolte edite delle sue conferenze, suscitando dunque almeno in chi scrive un certo interesse.
Probabilmente, per la stessa ammissione dei militanti autori di tali resoconti, vi era imbarazzo a descrivere le suggestioni letterarie e le emozioni da queste suscitate tra i proletari e i compagni presenti; d’altronde, come avrebbe annotato Virgilio Mazzoni, nel recensire positivamente su «Umanità nova» del 27 luglio 1922, i «versi ribelli» di Tormento, «sebbene nel nostro campo, la poesia non abbia gran fortuna… commerciale».
La mia curiosità è quindi rimasta a lungo senza risposta ma, per caso, è stata almeno parzialmente soddisfatta avendo di recente trovato nella cronaca romana di «Umanità nova» del 22 marzo 1922, un articolo che raccontando della stessa conferenza svoltasi il 19 marzo a Roma, ne tratta in modo abbastanza circostanziato, tanto da meritare d’essere trascritto integralmente.

Come fu accennato ieri, la conferenza tenuta dalla compagna Virgilia D’Andrea domenica mattina al Salone dei Parrucchieri, è riuscita splendidamente.
Benchè fosse a pagamento, organizzata pro Circolo di Studi Sociali, il pubblico è accorso ugualmente numerosissimo e molti compagni e simpatizzanti affollavano il salone di via Cavour.
La compagna D’Andrea venne presentata dal compagno Billi, studente universitario, e parlò circa un’ora fra l’attenzione vivissima e commossa del pubblico, che dimostrò una comprensione una sensibilità vivissima.
Con il lirismo semplice ma suggestivo che le è abituale, con le parole vibranti di commozione interiore che ella sa dire e che sanno sì bene trovare l’animo dell’uditorio e scuoterlo profondamente, l’oratrice evocò gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo, incastonando nel discorso che appunto aveva per tema «Musa libertaria», brani di poesie ed intere liriche di sua composizione (esse verranno tra breve raccolte in volume), le quali scritte sotto l’impressione immediata degli avvenimenti man mano che si svolgevano in questi ultimi tempi e aventi perciò tutta la naturalezza delle cose spontanee, non potevano non avvincere e non appassionare l’uditorio.
«Cieco di guerra», «Decimazione», «Il ritorno dell’esule» (riferentesi al rimpatrio del nostro Malatesta), «Presa e resa delle fabbriche», tutti questi episodi, queste tappe del faticoso cammino dei lavoratori verso il suo domani, verso le sue conquiste, ebbero nei versi della nostra buona compagna tale impeto comunicativo, che tutti i presenti non potettero astenersi dal manifestare nel modo più tangibile la loro commozione.
Noi siamo sicuri che trattenimenti artistici e sociali ad un tempo come questi, giovino assai alla propaganda ed all’educazione delle masse.
Il proletariato, i giovani, gli uomini del lavoro, hanno bisogno , non solo della conferenza critica e polemica, non solo della fanfara, ma anche della melodia. Sono queste delle sublimazioni dello spirito il cui giovamento non è affatto da mettersi in dubbio.
In questa conferenza si è verificato quel che accade quando l’oratore riesce ad avvincere l’anima ed il cervello di chi ascolta. Il pubblico applaude; ma è più forte in lui il bisogno di trattenere l’applauso per non turbare lo stato di godimento spirituale in cui è versato. Ma l’applauso trattenuto è poi scoppiato scrosciante quando l’oratrice, ricordando tutte le nostre vittime, tutti i morti sulla via della lotta rivoluzionaria ha chiuso con i magnifici versi del Carducci:
«… Sangue dei morti affretta
I rivi tuoi vermigli e i fati
Al ciel vapora e di vendetta
Inebria i nostri figli!».

L’annunciato libro era Tormento, con prefazione di Errico Malatesta e copertina scarlatta, pubblicato a Milano nello stesso anno dalla Tipografia Zerboni, e nel marzo del 1923 l’Autrice venne denunciata per vilipendio e istigazione all’odio di classe, con mandato di cattura, proprio in relazione a quella sua raccolta di poesie che, evidentemente, oltre a commuovere il proletariato lo invitavano alla rivolta.
Nel patetico tentativo di sintetizzare il contenuto della raccolta di poesie, uno zelante funzionario di questura scrisse: «Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito».
Prima però di soffermarsi sulle “trasmodanti” poesie presentate da Virgilia nel corso della conferenza, faccio qualche ipotesi sulla parte di questa in cui, come accennato dall’anonimo redattore romano, aveva evocato «gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo».
Presumibilmente furono, più o meno, gli stessi temi e protagonisti ripresi nelle innumerevoli conferenze che avrebbe tenuto tra il 1929 e il 1932 negli Stati Uniti dove era emigrata, assieme al compagno di vita, ideali e militanza Armando Borghi, per sfuggire alle persecuzioni fasciste e poliziesche.
In particolare, nelle conferenze Tenebre e fiamme nella tragedia italiana e Le Tradizioni italiane rinnegate e tradite dal fascismo, partendo dalle pagine della letteratura italiana, non sottomesse per amore di libertà alle precedenti dominazioni, Virgilia D’Andrea aveva sostenuto che «il fascismo fu ed è l’antitesi profonda del pensiero italiano», citando anche Vittorio Alfieri: «L’arte mia sono le muse; la predominante mia passione l’odio della tirannide».
Tenendo conto che quelle conferenze americane erano rivolte ad un pubblico composto soprattutto da lavoratori immigrati dall’Italia, verso cui il regime fascista svolgeva un’intensa propaganda incentrata sul patriottismo, attraverso i giornali e le conferenze organizzate dai Fasci costituiti anche negli Stati uniti, si comprende il senso antifascista delle conferenze culturali dell’instancabile anarchica.
Delle quattro poesie recitate a Roma, e quasi sicuramente anche a Livorno, Cieco di guerra (agosto 1920) e Decimazione (settembre 1919) erano contro gli orrori della Prima guerra mondiale, con la maledizione della retorica patriottica «irridente insulto», e ne Il ritorno dell’esule (dicembre 1919), dedicato al rientro clandestino di Malatesta in un’Italia attraversata dai sommovimenti rivoluzionari, vi era l’attesa «Per l’urto immane della «rossa» storia», mentre La presa e la resa delle fabbriche (ottobre 1920) era una sorta di amaro bilancio politico dell’Occupazione delle fabbriche, conclusasi pochi mesi prima, «sotto il cielo nero».
Tutte questioni che urlavano vendetta e giustizia sociale, facendo pericolosamente appello al cuore non meno che all’intelligenza di ogni oppresso e di ogni sfruttata.

 




O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano

Nell’estate del 1938, pochi giorni dopo l’annuncio del censimento degli ebrei — preludio all’emanazione di una speciale normativa[1] che avrebbe reso evidente la natura razzista e antisemita insita nell’ideologia fascista sin dalle origini — nel piccolo borgo minerario di Boccheggiano, situato nella Maremma grossetana, venne fondata una cellula clandestina comunista[2]. L’obiettivo era ridare impulso alla lotta per l’emancipazione, la libertà e la solidarietà, ideali conosciuti prima del fascismo ma da anni soffocati e silenziati. Infatti, con le “leggi fascistissime”, emanate tra il 1925 e il 1926[3], ogni forma di opposizione fu repressa tanto che «alla fine del 1926 tutti i partiti, tranne il Pnf, furono messi praticamente fuori legge, mentre, per iniziativa del segretario del Pnf, la Camera dichiarò decaduti i deputati dell’opposizione “aventiniana” e del Partito comunista (9 novembre)»[4]. Negli anni ’30, persino le attività clandestine divennero impossibili a causa dell’inasprimento del controllo totalitario, attuato attraverso la repressione della polizia tradizionale e dell’OVRA, l’Opera Vigilanza Repressione Antifascismo, che operava sia entro i confini italiani sia all’estero, con l’obiettivo di spezzare ogni possibile legame tra gli antifascisti. È in questo scenario di violenza e censura che alle 15:30 dell’8 agosto 1938 Anuello Lorenzoni, Altero Lorenzoni, Bruno Traditi, Ideale Tognoni, Eraldo Periccioli e Bandino Pimpinelli[5] decisero di costituire la cellula clandestina di Boccheggiano. Erano quasi tutti minatori, ad eccezione di Anuello, che lavorava come falegname, e di Altero, muratore.

In un’intervista collettiva rivolta ad Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni fu proprio quest’ultimo a specificare l’importanza della cellula comunista già nel 1938: «Ebbene, anche se non riuscì a prendere contatti con l’esterno, si riuscì invece a organizzare e a tenere viva la lotta nelle miniere anche sotto il regime fascista; si riuscì soprattutto a far sì che tutta la zona circostante Boccheggiano si avesse dalla nostra parte anche chi non combatteva apertamente.»[6]

Peraltro, non stupisce che sia proprio in un contesto minerario a sorgere la cellula clandestina comunista. Già nel 1919 il Partito Socialista aveva conquistato l’egemonia tra i minatori[7] ottenendo importanti risultati grazie alla stretta collaborazione tra forze politiche e organizzazioni sindacali[8], come l’introduzione di minimi salariali e la regolamentazione delle tariffe a cottimo[9]. Tale forza, tuttavia, era già segnata da una frammentazione interna che avrebbe portato alla scissione del 1921 e alla nascita del Partito Comunista d’Italia, cui aderirono principalmente le nuove leve della Federazione Giovanile e della Camera del Lavoro, affascinati dalle spinte rivoluzionarie[10].

Montieri, di cui Boccheggiano era importante frazione anche dal punto di vista della forza politica dei minatori, oltre ad essere stato il primo Comune socialista della provincia, fu l’ultimo a soccombere alle sistematiche azioni punitive[11] dello squadrismo dei fascisti, che avevano creato una propria roccaforte a Gerfalco da cui partivano per compiere le loro violenze[12].

All’alba della marcia su Roma il movimento operaio e socialista della provincia di Grosseto era stato sostanzialmente soffocato: nessuna organizzazione, nessun organo di stampa, nessuna sede per le riunioni, nessuna lotta contro il padronato delle Società minerarie della Montecatini e della Ravi-Marchi era possibile. Questa repressione si intensificò ulteriormente con il connubio tra fascismo e industria che trovò la consacrazione nel Patto di Palazzo Vidoni nell’ottobre del 1925[13].

La soppressione delle organizzazioni politiche e sindacali sancita dalle leggi fascistissime[14] portò progressivamente a un generale peggioramento delle condizioni di lavoro dei minatori e, in particolare, ad una significativa contrazione del salario operaio[15], fenomeno che si aggravò ulteriormente con la Grande Depressione. Durante questo periodo, la produzione della lignite calò drasticamente e solo alla fine degli anni ’30, in concomitanza con la politica autarchica e l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, i livelli della produzione e il numero degli operai impiegati nelle miniere tornarono ai livelli del primo dopoguerra[16]. Meno accentuato fu, invece, l’impatto della crisi sull’estrazione della pirite che, anzi, grazie al suo impiego nell’industria chimica, conobbe un importante potenziamento[17].

Tutto ciò contribuisce a spiegare l’esistenza, fin dalle origini del regime fascista, «di forme, spesso spontanee e contraddittorie, ma tuttavia assai vivaci, di resistenza all’azione di snaturamento delle tradizioni di classe attuata dal fascismo e di difesa dell’identità sociale e ‘culturale’ dei minatori»[18].

Anche l’isolamento geografico dei luoghi[19] – borghi e villaggi appositamente sorti negli anni ’30 – favoriva sia un capillare controllo da parte della Società mineraria e degli organi del regime fascista, sia una certa atomizzazione della lotta operaia. Allo stesso tempo, però, tale isolamento teneva vivo un sentimento di appartenenza e di emancipazione che, pur latente, talvolta si manifestava nell’antifascismo spontaneo, fino a tradursi in forme più collettive. Un esempio significativo è l’episodio che nel 1930 vide protagonista Ideale Tognoni, futuro fondatore della cellula clandestina e figlio di un militante e dirigente del PSI già vittima di attacchi, arresti e perquisizioni per mano fascista: non ancora maggiorenne, venne arrestato e imprigionato per un mese con l’accusa di aver disegnato la falce e il martello sui carrelli della miniera[20]. Inoltre, all’inizio del ‘32 i minatori di Montieri e Boccheggiano chiesero di non risultare più iscritti al sindacato fascista, criticando la sua inadeguatezza nel difendere i diritti dei lavoratori, e immediatamente furono imitati dai minatori di Prata e Roccatederighi che lavoravano con loro. Da Boccheggiano la protesta si estese a Niccioleta, dove il conflitto trovò espressione anche all’interno del villaggio[21], in quel quartiere operaio che la Montecatini aveva volutamente costruito come sobborgo ghettizzato.

Contro ogni soffio di rivendicazione si alzava la repressione della Società mineraria e del suo alleato fascista: la battaglia più aspra fu condotta contro il metodo Bedeaux[22] che sfruttava la forza-lavoro operaia. I minatori reagirono con azioni di propaganda cui la Montecatini rispose chiamando un battaglione della Milizia per piantonare la miniera giorno e notte[23] e avviando licenziamenti. Il conflitto culminò il 3 settembre 1933 quando un corteo di operai si diresse verso l’ufficio del direttore della miniera di Boccheggiano per protestare contro le riduzioni salariali: lo scontro finì con la distruzione dei mobili negli uffici[24]. La Montecatini ebbe però la meglio, con il supporto della Milizia. Seguì poi la minaccia di inviare gli operai nella guerra in Africa se non avessero “rigato dritto” mentre quasi tutte le domeniche gli squadristi arrivavano nel borgo minerario, dove si facevano consegnare degli elenchi dai fascisti locali per proseguire le violenze nelle case degli oppositori[25]. Ogni giorno, all’uscita della miniera, i fascisti ricordavano ai minatori chi comandasse, non solo perché erano «comunisti, ma anche e soprattutto perché…operai».[26]

Questo fu il clima in cui, ai primi di agosto del 1938, sorse la cellula clandestina comunista, quasi segnando un nuovo corso nel contingente della lotta antifascista che, fino a quel momento, si era svolta nelle gallerie della miniera, resistendo all’annichilimento voluto dal regime. Rispetto alla prima fase di attività della cellula, l’azione si concentrò principalmente sulla propaganda, vista come l’unico mezzo per rimpolpare le fila, un compito estremamente difficile ma che doveva essere tentato.

La prima riunione della cellula, tenutasi il 22 agosto[27] 1938, stabilì il nome che avrebbe dovuto avere: Organizzazione Comunista Rivoluzionaria. Si decise, tuttavia, di abbreviare il nome in “O-3-R”, da utilizzare anche nei registri, per evitare che il richiamo esplicito al comunismo potesse attirare l’attenzione o provocare rappresaglie dei fascisti. La cellula assunse un nome emblematico che da un lato richiamava il legame con il Partito Comunista (un legame più teorico che pratico, almeno in questa fase), ma dall’altro si connotava in modo autonomo, come segno di emancipazione e di lotta. La scelta del numero “3” potrebbe coincidere con la posizione della lettera ‘C’ nell’alfabeto oppure evocare la Terza Internazionale, l’organizzazione fondata nel 1919 sotto la guida del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, con il compito di coordinare i partiti comunisti a livello mondiale per diffondere la rivoluzione socialista. Così Ideale Tognoni descriveva le origini della cellula, sottolineando come la spinta rivoluzionaria che portò alla sua costituzione fosse il frutto dell’influenza politica trasmessa fin dall’infanzia dai loro padri, di fede socialista, e fortemente segnata dagli eventi del 1917: «ci ha permesso di ricostituire una sezione comunista in pieno regime fascista, chiaro segno questo che l’insegnamento e l’esempio dei nostri vecchi aveva dato i suoi frutti»[28].

Fondazione della cellula

Una delle caratteristiche che emerge immediatamente dai primi verbali delle adunate è la ritualizzazione interna, frutto di quel processo di mitizzazione nei confronti del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, rappresentato in particolare dalla figura del suo segretario Stalin. Già alla prima riunione, infatti, venne stabilita la formula del giuramento per le nuove adesioni, nonché la necessità di dotarsi di regolamenti e di norme disciplinari, definendo subito gli obiettivi perseguiti dai fondatori: cercare di inserirsi tra le fila fasciste «per sabotare e scrutare» ovvero «collaborare materialmente e politicamente a contatto con la nostra classe operaia e attirare a sua volta gli elementi abili alla nostra propaganda ed al nostro Ideale»[29]. Soprattutto nella fase iniziale, infatti, la funzione della cellula fu principalmente quella di tenere insieme gli stessi ideali, offrire un barlume di speranza nella condivisione di una società diversa e far sentire vicini coloro che quotidianamente erano sotto minaccia di violenze.

La capacità organizzativa, in termini di forza, di idee e di supporto economico, fu al centro della seconda adunata che si tenne il 1° settembre. In quell’occasione venne stabilito per ciascun associato il versamento di una quota mensile di 2 lire, una cifra sostanzialmente simbolica che poteva essere garantita da tutti, ma che al contempo rappresentava un segnale di appartenenza e di supporto. Per la prima volta fu approvato il giuramento e Anuello Lorenzoni fu eletto capo della cellula, ruolo che ricoprirà per tutto il periodo della clandestinità. Per garantire la segretezza e tutelare gli iscritti – ispirandosi più a pratiche massoniche[30], la cui tradizione era ben radicata nelle Colline maremmane, che a organizzazioni clandestine internazionaliste – si decise di chiamare i compagni non per nome, ma utilizzando numeri progressivi, in ordine di iscrizione.

Nell’adunata successiva del 10 ottobre, dopo averne discusso negli incontri precedenti, venne letto e approvato il programma, al motto marxista “Proletari di tutti i paesi: unitevi!”. Il programma prevedeva un’organizzazione basata su cellule, ponendo come primo obiettivo la propaganda, rivolta soprattutto ai giovani che meno di altri avevano conosciuto la possibilità di una libertà di pensiero e il pluralismo dei partiti, ormai relegati alla clandestinità all’estero dalle leggi fascistissime. La finalità dell’azione propagandistica era esplicitamente dichiarata: abbattere il governo fascista, in tutti i modi[31], e dar vita ad un nuovo governo.

L’influenza delle idee comuniste – più per evocazione del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e della teoria rivoluzionaria di Lenin che per effettiva militanza pregressa tra le fila del PCd’I – si riflette nel programma: tra gli obiettivi, la cellula si prefiggeva la lotta per l’abbattimento del capitale individuale, un lavoro al servizio di tutti, la socializzazione delle terre, il diritto di eleggere i propri rappresentanti[32], una parità di diritti tra uomo e donna, un connubio uomo-scienza che richiamava il progresso del modo di produzione. Dalla lettura del programma si percepisce un ‘socialismo umanitario’[33], caratterizzato da un profondo senso di solidarietà e dalla volontà di costruire una società più uguale e giusta, nella speranza di riuscire ad abbattere la barriera che separa l’uomo dall’uomo, contro quell’egoistico individualismo finalizzato solo al soddisfacimento dei propri interessi. Se pensiamo agli abusi, alle violenze, alle torture che la popolazione aveva conosciuto già con lo squadrismo del movimento fascista delle origini, questo desiderio di solidarietà e rispetto risulta quanto mai vivo e sentito. Tale pensiero si riflette nell’ultimo punto del programma: «Vogliamo infine essere uomini e non più Massa bruta», un’espressione che invitava a superare la condizione di passività e ignoranza, per sviluppare una coscienza di classe e diventare protagonisti consapevoli della propria storia.

L’impronta comunista della cellula fu riportata anche nel timbro che uno dei nuovi iscritti, Bosco Brachini, fabbricò nell’officina della miniera: qui incise lo stampo che però risultò con la falce e il martello rovesciati, forse per la sua giovane età che gli impediva di ricordare correttamente il simbolo del partito ormai da tempo vietato o perché non tenne conto del fatto che il timbro avrebbe riprodotto l’immagine specchiata.[34]

Per quanto riguarda le disposizioni disciplinari, oltre alla puntualità nelle adunate – proprio per evitare il rischio di essere scoperti –, ogni affiliato avrebbe dovuto prestare giuramento e obbedire agli ordini. In caso contrario, una Commissione avrebbe giudicato il suo operato e il tradimento delle disposizioni avrebbe comportato la condanna a morte. Da un punto di vista morale – perché la cellula non regolava solo la vita politica – all’iscritto era vietato l’abuso di alcol e il gioco.

Ogni iscritto doveva salutare, all’inizio e alla fine di ogni adunata, con il braccio alzato e il pugno chiuso: un gesto che diventava un segno di condivisione e appartenenza acquisendo un significato ancora più profondo nel contesto di paura, violenza e individualismo che caratterizzava quei tempi.

Nel giro di poche settimane il numero degli iscritti e le richieste di adesione aumentarono significativamente, facendo presagire una ventata di speranza, in nome di una lotta collettiva che avrebbe liberato un intero Paese dal giogo fascista. Si rese necessario creare due cellule per consentire l’organizzazione e la clandestinità, ciascuna delle quali dotata di un capo e di un gruppo per l’esecuzione dei compiti[35]. Da quel momento in poi, l’O-3-R avrebbe vissuto fasi alterne di adesioni, con l’obiettivo primario di garantire l’incolumità e la segretezza degli iscritti e delle attività, obiettivi che un numero eccessivo e non controllato non avrebbe potuto garantire.

Il giuramento dei membri della cellula

Il crescente contingente di affiliati richiedeva inevitabilmente un luogo più sicuro per le adunate[36], che dal nuovo anno si svolgevano con cadenza mensile. Così, il 15 febbraio 1939 il capo della prima cellula, Bandino Pimpinelli, con i compagni Altero Lorenzoni e Ideale Tognoni vennero incaricati di andare alla ricerca di un posto sicuro. La stessa sera il luogo fu individuato: era un rifugio situato poco sotto il centro di Boccheggiano, tra gli alberi di castagno tipici delle Cornate, un cunicolo all’interno di una grotta, una vecchia galleria che collegava la miniera e che ora avrebbe permesso di raccogliere in sicurezza tutti i partecipanti alle riunioni clandestine. Era un luogo perfetto, che però necessitava di alcuni lavori per renderlo idoneo all’organizzazione: due sere dopo, a buio inoltrato, tutti i componenti della prima cellula si ritrovarono con «picconi, pale, puntelli, bacchi, ascia, [e] fu così iniziato il lavoro di disgaggio, armamento e porta»[37].

Il 30 marzo il rifugio fu inaugurato con l’adunata di entrambe le cellule: la prima cellula decise che quella vecchia galleria, da quel momento, avrebbe preso il nome di “Rifugio Stalin”, un ulteriore omaggio ideologico alla patria della rivoluzione. Per festeggiare quel luogo condiviso di lotta e ideali, gli iscritti quella sera brindarono con due fiaschi di vino.[38]

Una volta trovato un luogo sicuro per le riunioni, l’attenzione si poteva completamente concentrare sull’opposizione politica. Dai verbali di agosto emerge chiaramente che il primo obiettivo fosse quello di reperire armi automatiche, per garantire la sicurezza e prepararsi allo scontro con l’oppressore fascista. Tuttavia, ad un certo punto, si verificò un evento che sconvolse i comunisti del borgo minerario: la Germania stava varcando “furibonda”[39] le frontiere e pertanto l’O-3-R ordinò di cessare ogni attività di propaganda politica al fine di «iniziare subito il sabotaggio nelle fabbriche, nelle miniere e nelle officine e dove si costruisca per la guerra»[40]. La notizia venne commentata a poche settimane dall’occupazione tedesca della Polonia – al pretesto di “Morire per Danzica” – alla quale, lo stesso 1° settembre, Francia e Gran Bretagna avevano risposto con la dichiarazione di guerra, mentre l’URSS avanzava da Oriente, forte del Patto Molotov-Ribbentrop, firmato il 23 agosto proprio con la Germania, che sanciva la non aggressione tra i due Paesi. Lo scenario che si stava delineando sembrava chiaro anche ai comunisti della cellula clandestina: l’aggressione tedesca ai danni della Polonia non poteva che destare preoccupazione e paura[41], nonostante Mussolini, già il giorno dell’invasione, avesse proclamato la non belligeranza dell’Italia in accordo con Hitler, appellandosi al carattere difensivo del Patto d’Acciaio del 22 maggio 1939. Tuttavia, per quanto tempo avrebbe potuto reggere questa posizione di neutralità? Quale tipo di supporto sarebbe stato richiesto all’alleato fascista? L’Italia, assolutamente impreparata sia dal punto di vista bellico che industriale, era comunque destinata ad entrare nel conflitto.

Lo scoppio della guerra aveva determinato, anche a livello nazionale, la conversione delle fabbriche per soddisfare le crescenti esigenze belliche, con la produzione di armi, munizioni e mezzi per l’esercito. L’azione di sabotaggio assumeva quindi una duplice valenza: da un lato rappresentava una manifestazione politica di opposizione all’iniziativa militare, dall’altro costituiva una rivendicazione sindacale e civile contro le sempre più drammatiche condizioni di lavoro. È necessario precisare, comunque, che probabilmente tali azioni consistevano più in piccoli atti per rallentare i lavori che in vere e proprie opere di sabotaggio, di cui non risultano testimonianze.

Lo scoppio della guerra non poteva non avere ripercussioni sulla vita della cellula comunista: mentre alimentava il desiderio di intensificare lo scontro con il regime fascista, imponeva un’attenzione ancora più alta verso le nuove richieste di adesione all’O-3-R. La principale preoccupazione riguardava il coinvolgimento dei più giovani: se senza dubbio erano accolti favorevolmente l’entusiasmo e l’energia delle nuove generazioni che chiedevano di partecipare, al contempo, si temeva l’infiltrazione o la scarsa preparazione politica dei nuovi membri. La sincera lealtà alla causa rivoluzionaria era garantita dal giuramento liturgico pronunciato dai nuovi e giovani iscritti: si arrivò così alla nascita dell’O-Giovanile-R[42], affidata alla guida di Ideale Tognoni.

Nel frattempo, il conflitto militare procedeva nella forma della drôle de guerre: la Germania, con una grande velocità grazie alle sue divisioni corazzate[43], aveva occupato Polonia, Danimarca e Norvegia mentre Francia e Inghilterra non avevano sparato ancora un colpo. Man mano che passavano le settimane, anche sul fronte interno cresceva la tensione: l’esigenza di controllo sul territorio, per evitare ogni passo falso e soprattutto ogni ripresa delle forze di opposizione, portò infatti il regime a rafforzare le misure repressive, anche nelle zone più isolate. È con questo intento che nella notte del 25 aprile 1940[44] il borgo minerario di Boccheggiano venne quasi completamente accerchiato dalle spie fasciste, spingendo Anuello Lorenzoni a ordinare riunioni bimestrali e a sospendere le nuove iscrizioni, per evitare rischi di infiltrazioni o arresti. Questo stato di cose perdurò per tutta l’estate: Mussolini, sicuro di salire sul carro del vincitore, il 10 giugno aveva oramai dichiarato guerra attaccando i francesi sulle Alpi, ma già dai primi scontri emerse l’inadeguatezza dell’esercito italiano, mentre la Germania continuava imperterrita a occupare Olanda, Belgio fino alla capitolazione della Francia. Anche a Boccheggiano l’atmosfera che si respirava era pesante e, proprio per non destare sospetti, fu deciso di trasformare gli incontri tra i compagni in occasioni di convivialità, come poteva essere una merenda sotto i castagni.

Tuttavia, mentre si cercava di prestare la massima attenzione per evitare ogni rischio di scoperta, la cellula valutò che i tempi fossero maturi per organizzare l’azione politica tanto attesa: fu pertanto eseguito il censimento delle armi acquistate nel ’39, verificandone la funzionalità e lo stato di conservazione, annotando chi le detenesse. L’inventario rivelò la presenza di una rivoltella automatica e due rivoltelle a tamburo. L’O-3-R sembrava operare su due fronti distinti ma complementari: da un lato, rafforzava la propria organizzazione in vista di un possibile ritorno di quella ‘guerra civile’ vissuta nei primi anni dello squadrismo, dall’altro proseguiva convintamente l’attività di propaganda, che ora si faceva più che mai cruciale per attrarre fidati proseliti, pur restando instancabilmente ma necessariamente nell’ombra[45]. Per queste ragioni, le adunate tornarono ad avere una cadenza mensile e nell’aprile del ’41 si unì una terza cellula composta da compagni più maturi.

Le notizie dal fronte concorrevano ad indebolire sempre più l’immagine di Mussolini e del suo regime, così come le ragioni dell’entrata in guerra: la disfatta della flotta italiana per mano inglese, la resa in Africa di 20.000 soldati italiani, con l’abbandono di 100 carri armati nelle mani di appena 3.000 britannici, le numerose disfatte in terra greca che richiesero l’intervento dell’alleato tedesco.

Elenco dei membri della cellula

Con il costante aumento dei fallimenti dell’esercito fascista, che riflettevano un regime sempre più in crisi, cresceva il bisogno di condividere ideali di libertà e di lotta, espressi ancora una volta attraverso la simbologia politica. Con questo intento, durante l’adunata del 1° maggio 1941 – data simbolo di solidarietà e fratellanza operaia – venne mostrato il vessillo ufficiale dell’O-3-R: una bandiera rossa, ricamata a mano da Miranda Marzolini, moglie di Ideale e l’unica donna a conoscenza della cellula clandestina. La bandiera fu realizzata anche grazie al contributo dei fratelli Ideale e Mauro Tognoni, rinominati adesso rispettivamente alfiere e scorta d’onore. Su quella bandiera rossa spiccava la scritta: “Partito Comunista di Boccheggiano”[46].

All’inizio dell’estate del ’41, ad un anno esatto dall’entrata dell’Italia in guerra, il clima a Boccheggiano si presentava ancora più teso e carico di preoccupazioni, ma a differenza del passato, quando la cellula era arrivata a sospendere le iscrizioni e a rallentare le adunate, adesso l’azione sembrava proseguire: lo stesso Lorenzoni, in qualità di capo, esortava a mantenere viva la propaganda in un paese ormai «assediato dai malfattori, che vigilano oggi più di ieri, per vedere se riescono a toglierci fra le sue ormai minate file impossibilitate di vincere e di abbatterci.»[47]

Dai verbali si ha l’impressione che l’attività clandestina riuscisse a portare nel Rifugio Stalin organi di informazione che diventavano un momento di lettura collettiva e confronto sugli accadimenti. L’unione e il senso di appartenenza si rafforzavano anche grazie a questo, in un contesto in cui il livello di alfabetizzazione era limitato rendendo difficile per molti l’accesso alle informazioni e la comprensione degli eventi. Così, la lettura ad alta voce dei pochi articoli che riuscivano ad arrivare clandestinamente diventava un’importante occasione di condivisione, non solo della cronaca, ma anche dei valori e dell’identità di classe. I più attivi a distribuire «L’Unità» erano i fondatori Bandino, Ideale e Altero, particolarmente impegnati anche nella ricerca di nuovi proseliti per creare altre cellule, persino nei paesi limitrofi. Tra i nuovi iscritti, che andarono a rimpolpare l’organizzazione nei mesi successivi[48], vi era invece Paride Lucchesi, uno dei pochi istruiti di Boccheggiano, che riusciva a portare con sé un «giornaletto di piccolo formato e dalla veste tipografica alquanto dismessa che presto si consumava a passarlo di mano in mano»[49], ovvero il giornale ufficiale del partito comunista che aveva da poco ripreso la stampa clandestina[50].

Tra le notizie che arrivavano dal fronte, quella che colpì maggiormente fu la dichiarazione di guerra alla Russia da parte della Germania, «dopo essere già entrata di soprassalto nel suo territorio»[51]: il Terzo Reich lanciò le sue divisioni corazzate oltre i confini sovietici, un atto che fu definito dall’organizzazione clandestina un vero e proprio tradimento di quel patto militare e politico siglato all’alba della occupazione della Polonia. L’ “Operazione Barbarossa” tedesca finì col rafforzare ulteriormente il senso di appartenenza alla causa comunista. Inoltre, ai compagni non poteva sfuggire che fin dall’inizio Hitler aveva posto tra gli obiettivi del Terzo Reich l’annientamento del comunismo, la fine di ogni prospettiva di internazionalizzazione della rivoluzione proletaria e la conquista di tutti i popoli slavi per estendere il suo potere anche ad Oriente. I verbali non riportano i resoconti delle discussioni politiche ma all’adunata del 10 agosto del ’41 venne approvato un ordine del giorno che ben esprime quel clima: sabotare «qualsiasi lavorazione dove i compagni si trovino occupati per prima fiaccare i due eserciti uniti»[52]. Ancora una volta il sabotaggio veniva indicato come principale strumento di lotta mirato a colpire le forze dell’Asse. Ancora una volta l’alleanza nazifascista doveva essere abbattuta, ancora di più se l’altro fronte era rappresentato dalla ‘Patria dei lavoratori’.

Rispetto all’attività dell’O-3-R, la convocazione delle adunate era diventata, ormai da tempo, una variabile dipendente dal livello di attenzione e pericolo che si respirava per le strade del piccolo borgo, permeato da una presenza sempre più massiccia di fascisti. I crescenti controlli erano la conseguenza di quanto accadeva sul fronte militare, con l’intento di incutere terrore mediante un’oppressione sempre più soffocante: «In molti Paesi e città si verificano fatti da loro commessi a molti de’ nostri compagni da essi scoperti nelle organizzazioni»[53]. Evidentemente non solo a Boccheggiano, ma anche nei paesi vicini gli insuccessi del regime avevano riacceso un fervore politico che dopo anni di silenzio sembrava piano piano riprendere voce. Per questo motivo, a partire dal 1942 l’O-3-R iniziò a cercare collaborazioni esterne: un primo tentativo fu fatto a Prata[54], dove alcuni locali avevano manifestato interesse a unirsi alla lotta politica, ma l’incontro di maggio, cui parteciparono Altero Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Oscar Rocchi, rivelò che il contesto non era ancora favorevole a una struttura organizzata e ideologicamente coerente[55]. La questione, tuttavia, venne ripresa a luglio, ancora una volta sollecitata dai compagni di Prata, perché sempre più imminente si presentava l’esigenza di trovare un contatto con altri centri organizzativi e creare una rete di collegamento: l’obiettivo era quello di diffondere anche presso di loro giornali come «La Giovane Italia», «L’Italia libera» e «L’Unità»[56], strumenti di informazione e propaganda, pur con orientamento politico diverso, contro l’oppressione fascista che continuava a registrare fallimenti militari, e con essi la morte di tanti soldati al fronte. Si percepisce chiaramente il desiderio di rendere l’organizzazione più capillare, creando contatti con altri comunisti locali e mettendo insieme le forze per unirsi nella lotta che li attendeva. Del resto, dall’estate del ’42, sembrano avviarsi i primi rapporti con il PCI, che sarebbero diventati diretti e stabili con la caduta del regime[57]. Anche gli stessi strumenti propagandistici, pur circolando ancora in forma clandestina, cominciavano a farsi sentire con maggiore frequenza, quasi come voler rispondere all’esigenza di un maggiore approfondimento teorico e pratico, mirato a risvegliare la coscienza di classe. Infatti, se da una parte l’attività della Organizzazione Rivoluzionaria aumentava di intensità, dall’altra anche i controlli degli «abbietti e miserabili fascisti»[58] si facevano sempre più stringenti, specialmente agli inizi del ’43. Per questa ragione, l’O-3-R si trovò di fronte ad una scelta, dolorosa ma inevitabile: distruggere tutto ciò che era stato prodotto fino a quel momento fatta eccezione della bandiera, del registro cassa e del registro dell’organizzazione[59]. Nessuna traccia doveva restare, nessun rischio doveva essere corso. Soprattutto ora.

Nel frattempo, le notizie che arrivavano dal fronte rappresentavano motivo di soddisfazione e stimolo per l’Organizzazione, in particolare per i successi degli Inglesi e soprattutto dei “compagni Russi”[60]. La guerra tra Germania e Unione Sovietica aveva visto un enorme dispiegamento di forze da entrambe le parti, ma l’iniziale avanzata tedesca del ‘41 fu l’ultimo successo della guerra lampo della Panzerdivisionen. Già verso la fine dell’anno, la Germania non poteva più contare sulla superiorità tecnologica dei panzer, sopraffatta anche dalla strategia sovietica e dall’inverno russo, proprio come accaduto con Napoleone. La battaglia di Mosca (ottobre 1941-gennaio 1942) rappresentò la prima sconfitta terrestre della Wehrmacht, provocando una pesante frattura psicologica poiché aveva dimostrato la non invincibilità tedesca. All’Armata Rossa si unì la guerra partigiana locale e il tracollo della Germania arrivò definitivamente con la battaglia di Stalingrado dove, dopo mesi di assedio, l’esercito tedesco si arrese, il 31 gennaio 1943.

La crescente speranza accompagnò gli animi della cellula fino alla notte del 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo votò l’ordine del giorno, presentato da Dino Grandi, per deporre il Duce. Di fronte alla notizia della «lunga e desiderata caduta del fascismo e del carnefice oppressore Benito Mussolini»[61] i capicellula diedero ordine ai compagni di rimanere pronti per qualsiasi direttiva potesse arrivare dall’organizzazione provinciale, invitando tutti ad aspettare ulteriori istruzioni.

Il programma della cellula

La valutazione che emerge rispetto a questo concitato momento è chiara: il fascismo era caduto ma per la cellula di Boccheggiano il sistema rimaneva “fascista borghese”, anche sotto la guida del Generale Badoglio «il quale spacciandosi come liberatore del Popolo imponeva dopo poche ore della capitolazzione (sic) leggi che terrorizzarono il popolo Italiano essendo ormai disorientato da 20 anni dall’oppressione fascista»[62]. Il riferimento è sicuramente al proclama del giorno successivo che introdusse lo stato d’assedio insieme a quello del coprifuoco, trasferendo i poteri civili nelle mani dei comandi militari, vietando assembramenti e manifestazioni pubbliche, mettendo in atto repressioni contro eventuali disordini.

Alla concitazione e al rischio di smarrimento legato alla situazione nazionale seguì un fervore di attesa per gli sviluppi degli eventi. Nel verbale del 18 agosto si fa riferimento allo “sciopero per la dimostrazione di Pace mondiale”[63], indetto dai compagni di Prata e svolto per 24 ore presso la miniera del Baciolo e contemporaneamente a Niccioleta. Nonostante le precarie e drammatiche condizioni cui gli operai erano stati sottoposti nel ventennio fascista, alla base dello sciopero non vi erano rivendicazioni economiche, ma un chiaro intento politico: manifestare il dissenso contro il regime appena caduto e sostenere ideali di pace e giustizia, in contrasto con il grido badogliano de “la guerra continua”.

Nel frattempo, continuavano i tentativi di costruire una rete politica territoriale. Il giorno prima della dichiarazione dell’armistizio – già firmato il 3 settembre – Bandino Pimpinelli, nuovamente incaricato da Lorenzoni, si recò a Massa Marittima per prendere contatto con gli altri compagni del PCI e, al suo ritorno, riferì la decisione di costituire un nuovo e più numeroso Comitato[64]. La cellula comunista di Boccheggiano era consapevole del momento storico che stavano vivendo e delle sfide che li attendevano, impegnati in azioni che richiedevano un’organizzazione solida ed efficace. Quella praxis tanto agognata adesso si presentava con tutta la sua forza: anni di regime, di violenza, di oppressione avevano segnato la società, gli animi, le speranze e le illusioni e il cammino verso la liberazione non sarebbe stato facile.

Alla notizia dell’armistizio, trasmessa da Radio Londra e ascoltata nel bar del Lorenzoni[65], che comunicava la resa incondizionata dell’Italia, i capicellula si riunirono con il compagno capo: l’unico ordine fu quello di dar vita a “dimostrazioni patriottiche”. Alle 21 dell’8 settembre fu pertanto organizzato un corteo al quale partecipò tutta la popolazione e due simpatizzanti dell’organizzazione comunista intervennero invitando, sì, al risveglio ma anche alla calma[66].

I mesi successivi avrebbero segnato una nuova fase per l’O-3-R. Tutte le speranze di quei compagni si riversarono nella lotta partigiana.

 

NOTE:

[1] Il censimento fu annunciato il 5 agosto 1938 ed effettuato a partire dal 22 agosto. Fu lo strumento attraverso il quale «gli ebrei d’Italia vennero accuratamente individuati, contati, schedati», Sarfatti M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione in Collotti E., Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Bari-Roma, Laterza, 2006, p. 65. Ciò costituì la base della più mastodontica legislazione antiebraica del mondo, dopo quella tedesca. Per un approfondimento si veda, ad esempio, l’opera sopra citata di Collotti.
[2] Questo articolo è il risultato di un lavoro di ricerca condotto sul Fondo Pimpinelli, in particolare attraverso l’analisi del Registro dei verbali della Organizzazione Comunista Rivoluzionaria, conservati presso l’AISGREC, Archivio dell’ISGREC – Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea.
[3] Si vedano il Regio Decreto n. 1848 “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” del 6 novembre 1926 e la Legge n. 2008 “Provvedimenti per la difesa dello Stato” del 25 novembre 1926 che, peraltro, istituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e reintrodusse la pena di morte. Da questo momento, ogni forma di critica, di opposizione, di lotta al governo fu vietata e penalmente perseguita, tutti i partiti e le organizzazioni che manifestavano azione contraria al partito furono sciolti, fu istituito il confino di polizia «per quanti manifestassero il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire gli ordinamenti costituiti dello Stato», i giornali di opposizione furono soppressi; molti antifascisti fuggirono all’estero da dove cercarono di guidare la lotta al regime mussoliniano, contando anche su qualche appoggio di gruppi che provarono a continuare ad agire sul territorio italiano in forma clandestina. Si veda anche Spriano, P., Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, v. 3 parte prima, Einaudi editore, collana per «L’Unità», Torino, 1969, pp. 61-62.
[4] Gentile E., Fascismo. Storia e interpretazione, Economica Laterza, Bari-Roma, 2023, p. 20.
[5] Fondo Pimpinelli (da questo momento: FP), Registro verbali, f. 121. Bandino Pimpinelli fu curatore prima e poi custode di tutti i verbali dell’attività clandestina, fino alla sua morte nel 1996. Era il figlio di Ireneo, che fu l’ultimo sindaco di Montieri prima delle leggi fascistissime, socialista e autore di poesie popolari; sarà anche il primo sindaco nominato dal CLN subito dopo la Liberazione.
[6] Nesti A., Anonimi compagni: le classi subalterne sotto il fascismo, Coines, Roma, 1976, p. 143.
[7] Alle elezioni politiche del 1919 e alle amministrative del 1920 il Partito Socialista era risultato il primo partito: i socialisti conquistarono tutte le amministrazioni comunali ad eccezione dell’Isola del Giglio, dove si registrò la vittoria dei liberali, Monte Argentario, dei popolari, Castiglion della Pescaia e Massa Marittima, vinte dai repubblicani. Cfr. Rogari S. (a cura di), Il biennio rosso in Toscana 1919-1920, Atti del convegno di studi Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso 5-6 dicembre 2019, Firenze: Consiglio regionale della Toscana, 2021.
[8] Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 139.
[9] Cfr. «Il Risveglio», agosto 1919. Si veda anche Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani fra le due guerre, in Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘700. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, All’insegna del Giglio, Firenze, 1984, p. 199.
[10] Cfr. «Il Risveglio», 27 marzo 1921. Ancora Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 200.
[11] Si rammenti la conquista armata di Grosseto (30 giugno 1921) che portò anche alla distruzione della Camera del Lavoro e della Lega dei Terrazzieri, delle sedi del partito socialista, comunista e repubblicano, nonché della tipografia de «Il Risveglio»; inoltre, l’incursione squadrista a Roccastrada (24 luglio 1921) considerata “roccaforte rossa”. Per un approfondimento, Cansella I., Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco www.toscananovecento.it/custom_type/roccastrada-1921-un-paese-a-ferro-e-fuoco/
[12] Cfr. Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 202-03.
[13] Stipulato il 2 ottobre 1925, l’accordo tra il regime fascista italiano e i rappresentanti della Confindustria rappresentò una svolta significativa nei rapporti tra il mondo del lavoro e il governo fascista, a scapito della classe operaia.
[14] In particolare, con la legge n. 563 del 3 aprile 1926, venne istituito un sistema corporativo che prevedeva il riconoscimento di un unico sindacato per ogni categoria, strettamente controllato dallo Stato fascista.
[15] Nel 1939 la legione territoriale dei carabinieri reali di Livorno, gruppo di Grosseto, inviò al prefetto di Grosseto una relazione in cui di fatto sì evidenziava una riduzione dei salari nel corso degli ultimi 20 anni che oscillava tra il 36 e il 40% circa. Si veda Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 209.
[16] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 208- 209.
[17] A conferma di ciò, si possono citare, nella prima metà degli anni ’30, l’inaugurazione del villaggio di Niccioleta e la costruzione di un sistema di teleferiche che collegava le tre miniere della Montecatini (Boccheggiano, Niccioleta e Gavorrano) al mare, da dove i materiali venivano imbarcati verso i mercati nazionali e internazionali. In particolare, Niccioleta nacque nel 1933 come villaggio minerario di proprietà della Società Montecatini, ruolo che mantenne fino al 1976, quando divenne frazione del Comune di Massa Marittima.
[18] Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 210.
[19] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Quaderni ISGREC, 08, Effigi, Arcidosso (GR), 2021, p. 239.
[20] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218; Tognoni M., Visi sporchi coscienze pulite. ‘Storia’ di un paese minerario della Toscana, Il Paese reale, Grosseto, 1979, p. 57.
[21] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 213.
[22] Il metodo Bedeaux fu introdotto per la prima volta a Gavorrano nel marzo del 1932 in un contesto di grave crisi che aveva già causato una drastica riduzione del salario e numerosi licenziamenti. In generale, il metodo consisteva in uno strumento volto ad aumentare i ritmi di lavoro, senza collegare lo sforzo fisico al salario percepito; inoltre, prevedeva penalità per i lavoratori che non rispettavano i tempi massimi stabiliti per ogni attività, con l’effetto di alienare ulteriormente il controllo degli operai sul loro lavoro. Molti furono i tentativi da parte della classe operaia di riprendere il controllo delle loro attività, sfruttando ad esempio la voce “lavori eventuali”, ovvero piccoli lavori che richiedevano uno sforzo fisico minore (la riparazione di un quadro d’armatura o il perfezionamento di un disgaggio etc.), ma che venivano valutati nel computo finale dei punti, contribuendo a ristabilire un equilibrio salariale sfruttando la minore produttività richiesta. Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 140.
[23] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 141.
[24] Per un approfondimento si veda la Testimonianza di Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli, Ideale Tognoni in Nesti, A., Ibidem.
[25] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 143.
[26] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 142.
[27] Verbale del 22 agosto 1938, FP, f. 123.
[28] Nesti, Ibidem.
[29] FP, f. 123.
[30] Si veda anche Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Ibidem.
[31] Cfr. FP, f. 124.
[32] Si rammenti che le leggi fascistissime segnarono anche la morte della democrazia parlamentare: il parlamento, ormai privato delle sue funzioni legislative e di controllo nei confronti dell’esecutivo, non venne più eletto ma nominato con elezioni dette plebiscitarie. D’altronde il regime fascista aveva sempre mostrato disprezzo nei confronti delle elezioni che definiva “ludi cartacei”, Cfr. Viola P., Il Novecento. Storia moderna e contemporanea, v. 4, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2000, p. 93.
[33] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma cit., pp. 239-240 e Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 219.
[34] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., Ibidem.
[35] All’alba del 25 aprile 1943 gli iscritti erano arrivati a 26 per poi aumentare fino ad una quarantina.
[36] Benché dai verbali non emerga il luogo fino a questo momento utilizzato, si può pensare a sedi fortuite e che non destavano sospetti, tra cui pare lo scantinato o il retrobottega di Anuello Lorenzoni, come riportato da Tognoni, Visi sporchi cit., p. 61.
[37] FP, f. 131.
[38] FP, f. 132.
[39] Verbale del 20 settembre 1939, FP, f. 134.
[40] FP, Ibidem.
[41] Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., pp. 115-116. Per un approfondimento si veda Rogari S., L’opinione pubblica in Toscana di fronte alla guerra (1939-43), in Antifascismo, Resistenza, Costituzione. Studi per il sessantesimo della liberazione, Franco Angeli, Milano, 2006.
[42] FP, Ibidem.
[43] Hitler era convinto che le Panzerdivisionen sarebbero state cruciali per la Blitzkrieg (guerra lampo), cfr. Viola, Il Novecento cit., pp. 188-89.
[44] Cfr. FP f. 137.
[45] Cfr. FP f. 139.
[46] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 69-70.
[47] Verbale del 18 giugno 1941, FP f. 140.
[48] Verbale del 20 dicembre, FP f. 141.
[49] Tognoni, Visi sporche coscienze pulite cit., p. 18.
[50] L’ultimo numero ufficiale del giornale fondato da Antonio Gramsci fu pubblicato il 31 ottobre 1926. Il 27 agosto 1927 uscì il primo numero dell’edizione clandestina, che ebbe origine nella sede francese di Rue d’Austerlitz e poi nel ’31 con una stamperia a Milano. La pubblicazione clandestina subì una battuta d’arresto tra il ‘34 e il ’39 per riprendere con lo scoppio della guerra e della lotta antifascista. Il giornale tornerà alla pubblicazione ufficiale a Roma il 6 giugno 1944, con l’arrivo delle truppe alleate.
[51] Cfr. Verbale del 10 agosto 1941, FP Ibidem.
[52] FP, Ibidem.
[53] Verbale del 12 gennaio 1942, FP f. 143.
[54] Piccolo borgo confinante, residenza di molti minatori di Niccioleta e Boccheggiano.
[55] Cfr. Verbale del 03 maggio 1942, FP f. 144.
[56] Cfr. Verbale del 22 luglio 1942, FP Ibidem.
[57] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218.
[58] Rapporto I del 12 gennaio 1943, FP f. 147. Tale decisione fu poi approvata da tutta l’O-3-R.
[59] FP, Ibidem.
[60] FP, Ibidem.
[61] Rapporto “IIII” del 25 luglio 1943, FP f. 148. Nel rapporto è sottolineato in rosso.
[62] FP, Ibidem.
[63] Verbale del 18 agosto 1943, FP f. 152. Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., p. 227.
[64] Cfr. Rapporto V del 7 settembre 1943, FP f. 148.
[65] Il suo bar era la sede da cui si poteva ascoltare Radio Londra, con una sicurezza garantita da un compagno con il ruolo di palo sulla porta mentre altri compagni facevano finta di giocare a carte per non destare sospetti. Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 61-62.
[66] Cfr. FP, Ibidem.



ARNALDO DELLO SBARBA, ANATOMIA D’UNA CADUTA

Era stato protagonista della politica toscana da fine ‘800 in poi. Nel 1924 Mussolini lo voleva nel “Listone” fascista.
Ma contro l’ex ministro riformista insorse lo squadrismo pisano.

 Dalla rilettura di archivi pubblici e privati, in parte inediti, il ritratto di una classe dirigente che allevò il fascismo e ne fu divorata.

1911, Arnaldo a Roma, appena eletto deputato socialista
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Che nel giro di pochi giorni, o forse di poche ore, si sarebbe giocato tutta la sua vita politica, Arnaldo Dello Sbarba (1) lo sapeva da tempo. E a quella vigilia elettorale dell’anno 1924 (2) era arrivato come lui sapeva fare: ben preparato.
Aveva dalla sua Benito Mussolini, vecchia conoscenza d’epoca socialista e ora duce del fascismo vittorioso. Aveva conquistato Cesare Rossi (3), numero due del regime e potente capo dell’ufficio stampa del governo. Nella circoscrizione, nella quale Dello Sbarba aveva recitato da primattore per quattro legislature, puntavano su di lui le élite fiancheggiatrici che speravano così di moderare e controllare lo squadrismo (4).
Nella base fascista Arnaldo poteva contare sul Fascio di Pisa, guidato dal capitano Bruno Santini (5), che sul “caso Dello Sbarba” aveva ricevuto istruzioni “inequivocabili” dal duce. Santini capeggiava in quei giorni il movimento dei “dissidenti” contro il segretario federale Filippo Morghen (6), sostenuto invece dai “ras” provinciali (7). E da quando Morghen s’era avventurato a giurare: «Nel fascismo, o me o Dello Sbarba» (8), Santini s’era convinto che poteva usare Dello Sbarba per togliersi Morghen dai piedi.

Considerati dunque tutti i pro e i contro, Arnaldo riteneva di poter vincere la partita. Sarebbe stato ammesso nella “Lista Nazionale” di Mussolini, con la certezza di tornare in parlamento. Voti personali ne aveva in quantità, al resto ci avrebbe pensato il diluvio di seggi garantiti ai fascisti dalla legge Acerbo.
Eppure, compiuti cinquant’anni il 12 agosto 1923, Arnaldo Dello Sbarba si avvicinava all’anno nuovo in stato di grande agitazione. Alla vigilia di Natale, il suo fedele segretario Carlo Conti (9) aveva riferito al fratello Bruno Dello Sbarba di «gravi preoccupazioni politiche non ancora ultimate [anche se] ben incamminate (…) Ci vorranno ancora dei giorni nei quali Arnaldo, che non sta bene soprattutto di cuore, ha bisogno di calma più assoluta (…) . Scrivigli per tranquillizzarlo e incitarlo a vincere la più aspra battaglia» (10).
Finito in mezzo alle lotte intestine del fascismo pisano, nel novembre del 1923 Arnaldo era stato addirittura aggredito alla stazione di Pisa da una squadraccia comandata dal conte Giuseppe Della Gherardesca (11).
Di questo si era immediatamente lamentato con Cesare Rossi. L’aggressione, scrive Arnaldo a Rossi il 10 novembre 1923, non è stata affatto «frutto di uno stato di esaltazione personale» ma della volontà di «costringermi fuori dalla vita pubblica».
Arnaldo riferisce a Rossi che in una riunione della federazione fascista, successiva all’aggressione,

in cui il Gherardesca urgentemente chiamato partecipò, […] si proclamò che io ero un comunista, antitaliano e anti-patriota, e che coloro che mi avevano fatto affronto avevano compiuta opera italianissima, da deplorar semmai per essere stata solo nei limiti di minacce e di ingiurie (…). Fui interventista della primissima ora, partecipai alla manifestazione di Quarto (12) e scoppiata la guerra mi scrissi volontario. Non ho, in coscienza, nulla da rimproverarmi (…) alle accuse di chi, come il Gherardesca fu in quegli anni noto tedescofilo.

Lei mi è testimone – continua la lettera di Arnaldo a Rossi – con quale ardore nel 1921 io, nella circoscrizione di Pisa Lucca Livorno e Massa Carrara, difesi il blocco nazionale ed affermai le ragioni del fascismo, allo stesso modo che nelle sventurate elezioni del 1919, per riaffermare le ragioni della guerra e della patria, fui esposto a tutti gli oltraggi e a tutti gli attentati dei socialcomunisti. Venuto il governo fascista gli ho dato disinteressatamente ed incondizionatamente tutto il mio consenso, fino a partecipare alla commemorazione della marcia su Roma. Della mia devozione per il Presidente non ho bisogno spero neanche di intrattenermi (13).

Primo maggio 1900. Arnaldo saluta il nuovo secolo con la prima pagina de L’Avanti.
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Questo Arnaldo Dello Sbarba del 1923 non era evidentemente più quello «degli anni della sua splendida gioventù», raccontati da Arnaldo Fratini (14) nella sua storia del socialismo volterrano, «che germogliò per la cura, l’ardore e il coraggio con cui lui, insieme ad altri ottimi compagni, volle e seppe coltivarlo». Non era più il battagliero direttore de «Il Martello», uno dei primi giornali del socialismo toscano (15), né il giovane avvocato che nel 1898 aveva difeso, a fianco di Pietro Gori, i lavoratori in sciopero a Campiglia e nel 1900 aveva combattuto per la grazia all’anarchico Cesare Batacchi, rinchiuso nel mastio di Volterra per una bomba mai lanciata (16).
Aveva cambiato rotta: c’era stato l’appoggio alla campagna coloniale di Libia del 1911 (17), l’espulsione dal PSI nel 1912, l’interventismo, la guerra, il “Biennio Rosso” vissuto dalla parte opposta della barricata, all’ombra del liberalismo giolittiano.
Deputato ininterrottamente dal 1911, nei governi di Nitti e Giolitti, Arnaldo era stato sottosegretario alla Giustizia nei mesi insanguinati dall’insorgenza del fascismo. Nel debole governo Facta era stato infine ministro del lavoro, finché la marcia su Roma non aveva mandato tutti a casa. Dopo di che, da deputato, aveva votato per il primo governo Mussolini, usando poi la presenza in parlamento per intessere relazioni nei palazzi del nuovo potere.

Il suo riferimento più importante era diventato Cesare Rossi, che in quell’inizio del 1924 stava lavorando per allargare il consenso al fascismo e farne la spina dorsale di un nuovo stato. La candidatura di un Arnaldo Dello Sbarba, ex ministro dell’era giolittiana, era funzionale a questa strategia.
Così Cesare Rossi si era fatto il regista della candidatura Dello Sbarba nel listone fascista. All’inizio del 1924 aveva ordinato a Luigi Freddi, capo ufficio stampa del PNF, di impedire all’ala intransigente del fascismo pisano di usare il settimanale «L’Idea fascista» per «scocciar l’anima a Dello Sbarba (…) poiché costui (che fra parentesi è molto intelligente e abbastanza ben visto dal Presidente, il quale gli ha anche affidato l’incarico, insieme ad altri due o tre Deputati, di costituire un gruppo di sinistri fascistofili) finirà per essere compreso nel Listone. (…) Io mi riprometto di difenderlo al momento opportuno» (18).
Il tandem Rossi-Freddi aveva anche imbastito una massiccia campagna di stampa per Arnaldo, trainata da «Il Nuovo Giornale» di Athos Gastone Banti e dal «Corriere italiano» di Filippo Filippelli (19).
Per dividere il fronte degli intransigenti, Cesare Rossi aveva mobilitato con un telegramma il principe Piero Ginori Conti (20), proprietario della Boracifera di Larderello e ras dei ras provinciali:

Consiglio inviare senz’altro Presidente Mussolini telegramma in cui si prospettino opportunità positive soprattutto elettorali inclusione Dello Sbarba testimoniando, come per mio conto ho già fatto e farò ancora, il suo contributo [di] affiancatore [del] movimento fascista in varie sue fasi.

Intanto Arnaldo Dello Sbarba stava preparando un promemoria per illustrare i suoi meriti «di affiancatore del fascismo». Nel suo archivio se ne trovano diverse bozze. Un primo schema lo redige Carlo Conti e per Arnaldo rivendica la lotta contro il popolare segretario provinciale del PSI Carlo Cammeo e le manovre messe in atto per destituire, in combutta col prefetto filofascista Renato Malinverno, i “sindaci rossi” Giulio Guelfi di Cascina ed Ersilio Ambrogi di Cecina (21).
Un canovaccio è incaricato di stenderlo anche l’altro segretario, il cavalier Vittorio Fagioli di Marciana Marina, luogotenente di Arnaldo per la provincia di Livorno:

I socialisti ufficiali gli dichiararono guerra implacabile […]. Nelle elezioni del 1919 la campagna bolscevica fu esclusivamente contro l’on. Dello Sbarba, che fu coperto di contumelie come guerrafondaio, indicato all’ira delle folle e in un sobborgo di Pisa gli fu perfino tirato in faccia manciate di sterco e di mota gridando: Eccoti la Patria! (22).

1920, Arnaldo sottosegretario alla Giustizia nel V° governo Giolitti
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Il promemoria definitivo, in terza persona e da spedire a Roma, Arnaldo lo scrive di suo pugno. Nella prima parte ripercorre le prove del suo amor di Patria, già ricordate nella lettera a Cesare Rossi. Poi passa agli esempi concreti, che letti oggi fanno venire i brividi.

Sottosegretario alla giustizia con Giolitti – scrive di sé Arnaldo Dello Sbarba – si batté col noto maestro Cammeo in una elezione provinciale memorabile e difese i fascisti sempre. Avvenuta la uccisione Cammeo (Mussolini ebbe con lui in proposito una corrispondenza telegrafica) procurò la scarcerazione della Rosselli e degli altri accusati (23). Quando, dopo i fatti di Sarzana (24), fu arrestato Santini, andò a Massa per farlo scarcerare. Quando fu ucciso Menichetti (25) in una imboscata comunista a Ponte a Moriano, ne seguì a capo scoperto il feretro.
Ministro del lavoro, parlando in una solenne riunione a Larderello (il senatore Ginori Conti presente e testimone) fece pubblica esaltazione del fascismo. Idem per l’inaugurazione del monumento ai caduti a Bagni di San Giuliano [e] il 26 ottobre 1922 in un pubblico discorso a Casanova di Piemonte […].
Dopo l’avvento del governo fascista, […] si fece sollecito di infondere nelle masse operaie, su cui ha vivo ascendente, il senso di fiducia e disciplina al governo dell’on. Mussolini, che esaltò […] ai metallurgici di Viareggio, ai contadini di Rosignano, agli operai di Ponte a Moriano, ai cavatori di alabastro di Castellina, ai mezzadri di Collesalvetti. […]. Nell’anniversario della Marcia su Roma – a dimostrare che fascismo e nazione si identificano – partecipò ai pubblici cortei (26).
È perseguitato dai ras locali con la scusa che egli ha una mentalità socialista, quella che servì sempre senza infingimenti […] e che anche oggi, per la parte che tende all’elevazione morale e materiale delle classi lavoratrici, non avulse ma integrative dei supremi interessi della Patria, ha il suo più grande interprete in Mussolini e la pratica nei sindacati nazionali fascisti.

La candidatura Dello Sbarba viene discussa a Roma dalle massime cariche del fascismo dal 4 all’11 febbraio 1924. Ne abbiamo sul «Messaggero Toscano» il resoconto di Bruno Santini, presente come segretario del fascio di Pisa, che riferisce di aver dichiarato in diverse riunioni tra il 4 e il 9 febbraio, a Costanzo Ciano, presente Morghen, a Cesare Rossi, alla Pentarchia (la commissione elettorale a cinque) presieduta da Aldo Finzi

che l’on Dello Sbarba aveva forti correnti contrarie nel partito Fascista e una ragguardevole forza sua fuori dal partito, tra tutti coloro che per quindici anni erano stati da lui beneficiati, aiutati, sorretti. Se l’on. Dello Sbarba fosse entrato nella Lista Nazionale del Partito Fascista, questa avrebbe guadagnato voti di molti elementi non fascisti.

Alla seduta decisiva dell’11 febbraio 1924 partecipa Mussolini in persona, che ha l’ultima parola sulle candidature. «Davanti a S.E. Mussolini, presente S.E. De Bono – racconta Santini – ripetei le stesse dichiarazioni. Il Presidente mi lesse alcuni appunti riguardanti l’on. Dello Sbarba, che riflettevano la sua posizione rispetto al Fascismo», e qui Santini cita a memoria la scarcerazione degli assassini di Cammeo, quella dello stesso Santini a Massa e il discorso filo fascista a di San Giuliano Terme. «Altro lesse il Presidente che io non ricordo. Ricordo che le dichiarazioni del Presidente furono esplicite, nette, recise» (27).
Ai vertici fascisti Mussolini aveva letto dunque proprio il promemoria scritto da Arnaldo. E aveva deciso. L’annuncio arriva a Dello Sbarba con un biglietto proveniente dai corridoi della Pentarchia:

Caro Arnaldo, stamani la tua questione è stata decisa favorevolmente. Tu sei stato ammesso come era giusto e doveroso. [La firma è purtroppo indecifrabile].

«Comincia circolare voce tua inclusione, studio affollato, entusiasmo vivissimo» telegrafa Conti ad Arnaldo il 12 febbraio. Il mattino dopo il segretario viene convocato dal prefetto Renato Malinverno, preoccupato della piega presa dagli avvenimenti. Alle 16,30 Conti riferisce ad Arnaldo:

Alle 11:00 sono stato chiamato dal prefetto. Ha cominciato col prospettarmi il pericolo di dimissioni, di astensioni eccetera. L’ho fermato subito su questa strada dicendogli chiaro e tondo che avevo saputo da Dario Lischi (28), tornato stanotte da Roma, le parole chiare e inequivocabili dette dal Duce al Santini: “Dì ai Pisani che Dello Sbarba è nella lista per mio volere e nessuno ce lo toglie, che è anche l’ora di smetterla con i campanili – essendo la lista Nazionale – anche se i campanili sono storti e artistici come quelli di Pisa”.
Il prefetto evidentemente non conosceva questo episodio che gli ha fatto impressione. Allora ho cominciato a parlare descrivendogli la situazione vera, (i grandi consensi eccetera) che è in tuo favore. Quanto a dimissioni, astensioni ecc ., gli ho detto saranno in numero molto ridotto seppur vi saranno. Che in ogni modo si tratterà di qualche capo malinconico e scornato. (…) Che la verità vera è questa: Medoro (29) e gli altri della federazione avevano corso troppo nel farti la guerra e si trovavano perciò impegnati fino al collo (…) per giustificare dinanzi alla Pentarchia la loro imbecillità e creare fantasmi di agitazione.
Poi uscendo gli ho detto: Scusi lei sente di essere il prefetto? Lui mi ha risposto: Ah per questo Le assicuro che io eseguirò e farò rispettare gli ordini! Basta così! Ho la convinzione di averlo lasciato persuaso.

Il 14 febbraio anche la stampa dà la notizia dell’inclusione di Arnaldo nel listone fascista. Ma gli avversari non si sono dati per vinti.
Il 15 febbraio una lettera proveniente da Pisa avverte Dello Sbarba:

Carissimo onorevole, sono arrivati stamani da Roma gli energumeni Carosi, Biscioni, De Guidi, Parenti ed altri che lunedì notte, appena appresa la notizia della sua inclusione nel Listone, partirono per impressionare le direzione del partito. Minacciarono distacco dal Partito ufficiale, costituzione di fasci autonomi, rappresaglie ecc. e secondo quanto essi affermano sarebbero riusciti a persuadere il Direttorio e l’on. Giunta a far pressione presso il Duce per ottenere il loro intento (30).

Il 17 febbraio il segretario provinciale Filippo Morghen – che si era istallato in permanenza a Roma presso l’hotel Continental, a due passi dalla stazione – dirama a tutti i fasci l’ordine di inviare ai vertici nazionali telegrammi contro l’inclusione di Dello Sbarba nel listone.
Morghen ha dalla sua la deliberazione del 2 febbraio della federazione fascista pisana che si era pronunciata per l’esclusione di Dello Sbarba e un’ordine del giorno approvato dall’assemblea dei sindaci fascisti in cui essi «confermano di ritenere Dello Sbarba politicamente non degno di essere compreso nella Lista Nazionale». Se Mussolini lo avesse ciò nonostante inserito, i sindaci fascisti minacciano di dimettersi in massa. E se qualcuno se ne fosse dimenticato, il 18 febbraio ci pensa il sindaco di Collesalvetti Gino Lavelli de Capitani, proprietario di fabbriche nella piana pisana, a spedire a tutti i sindaci una copia della delibera approvata, invitandoli a passare ai fatti (31).

Il 19 febbraio Carlo Conti informa Arnaldo dei metodi adottati dagli intransigenti.

Alla famosa adunanza, molti sindaci non erano presenti e, tolti 3 o 4, gli altri dichiarano che fu loro imposto di votarti contro. A Volterra si vive nel terrore, girano col nerbo per impedire che ti si facciano telegrammi o si faccia il tuo nome. Sono 7 o 8, ma armati, e fanno paura alla gente. Soltanto perché il Quadri fece pubblica dichiarazione di soddisfazione per la tua inclusione, la farmacia ora è guardata dai carabinieri”.

Lo stesso Conti è stato minacciato con un biglietto anonimo: «Diciamo a lei diabolico segretario di smetterla perché prima del suo padrone sarà soppresso». Conti commenta: «Niente po’ po’ di meno! Povero, grande Mussolini, da qual gente è qui rappresentato!».

Il fatto è che il «povero grande Mussolini» ha già fatto marcia indietro, cedendo alle pressioni del fascismo intransigente. Accade così ora nel microcosmo pisano ciò che in grande si ripeterà nel gennaio del ’25, come reazione al delitto Matteotti. Messo di fronte all’alternativa drastica, e rimangiandosi le promesse di moderazione, il duce sceglierà sempre di appoggiarsi all’ala più violenta del fascismo.
Alla sera di quel tormentato 19 febbraio 1924, l’agenzia Stefani batte infine il dispaccio che riporta la versione definitiva della Lista Nazionale per la Toscana. Arnaldo Dello Sbarba non vi compare più.

È successo che per tagliare la testa alle lotte interne, Mussolini ha deciso per la Toscana una lista “fascistissima”, composta di sole camicie nere. Accanto ai 24 nomi scelti dal duce vengono indicate con puntigliosità le cariche fasciste e i meriti di guerra: combattente, decorato, grande invalido e così via. Per Pisa in lista compaiono Guido Buffarini Guidi (32), sindaco e presidente dei combattenti, e Lando Ferretti (33), «ferito in guerra e decorato», entrambi candidati proposti dalla federazione pisana. Non vi compare invece l’uomo che il direttorio aveva proposto come primo: Filippo Morghen. L’eliminazione di Dello Sbarba ha trascinato con sé anche il suo arcinemico – almeno in questo Bruno Santini aveva visto giusto.
Il quale Santini, qualche giorno appresso, si prende pure la soddisfazione di rivelare sulla stampa gli intrallazzi di Morghen, che, mentre scatenava le camicie nere contro Dello Sbarba, dietro le quinte tentava un accordo con il vituperato ex ministro. Santini racconta che, nelle concitate giornate in cui a Roma si discuteva della candidatura Dello Sbarba, Morghen lo aveva fatto contattare da tre suoi uomini della commissione elettorale pisana che gli avevano promesso di «cessare la campagna contro di Lei» in cambio dell’impegno dello stesso Dello Sbarba a sostenere l’ingresso nel Listone «di nomi nostri, designati dalla Federazione» – tra i quali compariva come primo proprio il Morghen (34). È probabile che questo doppio gioco abbia convinto il duce a escludere pure lui dalla lista.

«Che farà ora Dello Sbarba?» si chiede il Messaggero Toscano la mattina del 20 febbraio. Il giornale prospetta due strade: presentare una lista propria, o aderire alla lista “Democratici Sociali” creata da due sue vecchie conoscenze, Mario Supino, avvocato, esponente della “democrazia massonica” di Pisa, e Augusto Mancini (35), filologo e deputato radicale, che di questa «lista parallela» aveva già informato Arnaldo per lettera il 15 febbraio.
In realtà, Arnaldo avrebbe avuto anche una terza opzione: confluire nella “lista bis” in cui Mussolini aveva dirottato in Toscana i tre deputati liberali uscenti, restati anche loro fuori dalla lista “fascistissima”. E cioè il livornese Guido Donegani, presidente della Montecatini, il senese Gino Sarrocchi, liberale della destra salandrina contiguo al fascismo, e l’agrario grossetano Gino Aldi Mai (36). Questa “lista bis” avrebbe pescato nei seggi spettanti all’opposizione, ma era appoggiata dal governo e sarebbe poi confluita nella maggioranza. Teoricamente, l’opzione ideale per Dello Sbarba: garantita nel risultato, indipendente nella forma, fascista nella sostanza. Ma – informava il «Messaggero Toscano» – «i liberali non ne vorranno sapere di Dello Sbarba», ormai sgradito al fascismo locale e temibile concorrente nelle preferenze.

1916, Arnaldo sottotenente nei gruppi di artiglieria avanzata della Val Lagarina a Coni Zugna e Zugna Torta.
(Fondo A. Dello Sbarba Biblioteca Guarnacci di Volterra)

La mattina del 20 febbraio Arnaldo è ancora deciso a non mollare. Solo e arrabbiato nel suo ufficio di deputato a Roma, prende carta e penna e scrive a Mussolini per annunciargli che lui si candiderà comunque.

Caro Presidente, ieri discutendosi in Pentarchia la lista per la Toscana, il mio nome non fu incluso nella lista nazionale, non già perché mi si potesse rimproverare alcuna colpa verso la Patria o verso il Fascismo, ma solo perché tal Morghen, segretario provinciale di Pisa, per risentimenti personali spintisi fino ad una vera e propria caccia all’uomo, ha creato una situazione di grottesco imbottigliamento antisbarbiano che ieri (domandalo al comm. Cesare Rossi) egli non riuscì a giustificare […]. D’altronde io so di non avere demeritato né della Patria né del Fascismo, cui ho dato lealmente consigli e aiuti; so di avere numerosi amici in Toscana, i quali non possono e non vogliono tollerare questa forma di ostruzionismo politico, e quindi, non perché malato di parlamentarismo, ma perché […] devo difendere la mia dignità umana, io vado ad appellarmi al giudizio degli elettori, ai quali chiarirò che […] solo da loro, che mi diedero per 4 legislature il viatico, io posso accettare oggi il congedo dalla vita politica” (37).

Alla sera, però, Arnaldo ci ripensa. Per tutto il giorno ha ricevuto messaggi che lo spingono a più miti consigli. Il fedele e accorto Carlo Conti, già la sera del 19 febbraio, lo ammoniva: «I pochi amici coi quali ho parlato sono poco favorevoli a liste bis o parallele».
La mattina dopo anche Gino Sossi, avvocato, compagno in politica, socio negli affari e marito della sorella Adele, gli aveva scritto:

Non so se tu accetterai di fare parte di una lista parallela, ma il mio avviso è che tu debba accettare se sicuro della riuscita. Se dovessimo fare la lotta delle preferenze con Donegani, Sarrocchi ecc. credo che potremo essere battuti. Perciò sii vigile, l’unica cosa da evitare è di accingersi alla lotta e rimanere a terra.

Anche l’industriale farmaceutico pisano Alfredo Gentili, suo fedele sostenitore, lo metteva in guardia dal candidarsi «nella lista bis, che qui è chiamata la lista dei cani rognosi». Infine, da Pisa gli aveva telegrafato la moglie Maria Ziffo:

Amici interpellati ritengono conveniente tuo disinteressamento eventuale lista liberale perché lotta ridurrebbesi favorire influenti liberali privilegiati [da] centri elettorali industriali.

A sera, dunque, Arnaldo Dello Sbarba si era di nuovo seduto alla scrivania per scrivere una seconda lettera a Mussolini e poi fargliela recapitare subito a mano dal servizio parlamentare. Sono le ultime parole – almeno per ora! – di una lunga carriera politica:

Illustre Presidente – scrive Arnaldo – la situazione di ostilità e di dissenso che si è riacutizzata, in questi giorni, fra fascisti pisani per la cocciuta volontà di alcuni di essi, ingiustamente prevenuti contro di me ed immemori della mia opera sempre onesta e fermamente patriottica anche in ore oscure, che rivendico in pieno, mi decide a rinunciare alla formazione di una lista propria […]. Ma se rinuncio a rientrare in Parlamento, ove le mie forze elettorali mi avrebbero certamente riportato, non intendo disertare il campo della lotta imminente. Perciò, inviterò con pubblico manifesto i miei amici a votare compatti e fervorosi la Lista Nazionale, con l’augurio che gli infatuati miei oppositori non mi impediscano almeno di portare il mio personale disinteressato aiuto alla forte battaglia che tu combatti – con pugno sicuro – per la più grande vittoria dell’Italia.

In soli cinque giorni Arnaldo Dello Sbarba si era giocato la sua carriera politica, e aveva perso.

Qualche settimana dopo lo conforta sua madre da Volterra:

Arnaldino mio – scrive Isola Veroli – non posso descriverti la consolazione. Sapendo la guerra che ti facevano e conoscendo questa gente, avevo sempre paura che ti facessero del male. Anche Bruno mi scrive che è contentissimo della tua decisione, prega e spera che tu non cambi. Mi dici che presto verrai a Volterra. Io non ci credo finché non ti vedo e il desiderio è tanto grande” (38).

Il 4 aprile 1924, alla vigilia di elezioni che a Pisa si sarebbero svolte per la prima volta da vent’anni senza un Dello Sbarba in qualche lista, si fa vivo di nuovo l’amico industriale Alfredo Gentili:

Il governo dovrebbe esserle grato (esiste oggi la gratitudine a Roma?) per il suo atteggiamento. Avremo la possibilità non lontana di vedere un segno della gratitudine mussoliniana per lei?

Gentili allude a quella prossima “infornata di nuovi senatori” per nomina governativa di cui già parlano i giornali (39). Il Duce avrebbe ripescato anche Arnaldo? Amici, sostenitori, segretari, e prima di tutti lui stesso, ci contano.
Le “infornate” arriveranno una dopo l’altra, ma il turno di Arnaldo Dello Sbarba non arriverà più. Al contrario, il fascismo pisano vuole liberarsi definitivamente di lui.
Il 2 gennaio 1925, al culmine della crisi seguita al delitto Matteotti e alla vigilia del discorso con cui Mussolini assumerà in parlamento la responsabilità dell’assassinio (40), un corteo di fascisti furibondi attraversa Pisa come “una colonna di fuoco” (41). Oltre a distruggere il circolo repubblicano e il quotidiano cattolico «Il Messaggero toscano», al grido di “fuori i massoni dal fascismo” i fascisti devastano la loggia massonica, l’abitazione e lo studio del gran maestro Alfredo Pozzolini e l’abitazione e lo studio al Palazzo alla Giornata di Arnaldo Dello Sbarba.
Pochi mesi dopo, Arnaldo deciderà di abbandonare Pisa per Roma: «Ho dovuto constatare scrive al fratello Bruno (42) – che a Pisa non c’è aria per me, e non c’è lavoro».

NOTE:

(1) Arnaldo Dello Sbarba (1873-1958) è stato dalla fine dell‘800 alla prima metà del ‘900 un protagonista della politica in provincia di Pisa (compresa l’area da Rosignano all’Elba). Laureato in Giurisprudenza a Pisa, consigliere in comune a Volterra e poi in provincia, è parlamentare dal 1911 al 1924. Diviene sottosegretario nei governi Nitti e Giolitti (1920-1921) e ministro per il Lavoro nei governi Facta (1922). Naufragata la candidatura nel “Listone” fascista del 1924 e entrato nel mirino dei fascisti, abbandona Pisa per Roma. Fino al 1929 è sottoposto a vigilanza di polizia. Nel 1943 il prefetto della RSI emette contro di lui mandato di cattura. Dopo la Liberazione di Pisa, il 29 dicembre 1944 è ammesso nel CLN provinciale su nomina del neonato “Partito Democratico del Lavoro”, nonostante la decisa opposizione di partigiani e CLN di Volterra che lo accusano di complicità col fascismo. Nel dopoguerra ricopre numerose cariche, tra cui quella di Presidente della Cassa di Risparmio di Pisa e della Domus Galileiana. Cfr. A. Biscioni, Dello Sbarba Arnaldo, in Dizionario biografico degli italiani Treccani, 1990, https://www.treccani.it/enciclopedia/arnaldo-dello-sbarba_(Dizionario-Biografico).
Gran parte delle sue carte sono conservate nel Fondo A. Dello Sbarba nell’archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra (d’ora in poi BGVolterra/FAdS), Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013. Per questo articolo sono stati esaminati inoltre archivi privati ancora inediti, custoditi dalla famiglia (d’ora in poi APAdS), l’Archivio di Stato di Pisa, la Biblioteca Capitolare dell’Arcidiocesi di Pisa, la SMSBiblio di Pisa, la Biblioteca delle Oblate e l’Archivio di Stato di Firenze. Un piccolo “fondo Dello Sbarba” è anche presso l’Archivio centrale dello Stato.
(2) Sulle elezioni del 6 aprile 1924 Cfr. R. De Felice, La legge elettorale maggioritaria e le elezioni politiche del 1924, in Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966. Sulla situazione in Toscana in quel periodo si v. A. Giaconi, La fascistissima: il fascismo in Toscana dalla marcia alla “notte di San Bartolomeo”, Foligno, Il formichiere, 2019.
(3) Cesare Rossi (1887-1967), sindacalista rivoluzionario, interventista, giornalista con Mussolini al «Popolo d’Italia», co-fondatore dei Fasci nel marzo 1919. Mussolini lo incaricò di organizzare la “Ceka fascista” che rapì e uccise Matteotti. Accusato del delitto, in un memoriale indicò Mussolini come mandante. Fu prosciolto in istruttoria. Scappò in Francia, ma fu arrestato nel 1928 e condannato dal Tribunale speciale a diversi anni di carcere e confino. Nel 1947 al nuovo processo Matteotti – in cui chiamò a deporre in suo favore anche Arnaldo Dello Sbarba – venne assolto per insufficienza di prove. Cfr. M. Canali, Cesare Rossi da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1991; M. Franzinelli, Matteotti e Mussolini, Milano, A. Mondadori, 2024.
(4) Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa, 1919-1925, Pisa, Giardini, 1995. La responsabilità delle vecchie élite dominanti nello sviluppo del fascismo (sottovalutazione o condivisione?) è un nodo storiografico fondamentale, oggi particolarmente attuale. Le élite politiche formatesi in epoca liberale stentarono a comprendere la natura del fascismo e che sarebbe diventato il loro “rottamatore”. Ma furono proprio le vecchie classi dirigenti a contribuire a creare, ciascuna corrente a modo suo, il clima favorevole al fascismo e a sostenerlo. Molti liberali lo tennero addirittura a battesimo. Giovani liberali furono tra i fondatori del fascio di Pisa e mantennero a lungo la doppia militanza. Furono originariamente liberali diversi fascisti di spicco qui citati, come Piero Ginori Conti, Costanzo Ciano, o lo stesso Filippo Morghen. C’era poi la composita galassia dei “democratici” (“democrazia massonica” inclusa) che si era candidata nel 1919 nell’”Unione democratica” e nel 1921 nel “Blocco Nazionale”, sempre con capolista Arnaldo Dello Sbarba. La loro convinta campagna interventista per la guerra come compimento del Risorgimento e rigeneratrice dei popoli incontrò il dannunzianesimo prima e il fascismo poi. A Pisa, dove l’interventismo attingeva al mito di Curtatone e Montanara, il fascismo partì da una generazione di studenti-combattenti motivati da una parte del vecchio corpo docente a combattere il “nemico interno” dei neutralisti, degli anti-nazionali, dei socialisti.
Tra gli interventisti democratici, inoltre, i social-riformisti finirono per sottomettere la lotta di classe agli “interessi della Nazione”, tanto più che nei mesi della neutralità italiana il Partito socialista riformista, cui apparteneva Arnaldo Dello Sbarba, puntellò al potere un liberale di destra come Salandra, già orientato all’intervento e sabotatore dei negoziati con l’Austria. Questo composito “radicalismo nazionale”, intriso di polemica antigiolittiana, antisistema e soprattutto antisocialista, pervase buona parte dell’intellighenzia italiana e nel dopoguerra accompagnò consapevolmente l’ascesa del fascismo, condividendone i valori e spesso anche le azioni.
(5) Bruno Santini, nato a Carrara nel 1895, studente di giurisprudenza a Pisa, capitano degli alpini, avvocato. Alla guida della componente ex combattentistica, animata da toni anti-borghesi, diventa segretario del Fascio di Pisa nel dicembre 1920 e guida gli assalti alla sinistra, ai sindacati, alle leghe rosse, ai sindaci socialisti. Entrerà in conflitto col segretario federale Filippo Morghen e dopo alterne vicende verrà espulso e costretto ad lasciare Pisa nel 1925. Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, Pisa e il caso Santini, 1923-1925, Roma, Bonacci, 1983.
(6) Filippo Morghen nasce a Castellina Marittima nel 1882 da una famiglia di incisori e acquafortisti (il nonno Raffaello era al servizio del granduca Ferdinando III). Laureato in giurisprudenza a Pisa, è combattente, avvocato e possidente. Da Filippo Morghen Arnaldo Dello Sbarba aveva acquistato in società col fratello Bruno la cava di alabastro del Marmolajo di Castellina Marittima, dove sindaco era proprio quel Carlo Conti che fu amico, segretario e consigliere di Arnaldo (vedi nota 6). In APAdS sono conservati gli atti di compra-vendita della cava e il relativo carteggio.
(7) Sul “dissidentismo” pisano e il conflitto Santini-Morghen è bene non fermarsi alla semplice dicotomia “normalizzatori contro intransigenti”. C’è infatti da chiedersi quanto di “ideale” ci fosse nei conflitti tra fascisti per i quali, dopo la marcia su Roma, si erano spalancate le porte del potere assoluto. Il controllo del partito consentiva loro di occupare importanti posizioni e ottenere consistenti arricchimenti personali. Più forte del confronto sulle idee, era dunque la lotta per accaparrarsi i rilevanti vantaggi derivanti da un movimento che stava trasformandosi in regime. Vedi i già citati lavori di P. Nello e M. Canali, oltre a M. Mazzoni, Livorno all’ombra del fascio, Firenze, L.S. Olschki, 2009.
(8) Sull’aut aut di Morghen Cfr. il «Messaggero Toscano», 29 febbraio 1924.
(9) Carlo Conti (1879-1943), più volte sindaco di Castellina Marittima ‒ suo feudo politico ‒, amico, segretario particolare e ascoltatissimo consigliere di Arnaldo Dello Sbarba, è stato poeta e giornalista per diverse testate, tra cui: «La nuova Italia», da lui fondato, «La Nazione», «Il Telegrafo», «Il Giornale d’Italia», «Il Ponte di Pisa», «Camicia nera», il giornale della corrente di Santini, di cui era amico. Collaboratore della casa editrice Nistri-Lischi, repubblicano filodemocratico e massone, tentò senza successo di riunificare in un’unica formazione le varie anime della “democrazia massonica” pisana. Nell’aprile 1923 inaugurò il suo terzo mandato da sindaco con un discorso di entusiastico sostegno al governo Mussolini. Cfr. In memoria di Carlo Conti, Lallo, a cura dei giornalisti pisani, Pisa, V. Lischi e figli, 1963, e Discorso di Carlo Conti pronunciato per l’insediamento dell’amministrazione comunale di Castellina Marittima il 20 aprile 1923, Pisa, Nistri-Lischi, 1923, ristampato da Tagete, Pontedera, 2005.
(10) Lettera di Carlo Conti a Bruno Dello Sbarba, fratello minore di Arnaldo, del 24 dicembre 1923 in APAdS.
(11) Giuseppe Della Gherardesca (1876-1968), Conte Palatino, Nobile dei Conti di Donoratico, Patrizio fiorentino, di Pisa e di Volterra, Nobile di Sardegna. Esponente di spicco dell’aristocrazia agraria e del fascismo toscano, dominatore della zona di Castagneto Carducci e Bolgheri. Podestà di Firenze dal 1928 al 1933, Senatore del Regno dal 1929 al 1943, carica da cui decadde nel 1945 in seguito all’epurazione antifascista.
(12) A Quarto il 5 maggio 1915, per il 55° anniversario della spedizione dei Mille, Gabriele D’Annunzio pronunciò, davanti a oltre ventimila persone, un’“orazione” per invocare l’intervento nella guerra contro l’Austria-Ungheria, che ebbe una forte eco e segnò la definitiva egemonia nazionalista sul movimento interventista, agli inizi spinto dall’“interventismo democratico” di personaggi come Leonida Bissolati, compagno di partito di Arnaldo Dello Sbarba.
(13) Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Cesare Rossi del 10 novembre 1923, in BGVolterra/FAdS, Carteggio, b. 4. I documenti citati di seguito, salvo diversa indicazione, si intendono provenienti da questo archivio, stessa posizione.
(14) Arnaldo Fratini (1895-1973) è stato la memoria storica del socialismo a Volterra. Alabastraio, entrato giovanissimo nel PSI, dal 1919 ne fu più volte segretario e consigliere comunale e fu perseguitato dal fascismo. Cfr. A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, «Volterra», dal n. 9 (set. 1969) al n. 11 (nov. 1970).
(15) «Il Martello» venne fondato il 6 ottobre 1894 dal ventunenne Arnaldo Dello Sbarba con Giulio Topi (nel 1920 primo sindaco socialista di Volterra) sull’onda delle lotte contro il governo Crispi. Il giornale dovette chiudere il 13 settembre 1895 avendo collezionato tre processi in 12 mesi.
(16) Cfr. D. Benvenuti, Le cravatte nere, storie degli anarchici a Volterra, Volterra, Distillerie, 2009.
(17) L’appoggio alla conquista della Libia comportò l’espulsione dal PSI (con una mozione promossa da Benito Mussolini) della corrente riformista di Bissolati e Bonomi di cui faceva parte anche Arnaldo Dello Sbarba. Cfr. M. Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori riuniti, 1976, anche I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Milano, Garzanti, 1946.
(18) Cfr. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., p. 55.
(19) Athos Gastone Banti (1881-1959), giornalista “spadaccino” (molte sue polemiche finivano in duello) fu amico e sostenitore di Arnaldo Dello Sbarba. Redattore capo del «Telegrafo», corrispondente di guerra per il «Giornale d’Italia», dal 1919 al «Nuovo Giornale» di Firenze, organo ufficioso degli ambienti massonici, la cui sede venne data alle fiamme nel 1924 dai fascisti. In seguito Banti torna al «Giornale d’Italia», ma finisce nei guai con Mussolini per un articolo sul caffè bevuto dal Duce in tempi d’autarchia. Nel dopoguerra fonda e dirige «Il Tirreno» di Livorno fino al 1957. Filippo Filippelli (1890-1961), fascista della prima ora, giornalista dal 1920 al «Popolo d’Italia», nel 1922 diventa segretario di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Nell’aprile 1923 è azionista, amministratore delegato e direttore del «Corriere Italiano», creato dai vertici fascisti con fondi messi a disposizione da gruppi industriali come Ansaldo, Eridania, Ilva, Fiat ecc. Il giornale funzionava anche come collettore di finanziamenti occulti gestiti da Arnaldo Mussolini per il fascismo e per la stessa famiglia Mussolini. Filippelli fornì a Amerigo Dumini (per il «Corriere italiano» ispettore delle vendite) la Lancia con cui Matteotti venne rapito ed ucciso. Ricercato, rivelò in un memoriale l’esistenza della “Ceka del Viminale”, comandata da Dumini. Venne arrestato il 17 giugno 1924 e due giorni dopo il giornale cessò le pubblicazioni. A proposito di fondi, nell’archivio Arnaldo Dello Sbarba (BGVolterra/FAdS, carteggio, b. 4) esistono le lettere indirizzate ad Arnaldo, firmate dal direttore dello stabilimento Solvay di Rosignano, che accompagnano quattro assegni di £ 5.000 ciascuno emessi dalla Solvay a favore dei due giornalisti: due intestati a Filippelli datati 22 febbraio e 27 marzo 1924, due intestati a Banti datati 14 aprile e 7 maggio 1924. Arnaldo fa da intermediario tra la Solvay e i beneficiari.
(20) Piero Ginori Conti (1865-1939), Principe di Trevignano, conte palatino, nobile romano, patrizio di Firenze e di Pisa e nobile di Livorno. Parlamentare dal 1900 al 1921. Sposa Adriana del Larderel e ne eredita le proprietà. Alla guida della Società Boracifera Larderello, inventa lo sfruttamento della geotermia per produrre elettricità. Crea il primo fascio fuori dalla città di Pisa e stronca così lo sciopero del 1920 alla Boracifera, imponendo l’eliminazione di molti diritti, licenziamenti di massa e successivamente l’obbligo di iscrizione al PNF per i dipendenti. Sostenitore di Mussolini, alla sua morte il fascismo lo celebra con funerali di Stato. Cfr. il volume apologetico di R. Martinelli, Il fascismo a Larderello, Firenze, Sansoni, 1934. Inoltre, M. Fontani e M. G. Costa, Come la chimica Toscana si prostrò di fronte al fascismo: il caso di Piero Ginori Conti, https://chimicanellascuola.it/index.php/cns/article/view/chimica-toscana-fascismo-il-caso-piero-ginori-conti/65
(21) Promemoria Carlo Conti, due pagine scritte a mano: “Chiedere chi, a proposito di sindaci rossi, aiutò il Comune di Cascina a liberarsi del famigerato sindaco Guelfi, insistendo presso l’autorità governativa e giudiziaria perché promuovessero un’inchiesta amministrativa contabile prima, la procedura penale poi? Il prefetto Malinverno dirà che tutta questa opera fu compiuta dall’onorevole Dello Sbarba (…)”. Su Giulio Guelfi (1888-1939) Cfr. Massimiliano Bacchiet, “Guelfi Giulio” in ToscanaNovecento: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16235-guelfi-giulio?i=12. Renato Malinverno fu prefetto filofascista di Pisa dal 1° settembre 1921 al 14 aprile 1924.
(22) Promemoria Fagioli: sette pagine scritte a mano intestate Camera dei Deputati. “Si venne alle elezioni del 1921 e Dello Sbarba fu accolto come capo del Blocco Nazionale (…). In quell’occasione corse tutta la circoscrizione, parlando patriotticamente ed esaltando le nuove correnti del fascismo (…). A Volterra, dove nel 1919 i bolscevichi avevano proibito a Dello Sbarba l’entrata, egli fu ricevuto trionfalmente da cortei capitanati dai fascisti Pedani, Maffei ecc. (…)”. Paolo Pedani era ispettore della zona di Volterra, Gherardo Maffei segretario del fascio di Volterra e commerciante di alabastro. Nel 1924 entrambi furono protagonisti della campagna contro la candidatura Dello Sbarba.
(23) Il commando fascista che uccise Carlo Cammeo era composto dallo studente Elio Meucci, da Mary Rosselli-Nissim, figlia di un patriota mazziniano e fanatica attivista interventista durante la Prima guerra mondiale, e da Giulia Lupetti, figlia del comandante del presidio militare di Pisa. Cfr. Massimiliano Bacchiet, Un’ora di dolore per il proletariato pisano, in ToscanaNovecento: https://www.toscananovecento.it/custom_type/unora-di-dolore-per-il-proletariato-pisano/
(24) Il 21 luglio 1921, Sarzana fu attaccata da una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini, ma stavolta furono affrontati da Carabinieri e Guardie regie, cui seguì la resistenza antifascista spontanea della popolazione e degli Arditi del Popolo. Fu uno dei pochi episodi di resistenza armata ai fascisti, che ebbero diversi morti e feriti e molti arrestati.
(25) Tito Menichetti, giovane fascista ex ufficiale, fu ucciso il 25 marzo 1921 durante una spedizione punitiva a Ponte a Moriano e celebrato come il “primo martire” del fascismo pisano. I Fasci organizzarono i suoi solenni funerali cui parteciparono tutte le istituzioni. L’Università accolse il feretro in Sapienza con la partecipazione del senato accademico oltre che del Rettore Ermanno Pinzani, che poi, sugli studenti universitari fascisti caduti nel 1921, così scrisse : Nell’anno scolastico testé decorso (…) quei martiri (…) hanno offerto la loro vita giovanile, preziosa e piena di entusiasmi in olocausto ai santi ideali di patria, giustizia e libertà”. Cfr. E. Pinzani, Inaugurazione degli studi. Relazione del Rettore, «Annuario della R. Università di Pisa per l’Anno Accademico 1921/1922», Pisa, Tip. Mariotti, 1922, p. 24.
(26) Nel corteo che attraversa “una città imbandierata”, Arnaldo Dello Sbarba è in prima fila insieme al sindaco Buffarini Guidi, al prefetto Malinverno, al senatore Supino e al deputato Ruschi. Cfr. «Messaggero toscano», 29 ottobre 1923.
(27) Cfr. «Messaggero Toscano», 21 febbraio 1924.
(28) Dario Lischi “Darioski” (1891-1938), giornalista, colonna dell’«Idea fascista», organo della federazione fascista pisana, del cui consiglio federale fu più volte membro, autore di numerosi libri, tra cui La marcia su Roma con la colonna Lamarmora (1923), Viaggio di un cronista fascista in Cirenaica (1934) e Tripolitania Felix (1937). Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo…, cit., p. 136.
(29) “Medoro” nomignolo dato dai pisani a Filippo Morghen a causa delle sue traversie coniugali. Ispirato alle vicende di Angelica nell’Orlando Furioso.
(30) Sandro Carosi (1899-1965), uomo di fiducia di Morghen, era farmacista e sindaco di Vecchiano, definito dal prefetto Malinverno «uno squilibrato per temperamento violento». Tra gli altri, uccide a freddo il tipografo Ugo Rindi l’8 aprile del 1924. Ebbe il compito di minacciare ripetutamente Arnaldo Dello Sbarba. Giuseppe Biscioni, “ras” di Calci, partecipò all’assassinio Rindi. Daniele De Guidi era il “ras” di Rosignano Marittimo. Lamberto Parenti era squadrista a Cascina e Navacchio. Francesco Giunta (1887-1971), segretario del PNF dal 1923 al 1924 e parlamentare dal 1921 al 1943, fu il persecutore della minoranza slovena di Trieste. Nel 1945 la Jugoslavia lo dichiarò criminale di guerra, ma l’Italia non concesse l’estradizione.
(31) L’ordine del giorno dei sindaci e la lettera del sindaco di Collesalvetti viene spedita da Carlo Conti ad Arnaldo il 19 febbraio 1924.
(32) Guido Buffarini Guidi (1895-1945), laureato in Giurisprudenza, volontario nella Prima guerra mondiale, massone nella loggia Darwin di Pisa. Avvocato e sindaco fascista di Pisa dove fu anche podestà e federale, membro del Gran consiglio del fascismo, sottosegretario agli interni (1933-1943), fu ministro dell’Interno nella Repubblica Sociale Italiana e corresponsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Venne fucilato dai partigiani il 10 luglio 1945.
(33) Lando Ferretti (1895-1977), combattente di due guerre, capo-corso alla scuola Normale di Pisa, deputato fascista dal 1924 al 1939. Dirigente sportivo, in era fascista fu presidente del CONI e commissario della Federazione italiana gioco calcio. Nel 1942 tenne una conferenza a Firenze nel 1942 indicando “il comune nemico nel trinomio giudaismo, plutocrazia, bolscevismo” e proponendo la ghettizzazione degli ebrei. Nel dopoguerra fu a lungo senatore del MSI (1953-1968) e membro del comitato organizzatore delle olimpiadi di Roma del 1960.
(34) Cfr «Il Messaggero Toscano» del 21 febbraio 1924.
(35) Mario Supino (1879-1938), avvocato, collega e amico di Arnaldo, già dirigente dell’Associazione nazionale combattenti di Pisa, per conto della massoneria si candidò alle elezioni politiche del 1924 nella lista democratico sociale, con scarso successo. Augusto Mancini (1875-1957) fu docente di filologia all’università di Pisa. Interventista, deputato repubblicano dal 1913 al 1924. Primo presidente del CLN di Lucca e primo rettore dell’università di Pisa liberamente eletto.
(36) Guido Donegani (1877-1947) fu presidente della società Montecatini, deputato del partito fascista dal 1921 al 1939, massone. Nel 1921 era stato eletto con Arnaldo Dello Sbarba nella lista dei “Blocchi Nazionali”. Gino Sarrocchi (1870-1950), deputato della destra liberale dal 1913 al 1929, ministro ai Lavori pubblici del primo governo Mussolini, si dimise dopo il delitto Matteotti. Nel 1929 fu nominato senatore. Dopo il 25 luglio 1943 si ritirò a vita privata. Gino Aldi Mai (1877-1940) eletto deputato a Siena in una lista agraria-liberale che poi confluisce nel PNF, rieletto dal 1924 al 1934, poi nominato senatore.
(37) APAdS, minuta a mano di 15 pagine in piccolo formato intestate “Camera dei Deputati”.
(38) In APAdS.
(39) Cfr. «La Nazione» del 17 giugno 1924, che cita indiscrezioni su possibili nomi.
(40) Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, cit., cap. 7: Dal delitto Matteotti al discorso del 3 gennaio.
(41) Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., pp. 80-83.
(42) Lettera del 26 agosto 1925, in APAdS.

Riccardo Dello Sbarba
Volterra, 1954. Laureato in filosofia a Pisa, docente di ruolo, giornalista professionista. Fin da giovanissimo partecipa ai movimenti degli studenti medi e universitari, milita nel gruppo del “Manifesto” di Pisa e scrive corrispondenze per il quotidiano. Dal 1986 al 1988 è nominato dalla Regione Toscana nel CdA del Parco di S. Rossore. Collabora con «Il Tirreno». Nel 1988 si trasferisce a Bolzano, dove lavora al quotidiano «Alto Adige» fino al 1992, al settimanale in lingua tedesca «ff» fino al 2001 e dirige il quotidiano «Il Mattino» fino al 2003. Cura il volume: Alexander Langer, Scritti sul Sudtirolo – Aufsätze zu Südtirol, Merano, A&B, 1996 ed è autore di: Südtirol-Italia: Il calicanto di Magnago e altre storie, Trento, Il Margine, 2003. Per quattro legislature, dal 2004 al 2023, è consigliere per i Verdi del Sudtirolo nel Consiglio provinciale di Bolzano, di cui è stato presidente dal 2006 al 2008. Collabora alla Biblioteca F. Serantini su temi inerenti la storia politica e sociale della provincia di Pisa.




LE CASE DEL POPOLO TOSCANE NELLA TORMENTA FASCISTA

Le fiamme che han distrutto le Case del popolo sono state l’inizio
d’un vasto incendio che minaccia di dar fuoco all’Europa.
(Angelo Tasca, 1938)

Non è certo un caso che, fra il 1920 e il 1923, anche in Toscana il primo obiettivo delle spedizioni fasciste, quasi sempre supportate dalle forze dell’ordine, furono le Case del popolo, costruite su iniziativa e con l’opera diretta dei lavoratori. Esse, infatti, dall’inizio del secolo rappresentavano, nelle città e forse ancor di più nelle campagne, un importante punto di riferimento per la socialità delle comunità locali e per le lotte della classe lavoratrice.
Le Case del popolo erano invise alla reazione filo-padronale in quanto offrivano occasioni di solidarietà e aggregazione sociale, alternative a quelle dell’osteria e della parrocchia. Al termine della giornata lavorativa e alla domenica, i lavoratori e le lavoratrici vi trovavano, oltre alla mescita, biblioteche popolari, spazi per pranzi sociali, feste, spettacoli, canto e ballo. Inoltre, vi si tenevano riunioni, inaugurazioni di bandiere dei sodalizi proletari e conferenze; talvolta erano anche sede delle Leghe operaie o bracciantili e, in qualche caso, della locale Camera del Lavoro.
Significativo il ritratto scritto dal repubblicano fiorentino Augusto Borchi nel 1921:

le case del popolo sono divenute oltre che i centri della mutualità soprattutto i centri della cultura e della educazione proletaria. Aggredirle costituisce dunque il peggiore dei delitti. Le case del popolo sono luoghi sacri e inviolabili poiché sono il simbolo di una fede che sopravanza le competizioni di potere. Davanti a esse si inchinino tutti gli uomini di onore e chi osa dichiararsi solidale con gli assassini di tali istituzioni sappia che egli non si qualifica soltanto un avversario del popolo ma anche e soprattutto un nemico della civiltà .

In tale ambiente, potevano quindi incontrarsi e confrontarsi lavoratori e lavoratrici di diverse categorie, così come aderenti alle rispettive tendenze politiche (sindacalisti, socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti o senza partito), anche se talvolta la convivenza poteva essere problematica:

La scissione di Livorno, seguita in Empoli da gravi defezioni tra i socialisti, e perciò anche da una perdita di prestigio dei socialisti stessi nelle organizzazioni economiche, creò uno stato di tensione gravissima fra socialisti e comunisti. I socialisti empolesi, riunitisi dopo la scissione, decretarono immediatamente lo sfratto ai «secessionisti», sistematisi in due stanze della Casa del Popolo; per tutta risposta la «Guardia Rossa», passata armi, bagagli e bandiera ai comunisti, occupava la Casa del Popolo vietando il passo ai socialisti. Il dissidio in merito ai locali fu risolto con un accordo, che prevedeva l’uso del primo piano da parte dei socialisti e del secondo piano da parte dei comunisti .

Sin dal 1920 si registrarono le prime spedizioni fasciste contro le Case del popolo (talvolta denominate Case dei lavoratori, degli operai o del proletariato), ma fu soprattutto a partire dagli inizi del 1921 che furono sistematicamente assaltate e distrutte, così come le sedi di altri organismi associativi del movimento operaio e bracciantile quali Camere del lavoro, Società operaie di mutuo soccorso, Cooperative di consumo, Circoli libertari di studi sociali, Circoli socialisti di cultura, Circoli repubblicani e pure cattolici, Biblioteche e Teatri popolari: le distruzioni erano pressoché quotidiane ed estese ad ogni territorio, con centinaia di strutture rese inagibili, saccheggiate o date alle fiamme, con numerose vittime.
Solo nel primo semestre del 1921, secondo i dati forniti dallo storico fascista Chiurco, e ritenuti incompleti da Angelo Tasca, risultano distrutte dagli squadristi almeno 59 Case del popolo, così come 100 Circoli di cultura, 10 Biblioteche popolari e teatri, 53 Circoli operai e ricreativi.
Nelle stesse testimonianze degli squadristi vi si trova puntuale resoconto, come ad esempio nel diario dello studente Mario Piazzesi della Disperata di Firenze che vanta la “baldanza” nel devastare, senza difficoltà, molte Case del popolo durante le scorrerie per le campagne toscane e umbre.

CANNONATE CONTRO LE CASE DEL POPOLO

A copertura delle squadre “tricolorate” dei fascisti e dei nazionalisti vi era l’immancabile presenza di carabinieri, guardie regie e anche reparti del Regio esercito. Tale alleanza, in taluni casi, comportò persino l’impiego dell’artiglieria per espugnare alcune Case del popolo, come avvenuto a Siena il 4 marzo 1921 e a Casale Monferrato (AL) due giorni dopo. Analogamente, a Scandicci (FI) il 3 marzo era stata attaccata con mitragliatrici e un cannone da 75 mm. la sede della Società di Mutuo Soccorso costruita nel 1883 da operai, contadini, artigiani ed ex-garibaldini.
L’attacco del marzo 1921 alla Casa del popolo senese (che ospitava anche la Camera del Lavoro) fu sicuramente fra i più gravi. Per vincere la resistenza armata dei lavoratori che la difendevano, i fascisti ebbero bisogno dell’intervento dei carabinieri, affiancati da 200 soldati con due cannoni da 65 mm., mitragliatrici piazzate in piazza del Monte dei Paschi e due autoblindo. Contro la Casa del popolo furono lanciate bombe a mano, sparate alcune cannonate e almeno duemila colpi di fucile. Dopo la resa, i locali vennero incendiati con la benzina fornita dal Consorzio agrario; seguirono circa 80 arresti e violente rappresaglie. Questa la cronaca, pubblicata sull’«Avanti!» del 25 settembre 1921 (Dalla Toscana insanguinata):

Il segretario della Casa del Popolo [recte: Camera del Lavoro], Giulio Cavina, ora deputato [socialista], fu scovato nel suo ufficio a notte inoltrata e dopo che il cannone aveva operato una breccia nel muro dell’edificio operaio. Fu trascinato da basso, sotto i portici, percosso a sangue da tutti: i più feroci erano i carabinieri e gli ufficiali del Presidio. Quattro soldati, con baionetta inastata, furono messi alla sua guardia […] Intanto tutti gli ufficiali del Presidio, guidati dal capitano dei carabinieri Lucatelli, sfilarono davanti al Cavina strappandogli i peli della barba e schiaffeggiandolo. In breve […] fu tutto pesto e grondante di sangue e chiese un bicchiere d’acqua. Il capitano Lucatelli ed altri ufficiali dettero ordine che nessuno portasse l’acqua richiesta […] tutti i soldati e i carabinieri si dettero a bere il vino e i liquori presi nelle cantine della Casa del Popolo davanti al Cavina. Anche il capitano medico del Distretto, anziché curarlo […] si dette a dileggiarlo.

Il drammatico assedio sarebbe stato rievocato anche in versi dall’anarchica Virgilia D’Andrea nel 1922 :

Udite, udite, o miei compagni, a Siena
Città dolce e gentil romba il cannone.
Sessanta petti han fatto una catena
E d’ansia è la difesa e di passione.

Ma la bocca di fuoco arde sui volti
E s’apre un varco ne la Casa rossa:
Escono, i vinti, màdidi e sconvolti
E cadon, muti, su la terra smossa.

La difesa armata degli organismi e delle sedi del movimento d’emancipazione sociale rappresentò comunque un fatto abbastanza sporadico; si trattava infatti di una lotta impari non solo sul piano tattico, ma finanche su quello psicologico, come significativamente osservato da Angelo Tasca:

I lavoratori, al contrario, si agglomerano intorno alla loro Casa del popolo […] La Casa del popolo, la Camera del lavoro, sono il frutto dei sacrifici di due o tre generazioni, tutto il loro «capitale», la prova concreta del cammino compiuto dalla loro classe, e il simbolo ideale dell’avvenire sperato. I lavoratori vi sono affezionati, ed esitano, per istinto, a servirsene come se si trattasse di un semplice materiale di guerra.
Non si trasforma facilmente una casa in fortezza, se si tiene alla casa […] Per i fascisti la Casa del popolo non è che un bersaglio. Quando le fiamme si elevano da queste belle costruzioni, il cuore degli operai è straziato, invaso da una cupa disperazione, quasi paralizzato dall’orrore, mentre gli assalitori alzano grida selvagge di gioia. Di queste oasi di socialismo che coprono quasi tutta la pianura del Po, non resta più, alla fine della guerra civile, che un cupo deserto.

Pur essendo nate con spirito umanitario e di civile convivenza, le Case del popolo in numerose situazioni divennero comunque la sede ospitale e solidale per le prime organizzazioni unitarie dell’antifascismo militante, come avvenne ad Empoli dove, fin dal gennaio 1920, le ex-Guardie rosse costituirono, nella locale Casa del popolo, un corpo volontario armato per l’azione antifascista, mentre presso la Casa del popolo di Borgo Vittoria, a Torino, nel gennaio 1921, si riuniva la Federazione dei gruppi d’azione diretta rivoluzionaria, emanazione dell’USI (Unione sindacale italiana), con intenti sia difensivi che offensivi; altresì, sempre nel torinese, in alcune Case del popolo si organizzarono le squadre comuniste, come ad esempio, quella di Condove di Susa strettamente sorvegliata dalla polizia.
In seguito, dopo la loro comparsa a fine giugno 1921, gli Arditi del popolo difesero le Case del popolo e da queste furono accolti, così come ebbe a dichiarare Argo Secondari, loro fondatore:

fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando continueranno la guerra fratricida, gli Arditi d’Italia non potranno avere con loro nulla in comune. Un solco profondo di sangue e macerie fumanti divide fascisti ed Arditi.

Ad Ancona la sezione ardito-popolare si costituì presso la Casa del proletariato e a Roma la sede centrale degli Arditi del popolo fu la Casa del popolo in via Capo d’Africa; tanto che, in un’intervista a Secondari, pubblicata su «L’Ordine nuovo» del 12 luglio 1921, si poteva leggere il seguente commento:

Il tenente Secondari risponde alle mie domande con molta cordialità, ma anche con grande impazienza. Giungono ogni tanto dalla periferia dei giovani operai Arditi, che portano notizie, chiedono informazioni, ordini. Questa sera ha luogo una riunione di capi-centuria alla Casa del Popolo. È perfettamente naturale che gli «Arditi del popolo» si riuniscano alla Casa del Popolo.

Con l’avvento del regime fascista e in particolare nel 1923 – l’anno della grande repressione contro l’antifascismo – le poche Case del popolo superstiti furono chiuse d’autorità e requisite per essere destinate a Casa del Fascio o sedi rionali del Fascio, così come previsto dal Decreto Legge che nel 1924 impose lo scioglimento delle S.M.S. e delle associazioni similari. In questo modo, ad esempio, a le Case del popolo di Siena e Settignano (FI) divennero Case del Fascio, così come a Colle Val d’Elsa, dove la Casa del popolo e il modernissimo Teatro del popolo furono soppiantati rispettivamente dalla Casa del Fascio e dal Teatro del Littorio, mentre a Piombino la Casa del popolo diventò Casa d’Italia, nonché sede del Fascio (oggi Commissariato di Polizia).
In molte località della Toscana, per finanziare le Case del Fascio, i lavoratori, le operaie e i contadini furono inoltre costretti a versare contributi in denaro, acquistare azioni o prestare manodopera gratuita, onde evitare ritorsioni.
Parallelamente ai decreti prefettizi di scioglimento e alle chiusure violente di Case del popolo e S.M.S., i Fasci usavano convocare i consiglieri e i responsabili di queste esperienze di democrazia proletaria, così come di quelle indipendenti, per indurli, sotto minaccia, a rassegnare le dimissioni. L’associazionismo democratico fu quindi del tutto soppiantato dalle strutture dell’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita con il Decreto legge n. 582 (significativamente datato 1° maggio 1925).
Il Dopolavoro operava, dichiaratamente, come organo di propaganda del regime, nel tentativo di affermare una propria politica sociale fra i lavoratori e i ceti popolari, attraverso paternalismo padronale e assistenzialismo demagogico, che ne confermava la subalternità. Nonostante una certa espansione, i Dopolavoro aziendali e Statali rimasero comunque – a differenza delle Case del popolo – istituzioni imposte e gestite dall’alto, in cui il «libero pensiero» era soppresso dal «clima spirituale della rivoluzione fascista».

IL PRIMO ASSALTO, LA PRIMA VITTIMA

Il primo assalto fascista ad una Casa del popolo in Toscana vide anche la morte di un suo difensore: il diciottenne Enrico Lachi (Monteriggioni 29 luglio 1902 – Siena 11 marzo 1920), figlio di Giulio e Giulia Pagni.
Nato in località Poggiolo (Fontesdevoli), la sua numerosa famiglia si era trasferita a Siena quando aveva quattro anni, in via Fiorentina 88. Giovanissimo, aveva iniziato a lavorare come operaio avventizio delle Ferrovie, subito attivo sul piano sindacale e politico, iscrivendosi al Fascio giovanile socialista “Andrea Costa” e partecipando allo sciopero ferroviario del gennaio 1920.
Quel 7 marzo 1920 si trovava in prima fila a difendere la sede della Casa del popolo di Siena, costruita e inaugurata nel 1905 con il determinante contributo della Banca Cooperativa Ferroviaria e su iniziativa di ferrovieri e tipografi. L’edificio, in via Pianigiani, ospitava anche la locale Camera del lavoro e comprendeva una Biblioteca popolare, un Teatro, un Caffè e altre attività commerciali.

Il 7 marzo 1920, approfittando di un corteo di protesta di ex-combattenti, i fascisti riuscirono a farlo parzialmente deviare verso la Casa del popolo, simbolicamente presidiata dai carabinieri. Infatti, i fascisti – armati – poterono vandalizzare i locali del Caffè, mentre i carabinieri bloccavano i pochi lavoratori schierati a difesa della Casa del popolo. In questa fase, in piazza della Posta, un appuntato dei carabinieri sparò con la rivoltella colpendo Enrico Lachi che stava affrontando un fascista. Soccorso all’interno del Caffè e subito trasportato all’Ospedale civico, Lachi sarebbe morto alle 0.45 dell’11 marzo, dopo giorni di sofferenze.

Contro le violenze dei fascisti e dei carabinieri, subito iniziò uno sciopero prima spontaneo e poi proclamato unitariamente dalla Camera del lavoro, dalla Sezione socialista, dal Circolo giovanile socialista, dal Circolo anarchico Germinal e dalla Federazione socialista. Lo sciopero risultò generalizzato e al comizio, tenutosi la sera dell’8 marzo, in piazza Umberto I (ora piazza Matteotti), intervennero gli onorevoli Grilli e Bisogni; il segretario della Camera del lavoro. Giulio Cavina; Meini per il Partito socialista e Guglielmo Boldrini per gli anarchici: comune fu l’accusa contro, oltre ai fascisti, tutte le autorità, di cui chieste le dimissioni. I funerali di Lacchi si svolsero sabato 13 marzo, con la partecipazione di quindicimila persone. Sin dalla sera precedente la sua salma era stata esposta presso il Circolo di Cultura della Casa del popolo. Tra le tante corone risaltava una con la dedica «Alla vittima del piombo regio. Le donne del popolo». Inoltre vi erano quelle del Personale di Macchina e Depositi Locomotive, del Personale Viaggiante, dei compagni di lavoro dell’Officina ferroviaria, dei Soci della Pubblica Assistenza. L’ultimo saluto fu affidato a Bisogni per i socialisti, a Boldrini per gli anarchici e a Carlucci per i giovani socialisti. Nei giorni seguenti gli Operai delle officine ferroviarie inviarono una lettera pubblica al dirigente reclamando spiegazioni sul licenziamento di Lachi l’indomani del suo mortale ferimento.
La sua tomba si trova ancora al cimitero del Laterino, appena dietro la cappella centrale.

La Casa del popolo di Siena avrebbe subito altri tre assalti: il 4 maggio 1920, il 4 marzo 1921 e il 23 maggio 1921; nel 1923, dopo l’avvento del fascismo, fu estorta e trasformata in Casa del Fascio. Dato che, dopo le devastazioni, l’edificio necessitava di lavori di ristrutturazione, la Casa del Fascio contrasse un mutuo con il Monte dei Paschi, ma il debito non sarebbe mai stato onorato. Per recuperare il danno, la Banca acquisì gli immobili gravati da ipoteca, e contemporaneamente acquistò Palazzo Ciacci, in via Malavolti, donandolo nel 1936 alla Federazione fascista. Quella che era stata la Casa del popolo venne quindi venduta al Consorzio Agrario a un prezzo irrisorio. Il Partito fascista mantenne la propria sede a Palazzo Ciacci sino alla fine; fu qui la famigerata Casermetta in cui, nel periodo della Repubblica Sociale, centinaia di oppositori al regime, ebrei e partigiani senesi furono imprigionati, interrogati e torturati.

Anche dopo la Liberazione, la Casa del popolo non venne mai restituita ai lavoratori senesi, e tutt’ora è sede del Consorzio Agrario; a Enrico Lachi, invece, è stata dedicata una piazza del quartiere senese di Petriccio.

 




UNA COSPIRAZIONE IN MARE APERTO.

Fra le diverse ricorrenze dell’Undici settembre (Strage nel carcere di Attica, 1971; Golpe in Cile, 1973; Attacco alle Twin Towers, 2001), ve ne è una che appartiene alla storia dell’antifascismo in Italia, ossia l’attentato politico compiuto da Gino Lucetti contro Benito Mussolini, appunto l’11 settembre 1926. «Della serie di attentati che punteggiarono la soppressione delle libertà italiane – come sottolineò lo storico “azionista” Aldo Garosci – esso fu quello in cui si espresse la più lucida e chiara volontà politica».

Il mancato tirannicida, una volta catturato, davanti agli inquirenti si era proclamato «anarchico individualista», onde evitare conseguenze per altri; ma, in contrasto con l’interpretazione in chiave solipsistica del suo gesto, risulta ormai appurata l’esistenza di una rete cospirativa con condivise finalità che vedeva il coinvolgimento, a diversi livelli, di anarchici di differente tendenza, ex-arditi del popolo e antifascisti “d’azione”. Meno conosciuta ed indagata rimane invece la decisiva riunione tenutasi segretamente un anno prima dell’attentato a Livorno dove, come le autorità non ignoravano, erano attivi imbarchi e collegamenti clandestini.

Infatti, secondo la testimonianza dell’anarchico carrarino – poi comandante partigiano – Ugo Mazzucchelli (1903-1997), avvalorata dallo storico Gino Cerrito, nell’estate del 1925 a Livorno vi era stata una riunione clandestina, a bordo di un barcone in mare aperto, a cui presero parte, oltre a Lucetti e a Mazzucchelli, gli anarchici livornesi Augusto Consani e Virgilio Recchi, già organizzatori del Battaglione degli Arditi del popolo, nonchè due minatori anarchici di San Giovanni Valdarno e qualche altro militante non identificato[1]. Lucetti era infatti rientrato clandestinamente da Marsiglia, dove era espatriato alla fine del 1922 intessendo rapporti con gli ambienti più risoluti del “fuoriuscitismo” antifascista. Da quanto si può dedurre e come confermato dal militante anarchico Piero Di Pietro, in questa riunione, preceduta da altri incontri nel carrarese, era stato deciso e delineato un piano operativo per l’eliminazione fisica di Mussolini, oltre a concertare conseguenti sollevazioni contro il regime. Infatti, dopo la mancata insurrezione a seguito del delitto Matteotti e il fallimento della politica aventiniana, «ogni transazione [era] divenuta impossibile».
Lucetti, anarchico d’azione, era eticamente determinato ad attentare alla vita del duce sin dal dicembre 1922, a seguito della strage operaia di Torino, e già nel gennaio-febbraio 1923 si era recato a Roma per verificarne l’attuazione- Il progetto dovette però essere rinviato in quanto Lucetti rimase coinvolto e ferito in una sparatoria con i fascisti ad Avenza, presso il caffè Napoleone in piazza Rivellino, avvenuta nella notte fra il 25 e il 26 settembre 1925. Ricercato dai fascisti e dalla polizia, dovette quindi nascondersi e l’11 ottobre imbarcarsi come “clandestino” su un naviglio per il trasporto di marmo diretto a Marsiglia[2].

L’ANARCHICO ARDITO

Gino Lucetti era nato ad Avenza, frazione del comune di Carrara (MS), il 31 agosto 1900, da Filippo e Adele Crudeli[3]. Dopo aver studiato sino alla VI classe elementare, aveva iniziato a lavorare in cava, divenendo un lizzatore, ossia addetto al faticoso e pericoloso spostamento dei blocchi di marmo. In gioventù era stato vicino agli ideali repubblicani, peraltro non in contraddizione con quelli libertari[4].
Secondo quanto si può dedurre dal confuso Foglio matricolare n. 17822, il 24 marzo 1918 era stato chiamato sotto le armi e, al 2 luglio seguente, risultava «giunto in territorio dichiarato in stato di guerra» ed assegnato come autiere al 2° Reparto d’Assalto di Marcia che, alla vigilia della battaglia finale di Vittorio Veneto, si trovava dislocato nel trevigiano, fra Pederobba e Palazzon. Probabilmente non aveva preso parte a combattimenti, ma dopo l’attentato a Mussolini, la circostanza d’aver comunque fatto parte degli Arditi venne omessa nelle cronache, eccetto che in un articolo sfuggito alla censura, pubblicato su «La Nazione» del 14 settembre 1926, mentre su altri giornali, come la «Gazzetta livornese» del 13 settembre, fu indicato quale ex artigliere[5].
Dopo essere stato posto in congedo provvisorio il 28 febbraio 1919, il 1° dicembre 1919 venne richiamato in servizio presso diversi reggimenti di fanteria (90°, 65°, 25°), venendo impiegato anche nella bonifica dei residuati bellici. Ancora in grigioverde, nel 1921 per un’assenza di quattro giorni fu denunciato per diserzione e per aver sottratto «oggetti d’armamento» (un fucile 91 con relativa baionetta), venendo però assolto, condonato e finalmente congedato nel novembre 1921.
Tornato ad Avenza, alla fine del 1922 decideva di lasciare illegalmente l’Italia a seguito di scontri avuti con fascisti nella zona di Carrara; aiutato dal fratello Andrea, s’imbarcava su un navicello carico di marmo, approdando a Nizza e poi a Marsiglia dove gli fu sempre possibile trovare lavoro come scalpellino presso laboratori del marmo gestiti da italiani di simpatie libertarie o antifasciste.
In Francia era entrato in relazione con esponenti di primo piano dell’anarchismo, dall’antiorganizzatore Paolo Schicchi al federalista Camillo Berneri, e nel 1924, aveva aderito alle Legioni garibaldine della Libertà che, velleitariamente, avrebbero dovuto penetrare in Italia e rovesciare con le armi il regime mussoliniano.
Nello stesso anno risultava essere abbonato alla rivista anarchica «Pensiero e volontà», di cui erano promotori Errico Malatesta e Luigi Fabbri, collaborando saltuariamente al settimanale «Fede!», diretto da Luigi Damiani; due testate non riconducibili all’anarchismo di tendenza individualista.
Dopo l’infausto epilogo garibaldino, apparve evidente che, contro il totalitarismo fascista, altre strade andavano percorse e, superando le diverse impostazioni teoriche, gli anarchici raggiunsero una sostanziale unità d’azione.
Lucetti, come si è visto, sarebbe rientrato in Italia nell’estate del 1925 per uccidere il duce, nella prospettiva d’innescare sommosse, scioperi e attentati; ma in ottobre dovette precipitosamente ripartire alla volta della Francia.
Ritornato furtivamente in Versilia alla fine del maggio 1926, su un barcone da Marsiglia al porto di Marina di Carrara (secondo diversa fonte, nascosto in un vagone merci al confine di Ventimiglia), s’entrò nella fase operativa del piano: in giugno, Lucetti soggiornò almeno una settimana a Roma, ospite di Caterina Diordi, cercandovi anche un lavoro come scalpellino, e forse ancora un giorno o due a metà luglio.
Fra una “trasferta” e l’altra, trovò ospitalità presso compagni compiacenti a Montignoso e soprattutto a Viareggio, con qualche fugace visita familiare ad Avenza.
Con ogni probabilità in questo periodo, furono reperite le armi, una pistola automatica Browning procuratagli dal repubblicano romano Vincenzo Baldazzi (1898-1982), detto “Cencio”, già dirigente nazionale degli Arditi del popolo, e due bombe a mano SIPE, a frammentazione, che l’anarchico avenzino Gino Bibbi (1899-1999), suo cugino, aveva recuperato a Trieste dall’anarchico Umberto Tommasini (1896-1980), così come confermato da entrambi. Dell’attentato in preparazione appare accertato che furono messi al corrente o vi ebbero una qualche parte gli anarchici Malatesta, peraltro in stretti rapporti sia politici che amicali col Baldazzi, Temistocle Monticelli e Luigi Damiani, esponenti di primo piano dell’Unione anarchica italiana già costretta all’attività clandestina[6].

L’ATTENTATO SENZA FORTUNA

Dopo l’attentato, sia sulla stampa che nell’inchiesta giudiziaria, venne dato molto risalto ai collegamenti dell’anarchico con «le centrali dell’antifascismo» in Francia e lo stesso Mussolini additò «certe tolleranze colpevoli e inaudite di oltre frontiera», ma in realtà Lucetti si era mosso in modo autonomo, facendo piuttosto affidamento sui compagni in Italia. Infatti, ai compagni di Marsiglia tenne nascosto l’imminente partenza per l’Italia e chiese i soldi necessari per il viaggio ad un’ignara compaesana. Considerato che il “fuoriuscitismo” era pesantemente infiltrato dalla polizia politica fascista, tale scelta gli permise di muoversi con relativa sicurezza, cogliendo di sorpresa l’apparato poliziesco, tanto che in conseguenza dell’attentato, Mussolini dimissionò il capo della polizia Crispo Moncada, sostituito dal “superpoliziotto” Arturo Bocchini.
Giunto a Roma, il 2 settembre 1926, Lucetti trovò alloggio, sotto falso nome, presso l’albergo “Trento e Trieste”, grazie all’amico e compagno Leandro Sorio che vi lavorava come cameriere, e la mattina dell’11 settembre 1926 entrò in azione nei pressi del piazzale di Porta Pia, eludendo la vigilanza di una cinquantina di agenti in divisa e in borghese dislocati lungo il percorso “presidenziale”.
Al passaggio dell’auto, una nera “limousine” Fiat 519, che conduceva Mussolini dalla sua residenza estiva di Villa Torlonia al Ministero degli Esteri a Palazzo Chigi[7], Lucetti lanciava, dopo averne accesa la miccia, una SIPE fidando che questa (pesante circa mezzo chilo) sfondasse il vetro dello sportello posteriore laterale destro ed esplodesse all’interno della vettura, dove era seduto il duce. Purtroppo, a causa del sobbalzo dell’auto per un avvallamento della strada, la granata colpì la cornice superiore della portiera, pochi centimetri sopra il vetro, rimbalzando e deflagrando sul selciato, col ferimento di otto passanti raggiunti da schegge[8].
Particolari poco conosciuti dell’azione armata sono stati rivelati da “Cencio” Baldazzi in un’intervista del 1976, che confermano il carattere tutt’altro che “individuale” dell’attentato: «c’entravo io, Malatesta, [Attilio] Paolinelli, c’entravamo tutti, tutto il cerchio nostro della resistenza romana. Noi avevamo preparato due attentati a Mussolini, uno al Tritone, ed uno a Porta Pia […] dopo aver organizzato una certa convergenza intorno Porta Pia»[9].
Lucetti, fu quasi subito catturato dal maresciallo capo Dottarelli e dal vice brigadiere Motta che, assieme all’ispettore di PS Bodini responsabile del servizio di scorta, si trovavano sull’Alfa Romeo che seguiva dappresso l’auto di Mussolini. Lucetti disponeva di un’altra SIPE e della pistola Browning, presumibilmente cal. 7,65, con proiettili artigianalmente modificati per renderli più efficaci, che non potè usare. Condotto in Questura in piazza del Collegio Romano (attualmente commissariato di PS Trevi-Campo Marzio), subì i primi interrogatori e pestaggi, mentre all’esterno fascisti facinorosi provocavano incidenti.
Già mezz’ora dopo l’attentato veniva arrestato Malatesta presso la propria abitazione e a distanza di poche ore la sua compagna, l’anarchica Elena Melli (1899-1946); a Roma, nella retata anti-anarchica finivano militanti noti quali i tre fratelli Turci, Aldo Eluisi, Francesco Porcelli, Carlo Monticelli, Eolo Varagnoli, Adelmo Preziosi ma anche semplici simpatizzanti oppure non anarchici, fra cui i comunisti Umberto Terracini e, a Milano, Ottorino Perrone. Non mancarono le spedizioni punitive, come quella contro l’onorevole socialista Attilio Susi a Santa Marinella.
A Livorno, col pretesto che fra i passanti feriti vi era il cappellaio Garibaldo Paoletti, originario di Livorno, i fascisti assaltarono il consolato francese. Sempre nella città labronica, innumerevoli furono i messaggi di felicitazione ed esecrazione, fra cui quello del Maestro Pietro Mascagni a cui Mussolini rispose personalmente. Nella chiesa di S, Giulia, invece, «venne cantato un solenne “Te Deum” di ringraziamento per lo scampato pericolo del Primo Ministro Benito Mussolini».
Nell’arco di pochi giorni furono effettuati almeno 500 arresti e 600 perquisizioni, soprattutto nella capitale ma anche altrove; ad esempio, tra minatori di S. Giovanni Valdarno. Tra i circa sessanta arrestati fra Carrara ed Avenza, vi erano gli amici, i familiari e i parenti di Lucetti ed anche la sua fidanzata, Nella Menconi (1899-1975). A Roma, furono subito tratti in arresto Baldazzi, Leandro Sorio (1899-1975) e Stefano Vatteroni (1897-1965). Quest’ultimi due vennero condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, rispettivamente a 20 e 18 anni di carcere, «complicità non necessaria»[10]. Baldazzi, invece, ebbe una condanna a cinque anni di carcere per la complicità nell’attentato e ad altri cinque per aver poi fornito aiuto finanziario alla madre di Lucetti[11]. I familiari, fra cui il cugino Gino Bibbi e la madre, furono assolti «per il reato di concorso in mancato omicidio di S.E. il primo ministro» nel giugno del 1927. Nelle settimane seguenti, numerose furono pure le sentenze per «apologia di attentato» nei confronti di persone che avevano espresso, magari in un’osteria, il proprio rammarico per il tentativo non andato a buon fine. Accadde anche a Livorno, dove nei pressi di Piazza dei Mille tre «giovanotti» furono arrestati e denunciati per aver parlato «a voce alta dell’attentato contro la persona di S.E. Mussolini, esaltando l’attentatore, augurando un nuovo infame gesto contro il Duce»[12]. A Rio Marina, per lo stesso reato, il contadino anarchico Narciso Trenti fu condannato a 30 mesi di reclusione e 300 lire di ammenda[13].

CONDANNA E MEMORIA

Il processo, svoltosi dall’8 all’11 giugno 1927, apparve come una farsa, con l’avvocato d’ufficio Emilio Tommasi, che sembrava l’accusatore dell’imputato, mentre il P.M. Enea Noseda lo additava quale «parricida». A presiedere il Tribunale Speciale vi era il generale Carlo Sanna e della corte faceva parte il conte Antonio Tringali-Casanuova, futuro presidente del Tribunale speciale sino al 1943, nato a Cecina e fascista della prima ora. Lucetti venne condannato a 30 anni di reclusione; fra i delitti di cui fu ritenuto colpevole, quello di aver commesso il fatto «anche col fine d’incutere pubblico timore e di suscitare tumulto e pubblico disordine», con evidente allusione alle finalità di destabilizzazione del regime[14]. Da parte sua, durante l’udienza, Lucetti rifiutò decisamente l’accusa di essere un sicario eterodiretto, così come – sin dal primo interrogatorio – aveva tenuto a precisare che «il mio è stato un attentato da proletario».
Lo aspettavano 17 anni di carcere: dal Terzo Braccio di “Regina Coeli” nel luglio del 1927 fu condotto, via Livorno, nel penitenziario elbano di Portolongone (oggi Porto Azzurro) con i ferri ai polsi e «la lugubre casacca a righe», come riferito su «Il Telegrafo» dell’8 e 9 luglio.
Nel febbraio 1930 venne trasferito nel carcere di Fossombrone (PU), dove in occasione del Primo maggio 1932, assieme ad altri sei detenuti comunisti e anarchici – fra i quali il livornese Tito Raccolti e il veronese Giovanni Domaschi – realizzò artigianalmente e fece uscire dal carcere una quindicina di manifestini, oltre a cantare l’Internazionale e Bandiera rossa. A seguito di tale dimostrazione, il mese dopo fu deportato nell’isola-carcere di Santo Stefano (LT)[15]. Nel terribile penitenziario ex-borbonico, Lucetti rimase sino al settembre 1943, trattenuto dalle misure anti-anarchiche del governo Badoglio, anche dopo la “caduta” di Mussolini. Finalmente liberato da paracadutisti americani il 10 settembre, assieme ad una sessantina di “politici”, fu trasferito all’Isola d’Ischia dove, drammaticamente, il 17 dello stesso mese venne ucciso da un colpo d’artiglieria sparato dalle forze tedesche dalla costa napoletana, forse da Monte Procida o da Capo Miseno, con obiettivo le motosiluranti alleate presenti in porto.

Quando la tragica notizia raggiunse il carrarese dove era in corso la resistenza, la prima formazione partigiana di tendenza libertaria assunse il suo nome e così anche quella poi ricostituita come “Lucetti bis”. A liberazione avvenuta, il CLN di Carrara, accogliendo l’ampia sollecitazione popolare, decise di intitolare a Lucetti la centrale e storica piazza Alberica, ma nel 1963 la giunta comunale decise di intitolargli la piazza Rivellino ad Avenza, mentre quella di Carrara tornava all’antica denominazione.

La salma di Lucetti, da Ischia, avrebbe fatto ritorno ad Avenza il 27 aprile 1947, salutata da un’enorme manifestazione popolare nella piazza a lui dedicata, con comizio tenuto dall’anarchico Giuseppe Mariani (1898-1974), suo compagno di detenzione a S. Stefano, e poi accompagnata in corteo sino al cimitero di Turigliano, dove ancora si trova.
Imbarcata su una nave a Napoli era approdata nel porto di Livorno sabato 26 aprile, venendo accolta e salutata – dalle ore 12 alle ore 15 – presso la sede della Federazione anarchica livornese in via Ernesto Rossi 80[16]. Come riferisce «La voca apuana» del 3 maggio 1947, «la salma dell’eroe era posta nella sede degli anarchici coperta di bandiere e una numerosa schiera di persone attendevano l’ora della cerimonia. Erano presenti compagni di tutti i partiti e numerosi cittadini», quindi in corteo il feretro giunse in piazza San Marco e, dopo un breve discorso di commiato, fu caricato su un’autoambulanza per l’ultimo trasferimento.
Accompagnata da una delegazione di anarchici carrarini e livornesi, dopo brevi soste commemorative a Pisa, Massa ed Avenza, il trasporto giunse a Carrara attorno alle ore 20 e la bara venne esposta presso la sede della FAI, in piazza Lucetti, in attesa delle grandi manifestazioni dell’indomani.
Alcuni anni dopo, Alberto Tarchiani, uno dei fondatori del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, riferendosi agli attentati alla vita di Mussolini, avrebbe commentato: «chi condannerebbe oggi quei tentativi che non avevano bassi scopi di vendetta, ma convinti propositi di evitare sciagure infinitamente più vaste, eliminando un uomo che, vaneggiando di gloria conduceva l’Italia alla devastazione materiale e morale?».

NOTE

1. Augusto Consani (1883-1953), pastaio, militante di primo piano dell’Unione anarchica livornese, era stato segretario della Camera sindacale del Lavoro (USI) nonché tra gli organizzatori dell’arditismo antifascista. Condannato a cinque anni di confino quale «elemento pericoloso per l’ordine dello Stato», fu deportato a Lipari nel dicembre 1926, venendo rimesso in libertà nel marzo 1927, in via condizionale, poichè ammalato di tubercolosi; ciò nonostante avrebbe continuato l’attività clandestina. Paradossalmente, nel saggio di Nicola Badaloni e Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926 (Editori riuniti, 1977) viene ritenuto «uno dei principali sostenitori di una linea “attendista”». Virgilio Recchi (1900-1982), operaio elettricista, fra i fondatori degli Arditi del popolo, è schedato dal 1926 come anarchico. Nel 1945, è nel Comitato di liberazione aziendale del Cantiere navale OTO e fa parte del Gruppo sindacale libertario; partecipa al Congresso fondativo della FAI in rappresentanza del gruppo “Pietro Gori” e nel 1947 è nella Giunta esecutiva della Camera del lavoro, per la componente anarchica.
2. Secondo una ricostruzione pubblicata sulla «Gazzetta livornese» del 13 settembre 1926, «raggiunta la spiaggia il Lucetti sempre aiutato dal fratello suo Andrea, si imbarcava notte tempo sopra un piccolo gozzo, raggiungendo a forza di remi Lerici, ove all’alba del giorno dopo, un navicello carico di marmi, alzava l’ancora per la Francia».
3. Nei suoi saggi, lo storico Renzo De Felice l’ha ritenuto «nativo della Garfagnana», probabilmente perché, subito dopo l’arresto, Lucetti aveva declinato una falsa identità dichiarando d’essere nato a Castelnuovo Garfagnana (LU).
4. Nel Carrarese vi era una storica collateralità fra gli ambienti repubblicani e anarchici e, in particolare, proprio ad Avenza questa risultava evidente nella bandiera nera della locale sezione mazziniana.
5. Risaliva forse a tale esperienza negli Arditi il «tatuaggio sinistro» “W la morte” che Lucetti recava sull’avambraccio oppure, secondo la declinazione poetica di Virgilia D’Andrea, alludeva a «La morte che dona la vita / La morte che risveglia i popoli / Non quella che li distende inermi ed inetti dentro una tomba senza gloria / La morte che spezza il tiranno / Non quella che la tirannia riassoda ed eterna» (Gloria anarchica, 1933).
6. Il 17 gennaio 1926 si tenne segretamente un Convegno della UAI a Milano ed un altro in forma clandestina ai primi di agosto dello stesso anno. Esiste, tra l’altro, una lettera alquanto sibillina, scritta da Malatesta il 4 settembre 1926 all’anarchico Alfonso Coniglio, in cui comunicava che «Le seicento lire di cui mi parli furono ricevute al principio di quest’anno e furono adoperate non per Pensiero e Volontà[il giornale anarchico diretto da Malatesta] ma per un bisogno urgente del nostro movimento. Io ti scrissi e ti dissi vagamente che cosa avevamo fatto del denaro – senza però entrare in particolari, perché si trattava di cose che non conviene scrivere […] Siamo pieni di belle speranze, ma per ora sono… speranze. Noi però facciamo tutto quello che possiamo perché presto diventino realtà».
7. Nel 1922, Mussolini dopo aver trasferito il ministero delle Colonie nel Palazzo della Consulta, aveva destinato Palazzo Chigi a sede del Ministero degli Esteri e in virtù della sua doppia carica di Presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri, ne aveva fatto la sua sede ministeriale.
8. Se invece che la SIPE, ad accensione manuale, fosse stata impiegata la variante a percussione (tipo “Gallina”), l’esito avrebbe avuto ben altra efficacia, scoppiando all’urto.
9. Il coinvolgimento di Baldazzi è stato confermato dalla moglie Elena Vitiello, intervistata da Alessandro Portelli: «lo avevano preparato insieme. La cosa che l’attentato non riuscì, con tutte le misure e tutti i calcoli che avevano fatto, non avevano tenuto conto che la strada era leggermente in discesa».
10. Le prove a loro carico erano labili, tanto che secondo Guido Leto, allora funzionario dell’Ufficio speciale movimento sovversivo ed in seguito a capo dell’OVRA, «l’inchiesta assodò che [Lucetti] non aveva complici», forse anche per giustificare il fallimento della sicurezza.
11. Nonostante la stretta sorveglianza, Baldazzi, riuscì ad incontrarsi con Malatesta (erano vicini di casa, in via Andrea Doria) e a prendere accordi con Attilio Paolinelli ed Aldo Eluisi – entrambi anarchici ed ex-arditi del popolo – nel tentativo «di organizzare la fuga» di Lucetti il giorno stesso del processo.
12. L’arresto di in terzetto per apologia di reato, «Gazzetta livornese», 15 settembre 1926. I tre erano l’operaio carpentiere Vittorio Pieracci, il facchino Licurgo Niccolai e il muratore Ilio Fiorini; i primi due schedati come comunisti, il terzo quale socialista.
13. Per offese al Primo Ministro, «Gazzetta livornese», 16 settembre 1926. Sullo stesso quotidiano si trova anche la notizia del rinvio a giudizio per il capitano marittimo Emilio Oliviero, «imputato di non aver esposta la bandiera in occasione dell’attentato al Duce».
14. Le pene accessorie, oltre a tre anni di vigilanza speciale, erano tragicomiche: 300 lire di ammenda, 600 lire per concessioni governative, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In seguito, per effetto dei decreti governativi di amnistia e indulto del 1932, 1934 e 1937, la pena risultò ridotta a 17 anni, con scarcerazione prevista per il 10 settembre 1945.
15. Le inumane condizioni di prigionia sono descritte anche dal comunista livornese (seppure nato a Pisa) Athos Lisa in Memorie. Dall’ergastolo di Santo Stefano alla Casa penale di Turi di Bari, Milano, Feltrinelli, 1973.
16. Anche a Livorno, un gruppo anarchico – quello del quartiere S. Jacopo – assunse il suo nome.

 

Articolo pubblicato nel settembre del 2024.




LIVORNO – 11 AGOSTO 1921

Anni duri in cui non ancora decenne vidi ammazzare la gente per strada

(Giorgio Caproni, Son targato Livorno 1912, «Il Telegrafo», 16 maggio 1976)

 

Quanto avvenne l’11 agosto 1921 nel borgo livornese d’Ardenza è rimasto per lungo tempo un ricordo dagli incerti contorni, attraverso versioni e narrazioni contraddittorie. Degli stessi protagonisti era rimasta una vaga memoria, eppure quella data vide le prime due uccisioni per mano fascista a Livorno[1].

Le settimane precedenti avevano registrato anche nella provincia livornese l’inasprirsi dei conflitti – anche se di minore gravità rispetto al resto della Toscana – fra le squadre fasciste e gli abitanti dei quartieri popolari che, dall’inizio di luglio, potevano contare anche sulle squadre degli Arditi del popolo formatesi mettendo insieme ex-combattenti della Lega proletaria e lavoratori delle diverse tendenze “sovversive”: socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti e sindacalisti.

Organizzati a livello territoriale, in ogni quartiere gli Arditi del popolo, più o meno strutturati ed armati, cercavano di assicurare la «difesa proletaria» e di rispondere alle spedizioni squadriste dei fascisti e dei nazionalisti che spadroneggiavano nel centro della città e tentavano sortite nei rioni proletari, potendo contare sulla protezione delle forze dell’ordine – militari compresi –  come era accaduto il 19 luglio in borgo Cappuccini quando dai camion avevano sparato raffiche di mitragliatrice contro le case del quartiere sovversivo.

Oltre a confermare questa reciproca collateralità, i “fatti d’Ardenza” dimostrarono come la contrapposizione, ancora prima che ideologica, fosse di classe: infatti, se da una parte, a restare sul selciato furono due lavoratori salariati, dall’altra a sparare impunemente c’era uno studente universitario, figlio dell’alta borghesia labronica. Inoltre, entrambi gli uccisi erano stati, loro malgrado, soldati durante la guerra mondiale “quindici-diciotto”, mentre il giovane omicida, animato da un malinteso patriottismo, ancora non aveva espletato il servizio militare.

LA CITTADELLA DELL’ANARCHIA

All’epoca l’Ardenza era un paese a sé stante, separato dalla città di Livorno, con un proprio Municipio, abitato da circa 4000 persone. In molti lavoravano la terra nelle estese coltivazioni agricole dell’entroterra, ma vi risiedevano anche numerosi operai. La forte attitudine “sovversiva” della comunità ardenzina aveva come principali punti di riferimento il Circolo di studi sociali situato in via del Littorale (ora via Uberto Mondolfi), fondato dall’anarchico Adolfo “Amedeo” Boschi, e il Circolo socialista. Tra gli anarchici prevaleva la tendenza “organizzatrice”, ma non mancavano gli “antiorganizzatori” facenti capo a «L’Avvenire anarchico» di Pisa. Nella sezione socialista era, invece, maggioritaria la componente massimalista ed era ospitata un’attiva sezione socialista femminile.

Inoltre, presso le due sedi, si trovavano le sezioni delle due Camere del Lavoro di Livorno – quella aderente all’USI e quella della CGdL. Invece, nel 1921, all’Ardenza non risultava presente alcuna struttura repubblicana o comunista.

Già tra il 1914 e il ’15 all’Ardenza vi era stata una forte opposizione anarco-socialista alla guerra e, in considerazione della sua peculiarità politica, vi erano una stazione dei Carabinieri, un commissariato di Polizia e una reparto di Guardie regie.

In questo contesto, quel tragico 11 agosto – mentre sull’assolato lungomare, frequentato dalla “Livorno bene” e dai villeggianti, regnava uno spensierato clima balneare – ad Ardenza Terra, attorno alle 18.30, arrivarono col tram il segretario politico del Fascio di combattimento, il ventiquattrenne Marcello Vaccari, scortato da quattro suoi camerati, con intenzioni certo non pacifiche, nonostante le diverse quanto improbabili ragioni poi addotte. Cercavano l’anarchico Luigi Filippi, ritenuto il comandante degli Arditi del popolo ardenzini e, quando furono affrontati da alcuni antifascisti che chiedevano ragione di tale provocatoria presenza, la situazione sarebbe subito degenerata in uno scambio di rivoltellate in cui Vaccari rimase lievemente ferito ad una gamba, mentre un proiettile vagante ferì ad un piede un ragazzo di 10-11 anni, Nilo Paolotti.

Considerata la notoria animosità di Marcello Vaccari, già volontario di guerra ed ex tenente dei Reparti d’assalto, è presumibile, nella più benevola delle ipotesi, che egli intendesse minacciare ritorsioni per un’annunciata iniziativa politica all’Ardenza con il “disonorevole”, Giuseppe Mingrino, deputato socialista e dirigente nazionale degli Arditi del popolo.

SANGUE SUL LUNGOMARE

A seguito di tale incidente e prevedendo una spedizione punitiva dei fascisti livornesi, i «sovversivi» ardenzini, al termine della giornata di lavoro, invece di rincasare si allertarono, predisponendo misure di vigilanza del territorio, non potendo contare sull’operato delle forze dell’ordine. In circa sessanta, fra arditi del popolo e altri antifascisti, suddivisi in gruppi, si posero a presidio delle diverse vie d’accesso alla frazione, lato terra e lato lungomare, mentre i collegamenti sarebbero stati assicurati con le biciclette.

Nel corso di tale attività preventiva, sul viale che porta ad Antignano, nei pressi dell’allora ponte Principe di Napoli (ora Tre Ponti), furono fermati e disarmati, senza ulteriori problemi, delle rispettive rivoltelle, gli avvocati Enrico Berti e Luigi Corcos. Il primo, segretario particolare di Costanzo Ciano, aveva preso parte alle azioni anti-sciopero nelle Poste nel gennaio del 1920 ed avrebbe fatto carriera sotto il fascismo, mentre il secondo, già tenente di complemento, risultava iscritto al Fascio di Livorno.

Quando però, pochi minuti dopo, venne fermato lo studente diciannovenne Tito Torelli, le cose precipitarono. Torelli infatti, riconosciuto come squadrista quale era (anch’egli in funzione anti-sciopero ed iscritto al Fascio dal 1° dicembre 1920), si rifiutò a sua volta di consegnare l’arma – una pistola sottratta al padre Giorgio, anch’esso fascista – che aveva con sé.

In uno spazio orario approssimato, fra le 22 e le 22,30, l’acceso diverbio sarebbe quindi culminato in una sparatoria conclusasi con un bilancio “asimmetrico” che vedeva il Torelli riportare appena delle escoriazioni e dall’altra parte due feriti mortalmente d’arma da fuoco, ossia Averardo Nardi e Amedeo Baldasseroni, entrambi arditi del popolo.

Averardo [all’anagrafe Avelardo] Nardi, nato il 14 ottobre 1892, secondo i giornali era un operaio (il registro ospedaliero lo segnalò invece come carrettiere), reduce della Grande guerra; abitava in via dell’Ulivo assieme al padre Augusto (dopo la perdita della madre Isolina Ristori) ed aveva un fratello, Nereo. Secondo il vice-prefetto era pregiudicato per un reato comune (di cui peraltro non si è trovata traccia) e addosso gli fu trovato un manifestino di propaganda «dell’associazione Arditi del popolo», ma nessuna arma.

Amedeo Baldasseroni, nato il 28 maggio 1886, era figlio di Pietro e Annunziata Orlandi. Capo squadra elettricista alla SELT (Società Elettrica Ligure Toscana), era coniugato con Nella Frugoli, poi deceduta nel 1935, e padre di Libera (13 anni), Libero (11 anni) e Leo (7 anni). Secondo quanto riportato nel certificato anagrafico di famiglia, aveva una sorella e tre fratelli: Ottorina, Ottorino, Nello e Anacleto. Abitava in via del Littorale (ora via U. Mondolfi) e in una foto di gruppo – scattata ad Ardenza nel 1913 – egli appare ritratto a fianco dell’anarchico Errico Malatesta e di altri compagni. Chiamato alle armi nel 1915, risultava segnalato tra i militari sovversivi. Sulla sua persona – come riportato nei verbali – furono rinvenute una copia di «Umanità Nova» e una de «L’Avvenire anarchico», ma niente armi.

I due ardenzini furono raccolti e trasportati dalla Pubblica Assistenza ai RR. Spedali Riuniti in via S. Giovanni a Livorno; nonostante le evidenze, «vennero dichiarati in arresto» e persino denunciati. Nardi sarebbe spirato l’indomani, per emorragia interna; colpito al torace «da un colpo tiratogli a brevissima distanza», con solo foro d’entrata, in corrispondenza del 7° spazio intercostale anteriore. Baldasseroni, dopo lunghe sofferenze, decedette il 3 settembre; raggiunto nella regione lombare, da un unico proiettile conficcatosi nella colonna vertebrale, con fatale lesione del midollo spinale che comunque l’avrebbe reso paralizzato, con una traiettoria inclinata obliquamente dall’alto verso il basso, tale da far presumere una colluttazione col Torelli che, secondo quanto sostenuto dagli antifascisti e dai parenti delle vittime, era forse armato con due pistole, di cui una nascosta.

I rispettivi funerali dei due ardenzini videro la partecipazione di migliaia di lavoratori in sciopero, con le bandiere rosse e nere delle diverse organizzazioni proletarie e della Società Volontaria di Soccorso, scortati dagli Arditi del popolo e vigilati da ingenti forze dell’ordine.

In base alle autopsie e alle perizie balistiche venne accertato che i due ardenzini erano stati entrambi colpiti da proiettili di piccolo calibro, compatibili col cal. 6.35 della pistola semi-automatica Browning 1906 “Baby”, sequestrata al Torelli, escludendo quindi le rivoltelle d’ordinanza e i moschetti mod. 91 in dotazione alla forza pubblica.

Nonostante ciò, grazie alla “protezione” familiare, per sei mesi il nome di Torelli – mentre rimaneva in libertà – non comparve mai sulla compiacente stampa cittadina, condizionata dal potente Costanzo Ciano, legato alla famiglia Torelli da amicizia, idee politiche e rapporti d’affari. Sul piano giudiziario, Tito Torelli sarebbe stato più volte prosciolto in istruttoria per il duplice omicidio: nel 1922 dai tribunali di Lucca e Livorno, così come nel 1945, dopo la Liberazione, da quelli di Firenze e Livorno.

Laureatosi in legge ed erede dell’attività imprenditoriale di famiglia, durante il Ventennio Torelli ottenne significative cariche di regime, a partire da quella di Vice Podestà di Livorno nell’ottobre 1933. Dopo aver preso parte alla guerra coloniale in Etiopia come capitano d’artiglieria nella Divisione Gavinana, entrò nel Direttorio dell’Associazione volontari di guerra e, a livello nazionale, fu designato componente della Federazione nazionale per il commercio d’Oltremare e consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (Corporazione dei cereali), dal 1939 al ’43.

Come quella di altri noti fascisti, la sua impunità, confermata anche dopo la Liberazione – nel generale clima della cosiddetta Amnistia Togliatti – a Livorno suscitò le proteste del CLN e delle forze antifasciste, nonché un’inutile inchiesta ministeriale che pure accertò l’irregolarità del proscioglimento; ma, soprattutto, sollevò la rabbia del “primo” antifascismo popolare che non aveva dimenticato l’assassinio di Nardi e Baldasseroni.

Nell’agosto 1946, dopo aver scontato alcuni mesi di carcerazione e un anno di confino al Sud, Torelli tornò in libertà e poté riprendere la propria attività industriale e commerciale, ma dovette trasferirsi a Firenze dove sarebbe morto nel 1991, senza poter fare ritorno a Livorno dove aveva un conto in sospeso ed ancora c’era chi ricordava un canto nato in quell’estate del 1921.

Girate per le strade di Livorno
ma nei sobborghi non potrete entrare
ci son gli arditi che vi stan dintorno
e gli ardenzini vogliono vendicare
a tradimento
sapete ammazzare

 

[1] Tra il 1921 e il 1931, oltre a Nardi e Baldasseroni, altre 16 uccisioni politiche avrebbero segnato la normalizzazione fascista: Pietro e Pilade Gigli, Piero Gemignani, Gilberto Catarzi, Filippo Filippetti, Bruno Giacomini, Oreste Romanacci, Genoveffa Pierozzi (agosto 1922); Ottorino Benedetti (Cecina, gennaio 1923); Emo Mannucci (Colognole, marzo 1923); Fortunato Nannipieri (luglio 1923); Enrico Baroni (aprile 1924); Giuseppe Piccinetti (marzo 1925); Natale Betti (novembre 1926); Ferruccio Fornaciari (ottobre 1927); Ghino Chirici (febbraio 1931).




La Liberazione di Arezzo

“Era giunta l’ora di resistere,

Era giunta l’ora di essere uomini,

di morire da uomini,

per vivere da uomini”

(Piero Calamandrei)

 

La notte del 25 maggio 1944 le vallate che circondano Arezzo si illuminarono con una miriade di falò accesi dalle formazioni partigiane e dai contadini in risposta all’ultimatum definitivo, che scadeva alla mezzanotte dello stesso giorno, diramato dal Capo della Provincia Melchiori nei confronti dei militari sbandati, dei partigiani e dei renitenti di leva: «Tutti coloro che non si presenteranno saranno considerati fuorilegge e saranno passati per le armi mediante fucilazione alla schiena»[1].

La Notte dei Fuochi, il nome con cui questo atto è entrato nella storia – tuttora ogni anno ne viene celebrata la ricorrenza – conteneva in sé una sorta di sfida ai nazifascisti come un invito corale a loro rivolto: «Siamo qua… veniteci a prendere!»[2].

Arezzo aveva già manifestato la propria insofferenza ed avversione al fascismo quando gli iscritti al nuovo partito fascista repubblicano non arrivavano a 2500 a fronte di una popolazione provinciale di circa 300.000 abitanti. E come nel resto d’Italia anche la popolazione aretina aveva accolto la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943 e l’armistizio dell’8 settembre con euforia e sollievo. Ci si illuse che quegli eventi avessero messo il punto finale ad un dramma iniziato più di vent’anni prima e a quell’immane tragedia che era la guerra. Quel sospiro di sollievo rimase però strozzato in gola… I nazisti rivelarono il loro vero volto di padroni occupanti, i fascisti quello ancor più orribile di bestie feroci. Cominciava così una parentesi non meno sanguinosa e drammatica della precedente. Ma ormai più niente e nessuno avrebbe fatto tornare indietro chi aveva assaporato di nuovo o gustato per la prima volta l’esaltante sapore della libertà.

Nella città di Arezzo le esigue forze politiche locali nei 45 giorni del governo Badoglio fecero fronte comune, e riallacciando contatti sia a livello regionale che nazionale con gli attivisti antifascisti riuscirono a dar vita al Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista (CPCA). L’obiettivo principale del Comitato consisteva nell’organizzare la Resistenza in città e provincia, tentando di coordinare l’attività delle squadre dei partigiani che agivano nel proprio territorio[3]. Un contributo particolare fin dall’inizio fu dato dai contadini della vallata che, dopo l’8 settembre ’43, fornirono aiuto, assistenza ed ospitalità gettando le premesse dell’azione armata agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia, ai renitenti alla leva[4]. Tutti questi individui rifugiati fuori città costituirono quindi l’ossatura delle prime formazioni partigiane organizzate dal CPCA. Ma ancora l’antifascismo aretino non era pronto per una lotta così dura quale era la lotta clandestina, soprattutto all’inizio i suoi componenti non adottarono le necessarie cautele di riservatezza che la pericolosa attività intrapresa avrebbe invece consigliato. E così una delle prime formazioni partigiane costituitasi, “La Vallucciole”, forse la più importante per numero di uomini e per armamenti, nel corso di un rastrellamento dei nazifascisti, l’11 novembre del 1943, subì una gravissima battuta d’arresto: fu ucciso il giovane capitano Pio Borri e l’intera formazione fu dispersa.

L’improvvisazione militare, la scarsità degli armamenti rispetto al nemico, la mancanza di comandanti con esperienza tale da poter contrastare le truppe tedesche in quanto a programmazione e logistica, misero a dura prova i partigiani che seppur soccombendo continuavano la loro lotta per la libertà. Mettevano a rischio la loro vita, sottostavano alle torture con uno spirito di sacrificio che non era espressione di un’avventura militaresca e neanche il dissennato e cieco amore per il rischio, ma era la consapevolezza della necessità di un rinnovamento e ricostruzione di una società che in passato aveva reso possibile gli errori e gli orrori del fascismo.

Il CPCA non riuscì mai a controllare completamente l’attività militare resistenziale, nelle quattro vallate (Valdarno, Valdichiana, Valtiberina e Casentino), di tutte e cinque le formazioni partigiane più quelle che si erano formate spontaneamente. E dopo la disfatta della “Vallucciole” l’attività di guerriglia proseguì in tono minore ma senza mai rinunciare del tutto ad azioni militari e di intelligence così da tenere occupati i nazifascisti e per tentare di ingannarli sulla reale entità di forza della resistenza aretina. Anche il rallentamento dell’avanzata delle forze alleate contribuì al ridimensionamento della lotta partigiana che dovette attendere la fine dell’inverno del 1943-44 e la disfatta di Montecassino per riprendere appieno l’attività armata. Ma durante questo periodo di tenuta della Linea Gustav, così magistralmente architettata dal generale Kesserling, che si appoggiava ad una delle più forti barriere naturali dell’Italia meridionale, non riuscendo ad avanzare gli Alleati iniziarono a bombardare le retrovie tedesche per distruggere strade, ponti, ferrovie così da tentare l’isolamento delle truppe naziste. E così Arezzo, snodo importante delle vie di comunicazione, iniziò ad essere bersagliata dall’aviazione anglo-americana. Il primo bombardamento giunse inaspettato il 12 novembre 1943, cogliendo di sorpresa l’intera popolazione e le autorità fasciste che si erano insediate dopo la proclamazione della Repubblica di Salò[5]. Visto che era stato colpito anche il palazzo della Federazione fascista, il Comitato non si fece sfuggire questa occasione e fece subito affiggere dei manifesti dove si rivendicava che il bombardamento era stato una rappresaglia degli Alleati contro i fascisti per l’uccisione del partigiano Pio Borri avvenuta il giorno prima, al fine di dimostrare che le forze antifasciste erano in contatto continuo con gli anglo-americani in modo tale da intimorire i nemici e rassicurare le proprie milizie che non erano lasciate sole a condurre la battaglia[6].

Ma il terrore ad Arezzo arrivò con il bombardamento del 2 dicembre che provocò moltissime vittime e ingenti danni alle abitazioni e segnò l’inizio dello spopolamento della città. Si calcola che dopo sei mesi di bombardamenti (solo nel capoluogo aretino furono sganciate 1800 tonnellate di bombe) alla fine d’aprile del 1944 in città erano rimasti poco più di cento abitanti[7].

Col sopraggiungere della primavera, la caduta di Montecassino e l’entrata in Roma degli Alleati dettero un ulteriore spinta emotiva alle formazioni partigiane aretine che si riorganizzarono supportati dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), trasformandosi in Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN) così da operare quel salto di qualità che gli avrebbe consentito di contrastare con più efficacia le milizie nazifasciste e preparare il terreno per la liberazione di Arezzo. Fu una trasformazione non solo formale ma anche nella sostanza; infatti, ci fu una riorganizzazione militare con la costituzione della XXIII Brigata garibaldina “Pio Borri”, composta da tre battaglioni, e la XXIV Brigata “Bande Esterne”, che insieme andarono a formare la Divisione partigiani “Arezzo”; inoltre si operò un cambiamento ai vertici del Comitato: destituiti, con la scusa che erano ricercati e ormai compromessi, Sante Tani e Achille Ravera, presero le redini di comando del neonato CPLN Siro Rossetti, Aldo Donnini e Raffaello Sacconi, in pratica il braccio armato del vecchio CPCA, insieme ad Antonio Curina (che diventerà il primo sindaco dopo la liberazione), Eugenio Calò ed Arnolfo Funari[8]. Questo cambiamento ebbe anche l’avvallo della Chiesa aretina che entrava direttamente nell’organizzazione con don Onorio Barbagli. Del resto, il vescovo di Arezzo Emanuele Mignone si schierò fin dall’inizio apertamente con la Resistenza prendendo le distanze dalla Chiesa toscana, il cui atteggiamento si orientava verso una neutralità con frange di simpatia nei confronti del fascismo repubblicano ignorando volutamente il CTLN e le formazioni partigiane verso cui l’alto clero nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione di molti combattenti all’ideologia comunista[9]. Non fu così per gli esponenti del clero aretino che non si fecero condizionare dalla paura delle idee marxiste e a partire dal vescovo fino all’ultimo prete della parrocchia più sperduta delle montagne casentinesi (a parte qualche eccezione), dettero il loro insostituibile contributo alla resistenza rimettendoci anche in alcuni casi la propria vita: in poco più di due mesi nella provincia di Arezzo vennero trucidati 15 sacerdoti e 2 seminaristi, di cui 10 appartenenti alla diocesi aretina, 5 a quella di Fiesole e 2 alla diocesi di San Sepolcro (circa il 30% del totale dell’intera Toscana)[10]. E non dobbiamo dimenticare il ruolo svolto dalla parrocchia di San Domenico dove padre Raimondo Caprara riuscì a far coraggio alla poca popolazione rimasta in città provvedendo a sfamare, curare e nascondere quei disperati che avevano trovato rifugio nella sua chiesa situata in città e quindi rischiando per il continuo contatto con nazisti e repubblichini che là stazionavano.

Con le truppe tedesche ormai esasperate per i lunghi anni di guerra, in ritirata verso il nord Italia, mentre sentivano il sopraggiungere degli eserciti alleati e continuamente soggette ad imboscate da parte delle formazioni partigiane ora più che mai agguerrite e con una consistenza numerica che aumentava di giorno in giorno (soprattutto favorita dai renitenti di leva delle classi ’23, ’24, ’25), iniziò per la provincia di Arezzo il periodo tragico delle carneficine: 14 stragi a giugno, 20 a luglio, 2 ad agosto, 1 a settembre, e considerando anche le 5 di aprile e i deportati di Poppi si giunge a circa 1476 vittime. Questi eccidi per lo più di civili inermi, a volte pianificati, rispondevano ai dettami del generale Kesserling che auspicava un contegno durissimo ed intransigente verso le popolazioni considerate fiancheggiatori di coloro che reputava soltanto banditi e non militari: non avevano neanche l’uniforme e quindi dietro ogni borghese si poteva nascondere un partigiano[11]. La lotta partigiana veniva vista come una degenerazione della guerra e non come una forma di guerra conosciuta da secoli, e con questa visione deformante si giustificava per le barbarie delle stragi che perpetrava sistematicamente contro le popolazioni inermi: «uccidete, e qualsiasi cosa accada vi difenderò, e se non vi scatenerete contro gli italiani vi punirò»[12]; questo era il contenuto del comando inviato alle truppe il 17 giugno ’44 firmato dallo stesso Kesserling.

Dopo lo sfondamento della Linea Gustav con la sanguinosa battaglia di Montecassino, le truppe alleate si fermarono sulle rive del lago Trasimeno, per poi il 26 giugno ’44 entrare a Chiusi. Da lì qualche giorno dopo presero Montepulciano e finalmente il 2 luglio conquistarono il primo comune aretino, Lucignano, per arrivare il giorno successivo a Cortona. Sulle montagne cortonesi erano state attive e quindi di grande aiuto agli anglo-americani molte squadre partigiane in attesa della loro avanzata che ritardava a causa delle distruzioni messe in atto dai genieri tedeschi e dalle mine che avevano dislocato un po’ dappertutto. Le strade, i ponti e le gallerie non esistevano più e i carri armati procedevano dove capitava, anche in mezzo ai campi di grano e tra le viti distruggendo buona parte dei raccolti. L’avanzata degli Alleati, di conseguenza, rallentò il suo slancio e sembrò quasi fermarsi proprio prima di arrivare ad Arezzo. Sapendo che le truppe di Kesserling difficilmente avrebbero ceduto il passo verso Firenze, visto che la Linea Gotica non era ancora pronta (i tedeschi vi si attestarono soltanto il 27 ottobre), gli Alleati organizzarono una riunione con i comandanti delle formazioni partigiane per conoscere la dislocazione dei reparti nemici e pianificare la battaglia per Arezzo. Durante il meeting fu approntata la strategia per entrare e liberare il capoluogo: una formazione partigiana fornita di armamenti pesanti ed esplosivi si sarebbe introdotta furtivamente in città ed avrebbe atteso l’avvicinarsi degli Alleati per dare il via all’insurrezione nel centro cittadino il successivo 14 luglio. In questo modo, anche se i maggiori pericoli li avrebbero corsi i partigiani, al loro ingresso in città, gli Alleati si sarebbero trovati il CPLN già insediato. Ma la difesa delle truppe e dell’artiglieria della Wehrmacht attestate sul monte Lignano tra Castiglion Fiorentino e Arezzo ritardò l’avanzata delle milizie Alleate e il 14 luglio, ancora lo sbarramento sul monte Lignano, da cui si sarebbe aperta la strada fino ad Arezzo, rimaneva presidiato dalle forze tedesche. Ma avevano le ore contate: l’inferno di fuoco che si era riversato nei giorni precedenti dai cannoni (800 colpi al minuto) e dai bombardamenti aerei degli Alleati, che già avevano destabilizzato le truppe naziste, si completò con la sanguinosa battaglia di Lignano che causò numerose vittime in entrambi gli schieramenti. Così dopo aver perso la posizione sul monte Lignano, alle prime ore del 16 luglio, le truppe tedesche si ritirarono senza operare un inutile e sanguinoso contrattacco per assestarsi sulla Linea Irmgard sul fiume Senio. Così all’alba del 16 luglio la discesa in città dei partigiani coincise con il ritiro delle truppe tedesche e ciò permise di liberare Arezzo senza spargimento di sangue.

16 luglio 1944 – scalinata del Duomo di Arezzo. Incontro fra partigiani e alleati nel giorno della Liberazione della città.

 

Alle ore 7.00 del 16 luglio 1944 la guerra per Arezzo era finalmente conclusa: sulla torre del comune venne issato il tricolore e le campane in città iniziarono a suonare a distesa seguite dalle campane della campagna circostante, dando il segnale agli Sherman, i carri armati alleati, che nella tarda mattinata entrarono nella città libera.

Ma se Arezzo fu liberata senza spargimento di sangue, il ritardo dell’offensiva alleata convenuta il 14 luglio, con i partigiani scesi dalle colline verso posizioni più avanzate per ricongiungersi con le truppe inglesi, generò sfortunatamente l’orribile strage di San Polo: un rastrellamento rapidamente pianificato portò all’arresto di partigiani e civili inermi che furono barbaramente trucidati. Questa azione era in sintonia con le idee e i dettami del feldmaresciallo Kesserling che riteneva di poter procedere con l’impiego sistematico di rappresaglie ed eccidi contro i civili nella guerra antipartigiana. E se la signora Laura Ewert, nipote del colonnello Wolf Ewert che comandò la strage di San Polo – di cui solo recentemente è venuta a conoscenza-, è stata presente quest’anno alla giornata di commemorazione della strage per mostrare la propria angoscia e mantenere vivo il ricordo della brutale azione messa in atto dal nonno, il generale Kesserling, arrestato alla fine della guerra, scampato alla pena di morte e successivamente anche all’ergastolo, libero dopo pochi anni per motivi di salute, una volta tornato in Germania ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi ma che, anzi, gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i diciotto mesi di occupazione tanto che avrebbero fatto bene ad erigergli un monumento:

Lo avrai

camerata Kesserling

il monumento che pretendi da noi italiani

ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi

 

Non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio

non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti

riposano in serenità

non colla neve inviolata delle montagne

che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli che ti videro fuggire

 

Ma soltanto col silenzio dei torturati

Più duro d’ogni macigno

soltanto colla roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono

per dignità e non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo

 

Su queste strade se vorrai tornare

ai nostri posti ci troverai

morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama

ora e sempre

RESISTENZA

 

Piero Calamandrei

 

NOTE

[1] Ivan Tognarini (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Amministrazione provinciale di Arezzo-Tipografia Badiali, Arezzo 1987, p. 50.

[2] Enzo Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, Calosci Editore, Cortona 1995, p. 124.

[3] I. Tognarini (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza. La provincia di Arezzo (1943-1944), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990, p. 179.

[4] Il futuro CTLN, ancora “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, nell’autunno del 1943 in un volantino ai “toscani”, elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta. Al momento del nuovo raccolto il CLN incitava i contadini ad evadere gli ammassi per sottrarre grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane, Cfr. ISRT, Collezione manifestini CTLN, in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiesa, 15 marzo 1975, p. 84.

[5] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. 25.

[6] Ivi p. 27.

[7] Agostino Coradeschi e Mario Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, Corocci Editore, Roma 2008, p. 114.

[8] Ivi, p. 115.

[9] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 79.

[10] A. Coradeschi e M. Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, cit., p. 122.

[11] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. XVII.

[12] Ibidem.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.

 




Il contributo di tre donne livornesi alla causa dell’antifascismo

Introduzione.

L’enciclopedia Treccani definisce l’antifascismo come una «reazione, morale e politica, alla dottrina e alla prassi antidemocratica del fascismo al potere», sorto per mano di «alcune formazioni e partiti politici».[1] La sottosezione dell’Enciclopedia Treccani, intitolata “Dizionario di Storia”, risulta più aderente alla realtà dell’antifascismo, nella sua definizione di tale fenomeno come un «atteggiamento di opposizione al fascismo, che va dal semplice stato d’animo al movimento organizzato».[2]

A questo fenomeno di rilevanza nella storia nazionale prendono parte tre donne livornesi, rispettivamente: Erminia Cremoni (1905-1956), Osmana Benetti (1923-2016), Ubaldina Pannocchia (1923-2021). Per comprendere i loro contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza all’occupazione nazifascista dell’Italia, occorre immergersi nel complesso quadro del percorso di emancipazione delle donne italiane tra anni Venti e Quaranta del Novecento. Un percorso che porta le «bravi madri e mogli» designate dal fascismo, a diventare donne «riottose e intemperanti», antifasciste, partigiane, staffette. Queste pagine buie, del fascismo prima e della guerra dopo, porteranno a una ridefinizione dei ruoli di genere in Italia.

Nello sviluppo dell’elaborato è stata adottata una prospettiva originale, che sapesse unire le biografie delle staffette livornesi alla storia della città labronica, dei suoi periodi più bui e della Resistenza all’occupazione nazifascista. L’analisi delle donne resta il “comune denominatore” nei capitoli dell’elaborato, così come la battaglia per l’affermazione della loro voce e delle loro azioni. Potrebbe esser necessario fare qualche accenno alle battaglie per l’uguaglianza di genere intraprese dalle donne dopo la Seconda guerra mondiale, ma l’elaborato limita la sua riflessione al giorno della Liberazione dell’Italia, avvenuta il 25 aprile 1945.

Questi volti femminili, che direttamente hanno vissuto gli orrori del fascismo e della guerra, sembrano appartenere a una “storia silente”. Infatti, ancora ad oggi prevale una cultura che sembra metter in secondo piano il contributo di queste donne. È molto importante il tipo di ricerca condotto nell’ elaborato perché conoscere la storia passata, l’evoluzione e l’involuzione di alcuni fenomeni, aiuta a orientarsi meglio negli impegni personali, politici, sociali e culturali di queste donne.

La storia del contributo femminile alla causa antifascista è stata riscoperta soltanto negli ultimi decenni dalla storiografia. Si tratta di una storia nuova e inerente ai rapporti di genere, una storia da ricostruire e da ricordare. Per realizzare questo elaborato è stato necessario consultare una grande mole di fonti secondarie, quali monografie e articoli di giornale. Con la morte recente di due antifasciste livornesi, Osmana nel 2016 e Ubaldina nel 2021, è stato impossibile analizzare delle fonti primarie.

L’elaborato mira quindi a dar voce a delle storie di donne comuni, che agiscono senza il sostegno di ideologie politiche in senso stretto, che «non hanno armi per difendersi, e se le avessero non saprebbero nemmeno usarle».[3] Donne comuni che operano nel contesto livornese e che hanno dovuto combattere per una “doppia liberazione”: dal fascismo e dall’oblio. In particolare, queste storie devono essere tutelate da una memoria che tende a esaltare l’eroismo e il cameratismo maschile, e dimentica il contributo femminile.

Storie di donne nell’antifascismo livornese.

Alle lotte compiute per la liberazione del Paese dal regime fascista e dall’occupazione tedesca hanno preso parte le donne livornesi. Queste donne coraggiose hanno dato sostegno alle azioni dei partigiani, soprattutto nel ruolo di staffette. Le staffette provvedevano alla diffusione di volantini, aiutavano i soldati e i partigiani fornendo viveri e medicine, non aderivano a formazioni combattenti scegliendo comunque di abbracciare gli ideali della Resistenza. La distribuzione della stampa clandestina e dei volantini antifascisti da attaccare nella notte richiedeva continui spostamenti.

Le donne erano in grado di superare più facilmente i controlli e riuscivano a smistare per il territorio volantini, armi e medicine: tutto ciò era possibile perché, in una società autoritaria e profondamente maschilista, venivano continuamente sottovalutate.[4] Loro stesse riuscirono a sfruttare la libertà di movimento di cui godevano, col fine di raggiungere gli obiettivi prefissati dalle organizzazioni antifasciste. Inoltre, con l’avvento della conflittualità locale, diventava sempre più pericoloso farsi trovare addosso dei documenti che dimostrassero una collaborazione antifascista. Si trattava di un rischio personale ben preciso, che metteva a repentaglio sia la vita della donna che l’attività dell’organizzazione.

Per le donne la Resistenza è stata una specie di viaggio verso la progressiva conquista dei diritti e delle libertà. Attraverso quest’esperienza si ritrovano a essere più consapevoli dei propri mezzi e dei propri diritti, molti ancora da conquistare. Molte donne livornesi, come Osmana e Ubaldina, nel secondo dopoguerra intraprendono un percorso di emancipazione, entrando in associazioni politiche e sociali, di cura dell’infanzia e dell’educazione. Questa parte analizza il contributo di tre donne livornesi alla causa dell’antifascismo: Erminia Cremoni, Osmana Benetti, Ubaldina Pannocchia.

1.      Erminia Cremoni (1905-1956).

Erminia nasce a Livorno in una famiglia modesta e fin da piccola viene iscritta all’Azione Cattolica, a cui partecipa con slancio e con entusiasmo. Erminia fu espressione del laicato cattolico, ovvero quel complesso di persone laiche che aderirono o vennero poste ai vertici di associazioni cattoliche ed ecclesiali, che si scontrò con il regime negli anni Trenta. Lo scontro tra associazioni cattoliche e regime riguardava principalmente l’educazione dei giovani, un campo che veniva rivendicato dalla Chiesa, ma che il fascismo non voleva contendere e che voleva porre sotto il suo esclusivo dominio. Gli anni Trenta sono anni difficili, che Erminia definisce come «vissuti con le rotine sotto i piedi» (come lei descrive tale periodo secondo il dialetto livornese).[5] Si sposta continuamente per portar aiuti pratici e conforto spirituale tra i bisognosi di ogni ceto: nelle carceri, nei quartieri poveri della città, nelle fabbriche, negli ospedali.

La politica ufficiale della chiesa livornese in quegli anni è improntata su una sorta di coesistenza pacifica col fascismo, ma al di là dell’ufficialità, i comportamenti erano sfumati. Una prova di quest’ultima affermazione è la tolleranza del vescovo Giovanni Piccioni – il quale ha esercitato il suo ministero episcopale dal 1921 al 1959 – verso la presenza di docenti antifascisti nelle scuole cattoliche, di ex esponenti del Partito Popolare Italiano non iscritti al Fascio a capo di organizzazioni diocesane e, l’esistenza di frange fasciste anticlericali nei circoli giovanili cattolici.[6] Il compromesso tra la curia livornese e il Partito Nazionale Fascista livornese si fonda su un patto tacito in base al quale, in materia di associazionismo femminile, si stabilisce ambiti di azione diversi, mentre in realtà ognuna delle istituzioni cerca di guadagnare ampi consensi.[7] Il vescovo mira a rafforzare l’aspetto religioso e di preghiera nelle proprie organizzazioni , consolidando le opere sociali legate agli ordini religiosi. Così le associazioni femminili cattoliche intensificano l’attività liturgica e di preghiera, ma allo stesso tempo incrementano quella verso le famiglie ed i bisognosi.

L’Unione Femminile Cattolica viene fondata dalla curia livornese nel 1932, così come altre associazioni, quali l’Unione Donne Cattoliche e Gioventù Femminile Cattolica. Di quest’ultima associazione Erminia viene nominata presidente nel 1943, a fianco del sacerdote Don Roberto Angeli. Don Angeli è stato un sacerdote antifascista militante e promotore di una Resistenza ideologica e culturale: sue sono le conferenze tenute nei primi anni Quaranta al Cenacolo di Santa Giulia, finalizzate a dimostrare che «Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano».[8] Ha rappresentato i cristiano-sociali all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale toscano, impegnandosi soprattutto nell’attività di assistenza dei partigiani e trovando rifugi quando necessario. Nel secondo dopoguerra, alcuni esponenti cristiano-sociali toscani confluiranno in uno dei partiti simbolo della ricostruzione della vita democratica del Paese: la Democrazia Cristiana.

Dopo l’8 settembre, la Cremoni partecipa ad azioni di rifornimento e di assistenza a un gruppo di soldati italiani scampati alla cattura tedesca e rifugiati nei sotterranei dell’ospedale di Livorno fino al giugno del 1944. Aiuta anche un gruppo di novanta ebrei nascosti in una palazzina di via Micali, percorrendo una o due volte alla settimana circa venti chilometri a piedi da Montenero, anche sotto i bombardamenti. Unisce attività spirituali e trasporto di volantini, armi, medicinali e viveri, ai gruppi partigiani cristiani nella zona: nella sua grande borsa, sotto gli opuscoli dell’Azione Cattolica, porta nascoste veline e informazioni da consegnare, a volte rimanendo coinvolta nei conflitti a fuoco.

Dopo la guerra Erminia continua a dedicarsi alle opere di assistenza dei più deboli: fonda e presiede il Centro Italiano Femminile nel 1944. Due anni dopo viene eletta in un consiglio comunale nella lista della Democrazia Cristiana.

Muore nel 1956 ma il suo intervento giunge fino ai giorni nostri, il suo nome compare infatti nel database creato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.[9] Compare il suo ruolo di partigiana combattente durante la Seconda guerra mondiale, prestando servizio presso la I divisione di Giustizia e Libertà tra il 9 settembre 1943 e l’11 agosto 1944.

2.      Osmana Benetti (1923-2016).

Osmana Benetti nasce a Livorno nel 1923, è figlia di un operaio dei cantieri navali ed è la prima di cinque fratelli. Sua mamma lava i panni e fin da piccola vuole imparare a cucire ma, il futuro che la attende è molto diverso.[10] Cresce in una famiglia di ideali democratici e antifascisti, sebbene non in aperta opposizione al regime. Nonostante abbia frequentato la scuola solo fino alla quinta elementare, è una grande appassionata di libri, che la aiutano a riflettere sulla situazione politica in cui vive.[11] La giovane generazione, di cui Osmana fa parte, cresce in fretta con l’avvento della guerra. Fin da quando è giovane, si dichiara come pronta a sacrificare la sua vita in nome della libertà e della democrazia. Durante il suo sfollamento nel 1940 a Castellana Marittima conobbe alcuni giovani, anch’essi sfollati, i quali avevano mantenuto dei contatti col Partito Comunista a Livorno.

L’attività di staffetta comincia nel 1943: è incaricata di trasportare materiale a stampa, documenti e informazioni tra le varie cellule che operano nella zona di Livorno.[12] Il suo compito è creare una linea di collegamento tra la campagna e la città, ma grazie al suo fisico esile non viene mai perquisita ai posti di blocco.[13] Un altro compito è la distribuzione di volantini di propaganda antifascista, che Osmana lega con i fiocchi i colorati del suo corredo ai rami delle piante, lungo la strada per la miniera della Valle Benedetta, affinché gli operai li possano leggere.

La famiglia è all’insaputa di tutto, poiché credono che «le donne non si devono occupare di politica».[14] La madre non appena scopre che sua figlia è staffetta, tenta di chiuderla in casa perché «spariva fino a tardi» e «si incontrava con i compagni maschi, spesso più grandi di lei».[15] Grazie alla madre, sfugge all’arresto nel gennaio 1944, che porta all’arresto di ventotto partecipanti ad una riunione clandestina, a causa di una soffiata. Nei mesi successivi organizza assemblee per parlare ad alcune donne e per convincere le famiglie a non aderire alla Repubblica di Salò. Parla di prospettive, di futuro, di ricostruzione della città e del tessuto sociale.

È una delle fondatrici dei Gruppi di Difesa della Donna, organizzazione nata nel 1943 per iniziativa del Partito Comunista con l’intento di organizzare una rete di aiuti alle famiglie di carcerati, di internati e di partigiani. Anche se l’obiettivo primario è quello di promuovere la Resistenza femminile in ogni ambiente sociale, «non basta incitare gli uomini alla lotta» (come scrive Osmana in un volantino redatto per l’organizzazione).[16]

Nell’estate del 1944, frequentando la federazione del Partito, conosce Garibaldo Benifei: figura di spicco dell’antifascismo livornese, comunista, già condannato al carcere due volte per attività sovversiva. Nel dopoguerra i due di sposano e lei continua l’attività politica come responsabile del gruppo delle donne comuniste nel Partito Comunista Italiano. Con le donne dell’Unione Donne Italiane (UDI) contribuisce alla costruzione dei primi asili della città. Fino alla sua morte, ha continuato ad occuparsi dei diritti delle donne come membro dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (ANPPIA) ed ha svolto un’attività di testimonianza alle nuove generazioni, soprattutto nelle scuole. A differenza di Garibaldo, lei ha dovuto aspettare settant’anni per ottenere la Livornina ovvero l’onorificenza del comune, che ha ottenuto solo nel 2015.

Spesso le fonti rappresentano la lotta per la liberazione del Paese intrapresa da Osmana come “combattuta in funzione del marito”. Queste rappresentazioni sono assai riduttive e tradiscono alcuni messaggi tramandati da lei stessa, in cui affermava:

«[…] Onori e riconoscimenti ce li siamo conquistati sul campo perché abbiamo collaborato a rimettere in piedi le strutture democratiche in tutto il Paese, a costo di grandissimi sacrifici. […] Alle ragazze di oggi consiglio di trovare un lavoro che le renda indipendenti, perché senza indipendenza economica non esiste nessuna indipendenza […]». [17]

È necessario ricordarla come una partigiana che ha lottato contro il fascismo e che, fino agli ultimi giorni della sua vita, si è fatta promotrice dei diritti delle donne. Osmana è morta nel 2016 all’età di 93 anni ed ha lasciato una preziosa eredità che «spetta a noi tener viva».[18]

3.      Ubaldina Pannocchia (1923-2021).

Ubaldina è coetanea di Osmana, nasce a Livorno nel 1923. La sua infanzia scorre tranquilla ma, essendo l’unica femmina, frequenta la scuola fino alla quinta elementare perché la priorità è far studiare i suoi due fratelli maschi. Col tempo impara a ricamare e a suonare il pianoforte all’Istituto delle suore in via Galilei. Vive in un mondo fatto di musica e di spensieratezza, finché il padre rischia di perdere il posto di lavoro in macelleria perché non iscritto al Fascio. Inizia a odiare il regime attraverso i racconti sull’uccisione dei fratelli Gigli (1922), che vennero massacrati nella loro abitazione, nel palazzo di fronte a dove abita la zia di Ubaldina. Si interessa alla politica quando si innamora di Nedo Guerrucci, amico del fratello Roberto. Nedo le spiega la situazione italiana ed estera, le parla dell’opposizione al regime fascista e delle repubbliche sovietiche.[19]

A seguito dei bombardamenti, la famiglia di Ubaldina sfolla a Lorenzana nel 1943. Prima della sua partenza, aiuta Nedo a diffondere alcuni manifesti antifascisti per le strade di Livorno, Ubaldina ha paura e gli dice: «[…] Ma sei impazzito? Se ci scoprono o li trovano, ci arrestano […]».[20] Ma nonostante la paura, Ubaldina non crede al fascismo e nemmeno alla guerra lampo, vuole salvare i suoi giovani amici catturati ed imprigionati. Ricorda il suo sfollamento in un’intervista rilasciata al programma televisivo “Noi partigiani”, in cui vengono intervistati alcuni esponenti della Resistenza. Le autorità nazifasciste giungono a Lorenzana per arrestare il fratello Roberto e Ubaldina ricorda l’accaduto con sarcasmo livornese: «[…] i tedeschi… bimba mia, farciavano […]».[21] In casa è presente un pianoforte verticale che viene perquisito per cercare ulteriori prove di colpevolezza contro Roberto, ma non notano sul fondo la presenza dei manifesti contro la guerra e il fascismo. Questi manifesti erano stati realizzati da Concetto Marchesi, all’epoca rettore dell’università di Bologna e militante antifascista. Per Ubaldina «i tedeschi non si intendevano di musica» ed è stata forse quella la sua salvezza.[22]

Con l’armistizio dell’8 settembre, Nedo è chiamato a presentarsi al Comando militare di Ardenza, ma ha già preso la decisione di partecipare alla lotta come partigiano. In formazione è collocato a Castellaccio e, proprio per avere sue notizie, Ubaldina comincia a stringere in prima persona contatti con altri partigiani come Vasco Caprai e Giovanni Finocchietti. Collabora facendo la staffetta: procurando viveri, trasportando armi nella borsa della spesa, cercando e nascondendo medicinali e volantini, in sella alla sua bicicletta per le colline livornesi.

Ma Ubaldina dopo questa esperienza d’impegno civico non riesce a tornare a casa perché, come aveva capito già Giuseppe Fenoglio (scrittore e partigiano italiano), «chi è partigiano lo è per tutta la vita».[23] Finita la guerra, Ubaldina e Nedo si sposano nel 1946. Lui rimane in politica e riceve incarichi presso il Partito Comunista, mentre lei si avvicina al movimento femminile. Partecipa all’Unione Donne Italiane alla ricostruzione della città e delle scuole, alla creazione dei primi asili e all’allestimento della prima Festa dell’Unità al Parterre.[24] Ha preso coscienza di essere stata staffetta solo in maturità, leggendo il libro di Miriam Mafai intitolato “Pane nero: donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale” (1987).[25] Per il nipote Valerio ha messo nero su bianco il racconto delle sue memorie di partigiana, inizialmente condiviso di scuola in scuola e infine stampato dal comune nel 2016, intitolato: Nonna raccontami. Ricordi di Ubaldina Pannocchia, staffetta partigiana.

Ubaldina è morta nel 2021 all’età di 98 anni. Prima della sua morte ha preso parte al film “Indizi di felicità” realizzato dal Dirigente dell’ANPI Walter Veltroni, lui stesso la descrive come capace di «saper cogliere le tracce di felicità nei momenti più bui della sua vita privata e del suo impegno pubblico».[26] Così Ubaldina «per amore, per ideologia o per entrambi» ha deciso di prender parte alla Resistenza, un evento che ha cambiato la sua vita e la vita di tante altre.[27]

Conclusioni.

Spesso ci domandiamo perché sia importante tornare a ricordare o a raccontare. Una delle risposte possibili può essere “per non dimenticare” o per “dare una giustizia postuma”, salvando il ricordo di quello che è accaduto e non disperdendo le parole di chi c’era e ha visto. «Nulla se non le parole» ci rimangono per ricordare, come afferma Primo Levi.[28] L’avvento del fascismo, la Seconda guerra mondiale e la Resistenza, hanno occupato e occupano un ruolo centrale nella coscienza contemporanea, ecco perché il tema è così importante. In particolare, l’elaborato ha cercato di rispondere a una domanda: qual è stato il contributo di Erminia, Osmana e Ubaldina alla causa dell’antifascismo e della Resistenza?

I contributi delle donne alla causa dell’antifascismo variano da biografia a biografia, così come tra le tre antifasciste livornesi. Erminia si sposta continuamente per portare aiuti pratici e conforto spirituale ai bisognosi di ogni ceto: la battaglia contro il fascismo avviene attraverso la fede cristiano-cattolica. Osmana lotta contro le ingiustizie sociali e a sostegno dei lavoratori, promuovendo negli ambienti sociali una nuova Resistenza al femminile. Ubaldina è semplicemente una «ragazzina tra le altre» quando scoppia la guerra, ma sono chiari nella sua mente gli ideali di giustizia e di libertà, che la spingono a diventare staffetta in sella alla sua bicicletta per le colline livornesi.[29] Le storie esemplari di queste donne che hanno lottato per la libertà, necessitano di un’attenzione maggiore che ancora manca. Nella sintesi conclusiva, è possibile affermare che queste figure sono essenziali per la comprensione della storia di Livorno e della storia del contributo delle donne alla liberazione del Paese.

Nella realizzazione dell’elaborato sono emerse delle problematiche che riguardano il contesto storico-geografico prescelto: quello livornese. La produzione monografica sulla storia di Livorno risulta esigua, soprattutto se facciamo riferimento agli eventi della storia contemporanea. L’invito per il futuro è quello di porre maggior attenzione agli eventi che hanno scosso una città portuale, crocevia di popoli dalle culture e dalle storie diverse, quale è Livorno.

Insieme alle problematiche menzionate in precedenza, anche un’altra questione rimane aperta: quella della memoria. Col passare degli anni, i diretti protagonisti della Resistenza scompariranno e con essi anche delle fonti preziose. Per questo motivo, il dovere delle future generazioni è quello di mantenere vivo il ricordo e il contenuto di queste fonti.

 

NOTE

[1] Enciclopedia Treccani, Antifascismo, < https://www.treccani.it/enciclopedia/antifascismo >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[2]Dizionario di Storia, “Antifascismo”, in Enciclopedia Treccani, < https://www.treccani.it/enciclopedia/antifascismo_%28Dizionario-di-Storia%29/ , data di consultazione: 7 agosto 2022.

[3] A. Bravo; A. M. Bruzzone; In guerra senza armi. Storie di donne (1940-1945). Bari: Editori Laterza, 2000, p. 14.

[4] I. Carrone, Le donne della Resistenza. La trasmissione della memoria nel racconto dei figli e delle figlie delle Partigiane. Formigine (MO): Infinito edizioni, 2014, p. 40.

[5] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, «Comune di Livorno online», 12 febbraio 2016, < http://www.comune.livorno.it/_cn_online/indexff46.html?id=184&lang=it >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[6] T. Noce, Nella città degli uomini, Donne e pratica della politica a Livorno tra guerra e ricostruzione. Roma: Rubettino, 2004, p. 31.

[7] Ivi, p. 32.

[8] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[9] Istituto Centrale degli Archivi, Erminia Cremoni, «I partigiani d’Italia. Lo schedario delle commissioni per il riconoscimento degli uomini e delle donne della resistenza», < https://www.partigianiditalia.beniculturali.it/persona/?id=5bf7d1ce2b689817c8bac480 > , data di consultazione: 7 agosto 2022.

[10] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come gli uomini, poi siamo rimaste un passo indietro”, «la Repubblica», 24 aprile 2015, < https://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/04/24/news/osmana_abbiamo_lottato_come_gli_uomini_poi_siamo_rimaste_un_passo_indietro_-112742382/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[11] In ricordo di Osmana Benetti in Benifei. La vita, la lotta, la cooperazione, «Fondazione Memorie Cooperative», 11 febbraio 2016, < http://www.memoriecooperative.it/i-soci-raccontano/in-ricordo-di-osmana-benetti-in-benifei-la-vita-la-lotta-la-cooperazione/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[12] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[13] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come uomini, poi siamo rimaste un passo indietro.”, cit.

[14] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come uomini, poi siamo rimaste un passo indietro.”, cit.

[18] Addio a Osmana, simbolo della Resistenza delle donne, «Il Tirreno», 11 febbraio 2016, < https://necrologie.iltirreno.gelocal.it/news/26220 >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[19] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[20] U. Pannocchia, Nonna… raccontami! Ricordi di Ubaldina Pannocchia staffetta partigiana. Roma: URP editoria, 2016, p. 7.

[21] Noi partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana, Ubaldina Pannocchia, 2019 – 2020, < https://www.noipartigiani.it/ubaldina-pannocchia/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[22] Noi partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana, Ubaldina Pannocchia, cit.

[23] U. Pannocchia, Nonna… raccontami! Ricordi di Ubaldina Pannocchia staffetta partigiana. Roma: URP editoria, 2016., p. 3.

[24] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[25] M. Zucchelli, Si è spenta Ubaldina Pannocchia: staffetta partigiana per amore. Le lotte nella Livorno da ricostruire«Il Tirreno», 30 luglio 2021, < https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/07/30/news/si-e-spenta-ubaldina-pannocchia-staffetta-partigiana-per-amore-le-lotte-nella-livorno-da-ricostruire-1.40553977 >, data di consultazione:  7 agosto 2022.

[26] Ibidem.

[27] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[28] I. Carrone, Le donne della Resistenza, cit., p. 9.

[29] M. Zucchelli, Si è spenta Ubaldina Pannocchia: staffetta partigiana per amore, cit.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.