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La storia ignota degli italo-greci a Firenze

Per i fiorentini non più giovani quell’area di fabbricati situata nella zona di Novoli, fra via Magellano e via di Caciolle, era considerata il quartiere dei greci, dove fra l’altro si potevano comprare sigarette di contrabbando sino agli inizi degli anni Ottanta. Per coloro che ci abitavano era invece Laspeica, in greco melma, un rione per decenni privo di strade e marciapiedi che nelle giornate di pioggia diventava un vero e proprio pantano, da cui il nome che gli era stato dato. Gli abitanti di questi appartamenti, costruiti nella prima metà degli anni Cinquanta, non erano propriamente greci ma italiani, la maggior parte di origine pugliese, che furono rimpatriati nel secondo dopoguerra. Erano quegli italiani che sul finire del XIX secolo, emigrati dalle coste pugliesi, raggiunsero la Grecia in cerca di una sistemazione economica migliore di quella che poteva offrire loro il nuovo Regno d’Italia. Molti si concentrarono nella città di Patrasso dove formarono una comunità di circa 3000 persone integrate perfettamente nel tessuto sociale greco [1]. Poi venne il 28 ottobre 1940 quando alle prime luci dell’alba le truppe italiane ricevettero l’ordine di attaccare la Grecia [2]. Con l’inizio della guerra lo sdegno e il rancore dei greci esplosero con il fragore della prima bomba che cadde proprio sulla scuola italiana di Patrasso “Santorre di Santarosa” facendo crollare la cappella adiacente al cortile dell’edificio: l’aereo volando ad altissima quota non poté certo distinguere la bandiera italiana che sventolava in quel mattino livido di pioggia [3]. Per fortuna era un giorno festivo (anniversario della marcia su Roma), vacanza per la scuola italiana, per cui non vi furono vittime innocenti.

Da quel momento l’armonia di un’integrazione naturale che nel corso del tempo si era creata fra la comunità italiana e i greci si sgretolò improvvisamente producendo ritorsioni su quei poveri italiani increduli di quanto stava accadendo, ma soprattutto innocenti per l’attacco militare che Mussolini aveva deciso contro quella terra in cui loro vivevano da generazioni in pace con sé stessi e con gli altri. Ma per i greci erano considerati corresponsabili dell’aggressione fascista e tutti i cittadini italiani, di sesso maschile, di oltre sedici anni, furono rinchiusi nei campi di concentramento di Goudì, Argos, Neakokkinià [4]. 

Con l’8 settembre del 1943 finì l’occupazione italiana della Grecia che passò direttamente sotto il controllo della Germania nazista e per la comunità italiana iniziò un nuovo calvario, oltre all’intransigenza ed alle mortificazioni messe in atto dagli ex fratelli greci, gli italiani dovevano ora subire anche la rabbia e le ritorsioni degli ex alleati tedeschi. Presi tra due fuochi la vita per gli italiani residenti in Grecia risultò sempre più problematica. Da una parte aumentarono le angherie ad opera dei greci perché li ritenevano i primi responsabili dell’occupazione, dall’altra iniziarono le deportazioni e le uccisioni ad opera dei nazisti, che manifestavano nei loro comportamenti maggiore ferocia verso gli italiani piuttosto che contro i greci. Finita la guerra il destino di queste persone di origine italiana pareva segnato; infatti, il governo ellenico aveva espresso al comando delle Forze Alleate l’intenzione di deportare in un ragionevole limite di tempo ai loro paesi di origine tutti i cittadini di Stati nemici ed ex nemici che si trovavano in Grecia, e di conseguenza il provvedimento riguardava anche gli italiani. A niente servì l’appello di Alcide De Gasperi alla Commissione Alleata per poter bloccare il rimpatrio degli italiani residenti in Grecia, e nell’autunno del 1945 iniziò l’esodo dei nostri connazionali…

La signora Angela aprì la porta di casa ritrovandosi dinnanzi un funzionario di polizia che gli intimava: mercoledì prossimo alle otto si faccia trovare al porto con tutta la sua famiglia per essere imbarcati sulla nave che vi porterà in Italia [5]. 

Più o meno le stesse parole furono proferite in quel novembre del 1945 a tutti gli abitanti di origine italiana che risiedevano a Patrasso da due o tre generazioni. Solo pochi giorni quindi per abbandonare la propria casa e i propri averi (fu consentito loro di portare solo poche e piccole cose). Si sta parlando di più di tremila persone integrate perfettamente nella società greca che, con lo scoppio della guerra, non solo subirono angherie, sopraffazioni ed insulti dai loro concittadini greci, ma alla fine del periodo bellico furono deprivati delle loro proprietà e cacciati malamente dal territorio ellenico. Sarebbe come se in un ipotetico scontro tra occidente e mondo arabo (e di questi periodi non è fantascienza…) si imbarcassero sulle navi tutti gli arabi residenti in Italia (molti dei quali con cittadinanza italiana) per riportarli in Africa.

Ecco di tutta questa storia degli italo-greci, della loro sofferenza nel lasciare una terra che ormai consideravano propria, delle loro difficoltà nel riadattarsi e nel reinserirsi nella società italiana che aveva lasciato alle spalle il Ventennio – di cui questi profughi conservavano un ricordo condizionato dalla propaganda fascista di assistenza agli italiani residenti all’estero – ecco che di questa vicenda la storiografia ufficiale sembra essersene dimenticata o forse neanche di conoscerla. È vero che si trattava della storia di poche migliaia di individui, storia che si configura come una goccia d’acqua nel mare delle profuganze che nel dopoguerra si muovevano per tutta l’Europa e nel mondo, ma si trattava pur sempre della vita di essere umani vittime di un destino scritto da altri di cui loro incolpevoli subivano le sorti.

 

Nave Patrai.

Per tutto il mese di novembre le corvette Patrai e Terrmoscopilichi fecero la spola tra Patrasso e Bari, portando a termine l’esodo dei nostri connazionali; dal capoluogo pugliese – dove molti decisero di rimanervi – risalirono la penisola con treni, spesso trovando posto su vagoni merci, con un interminabile viaggio su una linea ferroviaria rattoppata, giungendo finalmente a Bologna dove esisteva un centro di smistamento. Da qui i profughi presero principalmente due direzioni, verso il Piemonte, regione nella quale erano in funzione tre grandi complessi, la Caserma Passalacqua a Tortona, in provincia di Alessandria, la Caserma Perrone a Novara e le Casermette di Borgo San Paolo a Torino, o verso Firenze alla Caserma ex Genio dia via della Scala, dove trovarono alloggio circa 2000 italo-greci.

 

Veduta esterna della Caserma di via della Scala adibita a Centro profughi dal 1944 al 1956.

Questa grande struttura, originariamente un convento costruito alla fine del Duecento, nel corso dei secoli ha cambiato più volte uso di destinazione: ha accolto la prima stamperia a caratteri mobili nel 1472, successivamente dopo una restaurazione nel periodo rinascimentale è divenuta un educandato, dopo un conservatorio, per poi essere preso in consegna dall’esercito e dai carabinieri fino all’8 settembre del 1943 quando fu occupato dalle truppe tedesche. Dopo la Liberazione di Firenze nell’agosto del 1944 venne trasformato in Centro di raccolta per sfollati e profughi [6]. Artefice ed organizzatore del Centro fu il Capitano inglese Limbert che rimase al comando della struttura per circa un anno. Quando nel novembre del ‘45 giunsero ad ondate quei profughi provenienti dalla Grecia, molti locali della Caserma erano ancora occupati, nonostante i continui appelli ad abbandonare la struttura, dagli sfollati e dai fiorentini sinistrati, e gli italo-greci trovarono posto solo ammassandosi nelle camerate ancora libere e dentro un teatro e una chiesa sconsacrata all’interno dello stesso edificio.

Vivevano in grandi stanze, alcune senza finestre, dormendo per terra sopra pagliericci o ammassi di cenci che fungevano da materassi, una ventina di persone per camerata, dove ogni nucleo familiare trovava un proprio spazio innalzando coperte come divisori. Per queste persone ogni giorno si presentava come il precedente, sradicati dalla propria terra per colpe altrui, chiedevano soltanto che fosse concessa loro la possibilità di ricominciare, sia pure con fatica, a vivere. E in questo contesto di profondo degrado al Centro profughi all’inizio vi era solo il dolore, l’indecenza, l’abbattimento, vi era la totale sfiducia nelle istituzioni; nel cuore di questa gente sfortunata, piano piano, si faceva strada l’odio… ed era comprensibile. Gli avevano promesso un’accoglienza diversa in alloggi confortevoli e invece niente di tutto questo: “Venga a vederci signor Ministro” [7] scrivevano a Emilio Lussu allora in carica al Ministero dell’Assistenza postbellica. Queste persone avevano lasciato alle spalle le brutture, le persecuzioni, i morti sulle piazze di un’assurda guerra, avevano abbandonato piangendo la loro terra, le loro case, il loro mare, i loro animali come quella gattina di nome Xenià dagli occhi verdi che seguì fino al porto la sua padroncina, ma nella ressa e nella confusione venne scacciata e di lontano sulla banchina sembrava salutare quella bambina con le lacrime agli occhi che si allontanava dal porto di Patrasso imbarcata sulla nave che la portava in Italia [8].

Dai primi tempi del loro insediamento nella caserma di via della Scala gradatamente siamo passati tramite provvedimenti comunali e della Prefettura, con decreti legislativi, e soprattutto con le continue rivendicazioni sfociate spesso in rivolte di queste persone che niente avevano da perdere, ad una situazione di vita un po’ più decorosa di quella iniziale ma sempre al di sotto della normalità. Anche una certa propensione nel sapersi arrangiare, caratteristica dei patrassini e più in generale di tutti gli abitanti del bacino del Mediterraneo, giungendo perfino a contravvenire alla legge con la pratica del contrabbando, va inserita nel computo di tutti quegli elementi che contribuirono ad un qualche miglioramento delle condizioni di vita di questi profughi.

 

Giovani residenti al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Stella.

Famiglia italo-greca al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Croce.

E infatti solo dopo pochi mesi di vita al Centro, i profughi organizzarono in modo autonomo un mercato montando le bancherelle in via della Scala, una tra le strade meno movimentate di Firenze era diventata una delle più animate. Il Centro Profughi aveva creato un ambiente cosmopolita, in perpetuo movimento, «tanto che bastava affacciarsi ai cancelli per avere l’impressione di un grande alveare. E piano piano, lungo i marciapiedi della via erano cominciate le bancarelle. Naturalmente avevano attecchito quelle dei commestibili e delle cianfrusaglie, tanto che chi passava si godeva uno spettacolo vivo di colori,  poponi, cocomeri e altra frutta di ogni sorta esposti in pieno sole per un lungo tratto» [9]. Non era difficile scovare in mezzo ai banchi del mercato anche chi ti offriva di nascosto sigarette di contrabbando, naturalmente ad un prezzo inferiore rispetto a quello imposto dal monopolio di Stato. Questa attività illegale era nata quasi per caso perché venivano rivendute le sigarette che i soldati americani generalmente donavano alla popolazione: «avevo dieci anni e nascondevo i pacchetti di sigarette regalate dagli americani sotto il maglione per venderle sotto i portici di fronte a Piazza della Repubblica» [10].

Il contrabbando di sigarette, inizialmente tollerato dalla Guardia di Finanza, coinvolse sempre più i profughi facendo diventare il Centro di via della Scala il più grande punto cittadino di smistamento e smercio di sigarette [11]. La cronaca della stampa locale di quegli anni fa riferimento a continue ispezioni della polizia e soprattutto della Guardia di Finanza nei locali del Centro alla ricerca di sigarette che puntualmente scovavano nei posti più impensati.

Il contrabbando assunse dimensioni sempre più grandi sino a divenire una nota distintiva per i profughi “greci”, anche quando lasciarono il Centro di via della Scala per andare ad abitare nelle case popolari in via di Caciolle. Qui all’interno del rione, fra le stradine che collegavano le abitazioni con quelle tipiche scale esterne, è proseguito per tutti gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il rione dei greci – molti clienti ignoravano la loro origine italiana – è stato sempre conosciuto dalla cittadinanza fiorentina come il luogo di approvvigionamento per quei fumatori che volevano risparmiare sul costo del pacchetto di sigarette. E se la Guardia di Finanza inizialmente aveva ricevuto precise disposizioni di tollerarlo, perché i profughi dovevano cercare pur di rifarsi una vita, poi intervenne duramente perché appunto questo fenomeno aveva assunto proporzioni molto più vaste – tutti passavano “dai greci” per le sigarette – con conseguenti danni al monopolio di Stato. Non tutti i profughi però continuarono questa pratica illegale, per molti fu solo all’inizio della loro avventura italiana, per poi cercare altre occupazioni: un lavoro che avrebbe dato loro la possibilità di un sostentamento economico per sperare in un futuro migliore. E non essendoci nella Firenze postbellica un’abbondanza tale di richieste per accontentare tutti, si specializzarono in attività di artigianato quali l’elettricista, il sarto, il falegname… Vi erano poi coloro che avevano trovato lavoro proprio all’interno del Centro nei laboratori di biancheria e calzoleria, locali annessi al Centro stesso, per la confezione di materiale assistenziale. Solo più tardi con l’inizio degli anni Cinquanta cominciarono le assunzioni in alcune fabbriche fiorentine che avevano ripreso la produzione industriale dopo la guerra: alcuni entrarono nella Pignone altri nella Gover. Ma ci furono anche coloro che decisero di raggiungere il nord Italia, soprattutto Torino, dove la Fiat aveva iniziato a richiamare emigranti da tutta la penisola. Queste persone che avevano lasciato Firenze si riunirono agli altri profughi che nel viaggio dalla Grecia a Bologna decisero di continuare per il nord.

Con il passare degli anni, oltre al lavoro, il problema più impellente per i profughi era riuscire a trovare una sistemazione in alloggi esterni dal Centro. A livello nazionale vi era l’esigenza da parte delle autorità statali di smantellare i centri di raccolta, o perlomeno di liberarli dalla presenza di quei profughi che soggiornavano ormai da anni in queste strutture a carico dello Stato. I vari Ministeri che si occupavano dei profughi avevano anche la necessità di reperire nuovi spazi per poter contenere le ondate dei rimpatriati dalle regioni giuliano-dalmate che continuavano a giungere in Italia sino alla fine degli anni Cinquanta. I tentativi messi in atto dai funzionari dello Stato non dettero però buoni risultati in merito: venivano elargite somme di denaro abbastanza consistenti per liberare i posti all’interno dei centri di raccolta, ma i profughi una volta acquisita la liquidazione continuavano a rimanervi perché non trovavano nessuna sistemazione all’esterno. Il Decreto-legge del 19 aprile 1948 n. 556, che imponeva la cessazione dell’assistenza ai profughi entro il 30 giugno 1949 tramite una liquidazione di 50.000 lire a persona, non dette assolutamente i risultati ipotizzati [12]. Il 30 giugno ‘49 almeno a Firenze nel Centro Profughi di via della Scala non si liberò nessun posto, anzi a leggere l’articolo del Nuovo Corriere del 7 ottobre 1949 sembra che la situazione abbia assunto toni da farsa pirandelliana perché quei soldi ricevuti allo scopo di trovare una sistemazione al di fuori delle mura del Centro – a sentire i profughi – furono subito spesi per acquistare tutti quegli oggetti, brande, coperte, pagliericci e il corredo per il vettovagliamento che furono loro ritirati al momento della liquidazione [13].

Per avviare realmente lo sfollamento del Centro di via della Scala si dovrà attendere la metà degli anni Cinquanta con le assegnazioni degli alloggi popolari: a parte qualche nucleo familiare che si staccò dalla comunità italogreca trovando sistemazioni nei nuovi quartieri dell’Isolotto e di Sorgane, gli altri furono dislocati sia nel già citato quartiere “dei greci” di via di Caciolle, sia alle Gore sopra Careggi, che – in un numero minore – a Coverciano in via Gelli. Nel novembre del 1956 con l’ultima famiglia traslocata nella casa popolare assegnata, il Centro profughi cesserà la sua attività e riprenderà la funzione di caserma militare. In via della Scala non vi sarà più il mercato multicolore che aveva reso piena di vitalità una strada meno frequentata e dai cancelli della caserma non si avrà più l’impressione di una grande alveare. E iniziava così per i profughi usciti dal Centro un nuovo – inverso – percorso di acculturazione: l’inserimento nella società italiana, fiorentina in specie.

 

Città di Firenze – Case per i profughi. Legge 4 marzo 1952 n. 137.

 

A distanza di quasi ottant’anni molti protagonisti dell’esodo dalla Grecia sono scomparsi, altri sono ormai anziani, quasi tutti hanno lasciato le case dei rioni di via di Caciolle e via delle Gore, e negli anni gli appartenenti alla comunità si sono sposati con donne e uomini italiani perdendo progressivamente le caratteristiche della loro grecità, soprattutto la lingua che era rimasta nei primi tempi come elemento di forte distinzione. A Laspeica – nessuno ormai chiama più così il rione di via Caciolle – per le strade non si sente più parlare greco e neanche sentiamo più gli odori tipici della cucina greca, i venditori di sigarette erano già scomparsi da tempo e in questo quartiere ormai i segnali del passaggio della comunità patrassina stanno sfumando, inghiottiti da quel processo di integrazione che sembra abbia lasciato molto poco della loro storia e tradizione. La storiografia italiana che ha iniziato ad interessarsi delle profuganze del secondo dopoguerra contribuirà a non disperdere questa storia e concedere alle loro vicende un posto, seppur piccolo dato l’esiguo numero dei protagonisti, nel panorama della storia italiana del XX secolo. Altrimenti si correrebbe il rischio di appiattire, non conoscendolo, il loro viaggio “andata e ritorno”, come se non fosse mai avvenuto, come se dalla Puglia non fossero migrate volontariamente alla ricerca di un futuro migliore migliaia di persone alla fine dell’Ottocento verso la penisola greca, e da lì ritornare in Italia, cacciate malamente per colpe non loro e costrette a lasciare ogni loro avere costruito faticosamente su quella terra in circa settant’anni. Senza il soccorso della storiografia la loro speranza emigrando dalla Puglia, l’integrazione, la sofferenza, il dolore, l’emarginazione, e di nuovo la speranza e nuovamente la reintegrazione nella società italiana, che costituiscono la storia di questi uomini e donne, svanirebbero negli anni rimanendo semmai nei racconti orali tramandati di generazione in generazione che probabilmente con il tempo andrebbero persi. È un dovere quindi portare alla luce pagine di vicende umane del tutto o quasi ignorate o di storie già dimenticate al fine di rendere cosciente l’intera comunità che anche le vicende di pochi individui, come quella degli italo-greci, reclamano un posto nella storia ufficiale.

 

NOTE

[1] Insieme a Patrasso erano Atene, Corfù e Salonicco, affacciate sulle sponde del Mare Egeo, le città greche ad avere le comunità italiane più numerose, costituite per lo più da migranti meridionali soprattutto pugliesi. Anche a Zante vi era una piccola comunità di italiani di origine meridionale, che poco prima della Grande guerra non superava le 100 unità; meno numerosa era la presenza italiana a Cefalonia, dove agli inizi del Novecento si contavano nell’isola 19 famiglie, in prevalenza pugliesi, Cfr. Giulio Esposito, Esuli in patria: il caso degli italo-greci in Puglia, in Giulio Esposito e Vito Antonio Leuzzi (a cura di), La Puglia dell’accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel Novecento, Progedit, Bari 2015, p. 223.

[2] Sui recenti studi storici dell’occupazione italiana della Grecia cfr. i saggi di Paolo Fonzi: Oltre i confini. Le occupazioni italiane durante la seconda guerra mondiale (1939-1943), Le Monnier, Firenze 2020; Fame di guerra. L’occupazione italiana della Grecia (1941-43), Carocci, Roma 2022.

[3] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso durante il periodo fascista (1930-1945), Ibiskos, Empoli 1988, p. 19.

[4] Cfr. Santarelli Lidia, La violenza taciuta. I crimini degli italiani nella Grecia occupata, in Paolo Pezzino e Luca Baldissara (a cura di), Crimini e memorie di guerra: violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, 2004. Nei documenti consultati presso l’Archivio di Stato di Firenze sulle richieste dei certificati di qualifica di profugo emerge come la maggior parte degli italo-greci giunti a Firenze furono, durante la guerra, internati civili in quei campi per circa 6/7 mesi, in Archivio di Stato di Firenze (ASFI), fondo prefettura, serie certificati qualifica di profugo, Fascicoli da n. 1 a n. 80, classifica 3A/2/14.

[5] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[6] Sulla storia della Caserma di via della Scala, convertita in Centro profughi dall’agosto del 1944 al novembre del 1956, cfr. il fondo dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA) presente all’Archivio Storico del Comune di Firenze, dove sono raccolti in perfetto stato molti materiali sull’Ente dalla sua istituzione alla sua chiusura.

[7] Come si vive al centro profughi? Centinaia di ricoverati scrivono una lettera aperta al ministro Lussu – Il testo del documento – Dichiarazioni dei dirigenti, «La Patria», 22 novembre 1945.

[8] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso, cit., p. 48.

[9] Mercanti bianchi e neri in via della Scala, «La Nazione», 31 agosto 1947, p. 2.

[10] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[11] Sul contrabbando di sigarette degli italo-greci a Firenze, oltre all’analisi della stampa locale del periodo, sono interessanti le relazioni degli assistenti sociali sui minori italo-greci che svolgevano tale attività, in ASFI, Direzione dei centri per la giustizia minorile, servizio sociale per i minori, anni 1951-1955.

[12] Giulio Montelatici, Lo sgombero… dei profughi, «Il Nuovo Corriere», 3 giugno 1949, p. 2.

[13] Ibid.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




13 aprile 1944: la pasqua di Vallucciole

Vallucciole

Vallucciole è un piccolo borgo dell’alto Casentino, situato sul versante meridionale del Monte Falterona, appartenente all’attuale comune di Pratovecchio-Stia [1]. L’area intorno alla località, comprendente gli abitati di Molino di Bucchio, Serelli, Monte di Gianni ed alcuni gruppi di case e poderi sparsi nella zona, è tristemente nota per la strage avvenuta il 13 aprile 1944, in cui persero la vita 108 civili, in prevalenza donne, anziani e bambini.

 

Rimasta a lungo isolata e distante dai grandi avvenimenti della storia, la quiete del borgo e delle località limitrofe venne bruscamente interrotta nella primavera del 1944. Il 13 aprile la 2ͣ e la 4ͣ compagnia della Hermann Göring invasero la piccola vallata, saccheggiando le abitazioni, distruggendo le case ed uccidendo i civili che incontrarono durante il loro cammino.

 

La notte del 13 aprile i reparti comandati dal capitano Loeben partirono da Stia in direzione di Molin di Bucchio, arrestandosi dopo pochi chilometri al casale di Giuncheto, dove abbandonarono i mezzi motorizzati per proseguire a piedi. In base alle fonti inglesi il contingente, composto da circa ottocento uomini, venne diviso in tre gruppi, due agirono indipendentemente, compiendo un accerchiamento della vallata, mentre uno più esiguo, posto nelle retrovie, svolse funzione di controllo, impedendo l’accesso e la fuga dall’area.

 

Le formazioni che operarono la manovra a tenaglia occuparono, perquisirono e distrussero tutti i centri abitati che incontrarono nel corso dell’avanzata. Durante il loro passaggio i soldati della Hermann Göring uccisero tutte le donne, gli anziani e i bambini che individuarono lungo il tragitto, mentre utilizzarono gli uomini adulti per il trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti prelevati dalle abitazioni. Una volta terminata la distruzione e la perquisizione delle case, le colonne proseguirono il loro cammino in direzione del Falterona, alla ricerca delle formazioni partigiane segnalate dalle autorità fasciste locali. Conclusasi quest’ultima fase dell’operazione, la colonna tornò a valle, dove vennero infine uccisi gli uomini che erano stati utilizzati per il trasporto delle munizioni e degli oggetti frutto della precedente razzia [2].

 

Dalle prime ore del 13 aprile 1944 tutti i paesi e i poderi sparsi nella vallata vennero colpiti uno dopo l’altro dall’avanzata tedesca: la popolazione di Vallucciole, Monte di Gianni, Molin di Bucchio, Serelli e i casali di Giuncheto e Moiano vennero inesorabilmente colpiti dall’azione. Dovunque si ripetè la medesima scena, i soldati facevano irruzione nelle abitazioni, prelevavano gli uomini abili al trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti depredati dalle case, mentre donne, bambini ed anziani venivano immediatamente uccisi sul posto.

 

Il sopravvissuto Giovanni Bardi ricorda in questo modo quell’orribile esperienza: Così camminammo per delle ore. Ad ogni casa ci fermavamo e dappertutto la stessa storia. I tedeschi entravano: gli uomini venivano buttati fuori e caricati con le cassette: la nostra fila si allungava. Nelle case le donne e i bambini venivano ammazzati subito. E le bestie, anche, nelle stalle. E poi davano fuoco. Cambiavano soltanto il modo; qui con la benzina, in un’altra casa con le bombe incendiarie, e massacravano con le bombe, coi fucili, coi mitra, con le mazze, coi coltelli. Avevano arsenali di armi e le adoperavano [3].

 

La scena si ripeté in tutti i caseggiati attraversati dall’avanzata tedesca. Dopo aver distrutto e seminato il panico in un abitato la colonna proseguiva il suo cammino alla ricerca delle abitazioni successive. Durante l’ascesa del Falterona coloro che non riuscivano a trasportare i materiali venivano uccisi lungo il tragitto. Il trentasettenne Severino Seri, incapace di poter seguire la colonna a causa della sua cecità venne ucciso a Vallucciole, mentre Pietro Vadi e Angiolo Marchi, il primo sessantasei anni e il secondo settantotto, vennero eliminati lungo il percorso per non esser riusciti a trasportare i materiali [4].

 

Nel corso della giornata non mancarono le violenze sessuali ai danni delle donne, testimoniate in particolar modo nel caseggiato di Moiano di Sopra, dove vennero abusate prima di essere barbaramente uccise.

 

La furia nazista non risparmiò nessuno e non si fermò nemmeno di fronte alla presenza dei più piccoli. Nel corso dell’avanzata vennero uccisi bambini appartenenti a tutte le età: undici furono le vittime con meno di dieci anni. A Vallucciole avvenne probabilmente l’episodio più macabro, l’uccisione di Angiola Vadi Gambineri e del figlio Viviano, partorito pochi mesi prima [5].

 

Il piccolo Vivivano foto scattata da Prasildo Giachi il 15 aprile 1945

 

In questo caso, come per ampia parte della strage, non disponiamo di testimonianze dirette, poiché pochissimi furono coloro che riuscirono a salvarsi quel giorno. Le poche informazioni di cui disponiamo provengono dalle notizie fornite dai pochi sopravvissuti, da coloro che per primi si recarono a prestare soccorso nei paesi colpiti dal rastrellamento e dall’indagine condotta nel 1945 dagli alleati.

 

Dopo aver seminato il panico per la vallata, la colonna continuò l’ascesa del Monte, alla ricerca dei partigiani segnalati dalle autorità fasciste. Quest’ultima fase dell’operazione fu un insuccesso e non portò all’individuazione di nessun gruppo partigiano. La colonna di trasportatori percorse dunque a ritroso il sentiero precedentemente compiuto, passando per Monte di Gianni e Vallucciole, fino ad arrivare a valle. A Molin di Bucchio venne intimato a quattro uomini di posare l’attrezzatura e di tornare alle loro case, ma avviatosi verso le loro abitazioni vennero raggiunti dagli spari dei soldati tedeschi. La medesima scena si ripeté pochi istanti dopo al casale di Giuncheto, con la morte di dodici uomini, colpiti alle spalle dalle raffiche di mitra.

 

Il sopravvissuto Santi Trenti ricorda così quel momento: Dal Monte Falterona fummo invitati a tornare a Giuncheto, frazione che rimane nella parrocchia di S. Maria sotto Vallucciole (…) Scaricata tutta la roba a Giuncheto fummo inviati a ritornare alle nostre case, ma appena fummo partiti venimmo presi a fucilate dai tedeschi [6].

 

Ancora oggi ad oltre ottant’anni di distanza dal terribile evento, storici e comunità locali non sono concordi nell’individuare la causa che scatenò il massacro. A lungo è prevalsa la versione che attribuisce la responsabilità della strage all’uccisione a Molin di Bucchio di due soldati tedeschi da parte dei partigiani della Faliero Pucci, avvenuta l’11 aprile, appena due giorni prima della strage di Vallucciole [7].

 

Negli ultimi anni gli studiosi hanno ridimensionato tale interpretazione, collocando la strage all’interno di una grande operazione di rastrellamento promossa dai comandi nazisti. Le ricerche e i risultati emersi dai processi hanno avvalorato tale versione, confermando che l’incursione a Vallucciole non rappresentava una rappresaglia per l’uccisione dei due nazisti, ma era parte di un’azione organizzata precedentemente, volta a bonificare il territorio appenninico compreso tra la statale 71 del Passo dei Mandrioli e la statle 67 del Passo del Muraglione.

 

Allo stesso tempo questa versione non pare sufficiente a giustificare il livello di violenza raggiunto nella valle casentinese. Rispetto ai rastrellamenti compiuto lo stesso giorno nelle vicine località di Partina e Moscaio, a Vallucciole si assistette all’eliminazione di un’intera comunità, con l’uccisione indiscriminata di donne, anziani e bambini.

 

Un elemento che in parte spiega il livello di violenza raggiunto nella piccola vallata risiede nei reparti che furono protagonisti della strage. L’operazione venne affidata alla 2ͣ e alla 4ͣ compagnia della Hermann Göring, reparti ai quali appartenevano i due soldati tedeschi precedentemente uccisi a Molin di Bucchio. Inoltre la Hermann Göring era una divisione profondamente politicizzata, costituita da volontari particolarmente zelanti e da convinti sostenitori del nazionalsocialismo.

 

Nel quadro della presenza tedesca in Italia la strage di Vallucciole si inserisce in una fase di progressiva radicalizzazione della politica d’occupazione. In seguito all’attentato di via Rasella, avvenuto a Roma il 23 marzo 1944, i vertici militari giunsero a ritenere la penisola un territorio di difficile gestione ed invitarono i reparti ad agire in modo risoluto e a rispondere in modo deciso a qualsiasi attacco proveniente dall’esterno. Dalla primavera del 1944 si assiste dunque ad un generale inasprimento dell’occupazione tedesca in Italia e alla progressiva tendenza ad equiparare i civili ai membri della resistenza.

 

Vallucciole e la vallata circostante si inseriscono in questo triste fenomeno, rappresentando nella primavera del 1944 il primo caso di strage indiscriminata condotta dalle forze occupanti ai danni dei civili in Toscana.

 

Nel secondo dopoguerra la prima cerimonia pubblica in ricordo delle vittime della strage si tenne nel 1954. In quell’occasione venne inaugurato presso la chiesa dei Santi Primo e Feliciano di Vallucciole un ossario, accompagnato da una lapide recante i nomi dei 108 caduti [8].

 

L’ossario e la lapide con i nomi delle 108 vittime della strage.

 

Nel 1979 è stato creato il primo monumento dedicato alle vittime della strage, realizzato dagli allievi della Scuola del Ferro Battuto. Collocato inizialmente in piazza Pertini, nel 2006 venne spostato nel vialetto che conduce al vecchio cimitero di Stia, dove attualmente si trova e dove è anche presente una lapide con i nomi di coloro che morirono il 13 aprile 1944 [9].

 

Monumento ai Martiri di Vallucciole.

 

 

Note:

[1] Dal 1° gennaio 2014 i centri di Stia e Pratovecchio si sono fusi, dando vita ad un’unica amministrazione.

[2] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, p. 107.

[3] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 78.

[4] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 114-117.

[5] I primi soccorritori testimoniarono che sul corpo del piccolo Viviano erano presenti numerosi segni di violenza.

[6] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 77.

[7] Tesi sostenuta in P. Paoletti, Vallucciole: una strage dimenticata. La vendetta nazista e il silenzio sugli errori garibaldini nel primo eccidio indiscriminato in Toscana, Le Lettere, Firenze 2009.

[8] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 180-181.

[9] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-martiri-di-vallucciole-stia/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




8 giugno 1944: l’eccidio della Pievecchia che scosse Pontassieve

L’8 giugno 1944, in località Pievecchia, piccola frazione del Comune di Pontassieve, (del plebato di San Lorenzo e San Giovanni a Montefiesole), in occasione della festa del Corpus Domini, scoppiò il caos.

Pievecchia dall’alto

Un gruppo di circa cinquanta partigiani di Monte Giovi, infatti, poche ore prima aveva assaltato una delle caserme della Guardia Nazionale repubblichina di Pontassieve, allora in una villa in via Palagi, per reperire armi e munizioni [1]. Forse, con l’aiuto degli stessi carabinieri, i partigiani riuscirono a prendere il bottino sperato, che venne caricato su due carri trainati dai buoi diretti verso poggio Bardellone, in direzione di Monte Giovi [2].

Occorre, però, ricordare che nella caserma assaltata erano presenti anche militanti fascisti, due dei quali vennero portati via dai partigiani. Gli altri, rimasti indenni, accorsero subito ad avvisare dell’accaduto i nazisti, allora di stanza a San Francesco.

Di ritorno da questa azione, un gruppetto di partigiani, distaccatisi dagli altri, si fermò imprudentemente a Pievecchia, dove erano confluiti nei mesi molti sfollati, benché le dinamiche non siano tuttora chiare.

Pontassieve, snodo ferroviario essenziale, era infatti più soggetta ai bombardamenti e molti civili quindi si erano spostati nelle campagne. Ne è un esempio il bar Nannoni, trasferitosi da Pontassieve a Pievecchia, quel giorno luogo dello scontro.

I partigiani, sebbene avessero potuto passare per i boschi, decisero di attraversare un centro abitato, forse per sfida ai soldati occupanti.

Nella locanda del paese, rimasta aperta nonostante la raccomandazione di chiudere da parte degli stessi insorti, dato il loro passaggio muniti di armi, i partigiani trovarono due soldati tedeschi, forse anche grazie all’avvistamento di qualcuno del luogo, e decisero, pare, di ucciderli. I ribelli, infatti, presi dalla foga, avrebbero lanciato una o più bombe a mano nella locanda, colpendo a morte un soldato tedesco e un giovane pontassievese, allora colono a Grignano, Ruggero Morandi, di 20 anni. L’altro soldato tedesco, sopravvissuto allo scontro, riuscì a fuggire e, scappando da una finestra, avvisò prontamente la contraerea tedesca dell’accaduto, accampata a circa 4 km dalla Pievecchia.

La risposta fu immediata: poco dopo, la zona della Pievecchia venne prima bombardata, per impedire a chiunque di fuggire, poi invasa dai soldati. Si parla di 40 o 50 uomini arrivati con camionette e camion, quasi sul calar della sera.

Arrivati sul posto, i soldati nazisti spararono alla prima vittima, Furio Montelatici, poi gettato in un pagliaio, che venne incendiato. Vennero bruciati anche altri pagliai, una bettola e una casa. Alcune famiglie si erano, intanto, riparate e nascoste nel sottosuolo della villa Tesei, ma i tedeschi irruppero nelle stanze della stessa e nelle altre abitazioni per rastrellare gli uomini presenti e, dopo aver rilasciato quelli più anziani, sopra i cinquantacinque anni, uscirono per l’esecuzione. Le donne furono radunate davanti alla Villa, inermi.

I partigiani dovettero, invece, a causa dei bombardamenti e della rapida risposta tedesca, abbandonare le armi e le munizioni, che furono prontamente prese dai nazisti.

I tedeschi decisero di fucilare gli uomini in fila rivolti verso il muro della fattoria. Due dei condannati però, stando alle testimonianze, riuscirono a fuggire. Libero Rigacci si girò di scatto e strappò il fucile dalle mani del soldato tedesco, riuscendo a fuggire nel campo di grano. Il soldato sparò contro di lui mentre correva nel campo e, complici il sopraggiungere della sera e l’essere inciampato, fu creduto colpito e morto. Anche Faustino Volpi scappò nel buio [3].

Gli altri furono perciò fucilati assieme, al muro, subito dopo, dove ancora oggi sono presenti i segni dei proiettili, onde evitare che si ribellassero[4]. Quattordici le vittime di quel giorno: Ruggero Morandi, ucciso durante lo scontro a fuoco tra partigiani e soldati tedeschi, e le tredici persone inermi fucilate per rappresaglia. Erano uomini dai 17 ai 47 anni, quelli che persero la vita quel giorno di giugno, 7 di Pievecchia e 6 sfollati. Altri, circa 20, vennero invece portati via. Prima furono rinchiusi nel carcere di Firenze, per poi essere impiegati in lavori di carattere militare presso Prato.

Il piccolo borgo fu quindi saccheggiato, così come la fattoria limitrofa e i due spacci cooperativi.

Il Pretore, da Tassinaia, dove era sfollato anch’egli, arrivò sul luogo per la constatazione di legge e per organizzare le sepolture. Nessun’altra autorità locale si fece viva, stando alle testimonianze del tempo. Ma non finì lì: tre corpi straziati rimasero nella strada per ore. Solamente sabato 10 giugno le quattordici salme vennero trasportate al cimitero in attesa della sepoltura, compresa quella di Morandi, che i tedeschi avevano portato via e che il padre Amedeo lottò per riavere. Oramai a Pievecchia non c’era quasi più nessuno. La domenica giunsero due spazzini comunali, con un biglietto del Commissario prefettizio, per seppellire le salme e recar conforto alle famiglie.

Era stata una vera e propria rappresaglia per punire e intimorire la popolazione, per creare panico e far sì che la popolazione non aiutasse e non collaborasse con i partigiani [5][6].

Un comando tedesco si installò a Pievecchia. Don Ferruccio Biffoli, il parroco locale, tentò di mediare con i tedeschi, affinché gli uomini che erano stati portati via potessero tornare a casa, ma invano. Questi però riuscirono a fuggire e a tornare, ma di Ernesto Manzalvi (41 anni, di ignoti), non si sono avute più notizie .

Bisognerà attendere l’11 agosto 1944, data della liberazione di Firenze e, nel caso di Pontassieve, il 21 agosto 1944, per cominciare a ricostruire la memoria della Pievecchia, oggi incisa nel marmo delle lapidi.

Di seguito le vittime della Pievecchia:

Rogai Guido, 46 anni                                                  Masini Dario, 17 anni

Rogai Attilio, 25 anni                                                 Morandi Ruggero, 20 anni

Rogai Aldo, 19 anni                                                    Poggi Guido, 47 anni

Pestelli Ugo, 29 anni                                                   Poggi Paolo, 38 anni

Tacconi Bruno, 17 anni                                               Bulli Giovacchino, 42 anni

Cammelli Guido, 29 anni                                            Pratesi Mario, 31 anni

Montelatici Furio, 29 anni                                          Vitali Alessandro, 36 anni

La memoria di quel triste giorno ci è giunta grazie alla ricostruzione dei fatti scritta dal parroco don Ferruccio Biffoli nel Libro Cronico della Parrocchia, poi ripresa da L’Evangelo della mia Resistenza di don Silvano Bellucci e grazie ai vari testimoni [7].

Le due lapidi e i fori ben visibili nel muro
8 giugno 1945 – la prima
8 giugno 1956

Sul muro della villa ci sono varie targhe, una del primo anniversario (8 giugno 1945), posta in un clima mutato, ma di forte contrapposizione tra l’allora PC e le forze di sinistra contro la DC con la Chiesa [8].

L’anno dopo nascerà la Repubblica in Italia e i pontassievesi, nel territorio, saranno tra i più convinti sostenitori della stessa, nel celebre referendum che, finalmente, vide protagoniste anche le donne.

È solo nel 1947, però, che i 14 martiri trovarono una degna sepoltura: domenica 4 maggio vennero riesumate le salme, benedetti i corpi e, finalmente, sepolti nella cappellina d’uopo presso il cimitero parrocchiale. La popolazione è numerosa alla cerimonia. Non mancarono comunque le polemiche, come quelle di don Biffoli, riguardo il comportamento dei comunisti, numerosi alla commemorazione.  L’8 giugno 1947 verrà poi posta un’altra lapide, a firma del C.L.N [9].

Il 25 aprile 1955 il Comitato cittadino per la celebrazione del decennale della Resistenza consegna ai familiari dei martiri una pergamena in loro memoria e l’anno dopo verrà aggiunta un’ulteriore targa.

Quei tragici fatti hanno portato al conferimento al Gonfalone del Comune di Pontassieve della Medaglia di bronzo al Merito Civile, grazie al decreto del 23 dicembre 2005 dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sancito ufficialmente durante la cerimonia presieduta nel dicembre 2006 dall’on. Ministro Vannino Chiti.

Il Comune ha, inoltre, istituzionalizzato tale giorno e, ogni anno, bambini, giovani e adulti partecipano alla commemorazione di quel triste evento.

È bene ricordare il restauro del muro, inaugurato nel giugno 2008, che ha riportato alla luce l’originario intonaco e i fori dei proiettili, oggi visibili a tutti.

Per il sessantesimo della Liberazione, è stata coniata una medaglia da Cesare Alidori (2004), per i familiari delle vittime. In tale occasione è stata presentata la ballata popolare “Quand’ecco un grido spalancar le stelle”, scritta da Leoncarlo Settimelli, riprodotta in un CD, con testi e musiche che ripercorrono i fatti del 1944 [10].

Sempre con ricorrenza annuale, viene celebrato il raduno dei partigiani e dei giovani a Monte Giovi, un’ulteriore occasione di ricordo e di memoria.

Roberto Smorti, Eccidio alla Pievecchia (Olio su tela, 2007)

 

Note:

  1. Fusi, Francesco, Comunità in guerra: Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, p. 325
  2. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008, pp. 37- 38
  3. Verbale interrogatorio Raffaello Tacconi, vedi Biagioni M., op. cit., pp. 72-77
  4. Biagioni M., op. cit., p.54
  5. Cfr., AA.VV., Il nonno racconta…Memorie della guerra e della resistenza,  Pontassieve, 1999
  6. Cfr., Fusi F., op. cit., pp. 322 e 326-328
  7. Casalini Giovanni, La strage della Pievecchia a Pontassieve, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Milano, 2011, p. 67-68
  8. Biagioni M., op. cit., pp. 87-90
  9. Ivi, pp. 93-119
  10. Ivi, pp. 129-139

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




La Resistenza nel Volterrano

Nelle ricostruzioni canoniche della Resistenza volterrana, è stato dato molto risalto alla vicenda della 23ª Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”. I lavori dedicati alla storia partigiana della zona sono intitolati alla Brigata e l’interesse è ruotato intorno alla sua costituzione: nella storia ufficiale della Resistenza nella zona, La tavola del pane di Pier Giuseppe Martufi[1], gli eventi precedenti alla nascita, avvenuta nei primi giorni di maggio del 1944, sono stati raccolti nel capitolo dedicato alla «preistoria della Brigata», mentre le formazioni armate dalla cui unione prese vita sono definite senza alcun dubbio come suoi «distaccamenti», anche se la loro esistenza operativa era molto precedente l’avvio stesso della Brigata. Si tratta a ben vedere di una distorsione del corso degli eventi, causata da una prospettiva “dalla coda alla testa”, tipica del canone resistenziale: per questo approccio, la storia – degna di essere raccontata – inizia solo con la costituzione della Brigata, ovvero con il raggiungimento di una ampia dimensione militare operativa, mentre ogni altro gruppo partigiano nella zona va considerato come una sua filiazione anche se più anziano. Il senso più autentico della vicenda resistenziale, secondo tale visione, si avrebbe quindi solo con la realizzazione di una formazione armata stabile e ben organizzata, inquadrata a sua volta in un disegno più ampio, quello delle Brigate Garibaldi di concezione comunista. La numerazione della Brigata, a cui generalmente si dà poco rilievo, la 23ª (ma sarebbe più corretto chiamarla 23ª bis: la 23ª fu in realtà la “Pio Borri” operante nell’Aretino[2]), è a questo proposito un elemento fondamentale: contribuisce a inserire l’evento locale in una trama nazionale, a collocare l’impegno armato di qualche centinaio di partigiani operanti nel Volterrano in un coordinato e consapevole progetto militare e politico di guerra contro il nazismo e il fascismo.

Le conseguenze di quest’impostazione sono evidenti: non solo si riconosce una centralità esclusiva alla Resistenza armata, lasciando altre forme resistenziali ai margini, ma se ne sancisce la dignità e il rilievo storico solo una volta raggiunta una dimensione tale da potersi fregiare del titolo di “Brigata”, quindi con un inquadramento marziale e un numero di effettivi tale da poter rappresentare un’unità militare comparabile a quelle degli eserciti regolari. Tali considerazioni possono essere condivisibili se ci caliamo idealmente nel contesto bellico, in una situazione di guerra in cui l’obiettivo di dimostrare la massima forza sul campo delle forze partigiane poteva essere decisivo anche a fini politici. Tuttavia, in sede di ricostruzione storica non è consentito insistere in una prospettiva teleologica. Non si può leggere il corso degli eventi prendendo come pietra di giudizio una parte dei suoi esiti[3].

Per tracciare una storia del partigianato volterrano sin dalle sue origini bisogna partire dalla banda del Massetano, o della Marsiliana, dal nome del bosco in cui aveva la base, una delle pochissime formazioni in Toscana costituita sin dalla metà del settembre 1944. Nacque su iniziativa di alcuni antifascisti di Massa Marittima, tra cui Otello Gattoli ed Elvezio Cerboni[4]. Ai primi di novembre il gruppo, che contava allora circa tra 70 elementi, si spostò dalla Marsiliana, tra Massa e Montioni, verso le località dell’Uccelliera e di Poggio all’Ulivo, pochi chilometri a nord, in un’area più interna. Qui tra il 6 e il 7 novembre, avvenne l’ingresso in formazione in qualità di comandante di Mario Chirici, figura storica dell’antifascismo locale, repubblicano con una solida esperienza militare e recente collaboratore dei partigiani jugoslavi, già attivi e ben organizzati contro i nazifascisti da molto tempo. La banda aveva già contatti con Colle Val d’Elsa, Livorno, Volterra e Firenze, iniziava ad essere un nodo importante della rete dell’organizzazione clandestina toscana. Così, quando dopo una retata fascista a fine novembre la formazione si sciolse, non appena riuscì a ricostituirsi, all’inizio del 1944, venne comunicata a Chirici la nomina da parte delle strutture organizzative delle Brigate Garibaldi a comandante della 3ª Brigata, «con promessa […] di aiuti di materiali, armi, munizioni, uomini che sarebbero dovuti venire in breve tempo»[5]. A quanto risulta furono compiute missioni fino a Livorno, Pisa, Viareggio e Firenze, per estendere la rete di contatti, reperire fornitori e nuovi volontari. Purtroppo, il 16 febbraio 1944, la formazione subì un rastrellamento da parte dei fascisti che colse di sorpresa i partigiani, provocando un vero e proprio disastro militare, con cinque morti e diciotto arrestati.

Dall’eccidio del Frassine Mario Chirici non godette più di una buona nomea. I suoi antichi collaboratori però svilupparono la lotta partigiana spostandosi in altri territori. Elvezio Cerboni si era già trasferito dopo lo scioglimento di fine novembre dalla zona di Massa Marittima a quella di Pomarance, in particolare nell’area di San Dalmazio. Entrato in contatto con il Cln di Pomarance, iniziò dal gennaio 1944 a organizzare uomini e costruire basi, in particolare presso il podere di Casinieri nel bosco di Berignone. Intorno a sé riuscì a costruire una vera rete organizzativa, che si curava di rifornimenti e reclutamenti, mantenendo contatti costanti con Pisa, Massa Marittima e soprattutto Volterra. Tra febbraio e marzo 1944, gli antifascisti volterrani – che alla fine del 1943 si erano costituiti in Cln – passarono all’azione anche all’interno della città.

Il bosco di Berignone, i luoghi della Resistenza. Mappa originale elaborazione di Stefano Gallo.

Nella zona di Montieri, invece, si era spostata una squadra reduce dall’eccidio del Frassine, composta da Vinicio Modesti, Vittorio Ceccherini, Giorgio Vecchioni e Giorgio Stoppa. Insieme a loro c’erano quattro jugoslavi prigionieri fuggiti l’8 settembre dalle prigioni di Pisa («gli unici, tra noi – avrebbe ricordato Stoppa -, ad avere esperienza di guerra partigiana»[6]), quattro russi e un gruppo di giovani renitenti alla leva. «Commissario politico fu nominato “Gino” Desiderio Cugini che aveva ricoperto tale carica nella formazione del “Frassine” e che si era distinto per lo zelo con il quale aveva contribuito alla costituzione di detta formazione»[7]. Questo gruppo, conosciuto in quel periodo come la “formazione del dottore”, dalla professione di Stoppa, avrebbe costituito il nucleo originario della futura 23ª Brigata Garibaldi. Il contatto con il Cln di Radicondoli e con la rete organizzativa della zona furono decisivi.
Per il 21 marzo 1944 venne organizzata la più imponente azione militare mai realizzata nella zona dagli antifascisti, frutto del coordinamento di quattro diversi gruppi partigiani: quello di Stoppa, allora posizionato alla Cornocchia, quello di Cerboni, che si muoveva dalla zona meridionale di Berignone (verso Pomarance e San Dalmazio), una Squadra volante di partigiani di Colle Val d’Elsa, basata nella parte settentrionale del bosco di Berignone, e un quarto gruppo di senesi da poco arrivato alle Carline. L’azione fu condotta contro i fascisti del paese di Montieri e riuscì perfettamente. I problemi emersero in seguito: forse proprio a causa dei rischi di esposizione corsi nell’organizzazione di un’azione così complessa, molte posizioni vennero scoperte. Cerboni venne tradito e arrestato, la squadra dei colligiani cadde in un’imboscata e fu decimata.

Mentre la zona tra Pomarance, Volterra e Siena veniva così investita dalla repressione fascista, la formazione di Giorgio Stoppa, che nel frattempo si era spostata nel bosco delle Carline, riusciva invece a mantenere solidità e un discreto grado di efficienza e organizzazione. «Dopo l’azione di Montieri – si legge nella relazione ufficiale della Brigata – fu necessario un lungo periodo di prudenza perché furono effettuati numerosi rastrellamenti che colpirono gli altri Distaccamenti che operavano nella zona, mentre il “Guido Boscaglia”, dato il sistema accurato di vigilanza e le precauzioni osservate nello svolgersi della vita dell’accampamento, non fu individuato e non subì attacchi»[8]. La banda anzi continuò ad ingrandirsi, ospitando anche membri della Brigata Spartaco Lavagnini del senese, oltre che nuove reclute. Dalla tempesta abbattutasi dopo Montieri sul movimento clandestino antifascista, la “formazione del dottore”, come era chiamata allora dalla professione di Stoppa, emerse come la più solida e affidabile tra le tre esistenti.
Alla fine di aprile si realizzava un ulteriore salto di qualità nella vita della formazione: iniziavano ad arrivare casse cariche di armi e materiali attraverso i lanci aerei da parte degli anglo-americani. Grazie alle missioni militari provenienti dal Sud Italia, avvennero dei contatti logistici che con l’ausilio di telegrafisti consentirono l’organizzazione dell’invio di materiali via aerea. I primi aviolanci erano stati concordati per la zona di Berignone, dove effettivamente avvennero; fu poi convenuto di spostare la località dell’operazione alle Carline. Furono molti i lanci, circa una decina, che fornirono armi automatiche nuove e munizioni.

Nel frattempo, era stato deciso di stabilire alle Carline il comando unificato di tutte le forze partigiane, prima divise. La riunione avvenne nel bosco di Berignone, alla presenza di Alberto Bargagna, detto “Giorgio”, responsabile militare del Cln di Pisa, «il quale, dopo aver predisposto gli aviolanci di armi e materiale […] era dovuto rimanere in Berignone perché avvertito da Pisa di essere stato individuato dai fascisti»[9]. Fu lui a essere nominato comandante della nuova Brigata, la 23ª bis Brigata d’Assalto Garibaldi, poi intitolata “Guido Boscaglia”, dal nome di Guido Radi, detto “Boscaglia”, partigiano ucciso l’8 maggio 1944, in uno scontro con i fascisti.

NOTE

[1] Pier Giuseppe Martufi, La tavola del pane. Storia della 23ª Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia” con documenti e testimonianze sulla Resistenza nella provincia di Grosseto, Livorno, Pisa e Siena, Anpi-Siena, Siena 1980. In maniera analoga la più recente Storia della XXIII Brigata d’Assalto Garibaldi. Tesi di laurea di Francesco Gronchi, a cura dell’ANPI-Sezione di Volterra, Volterra 2014.

[2] Ivan Tognarini, Guerra di sterminio e Resistenza. La provincia di Arezzo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990.

[3] Santo Peli, La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana, BFS, Pisa 2022.

[4] Katia Taddei, Ribelli. Formazione delle brigate Garibaldi nel territorio delle Colline Metallifere ed episodi di guerra civile alla luce di nuove fonti giudiziarie, Betti Editrice, Monteriggioni (SI) 2024.

[5] Da Chirici all’Anpi di S. Vincenzo, 8 novembre 1945, in Carte Pier Nello Martelli, f. 1, carte sciolte.

[6] Testimonianza di Giorgio Stoppa, settembre 1977, in Martufi, La tavola del pane, p. 112.

[7] Relazione ufficiale 23ª BG.

[8] Relazione ufficiale 23ª BG, p. 9.

[9] Martufi, La tavola del pane, p. 33.




Le Scuole Leopoldine, scenario di violenze e anticamera della deportazione nei lager nazisti.

Nei resoconti che parlano della secolare storia delle Scuole Leopoldine di piazza Santa Maria Novella a Firenze, dove oggi si trova il Museo Novecento, difficilmente si scopre ciò che vi accadde nel 1944, quando l’edificio fu requisito dalle truppe germaniche di occupazione. Pochi sanno che qui, come reazione furente allo sciopero generale dei primi di marzo del 1944 indetto dal Comitato di Liberazione nazionale, furono concentrati, interrogati, registrati e quindi deportati nel lager nazista di Mauthausen le lavoratrici e i lavoratori scioperanti, arrestati dai militi della Repubblica Sociale Italiana insieme a persone rastrellate per strada in modo indiscriminato a Firenze e in provincia, in particolare nel pratese e nell’empolese[1].
Prima esplicita opposizione di massa al fascismo, questo sciopero è considerato dagli storici, per le sue dimensioni e ripercussioni, uno degli eventi più straordinari della resistenza civile europea. Alcune fonti stimano circa 500.000 aderenti. Gli organizzatori parlarono di un milione di partecipanti, le autorità nazifasciste di circa 200.000[2]. Le reazioni dei nazisti e dei fascisti repubblicani furono immediate. Nonostante la rinuncia ad eseguire l’ordine di Hitler di deportare il 20% degli scioperanti, derivante dalle condizioni in cui si trovavano le forze occupanti e dalla volontà di evitare azioni che avrebbero prodotto sollevazioni popolari ancora maggiori[3], i costi umani furono elevati, anche a causa della complicità e fattiva collaborazione della milizia fascista e di una parte dei dirigenti d’azienda.
Per i nazisti, ogni occasione di repressione e pretesto di rappresaglia era utile per deportare in massa uomini e donne in grado di lavorare a favore dell’industria bellica del Reich. Oltre a costituire un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile, le deportazioni avevano infatti anche l’obiettivo di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù.
In Toscana[4], come nel resto dell’Italia centro-settentrionale, la repressione fu dura: i rastrellamenti furono indiscriminati, si arrestarono gli operai che avevano scioperato ma anche quelli che non avevano scioperato, nonché impiegati, professionisti e perfino ignari passanti[5]. I fascisti effettuarono i rastrellamenti a Empoli, a Prato e nel centro di Firenze, soprattutto nel rione di San Frediano. Del rastrellamento e «invio in Germania di alcune centinaia» troviamo traccia nel rapporto della Militärkommandantur (Comando militare) di Firenze del 13 marzo 1944, in cui si parla dell’arresto di «elementi perturbatori pericolosi» e si sottolinea «l’energico intervento delle autorità italiane». Inquietante è inoltre il riferimento alla preparazione di «liste»[6], che furono in effetti messe a punto da molte aziende in cui erano avvenute astensioni dal lavoro[7].
Centinaia furono i fermati in provincia, arrestati per strada, prelevati da casa o direttamente dalle fabbriche e rinchiusi in luoghi di raccolta (spesso nelle caserme dei Carabinieri o nelle Case del Fascio, a Prato nella Fortezza medievale del Castello dell’Imperatore, sede della Guardia Nazionale Repubblicana), dove avvennero le prime selezioni. Gli arrestati in provincia furono poi portati a Firenze con i pullman o con degli autocarri, e «scaricati» davanti al grande edificio delle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella, centro di raccolta regionale dove erano state già condotte le persone rastrellate in città. Molti sopravvissuti al loro ritorno dai lager hanno riferito del grande beffardo cartello che era affisso sul palazzo: «Operai volontari per la Germania».
Documenti originali che si trovano all’Archivio Storico del Comune di Firenze, emersi solo molto recentemente grazie alla collaborazione dell’Archivio stesso, attestano che le autorità tedesche di occupazione che avevano requisito l’edificio, lo avevano classificato come «Sammellager», cioè letteralmente ‘campo di raccolta’[8], facendo sì che anche questo edificio entrasse a far parte dell’articolato sistema concentrazionario nazista. Alle Scuole Leopoldine si svolsero nei giorni 7 e 8 marzo 1944 le prime schedature e i primi interrogatori da parte delle SS, aiutati da un interprete. Ebbe un ruolo importante anche il Reparto Servizi Speciali della RSI comandato dal criminale fascista Mario Carità, che molti testimoni dicono di aver visto in quei giorni nei corridoi e nelle aule dell’edificio. Alcuni fermati furono rilasciati grazie ad interventi vari, altri ancora riuscirono a fuggire. La mattina dell’8 marzo 1944 la piazza era gremita di persone alla ricerca di notizie dei propri familiari. Le donne, pur avendo partecipato in gran numero allo sciopero, vennero escluse dalla deportazione[9] e rilasciate, mentre 338 uomini furono portati nel pomeriggio alla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella poco distante e, stipati nei vagoni piombati già predisposti, deportati nel lager di Mauthausen (dove arrivarono l’11 marzo) e nei suoi sottocampi, tra i più terribili dell’intero sistema concentrazionario nazista. Sopravvissero in 64, cioè il 19%.
Poco è pubblicato nei libri di storia locale sull’argomento delle Scuole Leopoldine come centro di raccolta degli arrestati nel marzo 1944, la cui vicenda è documentata al Museo della Deportazione e Resistenza di Prato[10]. Molto si trova però nella memorialistica, in particolare all’interno del corpus di interviste ad ex-deportati raccolte dal Prof. Andrea Devoto alla fine degli anni ’80 in collaborazione con l’ANED[11], l’Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti, nelle sezioni di Firenze, Prato, Empoli e Pisa, che si adopera da decenni per conservare la memoria della deportazione politica.
Il 6 marzo 2017, la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato, in collaborazione con l’ANED Toscana, l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, il Comune di Firenze/Museo Novecento e la Regione Toscana, ha realizzato per la prima volta negli spazi del Museo Novecento (Ex Scuole Leopoldine) un evento di approfondimento storico dal titolo La memoria di un luogo: marzo 1944, arresti e deportazione, cui è seguita la lettura teatrale, a cura del Teatro d’Almaviva, di brani di interviste a testimoni sopravvissuti ai lager. Tra queste si ricorda quella di Roberto Castellani, per molti anni presidente della sezione ANED di Prato:

Noi (di Prato) ci presero e ci portarono in Fortezza, lì dai repubblichini, poi ci prese un pullman e ci portarono in piazza Santa Maria Novella alle Scuole Leopoldine, la sera; s’arrivò lì e trovai altre persone che erano già state prese a Prato e tra questi ci trovai anche il Pitigliani, che lui era ebreo, pensi che situazione! Lo conoscevo. Disse «Oh Castellani, ci sei anche te?» E io ebbi un po’ di paura e dissi: «Icché ci fanno?» «Eh, non ci fanno nulla, stai tranquillo domani ci mandano via tutti, o forse, dice, ci manderanno a fare dei fossati a fare delle trincee». Viene la mattina presto un maresciallo delle SS e ci fanno un interrogatorio, persona per persona. Mi chiamano, e mi domandano «Te che hai fatto lo sciopero?» «Sì», I’avevo fatto, non avevo mica nulla da nascondere, dice «Che mestiere tu fai?» «Lavoro alle filande» «Va bene, lo sai, dice, che è proibito fare lo sciopero?» «Mah, io non lo so, mi dissero di fare festa e feci festa, ecco», e basta. Mi dissero «Vai via» e mi mandonno via; suppergiù le solite domande le fecero a tutti. La mattina dell’8 marzo arrivarono tanti altri, tanti tanti, più che la sera, furono presi nelle fabbriche…[12] .

Fiorello Consorti, altro testimone, ricorda:

E invece la mattina dissero: «Mettetevi lì!» Ci si mise lì, ce n’era degli altri: s’aspettò e poi ci portarono via. Fui uno degli ultimi ad essere preso, e ci portarono in fortezza … poi ci portarono a Firenze, in questa scuola qui, c’era scritto «Lavoratori volontari», un cartellone di propaganda … fanno come tutti, vede: loro fanno uguale: mettono i cartelli per far credere quello che vogliono ma invece non è in quella maniera. Ci scaricarono tutti lì, perché gli autobus li appoggiarono a quegli scalini, aprivano gli sportelli, un repubblichino fuori col mitra, e ci scaricarono tutti sul sagrato e ci misero dentro, e dentro c’era un cortile col loggiato[13].

Anche Alberto Ducci, per molti anni presidente della sezione ANED di Firenze, era stato portato alle Scuole Leopoldine. Questi i suoi ricordi:

E così la mattina ci han fermato in piazza Dalmazia a Firenze e ci hanno chiesto i documenti a tutti e tre: gli altri due li hanno rimandati, e me mi hanno detto che dovevo seguirli perché il prefetto mi doveva parlare. Questi documenti li han controllati in un elenco che avevano questi repubblichini, dopo di che mi han fatto salire su un camion militare, dove ho trovato altri repubblichini con tanto di mitra, e altri sventurati, una decina o 12, ci hanno portato giù alle Scuole Leopoldine in piazza Santa Maria Novella. C’erano tantissime persone, mi ricordo questo: di un certo Ballerini, di Campi, che fin dall’inizio cercò di farci un po’ di coraggio. Ricordo ci trovai un repubblichino di Bagno a Ripoli, un certo Calosi, e mi permisi di dirgli, «Guardi, la mi conosce, io non ho fatto nulla» e lui mi gridò che ero un traditore, insomma, e roba del genere, e quindi non ci fu nulla da fare: anzi, poi dissero che ci avevano messo nel gruppo delle facce sospette, giù, mentre si scendeva dalle aule che eravamo ai piani superiori, ci sistemarono a gruppi giù in questa specie di giardino al piano terra, e di lì dissero che eravamo delle facce sospette, ci fecero partire a gruppi, non mi ricordo, di 15, di 20, per farci salire sui camion, e quando passavamo davanti ci sputavano addosso, insomma, ce ne facevano di tutte[14].

Questo invece il racconto di un altro presidente della sezione ANED di Firenze, Mario Piccioli:

Fui preso, perché il giorno avanti presero mia madre che lavorava alla cartiera Cini in via Arnolfo. Lì c’era una grande fabbrica di cartotecnica e grafica, e appunto per gli scioperi che fecero furono prese diverse, che erano quasi tutte donne. E difatti la sera noi s’era a casa, e questa donna la ‘un tornava. E allora, che si fa, che non si fa? Dopo la mia zia ci avvisò che queste donne erano state portate alle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella. […] Quando siamo dentro alle scuole (un repubblichino) mi porta su; queste donne l’erano tutte in un’aula, no? e quelle altre erano piene di uomini che avevano preso da Prato, da Empoli, dalle fabbriche. Mi buttarono dentro un’aula con loro. Dopo un poco, gli fo a un carabiniere. «Per piacere, sento piangere, c’è una stanza dove ci sono delle donne, ci deve essere anche la mi’ mamma, sicché già che sono qui …». M’accompagnò. Difatti c’erano tutte le donne della fabbrica e c’era anche mia madre ma passarono solo due minuti perché mi sentii riacchiappare per il colletto e portare via. Poi mi portarono da una signorina a una macchina da scrivere, era tedesca, ma parlava un poco d’italiano, e ci chiedeva i connotati e scriveva. Verso mezzogiorno ci dettero, a quell’epoca c’era i filoncini lustri di 300 grammi, un filoncino per uno e un pochino di formaggio. Allora si cominciò a dire, non ci lasciano andare, perché ci danno da mangiare! E difatti dopo un po’ venne uno della milizia: «Voi traditori della patria pagherete caro!». Chiamarono 20 di noi, io non c’entrai fra questi, loro andarono via e noi si aspettò. Dopo quello della milizia ritorna, la solita musica: altri 20 e io entrai in questa mandata. La piazza era piena e c’era preparato un camion con quattro Tedeschi, uno per lato, e noi 20 ci buttarono sopra; imboccarono da piazza Santa Maria Novella, quella stradina lì, Via degli Avelli, poi al bagagliaio della stazione dalla parte di dietro, di via Alamanni. Salirono su con questo camion e s’andette proprio dentro alla stazione. E lì c’era un mare di Tedeschi, una tradotta bell’e preparata, tutto il convoglio, e ci buttarono dentro un vagone bestiame[15].

Tra gli arrestati c’era inoltre Piero Scaffei, che a proposito delle vicende del marzo 1944 ricorda:

Ecco, una volta entrato nelle Scuole Leopoldine, dove c’è gli archi, dove ora c’è la nostra lapide, non si riuscì più. Mi presentai lì, c’era una signorina a un tavolo, tedesca, non so, o italiana che parlava il tedesco, questo non lo so. Dalle Scuole Leopoldine montai sul camion anch’io e mi portarono alla stazione di Santa Maria Novella […]. C’era i carri bestiame già tutti pronti, brum. Carri bestiame, niente, nudi e crudi. Tutti s’aspettava, tutti pensavano, «Ci manderanno a Cassino a fare trincee” perché il fronte era a Cassino in quel momento. Poi quando vidi che si andava verso Prato dissi “ma qui si va in su, si va al nord»[16].

È importante che cittadini, turisti e studenti conoscano questo luogo della memoria, poco noto come tale. Nonostante una piccola targa, posta sulla parete interna del loggiato, renda il giusto omaggio alle vittime, occorre spiegare cosa avvenne al suo interno. La memoria passa infatti anche attraverso la conoscenza di edifici che, come questo, furono scenario di persecuzione e anticamera dell’estrema violenza e della morte nei lager.

 

Note

1. Si veda sul tema il saggio da cui sono tratte parti del presente contributo: C. Brunelli e G. Nocentini, La deportazione politica dall’area Firenze, Prato ed Empoli, in Il libro dei deportati. Volume II. Deportati, deportatori, tempi, luoghi, a cura di B. Mantelli, Mursia, Milano 2010, pp. 620-658.
2. L’importanza dello sciopero fu compresa già allora dalla stampa statunitense. Il 9 marzo 1944 il “New York Times” (che parlò di svariati milioni di scioperanti) scrive: «In fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani». Anche il giudizio degli storici dei nostri tempi non differisce molto da questa analisi: «Come dimostrazione politica, lo sciopero generale ebbe una grandissima importanza. Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. Fu il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti». Si veda L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 225.
3. Ivi, pp.221-222. Si veda anche, a questo proposito E. Collotti, L’occupazione tedesca in Toscana, in Storia della Resistenza in Toscana, vol. I., a cura di M. Palla, Carocci, Roma 2006, pp. 85-146.
4. Per maggiori informazioni sugli scioperi in Toscana si rinvia a: F. Taddei, Il Pignone di Firenze 1944/1954, La Nuova Italia Editrice (Toscana Sindacato), Firenze 1980; in particolare L. Malgalaviti, Il Pignone tra Resistenza e ricostruzione, pp.119-144, che a p.128 testimonia come alle famiglie dei deportati il Pignone avesse inviato il 27 marzo 1944 lettere di licenziamento per «assenza arbitraria dal lavoro». Si vedano inoltre: L. Mancini, Le sigaraie: lavoro e organizzazione produttiva nella Manifattura tabacchi di Firenze fra Resistenza e dopoguerra, in Ricerche storiche, Edizioni Polistampa, Firenze gennaio-aprile 2004; Era la Resistenza. Il contributo di Empoli alla lotta contro il fascismo e per la liberazione, a cura di P. L. Niccolai e S. Terreni, Giampiero Pagnini Editore, Firenze 1995; M. Carrai, Lotte sindacali e democrazia: 1919-1948, p. 122, in La tradizione antifascista ad Empoli 1919-1948, atti del convegno (Empoli, 23 aprile 2004), a cura di P. Pezzino, Pacini Editore, Pisa 2005; M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del Terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Livorno 1987.
5. Gli stessi occupanti, nel rapporto della Militärkommandantur di Firenze del 13 aprile 1944 a poco più di un mese dal giorno della deportazione, ammisero che «un notevole numero (…) di italiani, del tutto innocenti, è stato deportato in Germania senza ragione». Toscana Occupata. Rapporti delle Militärkommandanturen, introduzione di M. Palla, Leo S. Olschki, Firenze 1997, p.143.
6. «Incitati dalla propaganda nemica e inaspriti dalla penuria di generi alimentari i lavoratori hanno tentato di scioperare anche nella provincia di Firenze, particolarmente a Prato, ad Empoli e nella stessa Firenze in diverse fabbriche. L’energico intervento delle autorità italiane, sollecitate dal Comando militare, e in particolar modo l’invio in Germania di alcune centinaia tra gli elementi perturbatori più pericolosi hanno fatto sì che l’agitazione ben presto rientrasse e il lavoro venisse ripreso. Attualmente nelle aziende nelle quali si è scioperato si preparano liste di nominativi degli scioperanti e tra questi si segnalano in particolar modo i sobillatori, allo scopo di poter disporre di materiale per arresti per future occasioni». Ivi, p. 116.
7. Esempi di liste con nomi di operai scioperanti sono conservate in copia al Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Figline di Prato.
8. Si veda presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi), Fondo Scuole Leopoldine, Affari spediti 1944, coll. SL 91, in particolare il documento a firma del tenente colonnello della Wehrmacht Gieseke del Comando germanico di Piazza di Firenze riguardante la «Requisizione di edifici per scopi di impiego nel lavoro» (Arbeitseinsatzzwecke). Di seguito la traduzione testuale della lettera datata 2 marzo 1944: «Le Scuole Leopoldine a Firenze Piazza Santa Maria Novella n. 10 sono da subito requisite per la Wehrmacht tedesca. La scuola è a disposizione della sezione amministrativa militare del lavoro come campo di raccolta (Sammellager) per manodopera italiana destinata al trasferimento in Germania».
9. Si veda il racconto di Mario Piccioli, contenuto in M. Piccioli, Da San Frediano a Mauthausen, a cura di B. Confortini, comune network, Firenze 2007.
10. Il museo, voluto fortemente dai sopravvissuti pratesi ai lager di Mauthausen ed Ebensee e inaugurato il 10 aprile 2002, è una delle poche strutture in Italia ad essere dedicata in modo specifico alla memoria della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti.
11. cfr. La Speranza Tradita. Antologia della deportazione politica toscana, a cura di I. Verri Melo, Pacini Editore, Giunta regionale Toscana, Firenze 1992, con un’appendice inserita nella seconda edizione del febbraio 2014, a cura della Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato con le biografie dei testimoni intervistati, tra cui quelle che seguono nelle note.
12. Operaio al lanificio San Martino di Prato, fu arrestato in piazza San Francesco a Prato il 7 marzo 1944 nell’ambito di una retata effettuata in seguito agli scioperi. Come molti altri pratesi, Castellani si era recato nel centro cittadino per verificare gli effetti di un bombardamento alleato che si era abbattuto sulla città. Detenuto nella Fortezza di Prato (sede della Guardia Nazionale Repubblicana) e alle Scuole Leopoldine di Firenze, a Mauthausen fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.027. Il 25 marzo 1944 venne trasferito al sottocampo di Ebensee dove fu assegnato ad una squadra che curava i giardini delle SS. Successivamente, dopo aver disertato il lavoro per restare accanto ad un amico malato, fu inviato per punizione a lavorare nelle gallerie. Liberato ad Ebensee il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, è stato un testimone instancabile, prodigandosi per l’istituzione del gemellaggio della pace tra Prato ed Ebensee e per la creazione del Museo della Deportazione di Prato. R. Castellani, Intervista del 20 aprile 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20. 28.
13. Rivedibile alla visita di leva, Fiorello Consorti lavorava come operaio in una ditta tessile a Prato. Arrestato da un carabiniere e dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana l’8 marzo 1944 in via Mazzoni, fu detenuto nella Fortezza di Prato (sede GNR) e alle Scuole Leopoldine di Firenze. Arrivato a Mauthausen, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.076. Trasferito al sottocampo di Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice, fu liberato il 6 maggio 1945 dagli americani. F. Consorti, Intervista del 24 giugno 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20.
14. Ducci, che al momento dell’arresto lavorava come operaio, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft) a Mauthausen, dove ricevette il numero di matricola 57.101. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò dapprima all’ampliamento del campo e successivamente nelle gallerie. Liberato il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. A. Ducci, Intervista del 22 marzo 1988, in Fonti 4. 9. 16. 19. 20.
15. Commesso in una pizzicheria, Piccioli fu arrestato la mattina dell’8 marzo 1944 da un agente in borghese della Guardia Nazionale Repubblicana in piazza Santa Maria Novella, dove si era recato per cercare la madre, arrestata la sera prima per aver partecipato allo sciopero e reclusa nel centro di raccolta alle Scuole Leopoldine. La madre fu rilasciata insieme alle altre donne. Mario invece fu deportato lo stesso giorno nel campo di concentramento di Mauthausen. Numero di matricola 57.344, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft). Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice. Il 10 settembre 1944 venne trasferito nel sottocampo di Linz III e impiegato in lavori esterni, soprattutto nel trasporto merci. Durante un bombardamento alleato alla fine del 1944 il rifugio della sua squadra di lavoro venne colpito. Di trentadue uomini se ne salvarono solo quattro, tra cui Mario, che, ferito ad una gamba, fu trasferito in infermeria. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. M. Piccioli, Intervista del 28 gennaio 1988, in Fonti 4. 8 n.3-5/2010. 9. 16. 20. 23. 28.
16. Arrestato l’8 marzo 1944 in piazza Santa Maria Novella, Scaffei fu deportato lo stesso giorno. Classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevette il numero di matricola 57.399. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò come manovale all’esterno delle gallerie. Il 16 maggio 1944 fu ricoverato in infermeria in seguito ad un’infezione alla mano e successivamente trasferito nel Sanitätslager (infermeria) di Mauthausen. Probabilmente a metà agosto 1944 venne nuovamente trasferito a Linz III. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. P. Scaffei, Intervista del 21 gennaio 1988, in Fonti 4. 9. 16. 20.




Monumenti, lapidi, segni e luoghi di memoria della Seconda guerra mondiale e della Resistenza maremmana

La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone
Italo Calvino

 

Nessuno di questi monumenti parla davvero del passato: sono al contrario tutti espressione di una storia che è ancora viva e che, ci piaccia o no, continua a governare le nostre vite
Keith Lowe

 

A ottant’anni dalla Liberazione dei nostri territori dal nazifascismo è utile riflettere sulla memoria della Resistenza, provando a capire quale sia l’impatto di lungo periodo o, meglio, l’eredità della Resistenza ai nostri giorni. Di fatto, perché l’anniversario di quest’anno rappresenti nel discorso pubblico un momento significativo per porre all’attenzione il tema, come lo sono stati gli anniversari “tondi” che ci hanno preceduto, è necessario accompagnare le celebrazioni della Liberazione toscana e, nello specifico maremmana, a una riflessione profonda sul senso del parlare di Resistenza oggi, sui termini in cui farlo e sulle modalità memoriali che hanno caratterizzato questi ottant’anni trascorsi dall’estate del 1944, che vide la conclusione per la provincia di Grosseto dell’esperienza della lotta armata.

Philip Cooke scrive che c’è ancora il bisogno di colmare quello che lui definisce come “il divario fra l’indagine storica e l’analisi culturale”, per indagare quella doppia elica costituita dalla politica italiana e dalla cultura della Resistenza italiana, “due filamenti legati fra loro […] componenti strutturali del DNA dell’Italia contemporanea” che aiutano a comprendere la natura profonda di un paese che sulla memoria della Resistenza è in parte divisa (L’eredità della Resistenza. Storia, culture, politiche dal dopoguerra a oggi, 2015). Senza poter qui approfondire la questione per gli anni più recenti, come il bel volume di Philip Cooke fa, è necessario però almeno partire da questo ragionamento per evidenziare le diverse fasi nella costruzione della memoria della Resistenza che riguardano direttamente l’argomento di questo articolo (ovvero l’immediato dopoguerra, il decennio successivo che potremmo definire della “canonizzazione” del discorso resistenziale e gli anni Sessanta che sono caratterizzati dalla presenza del tema della “Resistenza tricolore”).

Su tale costruzione memoriale agiscono diversi vettori legati alla storia culturale come la letteratura, le arti figurative, il discorso pubblico e la memoria istituzionale (ad esempio, il calendario civile), la comunicazione politica, i testi giornalistici, le culture popolari, il cinema, la televisione, la musica, la rappresentazione fotografica; si tratta di alcuni dei temi a cui sono state maggiormente dedicati studi specifici, a partire soprattutto dagli anni Ottanta. Scarseggia invece, anche per quanto riguarda la provincia di Grosseto, una specifica attenzione al tema dei monumenti e dei segni di memoria dedicati alla Resistenza e questo nonostante il fatto che, se si considera la Resistenza come religione civile dell’Italia repubblicana, proprio i monumenti condensino di fatto riti, simboli e commemorazioni che fanno parte di questa tradizione memoriale.

Sul perché questo avviene Iara Meloni pone, a partire dal caso piacentino (saggio in Piedistallo della storia, a cura di S.Nannini e E. Pierazzoli, Viella 2022), alcune riflessioni molto interessanti a livello generale, a partire dalla considerazione evidente che rispetto al caso delle “memorie di pietra” della Prima guerra mondiale, su cui invece gli studi abbondano, non ci siano stati per la Resistenza miti unificanti, come ad esempio quello della mater dolorosa, e non esista una figura unica come quella del soldato in armi, richiamata dalle diverse forme di monumentalizzazione legate al milite ignoto: esistono invece una moltitudine di protagonisti e, di conseguenza, anche una moltitudine di atteggiamenti, comportamenti, azioni e quindi narrazioni diverse a cui gli studi sulla memoria della lotta di Liberazione dal nazifascismo devono fare riferimento. Altro aspetto da tenere in considerazione è anche la diffidenza, che in quel momento storico si impose con forza, nei confronti di tutta quella serie di retoriche celebrative e di miti patriottici, che erano stati retaggio del bagaglio culturale fascista e che nel dopoguerra invece si volle nettamente evitare, proprio per segnare una cesura con quell’esperienza. In questo senso, Iara Meloni parla di una vera e propria volontà di “smonumentalizzazione”, evidente sia nella modalità di creazione dei diversi segni di memoria, sia nell’assenza di studi specifici su di essi.

In provincia di Grosseto, negli anni, sono stati tentati progetti di mappatura delle “memorie di pietra” del territorio, facendo interagire monumenti, lapidi e segni di memoria con un approfondimento storico che potesse narrare e approfondire le vicende da essi ricordate (si veda, ad esempio, il progetto Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale). Ma al di là di alcuni tentativi portati avanti da diversi soggetti, fra cui l’Isgrec, non c’è stato un tentativo di contestualizzazione di quei monumenti che abbia coinvolto tutto il quadro provinciale, ovvero non si è guardato a quelle tracce del passato resistenziale con uno sguardo d’insieme che ne indagasse genesi e caratteri specifici.

Altro aspetto che caratterizza i primi anni dopo la fine del conflitto è il concentrarsi dell’asse della narrazione memoriale in località periferiche, in luoghi isolati e poco frequentati che però sono i luoghi che vengono riconosciuti significativi per singole comunità o per specifici gruppi sociali o politici. Si struttura in quei primi anni, insomma, un vero e proprio binomio fra evento e luogo, per cui il monumento – e il ricordo – si colloca nel luogo in cui l’evento avviene. Se teniamo presente che la memoria a livello locale della Resistenza è per lo più innervata in singole comunità[1], il ragionamento che ne deriva è che proprio lo spazio comunitario alla fine della guerra diventa una delle modalità principali attraverso cui la storia della Resistenza inizia a farsi discorso pubblico e a essere narrata, con modalità che ovviamente cambiano nel tempo[2].

In questa fase immediatamente successiva alla Liberazione si vedono chiaramente nascere gli archetipi di quella che sarà la successiva rappresentazione della Resistenza.

Lapide in memoria di Giovanni Pastasio

Cippi e monumenti sorgono numerosi nei luoghi di uccisione di partigiani o, in alcuni casi, di vittime del fascismo; nell’immediato dopoguerra, infatti, la precisa volontà di non dimenticare i caduti del periodo squadrista e di tornare a commemorare persone che non si erano potute commemorare fino ad allora porta alla creazione di alcune targhe e monumenti legati alle vicende degli anni Venti[3]. Già il 17 agosto 1945, ad esempio, a Gavorrano viene apposta una lapide che ricorda il luogo e il giorno in cui nel 1921, Giovanni Pastasio, giovane minatore antifascista, fu ucciso durante un’incursione di squadristi di Follonica, mentre a Scarlino viene collocata una targa in ricordo di Gabriello Dani, capolega dei contadini del territorio, ucciso l’11 settembre 1921 da una spedizione fascista.

Di contrasto, nella toponomastica si evidenzia la necessità impellente di una vera e propria epurazione simbolica rispetto a quel retaggio culturale fascista che aveva segnato profondamente le architetture delle città ma anche appunto i nomi delle strade, in particolare in riferimento al periodo squadrista.

In un documento del Comune di Grosseto dell’agosto 1943 (quindi ancora prima dell’inizio della Resistenza) appare evidente come già a seguito del 25 luglio ci si ponesse immediatamente la problematica di cambiare alcuni di questi toponimi (tornando in questo caso a quelli precedenti): ad esempio, a Grosseto si eliminò Piazza Rino Daus, martire del fascismo, squadrista senese della prima ora che aveva partecipato alla cosiddetta “presa di Grosseto” del giugno 1921; nella stessa logica avvenne la trasformazione in Via Piave di Via Ivo Saletti, squadrista che aveva partecipato alla spedizione punitiva su Roccastrada del luglio 1921, colpito poi sulla strada del ritorno o da un’imboscata o per fuoco amico – secondo due ricostruzioni contrapposte difficilmente verificabili –, alla cui morte seguì l’uccisione per rappresaglia da parte dei fascisti di dieci cittadini del paese.

Cippo di Boccheggiano in ricordo dei partigiani Ghiribelli, Malossi e Tompetrini

Se in merito alla memoria dello squadrismo il centenario della marcia su Roma nel 2022 ha avviato una riflessione complessiva, in questo primo tentativo di indagine è difficile pensare di poter anche solo citare, invece, i moltissimi cippi che a partire dal 1945 vengono dedicati ai caduti partigiani, spesso collocati in località davvero impervie e isolate, per cui si rimanda alla mappatura realizzata sul sito ResistenzaToscana creato della Federazione Regionale Toscana delle Associazioni Antifasciste e della Resistenza di cui fanno parte fra le altre ANPI, ANED e FIAP, a partire dal 2003. Fondamentale, però, è soprattutto sottolineare come questi luoghi diventino centrali nelle prime commemorazioni del 25 aprile o in cerimonie che avvengono nella ricorrenza delle date in cui le persone ricordate sono state uccise: i monumenti in questione diventano fin da subito, insomma, luoghi di ricorrente vivificazione rituale del ricordo, incarnando tutta una serie di rituali commemorativi che li hanno tenuti vivi come luoghi di memoria fino ad oggi.

Lapide a Campo al Bizzi (Monterotorndo Marittimo)

Quello che però è soprattutto utile, in quest’ottica, è guardare ad alcuni luoghi che sono centrali nella narrazione “canonica” della Resistenza maremmana, senza alcuna pretesa di esaustività, ma solo come riflessione di partenza sul tema. Ad esempio, la lapide di campo al Bizzi che ricorda l’Eccidio del Frassine (Monterotondo Marittimo) avvenuto il 16 febbraio 1944: posta sul casale che fu bruciato durante il rastrellamento del gruppo di giovani partigiani, in cui persero la vita Otello Gattoli di Massa Marittima, Silvano Benedici di Volterra, Pio Fidanzi di Prata, Salvatore Mancuso di Catania e Remo Meoni di Montale (Pt), è un esempio lampante di tutte le caratteristiche finora evidenziate perché nonostante il notevole isolamento del luogo la lapide (che oggi è stata spostata dal casale, che sta cadendo a pezzi, e inserita in un monumento scultoreo collocato nelle immediate vicinanze) è tuttora commemorata annualmente alla presenza di moltissime persone che la raggiungono dopo una lunga escursione a piedi organizzata dall’Anpi e dal Comune di Monterotondo Marittimo.

Commemorazione al cippo in memoria del tenente Gino (2021)

Simile per perifericità, anche se più elaborato dal punto di vista stilistico, il monumento commemorativo al Tenente Luigi Canzanelli, noto come “tenente Gino”, caduto insieme al suo attendente, il soldato Giovanni Conti, il 7 maggio 1944, a seguito di un’imboscata tesa da un gruppo di nazifascisti, nei pressi di Murci, frazione di Scansano; in questo caso il ricordo si colloca nell’ambito della Resistenza “con le stellette”, trattandosi di militari che aderiscono alle formazioni partigiane e, in questo caso, le guidano. Interessante è notare come questo monumento, collocato nel luogo dell’imboscata, sia stato restaurato nel 2021 dal Comando dei Carabinieri, un soggetto diverso da quelli che tipicamente agiscono quali vettori di memoria. Del resto, la stessa caserma del Comando provinciale dell’Arma di Grosseto è intitolata proprio a Luigi Canzanelli.

Monumento a Ponte del Ricci

Altro monumento particolarmente precoce in provincia di Grosseto è quello di Ponte del Ricci, nel Comune di Roccastrada. Collocato di fatto a un semplice bivio stradale, lontano dai paesi e isolato, si situa in un luogo che si trovò in prossimità del passaggio del fronte, dove il 17 giugno 1944 persero la vita quattro giovani partigiani della formazione “Gramsci” di Roccastrada, fra cui il comandante del distaccamento dei “Lupi rossi” di Montemassi. La memoria di questo episodio si è modificata nel corso del tempo grazie alla ricostruzione storica: dapprima identificato come una strage di civili, grazie alla ricerca di Cinzia Pieraccini del 2005, è stato riconosciuto come un episodio avvenuto durante un combattimento, legato, quindi, a uno scontro a fuoco tra partigiani e tedeschi in ritirata. Il monumento che oggi è presente, e che ha sostituito un semplice cippo con i nomi dei caduti, è stato realizzato nel 1973 dallo scultore Vittorio Basaglia.

Se lo spontaneismo è spesso all’origine di questi primi luoghi di memoria, con gli anni Cinquanta la monumentalizzazione risente maggiormente del discorso nazionale che si struttura sulla Resistenza.  Nell’Italia del centrismo democristiano e dell’alleanza occidentale la tradizione diviene infatti il serbatoio più rassicurante a cui la politica della memoria può attingere; anche per parlare di Resistenza ci si rifà a nodi narrativi che si legano alla pietas o che si rifanno all’interpretazione della Resistenza come a un secondo Risorgimento e che, quindi, interpretano le figure dei partigiani caduti secondo uno schema narrativo che si richiama alla lettura nazional-patriottica del martirio eroico.

Addirittura, a Grosseto la Chiesa cattolica e in particolare la figura del Vescovo Galeazzi contribuiscono negli anni Cinquanta a sottolineare questo aspetto della pietas cristiana fino al punto di cristallizzare in qualche modo la memoria di una “guerra senza Resistenza”. La costruzione della cripta della Chiesa del Sacro Cuore, infatti, contribuisce a incentrare la narrazione della guerra appena trascorsa sulle vittime civili, ricordando in particolare la “strage delle giostre” del 26 aprile 1943, quando nel corso del primo bombardamento subito da Grosseto, persero la vita 134 cittadini tra cui decine di bambini. [4] La narrazione del bombardamento di Pasquetta si manterrà incardinata al registro della pietas anche successivamente; ritroviamo la stessa impostazione, infatti, anche in monumenti successivi che continuano a fare riferimento a un universo simbolico prettamente religioso.

Cripta della Basilica del Sacro Cuore – Memoriale alle vittime dei bombardamenti (anni Cinquanta)

 

Monumento alle vittime dei bombardamenti di Grosseto (2003)

In merito, invece, al topos della Resistenza come “secondo Risorgimento” va precisato che, sebbene il racconto di taglio patriottico fosse già emerso durante la guerra per narrare la Resistenza come sforzo corale del popolo italiano, si strutturerà soprattutto in seguito in contrasto con la narrazione egemonica da parte comunista. Un’altra delle caratteristiche su cui riflettere nei monumenti della Resistenza del primo dopoguerra e degli anni Cinquanta è, quindi, la tendenza diffusa ad aggiungere (o comunque ad affiancare negli spazi pubblici) i nomi dei caduti del 1940-45 e dei caduti della Resistenza ai monumenti dedicati ai caduti della Prima guerra mondiale.

Memoriale ai caduti di Massa Marittima

In questa logica della Resistenza come secondo Risorgimento, in sostanza, essi vengono in qualche modo inseriti, come evidenzia anche Iara Meloni, in un “patriottico abbraccio cumulativo” (Massimo Baioni, Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita, 2020).

 

Per esemplificare in relazione al contesto grossetano, non si può non citare il memoriale dei Caduti di Massa Marittima, luogo chiuso al pubblico (aperto solo in alcune occasioni), che raccoglie i caduti delle guerre di indipendenza, i caduti della Prima guerra mondiale, i caduti della campagna di Russia e i caduti della Seconda guerra mondiale, fra cui alcuni partigiani.

Monumento ai caduti della Resistenza, cimitero di Sterpeto (Grosseto)

Allo stesso modo, si può fare riferimento alla terminologia impiegata nel monumento ai caduti della Resistenza realizzato nel 1954 nel cimitero di Sterpeto a Grosseto. Nelle lapidi laterali che fanno parte di questo monumento è interessante soffermarsi sul linguaggio, sulla retorica: una delle targhe recita “i partigiani caduti non risposero ad alcun bando, non alzarono bandiera, l’Italia li aveva chiamati per il suo tricolore morirono” (entra qui in gioco il tricolore, come simbolo evocativo del patriottismo), mentre sulla seconda lapide viene richiamato il “sangue versato per la patria”, in uno schema discorsivo chiaramente inserito in questa logica.

Il terzo tema cui si accennava, evidentemente collegato, è quello della memoria pubblica, militare e combattentistica, quasi epica, della Resistenza a cui si lega la figura dell’eroe, commemorato attraverso un vero e proprio “culto del martire”. Questa interpretazione martirologica della Resistenza è evocata nelle poche rappresentazioni figurative di quegli anni in Maremma, di cui un esempio fra tutti è il cippo di Potassa (la cui rappresentazione scultorea è in questo senso autoevidente). Fu dedicato al partigiano Flavio Agresti, Medaglia d’Argento al valor militare con la seguente motivazione: “In un tragico periodo della Patria invasa dal nemico, si faceva organizzatore ed animatore del Fronte Clandestino di Liberazione nel paese di Scarlino. Offertosi spontaneamente per una difficile e rischiosa missione di collegamento, tra un gruppo e l’altro di patrioti, veniva catturato dai reparti tedeschi. Sottoposto a stringente interrogatorio e ad ogni specie di sevizia e di tortura, onde rivelare l’entità dei patrioti e la missione a lui affidata, si rifiutava decisamente.

Monumento in memoria del partigiano Flavio Agresti

Legato, poi, dietro a un barroccino con le braccia incatenate dietro la schiena e trascinato per diversi chilometri, non avendo voluto tradire i compagni, veniva barbaramente finito da una raffica di fucile mitragliatore, chiudendo, così gloriosamente, una vita interamente dedicata alla Patria”.

Il rapporto fra i concetti di “eroe” e “martire”, ma anche lo slittamento semantico da “vittima” a “caduto per la lotta di Liberazione”, del resto, variano anch’essi al variare dell’evoluzione del discorso pubblico sulla Resistenza, quindi in base al contesto storico di riferimento. Ad esempio, la spinta a una narrazione eroica della Resistenza può essere interpretata come una reazione al clima della fine degli anni Quaranta con il fallimento dell’epurazione e l’avviarsi dei primi processi ai partigiani. Si rifugge in questo momento dal rischio di una “memoria debole”, sia attribuendo anche alle vittime delle stragi nazifasciste la qualifica di caduti per la lotta di Liberazione, sia ricorrendo al lemma del martirio e quindi quasi imponendo al lutto un senso a posteriori, determinato dalla scelta di donare la vita per la causa della lotta partigiana. Ci troviamo di fronte a una forma di narrazione estremamente ricorrente, che permane significativamente anche in monumenti di molto successivi.

Monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), Cittadella dello Studente (Grosseto)

Ad esempio, nel monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), che pure è del 1985: una composizione architettonica in cemento e metallo, “tempietto moderno”, costituito da linee strutturali orizzontali e verticali, alternate a linee curve, immerso nel verde. Fu progettato da Maria Paola Mugnaini, allora studentessa del Liceo Artistico di Grosseto, in preparazione dell’esame di maturità, con la guida e la collaborazione dell’architetto Pietro Pettini, già docente del Liceo. La Provincia di Grosseto lo realizzò in occasione del quarantesimo Anniversario della Liberazione e fu collocato nella sede attuale, all’interno della Cittadella degli Studi. Si tratta di un monumento completamente astratto, ma al cui interno una targa recita “La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio  – Uno studente fucilato dai nazifascisti il 4 maggio 1944”.

Una riflessione che può essere ampliata grazie agli spunti offerti dallo storico inglese Keith Lowe che, nel 2021, facendo riferimento alle molteplici categorie memoriali di “eroi, martiri, mostri, apocalisse, rinascita”, ha evidenziato che “queste cinque declinazioni della memoria non solo si fanno forza ma si amplificano a vicenda. L’idea dell’Armageddon fornisce il contesto perfetto per l’immaginario condiviso della guerra come scontro titanico intorno all’anima dell’umanità. Gli eroi sono più eroici di fronte al male assoluto contro il quale lottavano; e i mostri sono più mostruosi se ci soffermiamo sull’innocenza dei martiri che hanno torturato. Il fine ultimo è collegare tutte queste immagini, per ottenere la fede in un mondo nuovo, che rinasce dalle ceneri di quello vecchio” (Prigionieri della storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della Seconda guerra mondiale sulla memoria di noi stessi, 2021).

Monumento ai martiri d’Istia realizzato dal Comune di Magliano in Toscana a Maiano Lavacchio nel 1964

Un ragionamento estremamente interessante da applicare, in particolare, ai monumenti dedicati ai martiri d’Istia e alle vittime della strage di Niccioleta, su cui ci si soffermerà quindi in conclusione. Nel primo caso, si fa riferimento alla strage fascista avvenuta a Maiano Lavacchio, nel Comune di Magliano in Toscana, il 22 marzo 1944: furono fucilati dai fascisti 11 giovani che avevano rifiutato di arruolarsi nel costituendo esercito della Repubblica sociale italiana, 11 inermi nel sentire popolare, “11 agnelli” nei primissimi canti in ottava rima che diedero forma alla precoce narrazione (strutturata in forme capaci di “passare di bocca in bocca”) di una vicenda che lasciò una cicatrice profondissima nella memoria collettiva grossetana, per la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza, per la crudeltà e la barbarie dei carnefici, per il gesto coraggioso del parroco d’Istia d’Ombrone, don Omero Mugnaini, che sfidò le autorità fasciste opponendosi al divieto di dare sepoltura alle vittime.

Successivamente il discorso pubblico che si stava strutturando intorno alla Resistenza trasformerà gli 11 ragazzi giocoforza in partigiani combattenti, partecipi anche da morti dello sforzo corale del popolo maremmano per la Liberazione della provincia. La ricostruzione storica, avviatasi con la raccolta di materiali e fonti documentarie che l’Isgrec ha portato avanti nel corso di ricerche pluriennali (confluite nel volume di Marco Grilli Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei Martiri d’Istia del 2014), ha dimostrato però che sulla possibile scelta partigiana sono possibili solo congetture, mentre di fatto da testimonianze di familiari e amici emerge con forza la scelta di Resistenza civile e non in armi dei ragazzi. Bisogna quindi contestualizzare quella memoria, ricordando che nel dopoguerra la possibilità di una scelta di forte e netta opposizione non in armi al nazifascismo, come quella forse degli 11 “martiri d’Istia”, è preclusa dall’orizzonte del riconoscimento morale: siamo ancora ben lontani da quell’accettazione di una complessità di esperienze e percorsi impostasi poi anche nel senso comune grazie alla feconda categoria interpretativa di Resistenza civile.

La “chiesina” di Maiano Lavacchio

La memoria degli 11 ragazzi di Maiano Lavacchio è impressa in molti luoghi; a Maiano Lavacchio, è presente un tempietto votivo, conosciuto da tutti come “la chiesina”, fatto costruire dalla famiglia Matteini proprio nel punto in cui i ragazzi furono uccisi. Poco distante, il monumento fatto installare dal Comune di Magliano nel 1964, semplice obelisco sormontato da una lanterna funebre. Al suo fianco è presente anche la Casa della memoria al futuro dell’Isgrec, un “progetto partecipato” da cittadini e Istituzioni che ha trasformato un edificio presente sul luogo della strage in uno spazio culturale per la comunità, un laboratorio dove promuovere e produrre arte, cultura e formazione, attraverso l’aggregazione, la coesione e l’inclusione sociale. Un luogo di memoria dove ospitare studenti e stagisti, pensato per custodire una biblioteca ed essere sede di incontri, che è stato inaugurato il 22 marzo 2023 in occasione della 79° commemorazione ufficiale dei Martiri d’Istia.

La Casa della memoria al futuro a Maiano Lavacchio

Altri monumenti e segni di memoria sono dislocati nei paesi di origine delle vittime, a Grosseto, a Cinigiano, a Istia d’Ombrone, ma anche a Ispica in Sicilia e a Serre in provincia di Salerno, da cui provenivano due dei “martiri”, e sono stati mappati e presentati dalla mostra online realizzata dall’Isgrec nel 2021 (https://martiridistia.weebly.com/). Monumento, nel senso più elevato del termine, è anche la lavagna su cui uno dei due giovanissimi fratelli Matteini, nei momenti precedenti la fucilazione, scrisse un messaggio per la mamma, quello straziante “Mamma, Lele e Corrado un bacio” che è diventato uno dei simboli identitari dell’antifascismo grossetano. Oggi la lavagna è conservata nel Municipio di Grosseto, nell’ufficio del primo cittadino, a ricordo indelebile del valore fondante su cui si basa la Costituzione e la convivenza nella civitas.

La lavagna con l’ultimo saluto alla madre dei fratelli Matteini

Come dimostra il caso di Maiano Lavacchio, quella delle stragi è del resto memoria specifica all’interno della più ampia memoria resistenziale dell’intero territorio provinciale. Una memoria che genera un processo di monumentalizzazione estremamente ampio e diffuso a livello territoriale, già evidente nel caso della strage di Maiano Lavacchio e che si riconferma anche nel caso della strage con il più ampio numero di vittime della provincia di Grosseto, quella del villaggio minerario di Niccioleta del 13-14 giugno 1944:[5] in questo episodio le vittime furono 83 minatori, che provenivano dalla provincia intera ed erano arrivati nel piccolo villaggio minerario, soprattutto dal monte Amiata, in cerca di un lavoro, faticoso e pericoloso, ma che potesse garantire vita e sostentamento per sé e per i propri familiari. L’istituzionalizzazione del ricordo si legò di conseguenza ai diversi momenti di traslazione delle salme nei cimiteri di origine[6], in occasione dei quali furono collocati la maggior parte dei monumenti e delle lapidi più antichi.

Tabernacolo dedicato alle vittime di Niccioleta

 

Lastra in memoria di Aurelio Cappelletti, morto a Niccioleta, collocata a Tatti in occasione della traslazione della salma nel 1945

 

Monumento ai caduti di Niccioleta nel Cimitero di Castellazzara, collocato nel dopoguerra in occasione della traslazione delle salme, s.d. (la stele ai caduti di Niccioleta e di tutte le guerre è invece stata collocata nel 1990)

 

Monumento di Giulio Porcinai in memoria dei martiri dell’eccidio di Niccioleta nel Cimitero comunale di Santa Fiora (1951)

 

Lapide a Massa Marittima

 

Lapide a Massa Marittima

La memoria dell’eccidio vide così declinarsi numerose narrazioni su pietra non soltanto a Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina, luoghi delle uccisioni degli 83 minatori, ma in tutta la provincia, sia in monumenti dedicati sia con l’inserimento delle vittime nelle targhe dedicate ai caduti dai differenti Comuni maremmani di origine.

Si tratta inoltre di una monumentalizzazione che si colloca in varie fasi storiche, modificando le sue caratteristiche nel corso del tempo, e che quindi risulta estremamente utile da considerare in relazione al tipo di analisi che si è tentato qui. Un aspetto che si può mettere in evidenza, ad esempio, è quello relativo agli anni Sessanta quando i monumenti, salvo rare eccezioni, si spostano dal luogo degli eccidi nelle piazze principali dei centri abitati, venendo a occupare uno spazio centrale nella narrazione pubblica, come ad esempio succede a Castelnuovo, dove nel ventennale del 1964 oltre al monumento presente nel vallino della fucilazione, viene costruito il Monumento ai Caduti della Niccioleta nella centrale piazza Matteotti. Nello stesso anno a Massa Marittima il carrarese ex partigiano Nardo Duchi realizza il monumento di Parco di Poggio a Massa Marittima: la collocazione è in questo caso simbolica quanto il monumento stesso, che vede i martiri alzare le mani per proteggere la città presente nel panorama immediatamente sottostante.

Massa Marittima (Parco di Poggio), Monumento ai caduti di Niccioleta, scolpito dall’artista carrarese e ex partigiano Nardo Durchi nel 1964

 

Monumento ai Caduti della Niccioleta – Castelnuovo Val di Cecina, piazza Matteotti (1964)

Lo stesso fenomeno di occupazione dello spazio urbano è evidente nel piccolo villaggio di Niccioleta dove alla targa sulla parete prospiciente il cortile dove avvenne la prima fucilazione di sei minatori si sono aggiunti nel corso degli anni a qualche metro di distanza, ma in posizione chiaramente centrata rispetto allo spazio urbano, il cippo commemorativo del 2004 e la targa con i nomi dei minatori uccisi nel 2005, in un processo che satura il luogo simbolico di memorie sovrapposte collocate durante i diversi anniversari.

Lapide a Niccioleta

 

Cippo a Niccioleta

 

Lapide a Niccioleta

Evidente da quest’ultimo esempio è anche come la monumentalizzazione della strage di Niccioleta, dopo una fase di oblio abbastanza prolungato (scrive Paolo Pezzino che nel dopoguerra «la memoria è stata coltivata nelle zone di origine delle famiglie dei minatori, ma il fatto che questi fossero dispersi nell’Amiata, che poi l’eccidio sia avvenuto in un’altra terra ancora, Castelnuovo Val di Cecina, fa sì che la strage di Niccioleta, come altre in Italia, sia stata ben presto dimenticata») abbia ripreso vigore dalla fine degli anni Novanta, con l’avviarsi delle ricerche storiche che portarono a contestualizzare la vicenda nel fenomeno della ritirata aggressiva dell’esercito tedesco (Paolo Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, 2001).

Lapide posta sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina 2016

Segni di memoria sono comparsi quindi anche recentemente, ad esempio nel 2016 è stata apposta una lapide sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina dove i prigionieri trasferiti da Niccioleta furono imprigionati, mentre dal 2022 Niccioleta è stata accolta nella rete dei Paesaggi della memoria.

Il luogo di memoria specifico relativo alla strage è comunque da sempre rappresentato dal Vallino dei Martiri a Castelnuovo Val di Cecina: qui, in mezzo al rumore assordante dei soffioni boraciferi, avvenne il 14 giugno la fucilazione di 77 minatori e qui inizialmente le salme furono seppellite in fosse senza nome. Sul luogo una semplice croce e un cartello individuarono fin da subito lo spazio simbolico della commemorazione; oggi nel Vallino esiste un museo diffuso, realizzato da Isgrec negli anni Duemila con l’apposizione di pannelli esplicativi.

Il vallino subito dopo la strage

 

Il vallino di Castelnuovo Val di Cecina

 

In seguito, in data imprecisata, ma probabilmente già nel 1945, venne costruito subito a monte un monumento che negli anni ha subito una piccola ma significativa trasformazione (emersa grazie al raffronto con le foto storiche, ma non ancora indagata attraverso le fonti d’archivio): sulla facciata del monumento, alla targa originaria, che era molto evocativa ma non faceva riferimento ai fatti, pare sia stata aggiunta in un secondo momento – imprecisato – una parte iniziale descrittiva dell’episodio (mentre sul retro una seconda lapide ricorda i nomi dei 77 minatori uccisi); quasi che il passare del tempo avesse reso necessario un chiarimento rispetto alla vicenda, non più ritenuta autoevidente per chi incappava nel monumento.

Se per luoghi di memoria intendiamo quei luoghi che «sono percepiti dalle popolazioni che li abitano o li conoscono come espressivi di identità legate al loro vissuto, ai racconti dei loro genitori e nonni» è evidente che la capacità di questi luoghi di dialogare con le comunità di riferimento cambia nel tempo, si perde o semplicemente si trasforma con il passare delle generazioni. I segni di pietra della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, a ottant’anni dai fatti, paiono sempre più necessitare quindi dell’attenzione degli storici e dell’esercizio attivo di memoria da uomini e donne, singolarmente o in gruppo. Solo così pare possibile preservare ciò che questi monumenti e segni di memoria hanno tutti, quell’aspirazione a raccontare «qualcosa di universale per eccellenza: sia l’opposizione alla tirannia, all’ingiustizia o sia la lotta per i diritti e la libertà, per la liberazione della patria» (Massimo Dadà, Paesaggi della memoria. Dai luoghi alla rete, e viceversa, 2018).

Note
[1] Si veda l’esistenza datata ormai al 2017 dei Paesaggi della memoria, rete di musei e luoghi di memoria dell’Antifascismo, della Deportazione, della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della Liberazione in Italia che fa da contraltare all’assenza, fino ad oggi, di un museo a livello nazionale (www.paesaggidellamemoria.it).
[2] Per capire come alla Resistenza del territorio maremmano si è guardato nei diversi momenti storici si possono considerare le diverse opere che al tema si sono approcciate nel contesto locale: ad esempio, I minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola del 1956; Visi sporchi coscienze pulite. Storia di un piccolo paese minerario della Toscana di Mauro Tognoni, che è del 1975; il racconto autobiografico di Aristeo Banchi, Si va pel mondo. Il partito comunista dalle origini al 1944 che è del 1993. Si tratta di scritti sulla Resistenza o memorialistici che, se comparati, possono ben darci il senso di come è cambiata questa narrazione.
[3] Sui limiti della memoria e della ricostruzione storica dello squadrismo maremmano si veda Ilaria Cansella, L’avvio dello squadrismo in provincia di Grosseto: il 1921 e i fatti di Roccastrada, in Roberto Bianchi (a cura di), 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, Olschki, 2022.
[4] Cfr. Adolfo Turbanti, Stefano Campagna, Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Effigi, Quaderno Isgrec n. 8, 2021.
[5] Cfr. Katia Taddei, Il massacro dei minatori di Niccioleta. 13-14 giugno 1944, su https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-massacro-dei-minatori-di-niccioleta-13-14-giugno-1944/.
[6] La prima cerimonia avvenne a Massa Marittima alla fine del settembre 1944. Una grande folla seguì gli autocarri che trasportavano i feretri. In quell’occasione, al parco  della Rimembranza parlò a nome dell’intera cittadinanza il socialista Emilio Zannerini.



Il massacro dei minatori di Niccioleta, 13-14 giugno 1944

Niccioleta è un villaggio minerario nel comune di Massa Marittima, al centro delle Colline Metallifere. La storia di Niccioleta è legata all’attività estrattiva della pirite i cui giacimenti furono acquisiti, agli inizi del secolo scorso, dalla Società Montecatini. Nel 1935 la scoperta di un grosso quantitativo di minerale dette un nuovo impulso alla miniera e la Società iniziò l’edificazione di un villaggio costruito su livelli altimetrici separati per classe sociale: i palazzi occupati dalle famiglie degli operai si trovavano in basso e circondavano la piazza, al livello superiore erano disposte le abitazioni degli impiegati e sulla sommità si ergeva la villa del direttore. I dipendenti provenivano in gran parte dal monte Amiata, dove le miniere di cinabro si erano esaurite, in particolare da Santa Fiora e Castell’Azzara, ma ve ne erano anche provenienti da altre località o regioni come Veneto e Sicilia: forza lavoro specializzata, che si trasferiva da un ambito minerario all’altro, in cerca di occupazione. Al personale impiegato nella miniera non era richiesta l’iscrizione al partito fascista, ma è probabile che i dipendenti vi fossero iscritti d’ufficio al momento dell’assunzione[1]. Le mansioni particolari dei minatori, non così facilmente sostituibili, concedevano loro il vantaggio di conservare le proprie opinioni politiche senza dover necessariamente rischiare la prigione o il confino. Si andava così costituendo sottotraccia, una base di opposizione al fascismo tutt’altro che risibile: «le famiglie contrarie al fascismo erano tante, più del 60% senz’altro, ma gli esponenti diciamo quelli più in vista, saranno stati una dodicina»[2].

La Direzione ne era senz’altro a conoscenza e ad ogni visita da parte delle autorità fasciste, si procedeva all’arresto preventivo dei più facinorosi, rilasciati all’indomani della manifestazione. Dopo l’8 settembre 1943, con la costituzione della Repubblica Sociale, a Niccioleta si contavano circa una quindicina di famiglie di fascisti, su una popolazione di circa ottocento persone. Il direttore Mori Ubaldini che aveva aderito convintamente al PNF, all’affermarsi del secondo fascismo se ne discostò, in particolare quando, dalla primavera del ‘44 nel villaggio si stagliò nettamente una maggioranza antifascista ed i fascisti iniziarono a chiudersi in difesa, nel timore che le forze partigiane potessero prendere il sopravvento e vendicarsi dei loro abusi (alcuni fascisti come Aurelio Nucciotti, segretario politico, avevano partecipato a rastrellamenti di partigiani).

I partigiani dell’area erano in contatto con il villaggio attraverso fiancheggiatori che li rifornivano di dinamite, chiodi a tre punte ed altri manufatti utili al sabotaggio. Alla fine di maggio i fascisti percependo il crescente isolamento, iniziarono ad apostrofare gli antifascisti e le loro famiglie minacciandoli dell’arrivo in loro aiuto di qualcuno che “avrebbe messo a posto la Niccioleta”. Il 5 giugno gli ufficiali tedeschi del presidio di Pian di Mucini in prossimità del villaggio, chiesero al direttore di poter interrogare cinque operai accusati di essere sostenitori dei partigiani. Si presentarono in tre, uno fuggì dalla finestra e gli altri furono redarguiti e rilasciati. Si trattò di una prima avvisaglia che denunciava la presenza di delatori al villaggio. Tre giorni dopo, mentre quegli stessi ufficiali si dirigevano in auto verso Boccheggiano, caddero in un’imboscata tesa dai partigiani e i soldati rimasti al presidio si diedero alla fuga.

Il 9 di giugno del 1944 alcuni antefatti, collegati tra di loro, determineranno le sorti del villaggio e della sua popolazione. Nel pomeriggio una squadra di partigiani della formazione “Camicia Rossa” giunse a Niccioleta; i giovani, accolti dalla popolazione festante, bruciarono qualche camicia nera e dopo aver disarmato i carabinieri e chiesto ai fascisti di restare in casa, se ne tornarono alla loro base, lasciando il paese nelle mani di un comitato pubblico costituito da vecchi antifascisti che organizzarono turni di guardia agli impianti e al paese. All’alba di quello stesso giorno, il III Freiwilligen Batallion Polizei Italien, partiva da San Sepolcro con destinazione Castelnuovo di Val di Cecina, ove giunse all’alba del giorno successivo, seguendo una logica poco comprensibile visto il contingente di reparti tedeschi in ritirata che transitavano in quei giorni sulla via Aurelia, o sulle strade più interne, verso la linea Gotica.

Il battaglione, costituito da truppa italiana e ufficiali tedeschi e italiani, era comandato dal maggiore Kruger che da subito si assentò, lasciando gli uomini sotto la guida tenente Emil Block. La mattina del 10 giugno il battaglione, al suo ingresso in Castelnuovo, catturava tutti gli uomini incontrati per strada e li conduceva presso il municipio in qualità di ostaggi. La popolazione, memore che il 7 giugno una squadra di partigiani della XXIII brigata aveva catturato e passato per le armi Pietro Palmerini, impiegato comunale fascista, al giungere del battaglione pensò ad una rappresaglia legata a quel fatto. In realtà accadde qualcosa di assolutamente indecifrabile. Durante la mattina del 10 giugno una squadra del battaglione in avanscoperta si scontrava presso Monterotondo Marittimo con una squadra di partigiani: cinque di loro persero la vita, ma furono colpiti anche numerosi militi. Il tenente Block, nonostante le perdite, non effettuerà alcuna rappresaglia su Monterotondo e neanche contro gli ostaggi di Castelnuovo che nel pomeriggio furono tutti rilasciati, tranne quattro giovani in età di leva deportati in Germania. Tuttavia, il 12 giugno il comandante chiedeva che fosse approntato un locale in grado di ospitare almeno 150 uomini; la notte stessa un reparto di circa 70 uomini lasciava Castelnuovo per Niccioleta e accerchiava il villaggio, prelevando tutti gli uomini dalle case.

Gli uomini del turno di notte fuggirono nascondendo le note con i turni di guardia nel rifugio antiaereo, gli altri furono trascinati nella piazza con le mitragliatrici puntate contro, sei di loro su indicazione di fascisti locali furono prelevati, percossi a lungo e poi passati per le armi quella stessa mattina: Ettore Sargentoni con i due figli Ado, che era in contatto con i partigiani, e Alizzardo; Bruno Barabissi, a cui fu trovato un fazzoletto rosso; Rinaldo Baffetti, noto antifascista, e Antimo Chigi che aveva un lasciapassare partigiano utilizzato per raggiungere i cantieri della Todt dove lavorava. Una volta trovate le note dei turni di guardia, gli uomini furono rinchiusi nel rifugio antiaereo e alla sera condotti a Castelnuovo Val di Cecina con i fascisti del paese e le loro masserizie.

Partirono con un moderato ottimismo, pensando che la fucilazione dei sei uomini al mattino avesse in qualche modo soddisfatto il desiderio di vendetta dei nazifascisti. Fu loro ordinato di prendere un cambio per tre giorni poiché sarebbero stati condotti a scavare trincee anticarro e a minare la centrale elettrica. Furono condotti a Castelnuovo e rinchiusi nei locali del cinematografo. Il giorno dopo avvenne la selezione: ventuno giovani nati tra il 1914 e il 1927 non presenti nelle note, pur avendo partecipato ai turni, furono condotti a Firenze e da qui in Germania ai lavori forzati; gli uomini di età superiore ai cinquant’anni furono inizialmente trattenuti, poi rilasciati successivamente alla strage dove perirono molti dei loro figli. Durante la selezione il fascista Calabrò ricevette il “privilegio” di salvare sei uomini, ma ne salvò solo due dal gruppo destinato alla fucilazione.

In settantasette furono quindi condotti in prossimità della centrale elettrica e qui uccisi da mitragliatrici occultate.

Il processo che seguì alla strage si concluse con una condanna dopo due gradi di giudizio ed un ricorso in Cassazione a 20 anni per Calabrò e Nucciotti, accusati di aver chiamato il battaglione a Niccioleta, e a 10 anni per Aurelio Picchianti, un milite riconosciuto da un giovane del villaggio. Un indulto nel 1952 liberò definitivamente i condannati. Gli uomini che fecero parte del plotone di esecuzione, denunciati inizialmente da un commilitone, saranno prosciolti in seguito al ritiro della denuncia. Il segretario del direttore, un ex capitano dei servizi segreti militari, tale Nicola Larato, si era allontano da Niccioleta ai primi di giugno e vi ritornò il giorno stesso in cui il battaglione aveva accerchiato il villaggio. Fu riconosciuto da un milite ed era atteso dal comandante; dunque, era precedentemente stato in contatto con il battaglione, forse attraverso il tenente medico Domenico Fracchiolla, pugliese come il Larato. Larato fu catturato dal CLN di Niccioleta nel dopoguerra e consegnato agli Alleati, che lo tratterranno due anni nel campo di concentramento di Padula; tuttavia non fu mai imputato al processo. Il tenente medico, invece, non fu mai ritrovato perché all’epoca si ignorava il suo nome. Molti anni dovettero passare prima che gli storici si interessassero all’eccidio e ritrovassero i documenti utili all’individuazione dei responsabili tedeschi, che tuttavia restarono impuniti.

Note

  1. Presso l’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea a Firenze sono conservati i registri contenenti l’elenco di tutti i dipendenti della Società Montecatini iscritti al PNF, tra questi anche oppositori al fascismo, e da un riscontro presso le famiglie risultava che nessuno ne fosse a conoscenza.
  2. Si veda l’intervista a Mario Fatarella, in Katia Taddei, Coro di voci, Il Ponte Editore, Firenze 2003, p. 310.

Per approfondimenti: https://memoriavittimenazismofascismo.it/ nel quale si possono consultare le interviste a Siliano Sozzi, Mario Fatarella, Bruno Travaglini, accessibili previa registrazione gratuita.




Guerra aerea su Siena.

…Durante una mia udienza privata nel periodo “tedesco”, entrò emozionatissimo nello studio del Papa il prelato di servizio, recando copia di un telegramma: gli Alleati avevano bombardato Siena, danneggiando anche alcune importanti chiese della città. Pio XII ne fu ovviamente rattristato ma il tenore del messaggio gli sembrava strano nella penna di un arcivescovo (il bieco nemico, la perfida Albione e così via). Solo alla fine si svelò l’equivoco: il mittente non era l’arcivescovo Toccabelli, ma il segretario federale repubblichino della provincia toscana – se non ricordo male, si chiamava Chiurco – che non domandava benedizioni ma, più o meno, pregava il Pontefice di stramaledire gli inglesi…

 

Un curioso aneddoto quello ricordato da Giulio Andreotti nelle proprie memorie, in grado di riassumere in sé molte delle contraddizioni riguardanti la complessa vicenda dei bombardamenti aerei sulla città di Siena.

Caso particolare, quello senese, che vide il capoluogo e la provincia risparmiati dalle distruzioni delle bombe dal cielo fino alle ultime settimane del 1943, quando tutto intorno le città della Toscana e dell’Italia pagavano a caro prezzo l’impreparazione con la quale il regime fascista aveva portato in guerra il paese. Favorita da una posizione geografica defilata e da un numero ridotto di obiettivi strategici sul proprio territorio, Siena conservò la propria inviolabilità per tutta la prima parte del conflitto mondiale, ma da tale vantaggio nacque l’errata convinzione, condivisa tanto dagli abitanti quanto dalle autorità fasciste, che nessun ordigno sarebbe caduto all’ombra della Torre del Mangia. Fiducia mal riporta quella della cittadinanza, ingenuamente convinta che una sorta di protezione divina avvolgesse la città, i suoi monumenti e abitanti. Direttamente responsabili le autorità civili e militari, sostanzialmente inoperose fino alla fine del 1942 e conseguentemente colte impreparate dall’intensificarsi della guerra aerea sulla penisola italiana, cui tentarono di riparare avviando la costruzione di rifugi antiaerei spesso mai completati e comunque inadeguati a offrire una reale protezione ai propri avventori.

La caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e la sua rinascita in veste repubblicana l’8 settembre seguente arrecarono ulteriori danni alla già improvvisata organizzazione antiaerea provinciale. I pochi militi prima presenti lasciarono la divisa e dovettero essere rimpiazzati; la costruzione dei ricoveri pubblici venne arrestata nella speranza che l’armistizio con gli Alleati significasse la fine del conflitto; le sirene di allarme, posizionate nei centri nevralgici della città per avvertire gli abitanti in caso di pericolo, non ricevettero la necessaria manutenzione e finirono per rompersi. I rappresentanti della nuova Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini assieme ai suoi sostenitori più fedeli e retta dalle armi tedesche, riattivarono la rete di avvistamento attorno alla città istituendo nuove postazioni di osservazione in località sopraelevate e sulla Torre del Mangia; per allertare i cittadini in caso di pericolo, mobilitarono tamburini delle contrade e parroci delle chiese cittadine; per tranquillizzare una popolazione sempre più intimorita dalla minaccia dei bombardamenti, rinnovarono la donazione simbolica di Siena alla Madonna, come fatto in passato nei momenti più bui della secolare storia cittadina. Come ha scritto Nicola Labanca, «mentre la guerra si fa moderna e novecentesca, i fascisti di Siena rispond[evano] con il medioevo».

Gli Alleati, intanto, bloccati nella propria avanzata verso il Nord all’altezza del fronte di Cassino durante le ultime settimane del 1943, lanciavano nel gennaio 1944 una massiccia campagna di bombardamenti volti a disgregare le strutture di rifornimento tedesche.

In tale contesto si inseriva il ricordo di Andreotti, testimone della particolare richiesta di aiuto inviata al pontefice dal prefetto senese Giorgio Alberto Chiurco dopo il primo bombardamento subito dalla città il 23 gennaio 1944. Indirizzata nella zona della stazione ferroviaria, comunque mancata dagli ordigni, l’incursione aveva interessato i quartieri periferici a sud-est della città, producendo alcune decine di feriti e 25 vittime. La posizione decentrata dello scalo ferroviario, collocato in quella che allora era aperta campagna, fece sì che il lancio errato dei bombardieri non travolgesse il centro cittadino. Il rischio di nuove incursioni si dimostrò tuttavia concreto già il 29 gennaio, quando un nuovo attacco alleato portò alla distruzione della stazione centrale e al pesante danneggiamento del vicino aeroporto di Ampugnano.

Di fronte al pericolo di nuove incursioni sullo scalo ferroviario, prontamente riattivato per garantire il transito dei rifornimenti tedeschi verso Cassino, la scelta delle autorità fasciste repubblicane fu di provare la strada della diplomazia internazionale.

Richiamandosi alla Convenzione dell’Aja del 1907, tentarono così di far riconoscere a Siena la qualifica di città aperta, prevista per quelle località che non si fossero trovate in prossimità di obiettivi strategici di rilevanza militare e, soprattutto, che non avessero ospitato al proprio interno reparti combattenti. Preoccupato di mantenere il controllo su un territorio provinciale sempre più tenacemente contesogli dalle forze partigiane, il prefetto Chiurco aveva tuttavia accasermato nel capoluogo un numero crescente di truppe da impiegare nelle operazioni di controguerriglia, mentre i locali comandi germanici mantenevano il proprio posto nel centro cittadino o nelle sue prossimità, non consentendo peraltro alcuna deviazione del traffico ferroviario transitante dallo scalo senese.

In risposta al problema venne fatto ricorso alla non meglio precisata formula di “città ospedaliera”, promuovendo la versione di una Siena rifugio per profughi e malati – come in parte era – e priva al contempo di reparti armati, caserme, comandi militari, in realtà ancora presenti all’interno del territorio urbano e, anzi, destinati a crescere in numero nelle settimane successive.

Sbarrate le vecchie porte di accesso alla città, dipinte grandi croci rosse su fondo bianco nella piazza del Campo e sui tetti degli ospedali del centro, il caso di Siena fu portato all’attenzione della Santa Sede con la preghiera di interessare al riguardo i comandi angloamericani. Questi rilevarono tuttavia l’impossibilita di conferire qualsiasi riconoscimento alla città, a causa della sua funzione di collegamento tra il Nord e il Sud della Toscana e stante anche l’uso militare fatto dai tedeschi delle vicine linee ferroviarie e stradali. Pure le generiche rassicurazioni fornite circa la possibilità di salvaguardare i monumenti e i feriti presenti nel centro storico, sarebbero rimaste strettamente subordinate “all’azione che possa essere richiesta dalla situazione militare”, lasciando intendere che qualsiasi decisione sarebbe dipesa dall’evolvere del contesto bellico, che vedeva in quel momento i tedeschi impegnati a far affluire rifornimenti di armi e uomini verso il fronte, attraverso i collegamenti stradali e ferroviari della città. La comunicazione giungeva agli inizi di marzo.

Il perdurare dello stallo creatosi lungo la linea dei combattimenti, ancora ferma a Cassino nonostante il tentativo di sbarco attuato ad Anzio dagli Alleati alla fine di gennaio, aveva intanto contribuito a fare nuovamente di Siena un bersaglio dei bombardieri statunitensi.

Delle incursioni erano state condotte sulla città a gennaio e, poi, l’8 e il 16 febbraio, con la popolazione civile sempre più disperatamente aggrappata alla speranza in un buon esito delle trattative diplomatiche, che la stampa fascista presentava come ancora possibili. Dalle autorità di Salò, tuttavia, non furono intraprese iniziative in tal senso. Senza risposta rimasero anche gli appelli indirizzati dal prefetto Chiurco a Mussolini, per una presa di posizione pubblica in favore di Siena che non sarebbe mai arrivata.

Da parte loro, i comandi alleati ribadirono il 3 aprile che nessun riconoscimento sarebbe stato accordato a Siena, la cui rilevanza come centro di comunicazioni faceva sì che qualsiasi decisione al riguardo dovesse essere subordinata alle necessità militari del momento.

Mentre tutta la provincia era ormai interessata dall’azione dei cacciabombardieri statunitensi, Siena subiva l’11 aprile un nuovo, pesante bombardamento. Colpita e distrutta la stazione ferroviaria, anche le zone limitrofe di piazza d’Armi, dell’Antiporto e porta Camollia furono investite dai lanci dei bombardieri. Se i residenti in prossimità di Camollia poterono rifugiarsi nel ricovero costruito sotto la porta – peraltro con criteri che lo rendevano inadatto a resistere all’urto dei pesanti ordigni utilizzati dagli americani – quelli della zona di piazza d’Armi e della stazione non ebbero altre alternative se non disperdersi nelle vicine campagne. I morti furono almeno 13, i feriti una quindicina. Le squadre di primo soccorso, prive di equipaggiamento e mezzi meccanici, continuarono a scavare tra le macerie dello scalo ferroviario fino al sopraggiungere della notte per trarre in salvo i civili rimasti imprigionati.

Un nuovo attacco il 14 aprile seguente procurava la distruzione del deposito locomotive e nuovi danni a ciò che restava della stazione.

Quelli che sarebbero rimasti impressi nella memoria locale come gli ultimi bombardamenti aerei su Siena confermarono il fallimento del progetto della cosiddetta “città ospedaliera”, rivelatosi strumento propagandistico utile a tranquillizzare la popolazione civile e distoglierne l’attenzione dai gravi problemi attanaglianti la sempre più traballante struttura di governo fasciata, pressata dalle insistenti richieste dell’alleato-occupante tedesco, indebolita dai contrasti interni al fascismo repubblicano, screditata dai successi militari dei partigiani nelle campagne.

Nel maggio seguente, l’imponente offensiva delle forze alleate sfondava infine le difese tedesche sulla linea di Cassino. Mutato il contesto bellico e concretizzatasi la prospettiva di una rapida avanzata verso Nord, gli Alleati non portarono nuovi attacchi alla stazione ferroviaria senese, il cui utilizzo si rivelava adesso fondamentale per l’afflusso di uomini e materiali verso l’Italia settentrionale. Sarebbero stati al contrario i guastatori tedeschi, prima della ritirata, a distruggere i pochi vagoni e binari sopravvissuti alle incursioni aeree dei mesi precedenti, lasciando Siena e i suoi abitanti nella condizione di dipendere dai rifornimenti alleati per la propria sopravvivenza.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Giulio Andreotti, A ogni morte di Papa. I Papi che ho conosciuto, Rizzoli, Milano 1980;

Claudio Biscarini, Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944, Del Bucchia, Massarosa 2008;

Michelangelo Borri, La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche, Il Leccio, Monteriggioni 2019;

Nicola Labanca (a cura di), I bombardamenti aerei sull’Italia: politica, stato e società (1939-1945), Il Mulino, Bologna 2012.