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La Liberazione di Siena

Fra la rocca di Radicofani, nel sud della provincia di Siena, e Radda in Chianti, a nord, la distanza è di un centinaio di chilometri. Le truppe alleate impiegarono un mese, dal 18 giugno al 18 luglio 1944, per percorreli. Velocità media: meno di 3 chilometri e mezzo al giorno. L’avanzata dei reparti inglesi a est del terrirorio provinciale, di quelli americani a ovest e del Corpo di spedizione francese al centro incontrò, infatti, un forte contrasto da parte dei tedeschi, i quali si ritiravano ordinatamente, combattendo attestati su una serie di linee difensive predisposte, volta per volta, laddove la conformazione del terreno rendeva più efficace il fuoco di sbarramento di mitragliatrici e cannoni.

Alcuni centri abitati (Radicofani, Chiusi, Poggibonsi) furono teatro di scontri duri e prolungati fra i soldati dei due eserciti contrapposti. Altri (Casole d’Elsa, S. Gimignano) subirono cannoneggiamenti da entrambi. Ad altri ancora vennero invece risparmiate vittime e distruzioni perché ubicati in luoghi di scarsa rilevanza tattica.

Le bande partigiane, che avevano fortemente destabilizzato l’apparato militare fascista della RSI fra i mesi di marzo e maggio, nel giugno-luglio moltiplicarono l’attività tesa a ostacolare gli spostamenti dei tedeschi e accrebbero così il loro contributo di sangue alla libertà, un contributo che superò i trecento caduti fra uccisi in combattimento e fucilati in rastrellamenti e rappresaglie.

È in questo contesto che, il 3 luglio, avvenne la Liberazione di Siena ad opera dei tirailleurs e dei fantassins del generale J.G. De  Monsabert, rimasto un benemerito nella storia cittadina per non aver dato l’ordine di aprire il fuoco dei suoi cannoni sia per non colpire i monumenti senesi che conosceva ed apprezzava, sia perché era stato informato che i tedeschi se ne stavano andando da un luogo che non era inserito lungo le loro linee difensive.

Si trattò di circostanze fortunate che limitarono i danneggiamenti. Andarono ad aggiungersi ad un’altra circostanza non meno fortunata, ovvero l’ubicazione della stazione ferroviaria, bersaglio principale dell’aviazione alleata, quasi in aperta campagna. Un fatto che, a sua volta, aveva contenuto gli effetti sul centro storico dei ripetuti bombardamenti aerei.

Nelle settimane precedenti l’arrivo del Corpo di spedizione francese le forze antifasciste e il CLN di Siena si erano arrovellati intorno ad un’alternativa drammatica: tentare un’insurrezione o cercare un compromesso e una convivenza con le autorità fasciste in attesa degli Alleati? La prima ipotesi, oltre che dal  timore dei combattimenti fra case, piazze, palazzi, chiese, era stata ostacolata dal fatto che le bande partigiane, abbastanza forti, come ricordato, nelle campagne, si trovavano lontane dalla città. La più vicina, il 2° Distaccamento della Brigata Garibaldi “S. Lavagnini”, era a una quindicina di chilometri, nella zona di Tegoia. Un rastrellamento tedesco, avvenuto il 24 giugno, ne aveva bloccato l’intento di attraversare le linee in direzione di Siena. L’altra ipotesi si era scontrata, invece, con la difficoltà morale, prima ancora che politica, di scendere a patti con nemici quali il prefetto fascista Giorgio Alberto Chiurco e con rastrellatori di partigiani come Alessandro Rinaldi.

Fra spinte contrapposte e comunicati contraddittori, alla fine era prevalsa la linea che, dall’esterno del Comitato, aveva tracciato l’autorevole esponente dell’antifascismo Mario Bracci. Consultatosi con una cerchia di amici, fra i quali Ranuccio Bianchi Bandinelli, il Bracci si era recato in prefettura nell’intento di convincere Chiurco a rimanere in città per mediare con i tedeschi, con i quali aveva un ottimo rapporto.

Annotò Bracci nel suo diario: «Colloquio quasi drammatico: deve restare al suo posto […]. E se il mio governo mi ordina di ritirarmi? Disobbedire […]. Io ero commosso, lui piangeva. Si è persuaso».

Conseguenza implicita dell’accordo era l’incolumità di Chiurco. Nessun GAP avrebbe dovuto sparargli. Bracci non faceva parte del CLN, agiva un po’ da battitore libero. E il CLN non se l’era sentita di sposare ufficialmente la sua iniziativa, suscitandone il sarcasmo: «Naturalmente l’ineffabile Comitato […] mi ha quasi sconfessato e non si è voluto impegnare[…]. Vorrebbero che [Chiurco] rimanesse, ma liberi loro di ammazzarlo in qualunque momento. Bei tipi».

D’altra parte, neppure Chiurco era stato del tutto ai patti. Asserragliato in prefettura, aveva lasciato Siena un giorno e mezzo o due prima dell’ingresso dei francesi, mentre le retroguardie germaniche abbattevano le mura cittadine a Porta S. Marco, facevano saltare in aria ponti e infrastrutture, saccheggiavano i negozi portando via le merci esposte sui banchi e quelle imboscate nei retrobottega. Che erano molte di più, come avrebbe annotato con una punta di perfidia l’arcivescovo Mario Toccabelli.

Sta di fatto che l’opzione insurrezionale era stata accantonata. Alla guida del Comune si trovava il notabile Luigi Socini Guelfi. In quanto podestà aveva accettato tutte le scelte del fascismo, comprese le leggi razziali, e non si era dissociato dal rastrellamento degli ebrei del novembre 1943 né dalla fucilazione di partigiani alla caserma Lamarmora avvenuta nel marzo dell’anno successivo. Non gli venivano però attribuite responsabilità dirette. Era stato dunque considerato un fascista con cui si poteva collaborare.

E così, per vari giorni, Socini Guelfi e e gli esponenti del CLN avevano convissuto nelle sale del Palazzo pubblico e insieme avevano formato una Guardia Civica, con compiti “esclusivamente difensivi” e di “ordine pubblico”.

Alcuni fascisti (fra di essi il federale Giovanni Brugi e il milite della X Mas Walter Cimino) erano stati uccisi, i prigionieri politici ancora detenuti nel carcere di S. Spirito, a disposizione dei tedeschi, erano stati liberati con un’irruzione dei GAP, ma il “patto” aveva retto. E gli Alleati alla fine erano arrivati.

Tuttavia, proprio in quel 3 luglio, mentre la popolazione festeggiava la libertà, il nemico era ancora a due passi, appena al di là delle rovine della stazione ferroviaria, sulla collina di Vicobello. Lì morirono tre giovani della Guardia Civica che, precedendo le pattuglie francesi, si scontrarono con una retroguardia tedesca. Furono i primi caduti della schiera di oltre ottocento partigiani della provincia di Siena i quali, dopo la liberazione del loro territorio, si sarebbero arruolati nel “Cremona”, il gruppo di combattimento italiano a fianco degli Alleati, e avrebbero partecipato nel nord Italia alla liberazione dell’intero Paese.

 

Articolo pubblicato il 1° luglio 2024.




La storia ignota degli italo-greci a Firenze

Per i fiorentini non più giovani quell’area di fabbricati situata nella zona di Novoli, fra via Magellano e via di Caciolle, era considerata il quartiere dei greci, dove fra l’altro si potevano comprare sigarette di contrabbando sino agli inizi degli anni Ottanta. Per coloro che ci abitavano era invece Laspeica, in greco melma, un rione per decenni privo di strade e marciapiedi che nelle giornate di pioggia diventava un vero e proprio pantano, da cui il nome che gli era stato dato. Gli abitanti di questi appartamenti, costruiti nella prima metà degli anni Cinquanta, non erano propriamente greci ma italiani, la maggior parte di origine pugliese, che furono rimpatriati nel secondo dopoguerra. Erano quegli italiani che sul finire del XIX secolo, emigrati dalle coste pugliesi, raggiunsero la Grecia in cerca di una sistemazione economica migliore di quella che poteva offrire loro il nuovo Regno d’Italia. Molti si concentrarono nella città di Patrasso dove formarono una comunità di circa 3000 persone integrate perfettamente nel tessuto sociale greco [1]. Poi venne il 28 ottobre 1940 quando alle prime luci dell’alba le truppe italiane ricevettero l’ordine di attaccare la Grecia [2]. Con l’inizio della guerra lo sdegno e il rancore dei greci esplosero con il fragore della prima bomba che cadde proprio sulla scuola italiana di Patrasso “Santorre di Santarosa” facendo crollare la cappella adiacente al cortile dell’edificio: l’aereo volando ad altissima quota non poté certo distinguere la bandiera italiana che sventolava in quel mattino livido di pioggia [3]. Per fortuna era un giorno festivo (anniversario della marcia su Roma), vacanza per la scuola italiana, per cui non vi furono vittime innocenti.

Da quel momento l’armonia di un’integrazione naturale che nel corso del tempo si era creata fra la comunità italiana e i greci si sgretolò improvvisamente producendo ritorsioni su quei poveri italiani increduli di quanto stava accadendo, ma soprattutto innocenti per l’attacco militare che Mussolini aveva deciso contro quella terra in cui loro vivevano da generazioni in pace con sé stessi e con gli altri. Ma per i greci erano considerati corresponsabili dell’aggressione fascista e tutti i cittadini italiani, di sesso maschile, di oltre sedici anni, furono rinchiusi nei campi di concentramento di Goudì, Argos, Neakokkinià [4]. 

Con l’8 settembre del 1943 finì l’occupazione italiana della Grecia che passò direttamente sotto il controllo della Germania nazista e per la comunità italiana iniziò un nuovo calvario, oltre all’intransigenza ed alle mortificazioni messe in atto dagli ex fratelli greci, gli italiani dovevano ora subire anche la rabbia e le ritorsioni degli ex alleati tedeschi. Presi tra due fuochi la vita per gli italiani residenti in Grecia risultò sempre più problematica. Da una parte aumentarono le angherie ad opera dei greci perché li ritenevano i primi responsabili dell’occupazione, dall’altra iniziarono le deportazioni e le uccisioni ad opera dei nazisti, che manifestavano nei loro comportamenti maggiore ferocia verso gli italiani piuttosto che contro i greci. Finita la guerra il destino di queste persone di origine italiana pareva segnato; infatti, il governo ellenico aveva espresso al comando delle Forze Alleate l’intenzione di deportare in un ragionevole limite di tempo ai loro paesi di origine tutti i cittadini di Stati nemici ed ex nemici che si trovavano in Grecia, e di conseguenza il provvedimento riguardava anche gli italiani. A niente servì l’appello di Alcide De Gasperi alla Commissione Alleata per poter bloccare il rimpatrio degli italiani residenti in Grecia, e nell’autunno del 1945 iniziò l’esodo dei nostri connazionali…

La signora Angela aprì la porta di casa ritrovandosi dinnanzi un funzionario di polizia che gli intimava: mercoledì prossimo alle otto si faccia trovare al porto con tutta la sua famiglia per essere imbarcati sulla nave che vi porterà in Italia [5]. 

Più o meno le stesse parole furono proferite in quel novembre del 1945 a tutti gli abitanti di origine italiana che risiedevano a Patrasso da due o tre generazioni. Solo pochi giorni quindi per abbandonare la propria casa e i propri averi (fu consentito loro di portare solo poche e piccole cose). Si sta parlando di più di tremila persone integrate perfettamente nella società greca che, con lo scoppio della guerra, non solo subirono angherie, sopraffazioni ed insulti dai loro concittadini greci, ma alla fine del periodo bellico furono deprivati delle loro proprietà e cacciati malamente dal territorio ellenico. Sarebbe come se in un ipotetico scontro tra occidente e mondo arabo (e di questi periodi non è fantascienza…) si imbarcassero sulle navi tutti gli arabi residenti in Italia (molti dei quali con cittadinanza italiana) per riportarli in Africa.

Ecco di tutta questa storia degli italo-greci, della loro sofferenza nel lasciare una terra che ormai consideravano propria, delle loro difficoltà nel riadattarsi e nel reinserirsi nella società italiana che aveva lasciato alle spalle il Ventennio – di cui questi profughi conservavano un ricordo condizionato dalla propaganda fascista di assistenza agli italiani residenti all’estero – ecco che di questa vicenda la storiografia ufficiale sembra essersene dimenticata o forse neanche di conoscerla. È vero che si trattava della storia di poche migliaia di individui, storia che si configura come una goccia d’acqua nel mare delle profuganze che nel dopoguerra si muovevano per tutta l’Europa e nel mondo, ma si trattava pur sempre della vita di essere umani vittime di un destino scritto da altri di cui loro incolpevoli subivano le sorti.

 

Nave Patrai.

Per tutto il mese di novembre le corvette Patrai e Terrmoscopilichi fecero la spola tra Patrasso e Bari, portando a termine l’esodo dei nostri connazionali; dal capoluogo pugliese – dove molti decisero di rimanervi – risalirono la penisola con treni, spesso trovando posto su vagoni merci, con un interminabile viaggio su una linea ferroviaria rattoppata, giungendo finalmente a Bologna dove esisteva un centro di smistamento. Da qui i profughi presero principalmente due direzioni, verso il Piemonte, regione nella quale erano in funzione tre grandi complessi, la Caserma Passalacqua a Tortona, in provincia di Alessandria, la Caserma Perrone a Novara e le Casermette di Borgo San Paolo a Torino, o verso Firenze alla Caserma ex Genio dia via della Scala, dove trovarono alloggio circa 2000 italo-greci.

 

Veduta esterna della Caserma di via della Scala adibita a Centro profughi dal 1944 al 1956.

Questa grande struttura, originariamente un convento costruito alla fine del Duecento, nel corso dei secoli ha cambiato più volte uso di destinazione: ha accolto la prima stamperia a caratteri mobili nel 1472, successivamente dopo una restaurazione nel periodo rinascimentale è divenuta un educandato, dopo un conservatorio, per poi essere preso in consegna dall’esercito e dai carabinieri fino all’8 settembre del 1943 quando fu occupato dalle truppe tedesche. Dopo la Liberazione di Firenze nell’agosto del 1944 venne trasformato in Centro di raccolta per sfollati e profughi [6]. Artefice ed organizzatore del Centro fu il Capitano inglese Limbert che rimase al comando della struttura per circa un anno. Quando nel novembre del ‘45 giunsero ad ondate quei profughi provenienti dalla Grecia, molti locali della Caserma erano ancora occupati, nonostante i continui appelli ad abbandonare la struttura, dagli sfollati e dai fiorentini sinistrati, e gli italo-greci trovarono posto solo ammassandosi nelle camerate ancora libere e dentro un teatro e una chiesa sconsacrata all’interno dello stesso edificio.

Vivevano in grandi stanze, alcune senza finestre, dormendo per terra sopra pagliericci o ammassi di cenci che fungevano da materassi, una ventina di persone per camerata, dove ogni nucleo familiare trovava un proprio spazio innalzando coperte come divisori. Per queste persone ogni giorno si presentava come il precedente, sradicati dalla propria terra per colpe altrui, chiedevano soltanto che fosse concessa loro la possibilità di ricominciare, sia pure con fatica, a vivere. E in questo contesto di profondo degrado al Centro profughi all’inizio vi era solo il dolore, l’indecenza, l’abbattimento, vi era la totale sfiducia nelle istituzioni; nel cuore di questa gente sfortunata, piano piano, si faceva strada l’odio… ed era comprensibile. Gli avevano promesso un’accoglienza diversa in alloggi confortevoli e invece niente di tutto questo: “Venga a vederci signor Ministro” [7] scrivevano a Emilio Lussu allora in carica al Ministero dell’Assistenza postbellica. Queste persone avevano lasciato alle spalle le brutture, le persecuzioni, i morti sulle piazze di un’assurda guerra, avevano abbandonato piangendo la loro terra, le loro case, il loro mare, i loro animali come quella gattina di nome Xenià dagli occhi verdi che seguì fino al porto la sua padroncina, ma nella ressa e nella confusione venne scacciata e di lontano sulla banchina sembrava salutare quella bambina con le lacrime agli occhi che si allontanava dal porto di Patrasso imbarcata sulla nave che la portava in Italia [8].

Dai primi tempi del loro insediamento nella caserma di via della Scala gradatamente siamo passati tramite provvedimenti comunali e della Prefettura, con decreti legislativi, e soprattutto con le continue rivendicazioni sfociate spesso in rivolte di queste persone che niente avevano da perdere, ad una situazione di vita un po’ più decorosa di quella iniziale ma sempre al di sotto della normalità. Anche una certa propensione nel sapersi arrangiare, caratteristica dei patrassini e più in generale di tutti gli abitanti del bacino del Mediterraneo, giungendo perfino a contravvenire alla legge con la pratica del contrabbando, va inserita nel computo di tutti quegli elementi che contribuirono ad un qualche miglioramento delle condizioni di vita di questi profughi.

 

Giovani residenti al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Stella.

Famiglia italo-greca al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Croce.

E infatti solo dopo pochi mesi di vita al Centro, i profughi organizzarono in modo autonomo un mercato montando le bancherelle in via della Scala, una tra le strade meno movimentate di Firenze era diventata una delle più animate. Il Centro Profughi aveva creato un ambiente cosmopolita, in perpetuo movimento, «tanto che bastava affacciarsi ai cancelli per avere l’impressione di un grande alveare. E piano piano, lungo i marciapiedi della via erano cominciate le bancarelle. Naturalmente avevano attecchito quelle dei commestibili e delle cianfrusaglie, tanto che chi passava si godeva uno spettacolo vivo di colori,  poponi, cocomeri e altra frutta di ogni sorta esposti in pieno sole per un lungo tratto» [9]. Non era difficile scovare in mezzo ai banchi del mercato anche chi ti offriva di nascosto sigarette di contrabbando, naturalmente ad un prezzo inferiore rispetto a quello imposto dal monopolio di Stato. Questa attività illegale era nata quasi per caso perché venivano rivendute le sigarette che i soldati americani generalmente donavano alla popolazione: «avevo dieci anni e nascondevo i pacchetti di sigarette regalate dagli americani sotto il maglione per venderle sotto i portici di fronte a Piazza della Repubblica» [10].

Il contrabbando di sigarette, inizialmente tollerato dalla Guardia di Finanza, coinvolse sempre più i profughi facendo diventare il Centro di via della Scala il più grande punto cittadino di smistamento e smercio di sigarette [11]. La cronaca della stampa locale di quegli anni fa riferimento a continue ispezioni della polizia e soprattutto della Guardia di Finanza nei locali del Centro alla ricerca di sigarette che puntualmente scovavano nei posti più impensati.

Il contrabbando assunse dimensioni sempre più grandi sino a divenire una nota distintiva per i profughi “greci”, anche quando lasciarono il Centro di via della Scala per andare ad abitare nelle case popolari in via di Caciolle. Qui all’interno del rione, fra le stradine che collegavano le abitazioni con quelle tipiche scale esterne, è proseguito per tutti gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il rione dei greci – molti clienti ignoravano la loro origine italiana – è stato sempre conosciuto dalla cittadinanza fiorentina come il luogo di approvvigionamento per quei fumatori che volevano risparmiare sul costo del pacchetto di sigarette. E se la Guardia di Finanza inizialmente aveva ricevuto precise disposizioni di tollerarlo, perché i profughi dovevano cercare pur di rifarsi una vita, poi intervenne duramente perché appunto questo fenomeno aveva assunto proporzioni molto più vaste – tutti passavano “dai greci” per le sigarette – con conseguenti danni al monopolio di Stato. Non tutti i profughi però continuarono questa pratica illegale, per molti fu solo all’inizio della loro avventura italiana, per poi cercare altre occupazioni: un lavoro che avrebbe dato loro la possibilità di un sostentamento economico per sperare in un futuro migliore. E non essendoci nella Firenze postbellica un’abbondanza tale di richieste per accontentare tutti, si specializzarono in attività di artigianato quali l’elettricista, il sarto, il falegname… Vi erano poi coloro che avevano trovato lavoro proprio all’interno del Centro nei laboratori di biancheria e calzoleria, locali annessi al Centro stesso, per la confezione di materiale assistenziale. Solo più tardi con l’inizio degli anni Cinquanta cominciarono le assunzioni in alcune fabbriche fiorentine che avevano ripreso la produzione industriale dopo la guerra: alcuni entrarono nella Pignone altri nella Gover. Ma ci furono anche coloro che decisero di raggiungere il nord Italia, soprattutto Torino, dove la Fiat aveva iniziato a richiamare emigranti da tutta la penisola. Queste persone che avevano lasciato Firenze si riunirono agli altri profughi che nel viaggio dalla Grecia a Bologna decisero di continuare per il nord.

Con il passare degli anni, oltre al lavoro, il problema più impellente per i profughi era riuscire a trovare una sistemazione in alloggi esterni dal Centro. A livello nazionale vi era l’esigenza da parte delle autorità statali di smantellare i centri di raccolta, o perlomeno di liberarli dalla presenza di quei profughi che soggiornavano ormai da anni in queste strutture a carico dello Stato. I vari Ministeri che si occupavano dei profughi avevano anche la necessità di reperire nuovi spazi per poter contenere le ondate dei rimpatriati dalle regioni giuliano-dalmate che continuavano a giungere in Italia sino alla fine degli anni Cinquanta. I tentativi messi in atto dai funzionari dello Stato non dettero però buoni risultati in merito: venivano elargite somme di denaro abbastanza consistenti per liberare i posti all’interno dei centri di raccolta, ma i profughi una volta acquisita la liquidazione continuavano a rimanervi perché non trovavano nessuna sistemazione all’esterno. Il Decreto-legge del 19 aprile 1948 n. 556, che imponeva la cessazione dell’assistenza ai profughi entro il 30 giugno 1949 tramite una liquidazione di 50.000 lire a persona, non dette assolutamente i risultati ipotizzati [12]. Il 30 giugno ‘49 almeno a Firenze nel Centro Profughi di via della Scala non si liberò nessun posto, anzi a leggere l’articolo del Nuovo Corriere del 7 ottobre 1949 sembra che la situazione abbia assunto toni da farsa pirandelliana perché quei soldi ricevuti allo scopo di trovare una sistemazione al di fuori delle mura del Centro – a sentire i profughi – furono subito spesi per acquistare tutti quegli oggetti, brande, coperte, pagliericci e il corredo per il vettovagliamento che furono loro ritirati al momento della liquidazione [13].

Per avviare realmente lo sfollamento del Centro di via della Scala si dovrà attendere la metà degli anni Cinquanta con le assegnazioni degli alloggi popolari: a parte qualche nucleo familiare che si staccò dalla comunità italogreca trovando sistemazioni nei nuovi quartieri dell’Isolotto e di Sorgane, gli altri furono dislocati sia nel già citato quartiere “dei greci” di via di Caciolle, sia alle Gore sopra Careggi, che – in un numero minore – a Coverciano in via Gelli. Nel novembre del 1956 con l’ultima famiglia traslocata nella casa popolare assegnata, il Centro profughi cesserà la sua attività e riprenderà la funzione di caserma militare. In via della Scala non vi sarà più il mercato multicolore che aveva reso piena di vitalità una strada meno frequentata e dai cancelli della caserma non si avrà più l’impressione di una grande alveare. E iniziava così per i profughi usciti dal Centro un nuovo – inverso – percorso di acculturazione: l’inserimento nella società italiana, fiorentina in specie.

 

Città di Firenze – Case per i profughi. Legge 4 marzo 1952 n. 137.

 

A distanza di quasi ottant’anni molti protagonisti dell’esodo dalla Grecia sono scomparsi, altri sono ormai anziani, quasi tutti hanno lasciato le case dei rioni di via di Caciolle e via delle Gore, e negli anni gli appartenenti alla comunità si sono sposati con donne e uomini italiani perdendo progressivamente le caratteristiche della loro grecità, soprattutto la lingua che era rimasta nei primi tempi come elemento di forte distinzione. A Laspeica – nessuno ormai chiama più così il rione di via Caciolle – per le strade non si sente più parlare greco e neanche sentiamo più gli odori tipici della cucina greca, i venditori di sigarette erano già scomparsi da tempo e in questo quartiere ormai i segnali del passaggio della comunità patrassina stanno sfumando, inghiottiti da quel processo di integrazione che sembra abbia lasciato molto poco della loro storia e tradizione. La storiografia italiana che ha iniziato ad interessarsi delle profuganze del secondo dopoguerra contribuirà a non disperdere questa storia e concedere alle loro vicende un posto, seppur piccolo dato l’esiguo numero dei protagonisti, nel panorama della storia italiana del XX secolo. Altrimenti si correrebbe il rischio di appiattire, non conoscendolo, il loro viaggio “andata e ritorno”, come se non fosse mai avvenuto, come se dalla Puglia non fossero migrate volontariamente alla ricerca di un futuro migliore migliaia di persone alla fine dell’Ottocento verso la penisola greca, e da lì ritornare in Italia, cacciate malamente per colpe non loro e costrette a lasciare ogni loro avere costruito faticosamente su quella terra in circa settant’anni. Senza il soccorso della storiografia la loro speranza emigrando dalla Puglia, l’integrazione, la sofferenza, il dolore, l’emarginazione, e di nuovo la speranza e nuovamente la reintegrazione nella società italiana, che costituiscono la storia di questi uomini e donne, svanirebbero negli anni rimanendo semmai nei racconti orali tramandati di generazione in generazione che probabilmente con il tempo andrebbero persi. È un dovere quindi portare alla luce pagine di vicende umane del tutto o quasi ignorate o di storie già dimenticate al fine di rendere cosciente l’intera comunità che anche le vicende di pochi individui, come quella degli italo-greci, reclamano un posto nella storia ufficiale.

 

NOTE

[1] Insieme a Patrasso erano Atene, Corfù e Salonicco, affacciate sulle sponde del Mare Egeo, le città greche ad avere le comunità italiane più numerose, costituite per lo più da migranti meridionali soprattutto pugliesi. Anche a Zante vi era una piccola comunità di italiani di origine meridionale, che poco prima della Grande guerra non superava le 100 unità; meno numerosa era la presenza italiana a Cefalonia, dove agli inizi del Novecento si contavano nell’isola 19 famiglie, in prevalenza pugliesi, Cfr. Giulio Esposito, Esuli in patria: il caso degli italo-greci in Puglia, in Giulio Esposito e Vito Antonio Leuzzi (a cura di), La Puglia dell’accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel Novecento, Progedit, Bari 2015, p. 223.

[2] Sui recenti studi storici dell’occupazione italiana della Grecia cfr. i saggi di Paolo Fonzi: Oltre i confini. Le occupazioni italiane durante la seconda guerra mondiale (1939-1943), Le Monnier, Firenze 2020; Fame di guerra. L’occupazione italiana della Grecia (1941-43), Carocci, Roma 2022.

[3] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso durante il periodo fascista (1930-1945), Ibiskos, Empoli 1988, p. 19.

[4] Cfr. Santarelli Lidia, La violenza taciuta. I crimini degli italiani nella Grecia occupata, in Paolo Pezzino e Luca Baldissara (a cura di), Crimini e memorie di guerra: violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, 2004. Nei documenti consultati presso l’Archivio di Stato di Firenze sulle richieste dei certificati di qualifica di profugo emerge come la maggior parte degli italo-greci giunti a Firenze furono, durante la guerra, internati civili in quei campi per circa 6/7 mesi, in Archivio di Stato di Firenze (ASFI), fondo prefettura, serie certificati qualifica di profugo, Fascicoli da n. 1 a n. 80, classifica 3A/2/14.

[5] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[6] Sulla storia della Caserma di via della Scala, convertita in Centro profughi dall’agosto del 1944 al novembre del 1956, cfr. il fondo dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA) presente all’Archivio Storico del Comune di Firenze, dove sono raccolti in perfetto stato molti materiali sull’Ente dalla sua istituzione alla sua chiusura.

[7] Come si vive al centro profughi? Centinaia di ricoverati scrivono una lettera aperta al ministro Lussu – Il testo del documento – Dichiarazioni dei dirigenti, «La Patria», 22 novembre 1945.

[8] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso, cit., p. 48.

[9] Mercanti bianchi e neri in via della Scala, «La Nazione», 31 agosto 1947, p. 2.

[10] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[11] Sul contrabbando di sigarette degli italo-greci a Firenze, oltre all’analisi della stampa locale del periodo, sono interessanti le relazioni degli assistenti sociali sui minori italo-greci che svolgevano tale attività, in ASFI, Direzione dei centri per la giustizia minorile, servizio sociale per i minori, anni 1951-1955.

[12] Giulio Montelatici, Lo sgombero… dei profughi, «Il Nuovo Corriere», 3 giugno 1949, p. 2.

[13] Ibid.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




13 aprile 1944: la pasqua di Vallucciole

Vallucciole

Vallucciole è un piccolo borgo dell’alto Casentino, situato sul versante meridionale del Monte Falterona, appartenente all’attuale comune di Pratovecchio-Stia [1]. L’area intorno alla località, comprendente gli abitati di Molino di Bucchio, Serelli, Monte di Gianni ed alcuni gruppi di case e poderi sparsi nella zona, è tristemente nota per la strage avvenuta il 13 aprile 1944, in cui persero la vita 108 civili, in prevalenza donne, anziani e bambini.

 

Rimasta a lungo isolata e distante dai grandi avvenimenti della storia, la quiete del borgo e delle località limitrofe venne bruscamente interrotta nella primavera del 1944. Il 13 aprile la 2ͣ e la 4ͣ compagnia della Hermann Göring invasero la piccola vallata, saccheggiando le abitazioni, distruggendo le case ed uccidendo i civili che incontrarono durante il loro cammino.

 

La notte del 13 aprile i reparti comandati dal capitano Loeben partirono da Stia in direzione di Molin di Bucchio, arrestandosi dopo pochi chilometri al casale di Giuncheto, dove abbandonarono i mezzi motorizzati per proseguire a piedi. In base alle fonti inglesi il contingente, composto da circa ottocento uomini, venne diviso in tre gruppi, due agirono indipendentemente, compiendo un accerchiamento della vallata, mentre uno più esiguo, posto nelle retrovie, svolse funzione di controllo, impedendo l’accesso e la fuga dall’area.

 

Le formazioni che operarono la manovra a tenaglia occuparono, perquisirono e distrussero tutti i centri abitati che incontrarono nel corso dell’avanzata. Durante il loro passaggio i soldati della Hermann Göring uccisero tutte le donne, gli anziani e i bambini che individuarono lungo il tragitto, mentre utilizzarono gli uomini adulti per il trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti prelevati dalle abitazioni. Una volta terminata la distruzione e la perquisizione delle case, le colonne proseguirono il loro cammino in direzione del Falterona, alla ricerca delle formazioni partigiane segnalate dalle autorità fasciste locali. Conclusasi quest’ultima fase dell’operazione, la colonna tornò a valle, dove vennero infine uccisi gli uomini che erano stati utilizzati per il trasporto delle munizioni e degli oggetti frutto della precedente razzia [2].

 

Dalle prime ore del 13 aprile 1944 tutti i paesi e i poderi sparsi nella vallata vennero colpiti uno dopo l’altro dall’avanzata tedesca: la popolazione di Vallucciole, Monte di Gianni, Molin di Bucchio, Serelli e i casali di Giuncheto e Moiano vennero inesorabilmente colpiti dall’azione. Dovunque si ripetè la medesima scena, i soldati facevano irruzione nelle abitazioni, prelevavano gli uomini abili al trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti depredati dalle case, mentre donne, bambini ed anziani venivano immediatamente uccisi sul posto.

 

Il sopravvissuto Giovanni Bardi ricorda in questo modo quell’orribile esperienza: Così camminammo per delle ore. Ad ogni casa ci fermavamo e dappertutto la stessa storia. I tedeschi entravano: gli uomini venivano buttati fuori e caricati con le cassette: la nostra fila si allungava. Nelle case le donne e i bambini venivano ammazzati subito. E le bestie, anche, nelle stalle. E poi davano fuoco. Cambiavano soltanto il modo; qui con la benzina, in un’altra casa con le bombe incendiarie, e massacravano con le bombe, coi fucili, coi mitra, con le mazze, coi coltelli. Avevano arsenali di armi e le adoperavano [3].

 

La scena si ripeté in tutti i caseggiati attraversati dall’avanzata tedesca. Dopo aver distrutto e seminato il panico in un abitato la colonna proseguiva il suo cammino alla ricerca delle abitazioni successive. Durante l’ascesa del Falterona coloro che non riuscivano a trasportare i materiali venivano uccisi lungo il tragitto. Il trentasettenne Severino Seri, incapace di poter seguire la colonna a causa della sua cecità venne ucciso a Vallucciole, mentre Pietro Vadi e Angiolo Marchi, il primo sessantasei anni e il secondo settantotto, vennero eliminati lungo il percorso per non esser riusciti a trasportare i materiali [4].

 

Nel corso della giornata non mancarono le violenze sessuali ai danni delle donne, testimoniate in particolar modo nel caseggiato di Moiano di Sopra, dove vennero abusate prima di essere barbaramente uccise.

 

La furia nazista non risparmiò nessuno e non si fermò nemmeno di fronte alla presenza dei più piccoli. Nel corso dell’avanzata vennero uccisi bambini appartenenti a tutte le età: undici furono le vittime con meno di dieci anni. A Vallucciole avvenne probabilmente l’episodio più macabro, l’uccisione di Angiola Vadi Gambineri e del figlio Viviano, partorito pochi mesi prima [5].

 

Il piccolo Vivivano foto scattata da Prasildo Giachi il 15 aprile 1945

 

In questo caso, come per ampia parte della strage, non disponiamo di testimonianze dirette, poiché pochissimi furono coloro che riuscirono a salvarsi quel giorno. Le poche informazioni di cui disponiamo provengono dalle notizie fornite dai pochi sopravvissuti, da coloro che per primi si recarono a prestare soccorso nei paesi colpiti dal rastrellamento e dall’indagine condotta nel 1945 dagli alleati.

 

Dopo aver seminato il panico per la vallata, la colonna continuò l’ascesa del Monte, alla ricerca dei partigiani segnalati dalle autorità fasciste. Quest’ultima fase dell’operazione fu un insuccesso e non portò all’individuazione di nessun gruppo partigiano. La colonna di trasportatori percorse dunque a ritroso il sentiero precedentemente compiuto, passando per Monte di Gianni e Vallucciole, fino ad arrivare a valle. A Molin di Bucchio venne intimato a quattro uomini di posare l’attrezzatura e di tornare alle loro case, ma avviatosi verso le loro abitazioni vennero raggiunti dagli spari dei soldati tedeschi. La medesima scena si ripeté pochi istanti dopo al casale di Giuncheto, con la morte di dodici uomini, colpiti alle spalle dalle raffiche di mitra.

 

Il sopravvissuto Santi Trenti ricorda così quel momento: Dal Monte Falterona fummo invitati a tornare a Giuncheto, frazione che rimane nella parrocchia di S. Maria sotto Vallucciole (…) Scaricata tutta la roba a Giuncheto fummo inviati a ritornare alle nostre case, ma appena fummo partiti venimmo presi a fucilate dai tedeschi [6].

 

Ancora oggi ad oltre ottant’anni di distanza dal terribile evento, storici e comunità locali non sono concordi nell’individuare la causa che scatenò il massacro. A lungo è prevalsa la versione che attribuisce la responsabilità della strage all’uccisione a Molin di Bucchio di due soldati tedeschi da parte dei partigiani della Faliero Pucci, avvenuta l’11 aprile, appena due giorni prima della strage di Vallucciole [7].

 

Negli ultimi anni gli studiosi hanno ridimensionato tale interpretazione, collocando la strage all’interno di una grande operazione di rastrellamento promossa dai comandi nazisti. Le ricerche e i risultati emersi dai processi hanno avvalorato tale versione, confermando che l’incursione a Vallucciole non rappresentava una rappresaglia per l’uccisione dei due nazisti, ma era parte di un’azione organizzata precedentemente, volta a bonificare il territorio appenninico compreso tra la statale 71 del Passo dei Mandrioli e la statle 67 del Passo del Muraglione.

 

Allo stesso tempo questa versione non pare sufficiente a giustificare il livello di violenza raggiunto nella valle casentinese. Rispetto ai rastrellamenti compiuto lo stesso giorno nelle vicine località di Partina e Moscaio, a Vallucciole si assistette all’eliminazione di un’intera comunità, con l’uccisione indiscriminata di donne, anziani e bambini.

 

Un elemento che in parte spiega il livello di violenza raggiunto nella piccola vallata risiede nei reparti che furono protagonisti della strage. L’operazione venne affidata alla 2ͣ e alla 4ͣ compagnia della Hermann Göring, reparti ai quali appartenevano i due soldati tedeschi precedentemente uccisi a Molin di Bucchio. Inoltre la Hermann Göring era una divisione profondamente politicizzata, costituita da volontari particolarmente zelanti e da convinti sostenitori del nazionalsocialismo.

 

Nel quadro della presenza tedesca in Italia la strage di Vallucciole si inserisce in una fase di progressiva radicalizzazione della politica d’occupazione. In seguito all’attentato di via Rasella, avvenuto a Roma il 23 marzo 1944, i vertici militari giunsero a ritenere la penisola un territorio di difficile gestione ed invitarono i reparti ad agire in modo risoluto e a rispondere in modo deciso a qualsiasi attacco proveniente dall’esterno. Dalla primavera del 1944 si assiste dunque ad un generale inasprimento dell’occupazione tedesca in Italia e alla progressiva tendenza ad equiparare i civili ai membri della resistenza.

 

Vallucciole e la vallata circostante si inseriscono in questo triste fenomeno, rappresentando nella primavera del 1944 il primo caso di strage indiscriminata condotta dalle forze occupanti ai danni dei civili in Toscana.

 

Nel secondo dopoguerra la prima cerimonia pubblica in ricordo delle vittime della strage si tenne nel 1954. In quell’occasione venne inaugurato presso la chiesa dei Santi Primo e Feliciano di Vallucciole un ossario, accompagnato da una lapide recante i nomi dei 108 caduti [8].

 

L’ossario e la lapide con i nomi delle 108 vittime della strage.

 

Nel 1979 è stato creato il primo monumento dedicato alle vittime della strage, realizzato dagli allievi della Scuola del Ferro Battuto. Collocato inizialmente in piazza Pertini, nel 2006 venne spostato nel vialetto che conduce al vecchio cimitero di Stia, dove attualmente si trova e dove è anche presente una lapide con i nomi di coloro che morirono il 13 aprile 1944 [9].

 

Monumento ai Martiri di Vallucciole.

 

 

Note:

[1] Dal 1° gennaio 2014 i centri di Stia e Pratovecchio si sono fusi, dando vita ad un’unica amministrazione.

[2] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, p. 107.

[3] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 78.

[4] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 114-117.

[5] I primi soccorritori testimoniarono che sul corpo del piccolo Viviano erano presenti numerosi segni di violenza.

[6] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 77.

[7] Tesi sostenuta in P. Paoletti, Vallucciole: una strage dimenticata. La vendetta nazista e il silenzio sugli errori garibaldini nel primo eccidio indiscriminato in Toscana, Le Lettere, Firenze 2009.

[8] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 180-181.

[9] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-martiri-di-vallucciole-stia/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




8 giugno 1944: l’eccidio della Pievecchia che scosse Pontassieve

L’8 giugno 1944, in località Pievecchia, piccola frazione del Comune di Pontassieve, (del plebato di San Lorenzo e San Giovanni a Montefiesole), in occasione della festa del Corpus Domini, scoppiò il caos.

Pievecchia dall’alto

Un gruppo di circa cinquanta partigiani di Monte Giovi, infatti, poche ore prima aveva assaltato una delle caserme della Guardia Nazionale repubblichina di Pontassieve, allora in una villa in via Palagi, per reperire armi e munizioni [1]. Forse, con l’aiuto degli stessi carabinieri, i partigiani riuscirono a prendere il bottino sperato, che venne caricato su due carri trainati dai buoi diretti verso poggio Bardellone, in direzione di Monte Giovi [2].

Occorre, però, ricordare che nella caserma assaltata erano presenti anche militanti fascisti, due dei quali vennero portati via dai partigiani. Gli altri, rimasti indenni, accorsero subito ad avvisare dell’accaduto i nazisti, allora di stanza a San Francesco.

Di ritorno da questa azione, un gruppetto di partigiani, distaccatisi dagli altri, si fermò imprudentemente a Pievecchia, dove erano confluiti nei mesi molti sfollati, benché le dinamiche non siano tuttora chiare.

Pontassieve, snodo ferroviario essenziale, era infatti più soggetta ai bombardamenti e molti civili quindi si erano spostati nelle campagne. Ne è un esempio il bar Nannoni, trasferitosi da Pontassieve a Pievecchia, quel giorno luogo dello scontro.

I partigiani, sebbene avessero potuto passare per i boschi, decisero di attraversare un centro abitato, forse per sfida ai soldati occupanti.

Nella locanda del paese, rimasta aperta nonostante la raccomandazione di chiudere da parte degli stessi insorti, dato il loro passaggio muniti di armi, i partigiani trovarono due soldati tedeschi, forse anche grazie all’avvistamento di qualcuno del luogo, e decisero, pare, di ucciderli. I ribelli, infatti, presi dalla foga, avrebbero lanciato una o più bombe a mano nella locanda, colpendo a morte un soldato tedesco e un giovane pontassievese, allora colono a Grignano, Ruggero Morandi, di 20 anni. L’altro soldato tedesco, sopravvissuto allo scontro, riuscì a fuggire e, scappando da una finestra, avvisò prontamente la contraerea tedesca dell’accaduto, accampata a circa 4 km dalla Pievecchia.

La risposta fu immediata: poco dopo, la zona della Pievecchia venne prima bombardata, per impedire a chiunque di fuggire, poi invasa dai soldati. Si parla di 40 o 50 uomini arrivati con camionette e camion, quasi sul calar della sera.

Arrivati sul posto, i soldati nazisti spararono alla prima vittima, Furio Montelatici, poi gettato in un pagliaio, che venne incendiato. Vennero bruciati anche altri pagliai, una bettola e una casa. Alcune famiglie si erano, intanto, riparate e nascoste nel sottosuolo della villa Tesei, ma i tedeschi irruppero nelle stanze della stessa e nelle altre abitazioni per rastrellare gli uomini presenti e, dopo aver rilasciato quelli più anziani, sopra i cinquantacinque anni, uscirono per l’esecuzione. Le donne furono radunate davanti alla Villa, inermi.

I partigiani dovettero, invece, a causa dei bombardamenti e della rapida risposta tedesca, abbandonare le armi e le munizioni, che furono prontamente prese dai nazisti.

I tedeschi decisero di fucilare gli uomini in fila rivolti verso il muro della fattoria. Due dei condannati però, stando alle testimonianze, riuscirono a fuggire. Libero Rigacci si girò di scatto e strappò il fucile dalle mani del soldato tedesco, riuscendo a fuggire nel campo di grano. Il soldato sparò contro di lui mentre correva nel campo e, complici il sopraggiungere della sera e l’essere inciampato, fu creduto colpito e morto. Anche Faustino Volpi scappò nel buio [3].

Gli altri furono perciò fucilati assieme, al muro, subito dopo, dove ancora oggi sono presenti i segni dei proiettili, onde evitare che si ribellassero[4]. Quattordici le vittime di quel giorno: Ruggero Morandi, ucciso durante lo scontro a fuoco tra partigiani e soldati tedeschi, e le tredici persone inermi fucilate per rappresaglia. Erano uomini dai 17 ai 47 anni, quelli che persero la vita quel giorno di giugno, 7 di Pievecchia e 6 sfollati. Altri, circa 20, vennero invece portati via. Prima furono rinchiusi nel carcere di Firenze, per poi essere impiegati in lavori di carattere militare presso Prato.

Il piccolo borgo fu quindi saccheggiato, così come la fattoria limitrofa e i due spacci cooperativi.

Il Pretore, da Tassinaia, dove era sfollato anch’egli, arrivò sul luogo per la constatazione di legge e per organizzare le sepolture. Nessun’altra autorità locale si fece viva, stando alle testimonianze del tempo. Ma non finì lì: tre corpi straziati rimasero nella strada per ore. Solamente sabato 10 giugno le quattordici salme vennero trasportate al cimitero in attesa della sepoltura, compresa quella di Morandi, che i tedeschi avevano portato via e che il padre Amedeo lottò per riavere. Oramai a Pievecchia non c’era quasi più nessuno. La domenica giunsero due spazzini comunali, con un biglietto del Commissario prefettizio, per seppellire le salme e recar conforto alle famiglie.

Era stata una vera e propria rappresaglia per punire e intimorire la popolazione, per creare panico e far sì che la popolazione non aiutasse e non collaborasse con i partigiani [5][6].

Un comando tedesco si installò a Pievecchia. Don Ferruccio Biffoli, il parroco locale, tentò di mediare con i tedeschi, affinché gli uomini che erano stati portati via potessero tornare a casa, ma invano. Questi però riuscirono a fuggire e a tornare, ma di Ernesto Manzalvi (41 anni, di ignoti), non si sono avute più notizie .

Bisognerà attendere l’11 agosto 1944, data della liberazione di Firenze e, nel caso di Pontassieve, il 21 agosto 1944, per cominciare a ricostruire la memoria della Pievecchia, oggi incisa nel marmo delle lapidi.

Di seguito le vittime della Pievecchia:

Rogai Guido, 46 anni                                                  Masini Dario, 17 anni

Rogai Attilio, 25 anni                                                 Morandi Ruggero, 20 anni

Rogai Aldo, 19 anni                                                    Poggi Guido, 47 anni

Pestelli Ugo, 29 anni                                                   Poggi Paolo, 38 anni

Tacconi Bruno, 17 anni                                               Bulli Giovacchino, 42 anni

Cammelli Guido, 29 anni                                            Pratesi Mario, 31 anni

Montelatici Furio, 29 anni                                          Vitali Alessandro, 36 anni

La memoria di quel triste giorno ci è giunta grazie alla ricostruzione dei fatti scritta dal parroco don Ferruccio Biffoli nel Libro Cronico della Parrocchia, poi ripresa da L’Evangelo della mia Resistenza di don Silvano Bellucci e grazie ai vari testimoni [7].

Le due lapidi e i fori ben visibili nel muro
8 giugno 1945 – la prima
8 giugno 1956

Sul muro della villa ci sono varie targhe, una del primo anniversario (8 giugno 1945), posta in un clima mutato, ma di forte contrapposizione tra l’allora PC e le forze di sinistra contro la DC con la Chiesa [8].

L’anno dopo nascerà la Repubblica in Italia e i pontassievesi, nel territorio, saranno tra i più convinti sostenitori della stessa, nel celebre referendum che, finalmente, vide protagoniste anche le donne.

È solo nel 1947, però, che i 14 martiri trovarono una degna sepoltura: domenica 4 maggio vennero riesumate le salme, benedetti i corpi e, finalmente, sepolti nella cappellina d’uopo presso il cimitero parrocchiale. La popolazione è numerosa alla cerimonia. Non mancarono comunque le polemiche, come quelle di don Biffoli, riguardo il comportamento dei comunisti, numerosi alla commemorazione.  L’8 giugno 1947 verrà poi posta un’altra lapide, a firma del C.L.N [9].

Il 25 aprile 1955 il Comitato cittadino per la celebrazione del decennale della Resistenza consegna ai familiari dei martiri una pergamena in loro memoria e l’anno dopo verrà aggiunta un’ulteriore targa.

Quei tragici fatti hanno portato al conferimento al Gonfalone del Comune di Pontassieve della Medaglia di bronzo al Merito Civile, grazie al decreto del 23 dicembre 2005 dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sancito ufficialmente durante la cerimonia presieduta nel dicembre 2006 dall’on. Ministro Vannino Chiti.

Il Comune ha, inoltre, istituzionalizzato tale giorno e, ogni anno, bambini, giovani e adulti partecipano alla commemorazione di quel triste evento.

È bene ricordare il restauro del muro, inaugurato nel giugno 2008, che ha riportato alla luce l’originario intonaco e i fori dei proiettili, oggi visibili a tutti.

Per il sessantesimo della Liberazione, è stata coniata una medaglia da Cesare Alidori (2004), per i familiari delle vittime. In tale occasione è stata presentata la ballata popolare “Quand’ecco un grido spalancar le stelle”, scritta da Leoncarlo Settimelli, riprodotta in un CD, con testi e musiche che ripercorrono i fatti del 1944 [10].

Sempre con ricorrenza annuale, viene celebrato il raduno dei partigiani e dei giovani a Monte Giovi, un’ulteriore occasione di ricordo e di memoria.

Roberto Smorti, Eccidio alla Pievecchia (Olio su tela, 2007)

 

Note:

  1. Fusi, Francesco, Comunità in guerra: Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, p. 325
  2. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008, pp. 37- 38
  3. Verbale interrogatorio Raffaello Tacconi, vedi Biagioni M., op. cit., pp. 72-77
  4. Biagioni M., op. cit., p.54
  5. Cfr., AA.VV., Il nonno racconta…Memorie della guerra e della resistenza,  Pontassieve, 1999
  6. Cfr., Fusi F., op. cit., pp. 322 e 326-328
  7. Casalini Giovanni, La strage della Pievecchia a Pontassieve, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Milano, 2011, p. 67-68
  8. Biagioni M., op. cit., pp. 87-90
  9. Ivi, pp. 93-119
  10. Ivi, pp. 129-139

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




Il contributo di Edoardo Lombardi alla ricerca storica

Il 4 aprile sarà il trentesimo compleanno di Edoardo Lombardi. Vogliamo ricordarlo come lo abbiamo conosciuto: curioso, pieno di interessi, di ricerche da compiere e da progettare. Per questo motivo, riproponiamo l’articolo “In circostanze mai chiarite”, da lui pubblicato su TN il 29 Agosto 2022, con l’introduzione di Luca Cappellini. 

Introduzione (di Luca Cappellini)

Quando si è palesata l’opportunità di introdurre il lavoro di ricerca di Edoardo Lombardi su Toscana Novecento mi sono immediatamente proposto per svolgere questo compito. Edoardo era un caro amico prima che uno stimatissimo collega, e un grande esempio di acume, intraprendenza e competenza. Il compito che mi viene qui richiesto risulta perciò particolarmente semplice, poiché la passione e il lavoro di Edoardo sono da sempre stati assolutamente evidenti, e sebbene riassumere in poche righe ciò che per lui era un minuzioso lavoro quotidiano sia sempre in qualche misura opera indegna, in questo caso evidenziarne i notevoli pregi scientifici è davvero stato semplice e gratificante.
Come ricercatore Edoardo ha continuato a coltivare la sua prima grande passione, maturata durante gli anni universitari, ovvero gli studi germanici. In particolare la sua attenzione era andata progressivamente soffermandosi sulla DDR (Deutsche Demokratische Republik), la cui breve ma densa storia nazionale, a cavallo tra la fine del secondo conflitto mondiale e i prodromi della Guerra Fredda, ha costituito il fulcro della sua tesi di laurea magistrale, poi subito rimodellata per diventare la prima pubblicazione di Edoardo: Uno stato senza nazione: l’elaborazione del passato nella Germania comunista (1945-1953). In questa monografia egli affronta la spinosa questione della creazione ad hoc della storia e della memoria storica nella Germania Est: tramite numerosi fonti primarie – in special modo lo studio di quotidiani come «Neues Deutschland», – e una nutrita bibliografia, Edoardo ricostruisce minuziosamente il difficile tentativo del regime comunista tedesco di forgiare a tavolino un’identità pubblica sincretica.
Accanto alla sua longeva passione per la storia tedesca, Edoardo aveva sviluppato e tradotto nel campo della ricerca storica un altro suo interesse di lungo corso (per altro condiviso col sottoscritto): il gioco di ruolo e i videogiochi. Al culmine di una serie di riflessioni e collaborazioni con AIPH – Associazione italiana di Public History, Edoardo ha curato insieme ad Igor Pizzirusso un numero della rivista «Farestoria» dell’IsrPt: “E’ in gioco la storia. Giocare il passato nel tempo presente”. Il pionieristico obiettivo era quello di portare al centro della discussione della rivista uno dei temi principali nella public history, ovvero la divulgazione storica attraverso il medium ludico.

In ultimo, ma non per importanza, Edoardo aveva approfondito anche temi fondamentali della Resistenza in Toscana, in particolare alcune controversie sulla morte di Silvano Fedi. Dopo un attento studio sui documenti militari negli archivi tedeschi di Friburgo, Edoardo aveva infine proposto le sue tesi nell’articolo “In circostanze mai chiarite”, offrendo nuovi importanti stimoli di riflessione sul tema.

 

Edoardo Lombardi – “In circostanze mai chiarite” – I documenti tedeschi e nuovi appunti sull’uccisione di Silvano Fedi 

Silvano Fedi è con ogni probabilità il partigiano più noto e discusso dalla letteratura storica locale, nonché uno dei personaggi di maggiore spicco nella memoria collettiva della città di Pistoia. Il suo riconoscimento pubblico si ebbe nell’immediato dopoguerra, prima con il conferimento della medaglia d’Argento al Valor Militare, poi con l’intitolazione di un istituto scolastico, di un’associazione sportiva, infine di una piscina e di un corso centrale. Negli ultimi anni, un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea. La storia di Silvano Fedi) hanno raccontato i suoi ultimi mesi di vita e il suo impegno nella Liberazione. A poca distanza, il riconoscimento del titolo di cittadino illustre, disposto dal consiglio comunale di Pistoia nel 2020, e la recente costruzione di una tomba monumentale (2022) hanno riacceso l’interesse generale per sua persona.

Allo stesso tempo, attorno a Silvano Fedi si è sedimentata una sorta di aura mitica, alla quale ha contribuito la ricostruzione storica e memoriale basata sulle circostanze «mai chiarite» della sua uccisione. Queste ultime, ad oggi, possono essere riassunte come segue: più o meno alle 14:00 del 29 luglio 1944, in località Montechiaro (tra Serravalle e Pistoia) le Squadre “Franche” comandate da Fedi furono coinvolte in uno scontro a fuoco da ingenti forze del Pionier-Bataillon 60, un reparto del Genio che dipendeva dal vicino comando del 14. Panzerkorps (localizzato nei pressi di Marliana). I tedeschi uccisero Fedi e altri due membri dello Stato maggiore delle Squadre, uno dei quali venne fatto prigioniero e giustiziato in un secondo momento. Da qui in poi hanno inizio i problemi.

Per molti tra i partigiani e i civili testimoni di quei fatti e gli studiosi che si interessarono alla vicenda nel dopoguerra, quello tra le unità di Silvano Fedi e i tedeschi non fu un incontro casuale, bensì frutto di una delazione; nacque così la teoria di un vero e proprio «agguato», congegnato ai danni della formazione partigiana e del suo comandante. L’idea di una “soffiata” ai danni di Fedi è stata, a un tempo, attribuita a un gruppo di ladri che si erano finti membri della sua formazione oppure, secondo un’altra ipotesi, a «persone che contavano, probabilmente interne alla stessa Resistenza [pistoiese]», che avevano creduto di potersi sbarazzare di «un personaggio scomodo [e] protagonista indiscusso della lotta partigiana». La letteratura storica pistoiese ha avallato ognuna di queste possibili teorie nel corso degli anni e con esse le numerose – e spesso non contestualizzate coi metodi propri della storia orale – testimonianze oculari di chi era presente il giorno in cui Fedi veniva ucciso dai tedeschi. I rapporti che egli aveva intrattenuto con una figura di grande ambiguità come Licio Gelli, il cui peso nella storia italiana successiva ha contribuito a far crescere l’alone di mistero, hanno fatto il resto. Le numerose ipotesi e la relativa sovrapproduzione di materiale secondario hanno così finito col precludere una qualsiasi ricostruzione efficace e scientificamente corretta dell’uccisione del partigiano pistoiese.

Una lacuna particolarmente sensibile in questo quadro generale è quella della documentazione tedesca, che fino a ora è stata utilizzata in modo molto scarno o approssimativo. Un modo per rimettere “in ordine” l’intera vicenda potrebbe essere proprio quello di ripensare l’attacco tedesco a Montechiaro prendendo in esame uno spettro più ampio di fonti e provando a ricostruire i fatti dall’inizio, tenendo come punti fermi genealogia e contesto degli eventi. La domanda iniziale e centrale che ci dobbiamo porre è la seguente: può una delazione essere l’unica ragione logica in grado di spiegare la presenza di un battaglione tedesco a Montechiaro il 29 luglio 1944?

Il 25 luglio la formazione di Fedi aveva iniziato lo spostamento delle Squadre Franche verso il Montalbano per compiere azioni di disturbo e sabotaggio contro le truppe che si stavano ritirando sotto la pressione alleata. Il piano era stato concordato il giorno precedente nel corso di un incontro con esponenti del CLN locale, in particolar modo del Partito comunista italiano e del Partito d’Azione. Dunque le premesse sono quelle di una operazione di guerriglia contro l’occupante, in linea con quanto stava accadendo nelle «aree vicine al fronte», dove i tedeschi avevano notato un incremento sensibile dell’attività partigiana. Questa situazione, nel corso dell’estate, aveva già spinto i comandi militari a dare il via a tre grosse operazioni «contro le bande» (nomi in codice «Wallenstein») sull’Appennino tra la Garfagnana e il Modenese e ad intensificare la pressione sulle retrovie con tutti i reparti della Wehrmacht e della polizia disponibili. La prima ipotesi che sembra logico prendere in considerazione è perciò quella di un rastrellamento preventivo, i presupposti per il quale, anche con l’utilizzo di numeri non indifferenti di uomini da parte dei Comandi superiori, ci sarebbero tutti: il fronte arretrava rapidamente e l’attività partigiana nei pressi della Linea Gotica stava aumentando; c’è poi da tenere conto del dilagare della cosiddetta «psicosi delle bande», che da sola stava mettendo in seria difficoltà i nervi delle truppe tedesche, ossessionate e convinte che «alle [loro] spalle ci fosse un esercito partigiano» e di essere costantemente «in trappola. Come a Stalingrado». A questo proposito, va però aggiunto che la lotta antipartigiana in Italia può essere solo parzialmente ricondotta a un fenomeno di isteria da parte nei confronti della Resistenza in armi. La «psicosi delle bande» è uno dei tanti fattori che possono contribuire a contestualizzare la vicenda e, nel nostro caso, non è comunque l’elemento predominante.

La ricerca sulle mappe del fondo «RH 2-KART/OKH» del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo ha finora portato alla luce un solo nuovo elemento, ancorché molto significativo. A fine luglio, un’intera divisione meccanizzata tedesca (la 90. Panzer-Grenadier-Division) aveva ricevuto l’ordine di trasferirsi dal fronte alle retrovie, per l’esattezza nei pressi di Modena. L’intero reparto raggiunse la Valdinievole proprio la mattina del 29 luglio 1944, per poi attraversare il Serravalle e cominciare risalire l’Appennino nelle ore successive. Al momento non è possibile stabilire se qualche reparto della divisione abbia partecipato o meno ai combattimenti di Montechiaro, ma la sua presenza servirebbe a spiegare una maggiore attenzione dei comandi militari per le aree limitrofe.

Va poi preso in esame un altro dettaglio, forse tra i più esacerbati da parte delle ricostruzioni sull’uccisione di Fedi proposte finora. Nel dopoguerra, in molte delle testimonianze rilasciate dagli ex-partigiani pistoiesi si può riscontrare un certo accordo sul fatto che quella dei tedeschi fosse stata un’imboscata preparata in modo tale da colpire il nucleo delle Squadre. Questa osservazione però non è mai stata vagliata criticamente, sebbene ci sia tanto da dire su di essa, a partire dal fatto che chiunque venga colto di sorpresa in un conflitto a fuoco abbia quasi sempre la percezione di essere stato messo in trappola. Né si è tentato di elaborare ulteriormente uno dei bollettini dell’Armeeoberkommando 14, già noto, nel quale si legge che il 29 luglio furono le truppe tedesche a subire un attacco dai partigiani e non il contrario. Cosa non difficile da credere, se si pensa che nelle relazioni delle Squadre Franche si fa menzione di un altro conflitto a fuoco, avvenuto quella stessa mattina e che ebbe come protagonista una delle pattuglie poste da Fedi a copertura del centro della formazione. Il comandante partigiano non era stato messo a conoscenza di questa prima schermaglia, ma se assumiamo che questo scontro abbia effettivamente avuto luogo (fatto del quale ci danno conferma sia la relazione delle Squadre Franche che i documenti tedeschi), ciò potrebbe anche suggerire un’altra spiegazione ai fatti di quel giorno. In breve, l’incontro tra i pionieri e la formazione partigiana potrebbe essere avvenuto a seguito della battaglia mattutina, la quale avrebbe poi spinto le unità del Pi. Batl. 60 a indagare più a fondo nelle zone a sud di Pistoia. Un altro dettaglio a questo proposito è costituito dalle operazioni alle quali era stata originariamente destinata l’unità responsabile dell’uccisione di Fedi: il 29 luglio 1944, infatti, i pionieri del 14. Panzerkorps dovevano minare un tunnel ferroviario nei pressi di Serravalle insieme a una unità del Genio ferroviario, la Eisenbahn-Pionier-Kompanie 84. In questo documento non si parla né di rastrellare una precisa area, né tantomeno di dare la caccia a una specifica squadra partigiana, il che alimenta l’ipotesi (pur senza confermarla) di un incontro avvenuto per caso o a seguito di un attacco della pattuglia di Fedi a una delle due formazioni nemiche (se non a entrambe).

Le testimonianze di chi era presente quel giorno a Montechiaro concordano poi su un altro dettaglio, ovvero che i tedeschi sapessero «senz’altro dove andare» e che quindi avessero puntato direttamente sul luogo dove si trovava il grosso della formazione partigiana. Tuttavia, anche questo racconto dovrebbe essere analizzato in maniera più critica alla luce di due considerazioni: la prima è che le truppe di occupazione, soprattutto i reparti del Genio, conoscevano e avevano cartografato la zona periferica di Pistoia da circa un anno (lo stesso Pionier-Bataillon 60 era già stato di stanza a Pistoia nell’autunno del 1943, alle dipendenze della 44. Infanterie-Division); in secondo luogo, non si è mai presa in esame la possibilità che la zona tra Vinacciano e Serravalle potesse avere una qualche importanza strategica per i tedeschi. A questo proposito, vale la pena ricordare la presenza della tratta ferroviaria che da Pistoia conduce ancora oggi a Montecatini e il fatto che le medesime unità della Eisenbahn-Pi. Kp. 84 avevano sondato più volte quell’area nei mesi di giugno e luglio. Quello che è certo, dunque, è che nell’estate del 1944 quella zona possedeva ancora una grande importanza per le forze armate dell’occupante.

Alcuni appunti finali. Il giorno successivo all’uccisione di Fedi, il 30 luglio 1944, il Pionier-Bataillon 60 venne inviato a rastrellare tutto il territorio compreso tra Vinacciano e la zona a sud di Prato. Il risultato complessivo di questa azione fu di settanta uomini catturati, tra i quali «otto noti capibanda» e, nel solo Pratese, di 146 persone. Al momento non è dato sapere se questo tipo di operazione fosse o meno una risposta ai fatti di Montechiaro e, più precisamente, al rinvenimento dei famosi «documenti importanti» sul corpo di Silvano Fedi. Tuttavia, come si è avuto modo di leggere, l’utilizzo di un ventaglio più largo di fonti fa già assumere alle «circostanze mai chiarite» un significato diverso: unite alle testimonianze orali del periodo, che dovranno essere esaminate di nuovo e con criteri diversi, e alla letteratura che finora è stata prodotta su Fedi e sulle sue Squadre Franche, le carte tedesche possono apportare un contributo nuovo e determinante alla ricostruzione di un quadro storicamente corretto delle vicende del 29 luglio 1944.

Note: Sono stati consultati i seguenti fondi: Aisrpt, Fondo Relazioni, Relazione delle Squadre Franche a carattere patriottico, Gruppo “Silvano”; Aisrt, microfilm (US-NARA) T-312, Roll 491, f. 8.084.451, Armeeoberkommando 14, Pi. Tagesmeldungen 1 Jul.-30 Sep. 1944; BA-MA, RH 2/663, fo. 0128, Oberbefehlschaber Südwest, bollettini mattinali dell’Ufficio operazioni Ia e bollettini dell’Ufficio informazioni Ic, giugno 1944; BA-MA, RH 2/9693 K, Morgenmeldungen, Lagerkarte (mappa) del 29 luglio 1944; BA-MA, RH 24-14/153: Armee-Pionierführer (A.Pi.Fü.). Pionier-Tagesmeldungen, messaggi e bollettini delle truppe del Genio, 1° luglio-30 settembre 1944.

Edoardo Lombardi (1994-2023) è stato dottore magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2018 ha collaborato con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia (Isrpt), per il quale ha svolto attività di ricerca e di didattica sul territorio. Nel 2020 è entrato a far parte della redazione del periodico dell’istituto, «Farestoria. Società e storia pubblica». I suoi interessi di studio hanno riguardato soprattutto la storia culturale della Germania e dell’Italia in Età contemporanea. Per conto dell’Isrpt ha svolto una ricerca sull’occupazione tedesca di Pistoia. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Uno stato senza nazione. L’elaborazione del passato nella Germania comunista” (Unicopli, 2022). 

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo “Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).




Le Scuole Leopoldine, scenario di violenze e anticamera della deportazione nei lager nazisti.

Nei resoconti che parlano della secolare storia delle Scuole Leopoldine di piazza Santa Maria Novella a Firenze, dove oggi si trova il Museo Novecento, difficilmente si scopre ciò che vi accadde nel 1944, quando l’edificio fu requisito dalle truppe germaniche di occupazione. Pochi sanno che qui, come reazione furente allo sciopero generale dei primi di marzo del 1944 indetto dal Comitato di Liberazione nazionale, furono concentrati, interrogati, registrati e quindi deportati nel lager nazista di Mauthausen le lavoratrici e i lavoratori scioperanti, arrestati dai militi della Repubblica Sociale Italiana insieme a persone rastrellate per strada in modo indiscriminato a Firenze e in provincia, in particolare nel pratese e nell’empolese[1].
Prima esplicita opposizione di massa al fascismo, questo sciopero è considerato dagli storici, per le sue dimensioni e ripercussioni, uno degli eventi più straordinari della resistenza civile europea. Alcune fonti stimano circa 500.000 aderenti. Gli organizzatori parlarono di un milione di partecipanti, le autorità nazifasciste di circa 200.000[2]. Le reazioni dei nazisti e dei fascisti repubblicani furono immediate. Nonostante la rinuncia ad eseguire l’ordine di Hitler di deportare il 20% degli scioperanti, derivante dalle condizioni in cui si trovavano le forze occupanti e dalla volontà di evitare azioni che avrebbero prodotto sollevazioni popolari ancora maggiori[3], i costi umani furono elevati, anche a causa della complicità e fattiva collaborazione della milizia fascista e di una parte dei dirigenti d’azienda.
Per i nazisti, ogni occasione di repressione e pretesto di rappresaglia era utile per deportare in massa uomini e donne in grado di lavorare a favore dell’industria bellica del Reich. Oltre a costituire un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile, le deportazioni avevano infatti anche l’obiettivo di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù.
In Toscana[4], come nel resto dell’Italia centro-settentrionale, la repressione fu dura: i rastrellamenti furono indiscriminati, si arrestarono gli operai che avevano scioperato ma anche quelli che non avevano scioperato, nonché impiegati, professionisti e perfino ignari passanti[5]. I fascisti effettuarono i rastrellamenti a Empoli, a Prato e nel centro di Firenze, soprattutto nel rione di San Frediano. Del rastrellamento e «invio in Germania di alcune centinaia» troviamo traccia nel rapporto della Militärkommandantur (Comando militare) di Firenze del 13 marzo 1944, in cui si parla dell’arresto di «elementi perturbatori pericolosi» e si sottolinea «l’energico intervento delle autorità italiane». Inquietante è inoltre il riferimento alla preparazione di «liste»[6], che furono in effetti messe a punto da molte aziende in cui erano avvenute astensioni dal lavoro[7].
Centinaia furono i fermati in provincia, arrestati per strada, prelevati da casa o direttamente dalle fabbriche e rinchiusi in luoghi di raccolta (spesso nelle caserme dei Carabinieri o nelle Case del Fascio, a Prato nella Fortezza medievale del Castello dell’Imperatore, sede della Guardia Nazionale Repubblicana), dove avvennero le prime selezioni. Gli arrestati in provincia furono poi portati a Firenze con i pullman o con degli autocarri, e «scaricati» davanti al grande edificio delle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella, centro di raccolta regionale dove erano state già condotte le persone rastrellate in città. Molti sopravvissuti al loro ritorno dai lager hanno riferito del grande beffardo cartello che era affisso sul palazzo: «Operai volontari per la Germania».
Documenti originali che si trovano all’Archivio Storico del Comune di Firenze, emersi solo molto recentemente grazie alla collaborazione dell’Archivio stesso, attestano che le autorità tedesche di occupazione che avevano requisito l’edificio, lo avevano classificato come «Sammellager», cioè letteralmente ‘campo di raccolta’[8], facendo sì che anche questo edificio entrasse a far parte dell’articolato sistema concentrazionario nazista. Alle Scuole Leopoldine si svolsero nei giorni 7 e 8 marzo 1944 le prime schedature e i primi interrogatori da parte delle SS, aiutati da un interprete. Ebbe un ruolo importante anche il Reparto Servizi Speciali della RSI comandato dal criminale fascista Mario Carità, che molti testimoni dicono di aver visto in quei giorni nei corridoi e nelle aule dell’edificio. Alcuni fermati furono rilasciati grazie ad interventi vari, altri ancora riuscirono a fuggire. La mattina dell’8 marzo 1944 la piazza era gremita di persone alla ricerca di notizie dei propri familiari. Le donne, pur avendo partecipato in gran numero allo sciopero, vennero escluse dalla deportazione[9] e rilasciate, mentre 338 uomini furono portati nel pomeriggio alla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella poco distante e, stipati nei vagoni piombati già predisposti, deportati nel lager di Mauthausen (dove arrivarono l’11 marzo) e nei suoi sottocampi, tra i più terribili dell’intero sistema concentrazionario nazista. Sopravvissero in 64, cioè il 19%.
Poco è pubblicato nei libri di storia locale sull’argomento delle Scuole Leopoldine come centro di raccolta degli arrestati nel marzo 1944, la cui vicenda è documentata al Museo della Deportazione e Resistenza di Prato[10]. Molto si trova però nella memorialistica, in particolare all’interno del corpus di interviste ad ex-deportati raccolte dal Prof. Andrea Devoto alla fine degli anni ’80 in collaborazione con l’ANED[11], l’Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti, nelle sezioni di Firenze, Prato, Empoli e Pisa, che si adopera da decenni per conservare la memoria della deportazione politica.
Il 6 marzo 2017, la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato, in collaborazione con l’ANED Toscana, l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, il Comune di Firenze/Museo Novecento e la Regione Toscana, ha realizzato per la prima volta negli spazi del Museo Novecento (Ex Scuole Leopoldine) un evento di approfondimento storico dal titolo La memoria di un luogo: marzo 1944, arresti e deportazione, cui è seguita la lettura teatrale, a cura del Teatro d’Almaviva, di brani di interviste a testimoni sopravvissuti ai lager. Tra queste si ricorda quella di Roberto Castellani, per molti anni presidente della sezione ANED di Prato:

Noi (di Prato) ci presero e ci portarono in Fortezza, lì dai repubblichini, poi ci prese un pullman e ci portarono in piazza Santa Maria Novella alle Scuole Leopoldine, la sera; s’arrivò lì e trovai altre persone che erano già state prese a Prato e tra questi ci trovai anche il Pitigliani, che lui era ebreo, pensi che situazione! Lo conoscevo. Disse «Oh Castellani, ci sei anche te?» E io ebbi un po’ di paura e dissi: «Icché ci fanno?» «Eh, non ci fanno nulla, stai tranquillo domani ci mandano via tutti, o forse, dice, ci manderanno a fare dei fossati a fare delle trincee». Viene la mattina presto un maresciallo delle SS e ci fanno un interrogatorio, persona per persona. Mi chiamano, e mi domandano «Te che hai fatto lo sciopero?» «Sì», I’avevo fatto, non avevo mica nulla da nascondere, dice «Che mestiere tu fai?» «Lavoro alle filande» «Va bene, lo sai, dice, che è proibito fare lo sciopero?» «Mah, io non lo so, mi dissero di fare festa e feci festa, ecco», e basta. Mi dissero «Vai via» e mi mandonno via; suppergiù le solite domande le fecero a tutti. La mattina dell’8 marzo arrivarono tanti altri, tanti tanti, più che la sera, furono presi nelle fabbriche…[12] .

Fiorello Consorti, altro testimone, ricorda:

E invece la mattina dissero: «Mettetevi lì!» Ci si mise lì, ce n’era degli altri: s’aspettò e poi ci portarono via. Fui uno degli ultimi ad essere preso, e ci portarono in fortezza … poi ci portarono a Firenze, in questa scuola qui, c’era scritto «Lavoratori volontari», un cartellone di propaganda … fanno come tutti, vede: loro fanno uguale: mettono i cartelli per far credere quello che vogliono ma invece non è in quella maniera. Ci scaricarono tutti lì, perché gli autobus li appoggiarono a quegli scalini, aprivano gli sportelli, un repubblichino fuori col mitra, e ci scaricarono tutti sul sagrato e ci misero dentro, e dentro c’era un cortile col loggiato[13].

Anche Alberto Ducci, per molti anni presidente della sezione ANED di Firenze, era stato portato alle Scuole Leopoldine. Questi i suoi ricordi:

E così la mattina ci han fermato in piazza Dalmazia a Firenze e ci hanno chiesto i documenti a tutti e tre: gli altri due li hanno rimandati, e me mi hanno detto che dovevo seguirli perché il prefetto mi doveva parlare. Questi documenti li han controllati in un elenco che avevano questi repubblichini, dopo di che mi han fatto salire su un camion militare, dove ho trovato altri repubblichini con tanto di mitra, e altri sventurati, una decina o 12, ci hanno portato giù alle Scuole Leopoldine in piazza Santa Maria Novella. C’erano tantissime persone, mi ricordo questo: di un certo Ballerini, di Campi, che fin dall’inizio cercò di farci un po’ di coraggio. Ricordo ci trovai un repubblichino di Bagno a Ripoli, un certo Calosi, e mi permisi di dirgli, «Guardi, la mi conosce, io non ho fatto nulla» e lui mi gridò che ero un traditore, insomma, e roba del genere, e quindi non ci fu nulla da fare: anzi, poi dissero che ci avevano messo nel gruppo delle facce sospette, giù, mentre si scendeva dalle aule che eravamo ai piani superiori, ci sistemarono a gruppi giù in questa specie di giardino al piano terra, e di lì dissero che eravamo delle facce sospette, ci fecero partire a gruppi, non mi ricordo, di 15, di 20, per farci salire sui camion, e quando passavamo davanti ci sputavano addosso, insomma, ce ne facevano di tutte[14].

Questo invece il racconto di un altro presidente della sezione ANED di Firenze, Mario Piccioli:

Fui preso, perché il giorno avanti presero mia madre che lavorava alla cartiera Cini in via Arnolfo. Lì c’era una grande fabbrica di cartotecnica e grafica, e appunto per gli scioperi che fecero furono prese diverse, che erano quasi tutte donne. E difatti la sera noi s’era a casa, e questa donna la ‘un tornava. E allora, che si fa, che non si fa? Dopo la mia zia ci avvisò che queste donne erano state portate alle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella. […] Quando siamo dentro alle scuole (un repubblichino) mi porta su; queste donne l’erano tutte in un’aula, no? e quelle altre erano piene di uomini che avevano preso da Prato, da Empoli, dalle fabbriche. Mi buttarono dentro un’aula con loro. Dopo un poco, gli fo a un carabiniere. «Per piacere, sento piangere, c’è una stanza dove ci sono delle donne, ci deve essere anche la mi’ mamma, sicché già che sono qui …». M’accompagnò. Difatti c’erano tutte le donne della fabbrica e c’era anche mia madre ma passarono solo due minuti perché mi sentii riacchiappare per il colletto e portare via. Poi mi portarono da una signorina a una macchina da scrivere, era tedesca, ma parlava un poco d’italiano, e ci chiedeva i connotati e scriveva. Verso mezzogiorno ci dettero, a quell’epoca c’era i filoncini lustri di 300 grammi, un filoncino per uno e un pochino di formaggio. Allora si cominciò a dire, non ci lasciano andare, perché ci danno da mangiare! E difatti dopo un po’ venne uno della milizia: «Voi traditori della patria pagherete caro!». Chiamarono 20 di noi, io non c’entrai fra questi, loro andarono via e noi si aspettò. Dopo quello della milizia ritorna, la solita musica: altri 20 e io entrai in questa mandata. La piazza era piena e c’era preparato un camion con quattro Tedeschi, uno per lato, e noi 20 ci buttarono sopra; imboccarono da piazza Santa Maria Novella, quella stradina lì, Via degli Avelli, poi al bagagliaio della stazione dalla parte di dietro, di via Alamanni. Salirono su con questo camion e s’andette proprio dentro alla stazione. E lì c’era un mare di Tedeschi, una tradotta bell’e preparata, tutto il convoglio, e ci buttarono dentro un vagone bestiame[15].

Tra gli arrestati c’era inoltre Piero Scaffei, che a proposito delle vicende del marzo 1944 ricorda:

Ecco, una volta entrato nelle Scuole Leopoldine, dove c’è gli archi, dove ora c’è la nostra lapide, non si riuscì più. Mi presentai lì, c’era una signorina a un tavolo, tedesca, non so, o italiana che parlava il tedesco, questo non lo so. Dalle Scuole Leopoldine montai sul camion anch’io e mi portarono alla stazione di Santa Maria Novella […]. C’era i carri bestiame già tutti pronti, brum. Carri bestiame, niente, nudi e crudi. Tutti s’aspettava, tutti pensavano, «Ci manderanno a Cassino a fare trincee” perché il fronte era a Cassino in quel momento. Poi quando vidi che si andava verso Prato dissi “ma qui si va in su, si va al nord»[16].

È importante che cittadini, turisti e studenti conoscano questo luogo della memoria, poco noto come tale. Nonostante una piccola targa, posta sulla parete interna del loggiato, renda il giusto omaggio alle vittime, occorre spiegare cosa avvenne al suo interno. La memoria passa infatti anche attraverso la conoscenza di edifici che, come questo, furono scenario di persecuzione e anticamera dell’estrema violenza e della morte nei lager.

 

Note

1. Si veda sul tema il saggio da cui sono tratte parti del presente contributo: C. Brunelli e G. Nocentini, La deportazione politica dall’area Firenze, Prato ed Empoli, in Il libro dei deportati. Volume II. Deportati, deportatori, tempi, luoghi, a cura di B. Mantelli, Mursia, Milano 2010, pp. 620-658.
2. L’importanza dello sciopero fu compresa già allora dalla stampa statunitense. Il 9 marzo 1944 il “New York Times” (che parlò di svariati milioni di scioperanti) scrive: «In fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani». Anche il giudizio degli storici dei nostri tempi non differisce molto da questa analisi: «Come dimostrazione politica, lo sciopero generale ebbe una grandissima importanza. Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. Fu il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti». Si veda L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 225.
3. Ivi, pp.221-222. Si veda anche, a questo proposito E. Collotti, L’occupazione tedesca in Toscana, in Storia della Resistenza in Toscana, vol. I., a cura di M. Palla, Carocci, Roma 2006, pp. 85-146.
4. Per maggiori informazioni sugli scioperi in Toscana si rinvia a: F. Taddei, Il Pignone di Firenze 1944/1954, La Nuova Italia Editrice (Toscana Sindacato), Firenze 1980; in particolare L. Malgalaviti, Il Pignone tra Resistenza e ricostruzione, pp.119-144, che a p.128 testimonia come alle famiglie dei deportati il Pignone avesse inviato il 27 marzo 1944 lettere di licenziamento per «assenza arbitraria dal lavoro». Si vedano inoltre: L. Mancini, Le sigaraie: lavoro e organizzazione produttiva nella Manifattura tabacchi di Firenze fra Resistenza e dopoguerra, in Ricerche storiche, Edizioni Polistampa, Firenze gennaio-aprile 2004; Era la Resistenza. Il contributo di Empoli alla lotta contro il fascismo e per la liberazione, a cura di P. L. Niccolai e S. Terreni, Giampiero Pagnini Editore, Firenze 1995; M. Carrai, Lotte sindacali e democrazia: 1919-1948, p. 122, in La tradizione antifascista ad Empoli 1919-1948, atti del convegno (Empoli, 23 aprile 2004), a cura di P. Pezzino, Pacini Editore, Pisa 2005; M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del Terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Livorno 1987.
5. Gli stessi occupanti, nel rapporto della Militärkommandantur di Firenze del 13 aprile 1944 a poco più di un mese dal giorno della deportazione, ammisero che «un notevole numero (…) di italiani, del tutto innocenti, è stato deportato in Germania senza ragione». Toscana Occupata. Rapporti delle Militärkommandanturen, introduzione di M. Palla, Leo S. Olschki, Firenze 1997, p.143.
6. «Incitati dalla propaganda nemica e inaspriti dalla penuria di generi alimentari i lavoratori hanno tentato di scioperare anche nella provincia di Firenze, particolarmente a Prato, ad Empoli e nella stessa Firenze in diverse fabbriche. L’energico intervento delle autorità italiane, sollecitate dal Comando militare, e in particolar modo l’invio in Germania di alcune centinaia tra gli elementi perturbatori più pericolosi hanno fatto sì che l’agitazione ben presto rientrasse e il lavoro venisse ripreso. Attualmente nelle aziende nelle quali si è scioperato si preparano liste di nominativi degli scioperanti e tra questi si segnalano in particolar modo i sobillatori, allo scopo di poter disporre di materiale per arresti per future occasioni». Ivi, p. 116.
7. Esempi di liste con nomi di operai scioperanti sono conservate in copia al Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Figline di Prato.
8. Si veda presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi), Fondo Scuole Leopoldine, Affari spediti 1944, coll. SL 91, in particolare il documento a firma del tenente colonnello della Wehrmacht Gieseke del Comando germanico di Piazza di Firenze riguardante la «Requisizione di edifici per scopi di impiego nel lavoro» (Arbeitseinsatzzwecke). Di seguito la traduzione testuale della lettera datata 2 marzo 1944: «Le Scuole Leopoldine a Firenze Piazza Santa Maria Novella n. 10 sono da subito requisite per la Wehrmacht tedesca. La scuola è a disposizione della sezione amministrativa militare del lavoro come campo di raccolta (Sammellager) per manodopera italiana destinata al trasferimento in Germania».
9. Si veda il racconto di Mario Piccioli, contenuto in M. Piccioli, Da San Frediano a Mauthausen, a cura di B. Confortini, comune network, Firenze 2007.
10. Il museo, voluto fortemente dai sopravvissuti pratesi ai lager di Mauthausen ed Ebensee e inaugurato il 10 aprile 2002, è una delle poche strutture in Italia ad essere dedicata in modo specifico alla memoria della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti.
11. cfr. La Speranza Tradita. Antologia della deportazione politica toscana, a cura di I. Verri Melo, Pacini Editore, Giunta regionale Toscana, Firenze 1992, con un’appendice inserita nella seconda edizione del febbraio 2014, a cura della Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato con le biografie dei testimoni intervistati, tra cui quelle che seguono nelle note.
12. Operaio al lanificio San Martino di Prato, fu arrestato in piazza San Francesco a Prato il 7 marzo 1944 nell’ambito di una retata effettuata in seguito agli scioperi. Come molti altri pratesi, Castellani si era recato nel centro cittadino per verificare gli effetti di un bombardamento alleato che si era abbattuto sulla città. Detenuto nella Fortezza di Prato (sede della Guardia Nazionale Repubblicana) e alle Scuole Leopoldine di Firenze, a Mauthausen fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.027. Il 25 marzo 1944 venne trasferito al sottocampo di Ebensee dove fu assegnato ad una squadra che curava i giardini delle SS. Successivamente, dopo aver disertato il lavoro per restare accanto ad un amico malato, fu inviato per punizione a lavorare nelle gallerie. Liberato ad Ebensee il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, è stato un testimone instancabile, prodigandosi per l’istituzione del gemellaggio della pace tra Prato ed Ebensee e per la creazione del Museo della Deportazione di Prato. R. Castellani, Intervista del 20 aprile 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20. 28.
13. Rivedibile alla visita di leva, Fiorello Consorti lavorava come operaio in una ditta tessile a Prato. Arrestato da un carabiniere e dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana l’8 marzo 1944 in via Mazzoni, fu detenuto nella Fortezza di Prato (sede GNR) e alle Scuole Leopoldine di Firenze. Arrivato a Mauthausen, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.076. Trasferito al sottocampo di Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice, fu liberato il 6 maggio 1945 dagli americani. F. Consorti, Intervista del 24 giugno 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20.
14. Ducci, che al momento dell’arresto lavorava come operaio, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft) a Mauthausen, dove ricevette il numero di matricola 57.101. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò dapprima all’ampliamento del campo e successivamente nelle gallerie. Liberato il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. A. Ducci, Intervista del 22 marzo 1988, in Fonti 4. 9. 16. 19. 20.
15. Commesso in una pizzicheria, Piccioli fu arrestato la mattina dell’8 marzo 1944 da un agente in borghese della Guardia Nazionale Repubblicana in piazza Santa Maria Novella, dove si era recato per cercare la madre, arrestata la sera prima per aver partecipato allo sciopero e reclusa nel centro di raccolta alle Scuole Leopoldine. La madre fu rilasciata insieme alle altre donne. Mario invece fu deportato lo stesso giorno nel campo di concentramento di Mauthausen. Numero di matricola 57.344, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft). Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice. Il 10 settembre 1944 venne trasferito nel sottocampo di Linz III e impiegato in lavori esterni, soprattutto nel trasporto merci. Durante un bombardamento alleato alla fine del 1944 il rifugio della sua squadra di lavoro venne colpito. Di trentadue uomini se ne salvarono solo quattro, tra cui Mario, che, ferito ad una gamba, fu trasferito in infermeria. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. M. Piccioli, Intervista del 28 gennaio 1988, in Fonti 4. 8 n.3-5/2010. 9. 16. 20. 23. 28.
16. Arrestato l’8 marzo 1944 in piazza Santa Maria Novella, Scaffei fu deportato lo stesso giorno. Classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevette il numero di matricola 57.399. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò come manovale all’esterno delle gallerie. Il 16 maggio 1944 fu ricoverato in infermeria in seguito ad un’infezione alla mano e successivamente trasferito nel Sanitätslager (infermeria) di Mauthausen. Probabilmente a metà agosto 1944 venne nuovamente trasferito a Linz III. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. P. Scaffei, Intervista del 21 gennaio 1988, in Fonti 4. 9. 16. 20.




Una giornata della Tecnica

4 Maggio 1941. É un giorno che cade di domenica, ma le scuole sono aperte, i laboratori funzionanti, i corridoi percorsi da torme di visitatori. Non è una situazione che si verifica dappertutto: chiusi sono i licei, e così le scuole elementari e le nuove scuole medie. Ad aprire le porte sono soltanto istituti tecnici, scuole d’avviamento e scuole tecniche. Così infatti il governo fascista, e soprattutto il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, avevano programmato di celebrare la ricorrenza della neonata “Giornata della Tecnica”, che varata nel novembre 1939, aveva conosciuto la sua prima celebrazione il 2 Giugno 1940. A sancirne la nascita, un radiodiscorso del Ministro, pronto a evidenziare il ruolo che la manifestazione avrebbe dovuto assumere nel convincere giovani e famiglie a preferire
l’istruzione tecnica e professionale a quella liceale verso cui, asseriva, troppo alto continuava a essere il numero di iscritti.
Se istruzione tecnica e professionale appaiono unite in questa manifestazione, questo non vuol dire che non costituissero, oggi come allora, due percorsi nettamente divisi. Più lunga e consolidata la vicenda temporale dell’Istituto tecnico: sorto con la riforma Casati del 1859, era stato riformato dalla Legge Gentile che aveva previsto, come collegamento tra scuola elementare e Istituto tecnico superiore, un corso intermedio (denominato Istituto tecnico inferiore) di quattro anni dove centrale appare lo studio del latino. Frastagliato appare invece il percorso dell’istruzione professionale, che fino al 1928 fu sempre prerogativa di Ministeri di carattere industriale ed economico: basti qui sapere che le scuole di avviamento propriamente dette sorsero nel 1929 dalla fusione tra il corso post-elementare (sesta, settima, ottava elementare), le scuole complementari e le scuole professionali gestite fino ad allora dal Ministero dell’Economia Nazionale.
Lungi dal rivelarsi come un cruccio di natura esclusivamente fascista, le preoccupazioni ministeriali, così simili a quelle che avevano motivato il varo della riforma Gentile, traevano le proprie radici da un sostrato primo-novecentesco e liberal-conservatore – che, già in età giolittiana, innalzava alti lai contro la pur moderata crescita di iscritti che le scuole post-elementari, allora frequentate da un selezionatissimo numero di studenti (mai più del 7% delle coorti di età corrispondente), registrarono in quegli anni. Erano ansie destinate a saldarsi, e a giustificare, molti punti della “Carta della scuola” che proprio in quei mesi, dopo aver ottenuto l’approvazione del Gran Consiglio, Bottai si stava apprestando a concretizzare – invero con conseguenze assai limitate, se pensiamo che di tutta l’architettura prospettata solo la scuola media vide la luce, con il Regio Decreto 1° luglio 1940. Proprio l’istruzione media, e in particolare quella tecnico-professionale, era il principale oggetto delle attenzioni della “Carta”. Da una parte, infatti, la nuova scuola media avrebbe unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e
dell’istituto magistrale; caratterizzata dalla corposa presenza dello studio del latino, si presentava come una scuola destinata alle élite, come dimostrava anche la presenza di un esame di ammissione tutt’altro che formale. Dall’altra, la scuola di avviamento professionale, teoricamente destinata alle fasce socialmente ed economicamente più deboli della società, sarebbe stata “sdoppiata” da due nuove scuole, entrambe di durata triennale: la scuola professionale, da fondarsi nelle città medio-grandi, e la scuola artigiana, che sarebbe stata invece inaugurata in tutti gli altri centri urbani e rurali. Più limitate erano le prospettive che questi due istituti, in confronto alla scuola di avviamento professionale, aprivano: mentre i licenziati dalla scuola professionale potevano proseguire i propri studi soltanto iscrivendosi alla biennale scuola tecnica, gli iscritti alla scuola artigiana non disponevano di ulteriori canali di formazione. Passati, come documentano gli Annuari Statitici Italiani del 1932 e del 1943, da 67224 iscritti nel 1930 (dato comprensivo delle scuole soppresse nel 1929 per dar luogo agli avviamenti) a 288558 iscritti nel 1941, gli avviamenti erano diventati, in quegli anni, l’istituto di istruzione media maggiormente frequentato in terra italica. Proprio per questo motivo, il disegno assumeva una caratura politica e sociale marcatamente conservatrice, che andava a intaccare la (pur ridotte) potenziale mobilità sociale assunta dalla scuola di avviamento professionale, che, attraverso la frequenza di un anno di corso integrativo oppure di un esame, consentiva l’iscrizione all’Istituto tecnico – e, in misura nettamente minoritaria, all’Istituto magistrale e persino al Liceo scientifico.
L’istituzione della “Giornata della Tecnica” coincideva dunque con un periodo delicato per il Ministero, coinvolto, nonostante le contingenze belliche, nell’attuazione di una riforma prima procrastinata, poi accantonata in misura definitiva. È sotto la luce di questa contingenza che possiamo leggere il corposo fondo che, nel 1941, i Provveditorati, dietro impulso governativo, produssero, editando monografie incentrate sullo sviluppo dell’istruzione tecnico-professionale nella propria provincia. Un corpus bibliografico che, nella generale carenza di informazioni disponibili per questo segmento scolastico, si rivela inaspettatamente prezioso: l’intento propagandistico, chiaramente evidente e anzi rimarcato anche dai documenti ufficiali e dalle riviste di Regime, consente infatti di vagliare quali, secondo Provveditori e Presidi, costituivano le caratteristiche più salienti delle scuole professionali da loro dirette, e soprattutto quale ruolo dovevano giocare nell’assetto socio-economico italiano: quello di preservare un ordine sociale da tutelare nella sua fissità? Oppure quello di favorire, nel caso di alunni particolarmente meritevoli, la
prosecuzione degli studi? Non derogano a questa diade le monografie dei Provveditorati toscani. Corsi integrativi di collegamento tra scuole di avviamento e istituti tecnici, innanzitutto, sono segnalati soprattutto negli istituti agrari, spesso privi, a differenza dei loro omologhi, di un corso inferiore: corsi integrativi sono infatti in funzione presso gli Istituti agrari di Pescia e Grosseto. Anche gli episodici accenni al collocamento dei licenziati e alla provenienza sociale degli studenti sembrano tradire un quadro socialmente composito: degli ex- studenti che avevano frequentato negli ultimi dieci anni la scuola di avviamento “Margaritone” di Arezzo, il 20,8% degli studenti continuava gli studi; tra gli iscritti alla scuola di avviamento di Foiano della Chiana, il 20% proviene da famiglie di commercianti e industriali e il 15% da nuclei di impiegati. È un quadro composito che convive con le dissonanti sfaccettature con cui, nel presentare a famiglie e funzionari ministeriali le loro scuole, i Presidi toscani, similmente ai colleghi del resto d’Italia, mostrano di nutrire concezioni differenti, a volte dissonanti, sulle prospettive che le scuole di avviamento avrebbero dovuto aprire ai loro licenziati. Se infatti a Chiusi della Verna il Preside afferma che «Numerosi sono gli alunni usciti da questi tre soli anni di avviamento i quali non interrompono i loro studi, ma li proseguono, frequentando le Scuole Tecniche e gli istituti Tecnici Industriali, animati dal desiderio di perfezionare le loro conoscenze, desiderio sorto in parte accanto alle macchine di questa scuola», per converso, il collega della scuola di avviamento “Giuseppe Giusti” di Pescia rimarca come «tale scuola della durata di tre anni ha carattere eminentemente popolare, ed accoglie, subito dopo la quinta elementare, i figli dei lavoratori e della piccola borghesia per avviarli ad un mestiere o ad un impiego s’intende di natura modesta». Emerge qui, nuovamente, la dimensione di contenimento sociale che l’istruzione professionale, fin dalla metà del XIX secolo, ha assunto negli occhi e nella mente di classi dirigenti per le quali le occasioni di mobilità sociale inducevano a preoccupazione e spavento.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro della segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” e della redazione della rivista “Farestoria”, è, dal 2016, parte del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in storia dell’istruzione professionale, memorie scolastiche e letteratura per l’infanzia. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla Tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGraw Hill, 2023).




Il massacro dei minatori di Niccioleta, 13-14 giugno 1944

Niccioleta è un villaggio minerario nel comune di Massa Marittima, al centro delle Colline Metallifere. La storia di Niccioleta è legata all’attività estrattiva della pirite i cui giacimenti furono acquisiti, agli inizi del secolo scorso, dalla Società Montecatini. Nel 1935 la scoperta di un grosso quantitativo di minerale dette un nuovo impulso alla miniera e la Società iniziò l’edificazione di un villaggio costruito su livelli altimetrici separati per classe sociale: i palazzi occupati dalle famiglie degli operai si trovavano in basso e circondavano la piazza, al livello superiore erano disposte le abitazioni degli impiegati e sulla sommità si ergeva la villa del direttore. I dipendenti provenivano in gran parte dal monte Amiata, dove le miniere di cinabro si erano esaurite, in particolare da Santa Fiora e Castell’Azzara, ma ve ne erano anche provenienti da altre località o regioni come Veneto e Sicilia: forza lavoro specializzata, che si trasferiva da un ambito minerario all’altro, in cerca di occupazione. Al personale impiegato nella miniera non era richiesta l’iscrizione al partito fascista, ma è probabile che i dipendenti vi fossero iscritti d’ufficio al momento dell’assunzione[1]. Le mansioni particolari dei minatori, non così facilmente sostituibili, concedevano loro il vantaggio di conservare le proprie opinioni politiche senza dover necessariamente rischiare la prigione o il confino. Si andava così costituendo sottotraccia, una base di opposizione al fascismo tutt’altro che risibile: «le famiglie contrarie al fascismo erano tante, più del 60% senz’altro, ma gli esponenti diciamo quelli più in vista, saranno stati una dodicina»[2].

La Direzione ne era senz’altro a conoscenza e ad ogni visita da parte delle autorità fasciste, si procedeva all’arresto preventivo dei più facinorosi, rilasciati all’indomani della manifestazione. Dopo l’8 settembre 1943, con la costituzione della Repubblica Sociale, a Niccioleta si contavano circa una quindicina di famiglie di fascisti, su una popolazione di circa ottocento persone. Il direttore Mori Ubaldini che aveva aderito convintamente al PNF, all’affermarsi del secondo fascismo se ne discostò, in particolare quando, dalla primavera del ‘44 nel villaggio si stagliò nettamente una maggioranza antifascista ed i fascisti iniziarono a chiudersi in difesa, nel timore che le forze partigiane potessero prendere il sopravvento e vendicarsi dei loro abusi (alcuni fascisti come Aurelio Nucciotti, segretario politico, avevano partecipato a rastrellamenti di partigiani).

I partigiani dell’area erano in contatto con il villaggio attraverso fiancheggiatori che li rifornivano di dinamite, chiodi a tre punte ed altri manufatti utili al sabotaggio. Alla fine di maggio i fascisti percependo il crescente isolamento, iniziarono ad apostrofare gli antifascisti e le loro famiglie minacciandoli dell’arrivo in loro aiuto di qualcuno che “avrebbe messo a posto la Niccioleta”. Il 5 giugno gli ufficiali tedeschi del presidio di Pian di Mucini in prossimità del villaggio, chiesero al direttore di poter interrogare cinque operai accusati di essere sostenitori dei partigiani. Si presentarono in tre, uno fuggì dalla finestra e gli altri furono redarguiti e rilasciati. Si trattò di una prima avvisaglia che denunciava la presenza di delatori al villaggio. Tre giorni dopo, mentre quegli stessi ufficiali si dirigevano in auto verso Boccheggiano, caddero in un’imboscata tesa dai partigiani e i soldati rimasti al presidio si diedero alla fuga.

Il 9 di giugno del 1944 alcuni antefatti, collegati tra di loro, determineranno le sorti del villaggio e della sua popolazione. Nel pomeriggio una squadra di partigiani della formazione “Camicia Rossa” giunse a Niccioleta; i giovani, accolti dalla popolazione festante, bruciarono qualche camicia nera e dopo aver disarmato i carabinieri e chiesto ai fascisti di restare in casa, se ne tornarono alla loro base, lasciando il paese nelle mani di un comitato pubblico costituito da vecchi antifascisti che organizzarono turni di guardia agli impianti e al paese. All’alba di quello stesso giorno, il III Freiwilligen Batallion Polizei Italien, partiva da San Sepolcro con destinazione Castelnuovo di Val di Cecina, ove giunse all’alba del giorno successivo, seguendo una logica poco comprensibile visto il contingente di reparti tedeschi in ritirata che transitavano in quei giorni sulla via Aurelia, o sulle strade più interne, verso la linea Gotica.

Il battaglione, costituito da truppa italiana e ufficiali tedeschi e italiani, era comandato dal maggiore Kruger che da subito si assentò, lasciando gli uomini sotto la guida tenente Emil Block. La mattina del 10 giugno il battaglione, al suo ingresso in Castelnuovo, catturava tutti gli uomini incontrati per strada e li conduceva presso il municipio in qualità di ostaggi. La popolazione, memore che il 7 giugno una squadra di partigiani della XXIII brigata aveva catturato e passato per le armi Pietro Palmerini, impiegato comunale fascista, al giungere del battaglione pensò ad una rappresaglia legata a quel fatto. In realtà accadde qualcosa di assolutamente indecifrabile. Durante la mattina del 10 giugno una squadra del battaglione in avanscoperta si scontrava presso Monterotondo Marittimo con una squadra di partigiani: cinque di loro persero la vita, ma furono colpiti anche numerosi militi. Il tenente Block, nonostante le perdite, non effettuerà alcuna rappresaglia su Monterotondo e neanche contro gli ostaggi di Castelnuovo che nel pomeriggio furono tutti rilasciati, tranne quattro giovani in età di leva deportati in Germania. Tuttavia, il 12 giugno il comandante chiedeva che fosse approntato un locale in grado di ospitare almeno 150 uomini; la notte stessa un reparto di circa 70 uomini lasciava Castelnuovo per Niccioleta e accerchiava il villaggio, prelevando tutti gli uomini dalle case.

Gli uomini del turno di notte fuggirono nascondendo le note con i turni di guardia nel rifugio antiaereo, gli altri furono trascinati nella piazza con le mitragliatrici puntate contro, sei di loro su indicazione di fascisti locali furono prelevati, percossi a lungo e poi passati per le armi quella stessa mattina: Ettore Sargentoni con i due figli Ado, che era in contatto con i partigiani, e Alizzardo; Bruno Barabissi, a cui fu trovato un fazzoletto rosso; Rinaldo Baffetti, noto antifascista, e Antimo Chigi che aveva un lasciapassare partigiano utilizzato per raggiungere i cantieri della Todt dove lavorava. Una volta trovate le note dei turni di guardia, gli uomini furono rinchiusi nel rifugio antiaereo e alla sera condotti a Castelnuovo Val di Cecina con i fascisti del paese e le loro masserizie.

Partirono con un moderato ottimismo, pensando che la fucilazione dei sei uomini al mattino avesse in qualche modo soddisfatto il desiderio di vendetta dei nazifascisti. Fu loro ordinato di prendere un cambio per tre giorni poiché sarebbero stati condotti a scavare trincee anticarro e a minare la centrale elettrica. Furono condotti a Castelnuovo e rinchiusi nei locali del cinematografo. Il giorno dopo avvenne la selezione: ventuno giovani nati tra il 1914 e il 1927 non presenti nelle note, pur avendo partecipato ai turni, furono condotti a Firenze e da qui in Germania ai lavori forzati; gli uomini di età superiore ai cinquant’anni furono inizialmente trattenuti, poi rilasciati successivamente alla strage dove perirono molti dei loro figli. Durante la selezione il fascista Calabrò ricevette il “privilegio” di salvare sei uomini, ma ne salvò solo due dal gruppo destinato alla fucilazione.

In settantasette furono quindi condotti in prossimità della centrale elettrica e qui uccisi da mitragliatrici occultate.

Il processo che seguì alla strage si concluse con una condanna dopo due gradi di giudizio ed un ricorso in Cassazione a 20 anni per Calabrò e Nucciotti, accusati di aver chiamato il battaglione a Niccioleta, e a 10 anni per Aurelio Picchianti, un milite riconosciuto da un giovane del villaggio. Un indulto nel 1952 liberò definitivamente i condannati. Gli uomini che fecero parte del plotone di esecuzione, denunciati inizialmente da un commilitone, saranno prosciolti in seguito al ritiro della denuncia. Il segretario del direttore, un ex capitano dei servizi segreti militari, tale Nicola Larato, si era allontano da Niccioleta ai primi di giugno e vi ritornò il giorno stesso in cui il battaglione aveva accerchiato il villaggio. Fu riconosciuto da un milite ed era atteso dal comandante; dunque, era precedentemente stato in contatto con il battaglione, forse attraverso il tenente medico Domenico Fracchiolla, pugliese come il Larato. Larato fu catturato dal CLN di Niccioleta nel dopoguerra e consegnato agli Alleati, che lo tratterranno due anni nel campo di concentramento di Padula; tuttavia non fu mai imputato al processo. Il tenente medico, invece, non fu mai ritrovato perché all’epoca si ignorava il suo nome. Molti anni dovettero passare prima che gli storici si interessassero all’eccidio e ritrovassero i documenti utili all’individuazione dei responsabili tedeschi, che tuttavia restarono impuniti.

Note

  1. Presso l’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea a Firenze sono conservati i registri contenenti l’elenco di tutti i dipendenti della Società Montecatini iscritti al PNF, tra questi anche oppositori al fascismo, e da un riscontro presso le famiglie risultava che nessuno ne fosse a conoscenza.
  2. Si veda l’intervista a Mario Fatarella, in Katia Taddei, Coro di voci, Il Ponte Editore, Firenze 2003, p. 310.

Per approfondimenti: https://memoriavittimenazismofascismo.it/ nel quale si possono consultare le interviste a Siliano Sozzi, Mario Fatarella, Bruno Travaglini, accessibili previa registrazione gratuita.