Prima della strage: gli anni Trenta, le relazioni industriali e l’opposizione al regime nella miniera di Niccioleta

L’ex miniera di Niccioleta – frazione del Comune di Massa Marittima in provincia di Grosseto – è nota soprattutto nella memoria pubblica per l’efferata strage1 nazifascista del 13-14 giugno 1944, quando 83 minatori furono massacrati tra il piccolo borgo minerario e Castelnuovo Val di Cecina (Pi), nei giorni della ritirata tedesca.

In questa sede non ci soffermeremo sull’analisi della dinamica di questo episodio già accuratamente studiato, ma sulla portata di quei comportamenti di dissidenza e opposizione al fascismo diffusi tra i minatori di questo villaggio minerario nel corso degli anni Trenta, ritenuti di massimo consenso al regime. A tal fine crediamo necessaria una panoramica sulle difficili condizioni socio-economiche degli operai di questo contesto produttivo, che alimentarono lo scontento e li indussero a manifestare il loro sentimento antifascista anche con gesti eclatanti, ben prima dell’antifascismo organizzato manifestatosi con la lotta di Liberazione.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2056)

Dopo le prime operazioni di ricerca avviate dall’inizio degli anni Venti, la miniera2 di pirite di Niccioleta di proprietà della Società Montecatini entrò definitivamente in funzione nel 1929, quando fu stipulato il contratto di lavoro per i primi 150 operai. Era solo l’inizio di questa attività produttiva, che garantì al colosso della Montecatini il monopolio della pirite italiana, la materia prima fondamentale per la produzione di acido solforico, impiegato per le esigenze dell’industria chimica e per la produzione di fertilizzanti per l’agricoltura. Negli anni successivi i lavori furono rapidamente ampliati e crebbero sia le maestranze che la produzione3. In Maremma la Montecatini era già attiva dal 1899 e, per quanto riguarda la pirite, deteneva la proprietà anche delle miniere di Gavorrano e Boccheggiano. Nei primi anni Trenta fu inaugurato un imponente sistema di teleferiche, il più lungo d’Europa (oltre 40 km), che permetteva di collegare le tre miniere con Scarlino scalo: da qui il minerale estratto veniva caricato sui treni o condotto a Portiglioni per esser spedito via mare. All’inizio degli anni Trenta e fino al 1940 a Niccioleta fu dato avvio alla costruzione del vero e proprio villaggio minerario di impronta architettonica razionalista, organizzato secondo un ordine gerarchico e dotato dei principali servizi.

Le condizioni di vita degli addetti alle miniere non furono però mai facili. Già nel 1926 venivano denunciate le manchevolezze del sindacalismo fascista4 da parte del sindaco di Massa Marittima, Innocenzo Vecchioni, che riferiva sia «l’abbandono pressoché continuo di questa massa benemerita per parte di chi è preposto alla sua tutela economica e morale», sia le angherie di alcune direzioni di miniere verso le masse dei lavoratori organizzati nel sindacato fascista, riferendosi in particolare «ai licenziamenti o retrocessioni di grado per ripicche verso chi ha un grado nell’organizzazione, come è avvenuto nelle Miniere Niccioleta e Accesa»5. Dal canto suo, il segretario provinciale dei sindacati fascisti, Gino Finotello, rilevava il mancato rispetto dei concordati di lavoro da parte delle imprese, in primis nella parte riferita ai cottimi6. Nello stesso anno il segretario federale Ferdinando Pierazzi e Finotello7 si recarono a Roma presso i vertici delle organizzazioni politiche e sindacali, per far presente la necessità di rinnovare o elaborare contratti equi in favore delle maestranze operaie locali, i cui guadagni erano giudicati largamente insufficienti alle necessità di vita. Dopo la lunga e difficile opera di conciliazione per i patti collettivi di lavoro ispirati ai principi corporativi (nel 1928 furono stipulati quelli per i minatori e gli operai metallurgici), in provincia cominciò ad assumere proporzioni preoccupanti la disoccupazione, dovuta principalmente alla crisi dell’industria mineraria e al ristagno dell’edilizia. La concorrenza estera, la minor richiesta dei mercati, le carenze infrastrutturali, la scarsa competitività dovuta agli alti costi e alla bassa qualità di alcune produzioni erano le cause principali delle difficoltà economiche in Maremma, inserite nel ben più ampio contesto della grave crisi economico-finanziaria internazionale, il cui episodio più eclatante fu il crollo della borsa di Wall Street nell’ottobre 1929, che comportò anni di recessione.

Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta la crisi colpì principalmente le industrie estrattive, edili, chimiche, metallurgiche e del legno, traducendosi in sospensioni o chiusure di attività, riduzioni delle giornate lavorative, continui licenziamenti, all’interno di contesti produttivi divenuti sempre più minacciosi e autoritari.

Alla fine degli anni Venti, tra tutte le miniere della Montecatini la situazione era particolarmente critica a Gavorrano8, dove il lavoro era ridotto a cinque giorni settimanali, le paghe erano molto basse, quelle sui cottimi venivano periodicamente ridotte e le maestranze erano molto scontente e conducevano una vita di ristrettezze con forti ricadute sullo stato di salute, come dimostravano le statistiche degli ammalati. Solo il 30 novembre 1929 furono stabilite le nuove tariffe salariali9 per i minatori della Montecatini, dopo l’accordo siglato tra l’Unione industriale fascista della provincia di Grosseto e l’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria. Pur vantando che l’apertura della miniera di Niccioleta aveva rappresentato il segno della volontà di dar massimo impulso all’attività estrattiva, nell’ottobre 1931 la Montecatini fece presente la gravissima contrazione nei programmi commerciali di collocamento e vendita delle piriti estratte nelle miniere maremmane. In sei mesi fu accumulato uno stock per oltre 100mila tonnellate nonostante l’orario ridotto e i licenziamenti degli operai, poiché la Germania – principale mercato estero – aveva denunciato i contratti di forniture e rinunciato a nuovi acquisti, mentre la domanda era calata pure nel mercato interno per la diminuzione della produzione del susperfosfato per l’agricoltura10. La società optò, dunque, per i licenziamenti degli operai di minor resa nelle miniere di pirite maremmane. Il 1° ottobre 1931 persero il lavoro 88 operai della miniera di Niccioleta e 57 di quella di Boccheggiano. Un altro duro colpo per i minatori della Montecatini si verificò il 17 ottobre 1931, quando in sede ministeriale furono concordate le riduzioni salariali del 21%11. Il 21 ottobre 1931, durante il cambio turno, circa cento operai della miniera di Gavorrano rivolsero ingiurie al direttore della miniera e ripresero i lavori con mezz’ora di ritardo. Intervenne Solimeno Petri, commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, che chiese l’intervento del Comitato intersindacale al fine di riesaminare la questione della riduzione salariale (ristabilendo un guadagno giornaliero di almeno 12 lire per gli adulti e otto per donne e ragazzi), mantenere le cinque giornate lavorative settimanali e infine creare spacci aziendali – a cura della Montecatini – per alleviare lo stato di disagio dei lavoratori12.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2057)

Il prefetto di Grosseto Giovanni Tafuri sollecitò l’intervento del Ministero delle Corporazioni, che nel dicembre 1931 cercò vanamente di convincere la Montecatini – che aveva già licenziato 350 operai – a mantenere le cinque giornate lavorative, evitando il licenziamento di altri 350 lavoratori. Quest’ultima non si mosse però dalle condizioni poste (riduzione a quattro delle giornate lavorative settimanali con il licenziamento di 350 lavoratori o mantenimento delle cinque giornate lavorative con il licenziamento di ben 700 operai), scegliendo la seconda opzione e facendo presente che solo per questioni di ordine politico non aveva ancora provveduto al licenziamento del secondo scaglione di 350 lavoratori13. Un episodio che dimostra la subalternità e la scarsa capacità d’imposizione dello stesso Ministero nei confronti della Montecatini.

La situazione era particolarmente critica pure alla miniera di Niccioleta e rischiava seriamente di compromettere il consenso al regime. Circa 200 dei 350 operai occupati nel borgo minerario non acconsentirono al pagamento dei contributi sindacali e al rinnovo della tessera per l’anno 1932, motivando tale dissenso con le loro disagiate situazioni economiche. Il Comando dei carabinieri di Massa Marittima dispose indagini per verificare che fra la massa operaia non vi fossero sobillatori che agivano per scopi antinazionali14. Stessa cosa era successa a Boccheggiano, dove 300 operai avevano rifiutato il rinnovo della tessera sindacale a causa del suo aumento da sei a 10 lire, mostrando al contempo un forte malcontento per le loro tristi condizioni economiche e per il generale disinteresse del sindacato verso le loro problematiche15.

Nell’aprile 1932 fu lo stesso Direttorio federale grossetano a richiedere la revisione dell’accordo salariale al Ministero delle Corporazioni, dopo aver constatato che gli operai dipendenti dalle miniere di Boccheggiano e Niccioleta percepivano un salario medio giornaliero di 10 lire lavorando cinque giorni a settimana. Si trattava di un guadagno ritenuto insufficiente alle più stringenti necessità quotidiane, che aveva depresso lo stato d’animo dei minatori con ripercussioni in campo politico16. In quel periodo la produzione annua totale delle tre miniere di pirite della Montecatini (Gavorrano Niccioleta e Boccheggiano), più quella di Ravi di proprietà della Società Marchi, ammontava a circa 400mila tonnellate. Il 15 giugno 1932 il prefetto Celi tornò dunque a invocare l’adozione di misure protezionistiche presso il Ministero delle Corporazioni, poiché, stando ai dati da lui recepiti, porre il divieto d’importazione alle 150mila tonnellate di pirite provenienti da Spagna e Grecia avrebbe giovato alla Montecatini, che sarebbe potuta tornare alle sei giornate lavorative nelle sue miniere, con l’assunzione di nuova manodopera17.

Nulla si mosse però a livello governativo. Il 30 luglio 1932 la direzione della miniera di Montecatini di Gavorrano affisse i manifesti che comunicavano il licenziamento di 250 operai. Scoppiarono così nuovi disordini, con circa 300 minatori che si radunarono davanti alla direzione stessa, emettendo grida ostili e lanciando pure qualche sasso contro gli uffici Bedeaux18. Quest’ultimo è il nome dell’inventore del sistema omonimo di razionalizzazione del lavoro volto ad aumentare la produttività, che fu introdotto anche nelle miniere maremmane della Montecatini a partire da quella di Gavorrano dal 1° marzo 1932, tra le lamentele degli operai e una notevole diffidenza anche da parte delle autorità fasciste. Tale sistema si basava sulla scomposizione analitica del lavoro e per le paghe si allacciava a meccanismi d’incentivi a partire dall’unità Bedeaux, corrispondente alla quantità di lavoro che poteva essere svolto da un operaio, in condizioni normali, in un minuto.

Il segretario federale Vecchioni, rivolgendosi al Ministero delle Corporazioni, considerò l’atteggiamento degli operai come diretta conseguenza degli inqualificabili sistemi della Montecatini e della mancanza di comprensione dei dirigenti della miniera. Le autorità fasciste maremmane temevano che il calo della produzione e i licenziamenti avrebbero avuto gravi conseguenze per il mantenimento del consenso al regime e dell’ordine pubblico a livello locale, ecco quindi la necessità di una continua mediazione con le forze imprenditoriali, avvantaggiate però proprio da quel sistema corporativo adottato dal fascismo, che per porre fine alla lotta di classe aveva minato libertà e diritti dei lavoratori.

L’ira delle autorità locali verso la Montecatini si manifestò anche nel corso della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932. Petri si soffermò a lungo sulla questione degli operai della Montecatini, che in soli due anni avevano visto i loro salari dimezzati. Al di là delle riduzioni salariali elencò altre anomalie dovute al comportamento della società, quali: la mancata istituzione di spacci aziendali; l’introduzione arbitraria del sistema Bedeaux nella miniera di Gavorrano a partire dal 1° marzo 1932, che riduceva notevolmente i salari dei lavoratori (da una paga media giornaliera di 26,2 lire con la tariffa a cottimo pieno si scendeva alle 17,2 lire con i valori Bedeaux); la cessazione al 1° luglio 1932 della garanzia accordata per il mantenimento della paga media giornaliera a 17,2 lire; l’arbitrio nel conglobamento del carovita nel guadagno giornaliero; il licenziamento di 30 operai in seguito a un infortunio mortale verificatosi nella miniera di Gavorrano quale diretta conseguenza dell’introduzione del Bedeaux; l’annuncio della chiusura della miniera di Fenice Capanne a Massa Marittima; ed infine l’arbitraria riduzione apportata ai guadagni di alcune squadre di operai addetti ai lavori di rialzamento dei bacini. Il segretario federale Vecchioni condannò, invece, il metodo utilizzato dalla Montecatini, che provvedeva ai licenziamenti senza contrattazione con gli organismi sindacali interessati, «ai quali premerebbe che il numero dei licenziati non venisse a gravare su una sola località ma fosse sempre equamente ripartito fra i diversi paesi dai quali le miniere traggono la manodopera». Dal punto di vista politico Massa Marittima risultava il centro più vulnerabile della provincia, tanto che Vecchioni non esitò a definire come «antifascista» l’azione della Montecatini nei confronti del paese minerario. «Tale sistema, che può aver avuto, come conseguenza diretta una diminuzione notevole di fiducia verso gli organismi politici e sindacali della provincia, che, a dire degli stessi operai, non avrebbero saputo sufficientemente arginare l’azione della Montecatini, è riprovevolissimo», le durissime parole del federale19.

Il 7 agosto 1932 la Montecatini licenziò definitivamente i 250 operai già segnalati. Tra questi riuscirono a salvare il posto di lavoro solo 90 operai di Massa Marittima, in parte confermati a Gavorrano (35), in altra parte assunti a Niccioleta (55).

Niccioleta. Edificio dell’Associazione Nazionale Combattenti di Niccioleta
Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949  (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2118)

Nel 1933 proseguirono le difficoltà nei mercati del rame, del mercurio e dei prodotti metallurgici. Petri ribadì che persisteva uno stato di depressione morale tra i minatori – in primis tra quelli di Niccioleta e Boccheggiano – visto il «considerevole malcontento sia per l’inadeguamento dei salari al bisogno della vita, sia per i noti metodi esotici di lavoro, arbitrariamente applicati»20. La questione dei minatori maremmani assunse una rilevanza nazionale e fu trattata perfino nella riunione del Direttorio nazionale del Pnf a Bari, nel settembre 1933. Intanto, i provvedimenti antidisoccupazione, rimasti a lungo lettera morta, trovarono una loro prima applicazione a partire dalla fine del 1934, sulla base di alcune misure cardine quali le 40 ore settimanali, l’abolizione del lavoro straordinario, la limitazione dell’impiego di donne e ragazzi alle prestazioni di loro competenza specifica e la sostituzione dei lavoratori pensionati. Fu una prima boccata d’ossigeno per le maestranze locali, con alcune industrie – tra cui quelle estrattive – che ripresero le assunzioni, ponendo un primo argine alle conseguenze drammatiche dell’assenza di lavoro, particolarmente sentite nell’area amiatina e in quella dell’Argentario. Tra il 10 e il 15 dicembre 1934, con l’applicazione delle 40 ore lavorative la Montecatini procedette all’assunzione di 167 operai, tra cui 32 a Niccioleta, 46 a Boccheggiano e 80 a Gavorrano21.

Era vicina anche la resa dei conti col sistema Bedeaux. L’introduzione di questo sistema di lavoro – applicato anche alle miniere di Gavorano, Boccheggiano, Ravi e Rigoloccio della Montecatini – aveva infatti originato una lunga vertenza che fu posta a livello nazionale. La maggiore intensità di lavoro richiesta agli operai si era risolta addirittura in una diminuzione delle paghe. La questione fu chiusa il 9 novembre 1934 con la mozione del Comitato corporativo centrale22, che ristabiliva il primato della regolazione collettiva per l’applicazione di qualsiasi sistema di salario o incentivi, mantenendo ai lavoratori la possibilità di conoscere con chiarezza e semplicità gli elementi che componevano la loro retribuzione. Tale atto sancì l’abolizione del Bedeaux e il ritorno alle tariffe a cottimo pieno nelle miniere della Montecatini, con piena soddisfazione delle autorità fasciste locali23.

L’episodio del Bedeaux costituì però un’eccezione. «Non potevano esserci dubbi ormai su quale fosse la collocazione del fascismo nel conflitto tra padroni e operai. La presenza sempre più diffusa in ruoli chiave della gerarchia della miniera – anche se soprattutto nelle mansioni inferiori di sorveglianza – di personale di esplicita appartenenza fascista, spesso di matrice squadrista, ne era la manifestazione più esplicita. L’identificazione del fascismo con il comando capitalistico, e viceversa, era netta. […] Emerse talvolta qualche residua frizione tra le autorità locali e la Montecatini, indotta dalla percezione dello strapotere che la società mineraria stava esercitando, ma nessuna giunse mai a incrinare la consonanza di fondo. Questo connubio Stato/capitale, o anche fascismo/capitale, sperimentato dai minatori già nel sottosuolo, si riproduceva in superficie, dove, insieme al ruolo primario di antagonista di classe, assumeva quello benevolo, ma sempre diffidente e all’occorrenza severo e perfino brutale, del padre di famiglia attento ai bisogni dei propri figli»24.

L’accordo per le tariffe salariali delle maestranze della Montecatini fu stipulato il 22 febbraio 1935. Furono stabilite le tariffe per i lavori a cottimo, i quali dovevano esser fissati mediante un biglietto rilasciato all’inizio del lavoro dal capo servizio al capo compagnia, contenente indicazioni sulle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro stesso: una loro mutazione poteva portare al diritto della revisione dei prezzi di cottimo. Per i lavori non previsti nelle tabelle allegate l’impresa era chiamata ad applicare nuove tariffe provvisorie della durata di due mesi, «tali da permettere agli operai laboriosi e di normale capacità lavorativa di raggiungere un guadagno non inferiore a quello delle categorie cui appartengono». Nella liquidazione dei guadagni di cottimo doveva risultare con semplicità ed evidenza il lavoro eseguito, con a parte le trattenute sul salario. Infine, furono stabilite delle maggiorazioni per il lavoro straordinario e festivo25. Tra gli operai della Montecatini si manifestò da subito una certa apprensione per la prima liquidazione in loro favore con il nuovo sistema: timori giudicati infondati dal prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni, che il 3 maggio 1935 scrisse che le nuove tariffe avevano migliorato, sia pure di poco, le condizioni salariali delle maestranze26. Ci possiamo chiedere se ci furono veramente questi miglioramenti salariali. Ci vengono in aiuto due importanti documenti. Il primo, prodotto dal sindacato provinciale fascista dei lavoratori dell’industria, specifica che le tariffe concordate nel 1935 erano ispirate al desiderio di assicurare all’operaio laborioso e di normale capacità produttiva il guadagno della paga ad economia maggiorata del minimo di cottimo. Nelle paghe non furono però conteggiate le operazioni passive, ossia i “tempi persi” che pure venivano considerati nell’unità Bedeaux, procurando così un danno economico per i lavoratori27. Ciò è confermato da un importante promemoria prefettizio del giugno 1939, che rivela come la trasformazione del Bedeaux in cottimo normale e tale mancato conteggio comportarono una diminuzione di circa il 12% dei salari. Inoltre, più in generale, calcolando tutte le riduzioni e gli aumenti per le maestranze della Montecatini dal 1930 al 1939, emergeva un quadro impietoso, ovvero un abbassamento dei salari del 36-40%28.

All’inizio del 1936 la miniera di Niccioleta poteva contare su circa mille lavoratori ed era in pieno sviluppo. Produceva, infatti, quasi 17mila tonnellate di pirite al mese, con un rendimento medio a operaio maggiore rispetto alle miniere di Gavorrano e Boccheggiano, dove si producevano rispettivamente 24mila e 12mila tonnellate con 1.660 e 800 operai. La situazione produttiva era in continuo miglioramento per i prezzi di vendita molto più remunerativi (1,6-1,7 lire per unità zolfo rispetto alle 1-1,1 del 1935), ma paradossalmente la situazione salariale delle maestranze era sempre più preoccupante, poiché con i loro guadagni i minatori non erano in grado di garantirsi il minimo indispensabile per soddisfare i loro bisogni materiali, tanto che ogni mese centinaia di lavoratori si dimettevano dalle miniere di pirite della Montecatini per cercare fortuna altrove29.

Il 25 giugno 1936 il questore di Grosseto riferì al prefetto lo stato di disagio dei minatori della miniera di Niccioleta per gli scarsi guadagni e la loro richiesta di un nuovo contratto di lavoro, specificando che «la stessa questione si agita nelle altre miniere dipendenti dalla Montecatini. Si rende pertanto necessario e urgente un radicale provvedimento prima che abbiano a verificarsi incidenti»30. Lo stesso prefetto Palici di Suni un mese prima aveva avvertito i ministeri competenti, facendo presente che le paghe in tutte le miniere della Montecatini continuavano ad essere estremamente basse – con massimi che raramente superavano le 12 lire – ed esprimendo quindi la necessità di concedere almeno un ritocco parziale ad alcune categorie di lavoratori31.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2061)

Presso le confederazioni interessate si era aperta una vertenza per la revisione dei salari nella miniera della Niccioleta, che stava per essere deferita all’esame del ministero delle Corporazioni, poiché non era stato possibile raggiungere l’accordo sulla richiesta dei lavoratori di determinati salari base, oltre la maggiorazione di cottimo del 20%. Per il prefetto, più che insistere sulla determinazione sempre complessa e difficile dei salari base, sarebbe stato più utile estendere le tariffe di cottimo pieno in vigore nella miniera di Gavorrano alle altre miniere maremmane della Montecatini. Il 23 luglio 1936, presso il Ministero delle Corporazioni, fu stipulato l’accordo salariale integrativo per gli operai della miniera di Niccioleta (poi esteso a quella di Boccheggiano), che prevedeva a seconda delle categorie di lavoratori un aumento dal 7 al 20% sui salari fino al momento percepiti32. Per tutto il personale furono stipulate le paghe a economia e quelle con il 20% di cottimo. Le tariffe di cottimo dovevano essere fissate sul posto di lavoro nei primi cinque giorni del mese dal caposervizio in relazione alle condizioni fisiche e tecniche del lavoro. Fissati i prezzi, i capiservizio erano tenuti a rilasciare ai capicompagnia i biglietti contenenti le indicazioni delle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro ed i prezzi unitari, che dovevano essere sottoscritti dal capo compagnia. Erano previste inoltre maggiorazioni per le temperature nei cantieri interni, gli straordinari (20% in più per le prime due ore, 35% per le ore successive), i giorni festivi (50% in più della paga a economia) e le ore straordinarie notturne (60% in più della paga a economia)33.

La situazione però non migliorò e le controversie continuarono, soprattutto per quanto riguardava l’applicazione del minimo di cottimo, che la Montecatini intendeva riservare solo alle categorie di lavoratori sotto facile controllo e non, in caso di insufficiente produzione, ai singoli minatori che lavoravano «con una certa indipendenza a squadre nei sotterranei della miniera»34. Il prefetto cercò di convincere il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, a svolgere opera di persuasione presso le masse operaie per far loro comprendere l’equità degli accordi sottoscritti in sede ministeriale. Marino restò però fermo nelle sue posizioni, chiarendo che dopo l’entrata in vigore dell’accordo salariale per i minatori della Niccioleta e di Boccheggiano, ad un considerevole numero di minatori adibiti ai lavori a cottimo non era stata corrisposta la paga di 15,8 lire giornaliere indicata nel suddetto accordo35.

La questione in ballo era se al lavoratore a cottimo dovesse spettare in ogni caso, quindi indipendentemente dal risultato della lavorazione, la percentuale minima di maggiorazione oltre la paga base. Marino chiariva che la giurisprudenza era ormai concorde nel ritenere che la maggiorazione di cottimo spettasse indistintamente a tutti i cottimisti, portando a sostegno della sua tesi la sentenza del pretore di Massa Marittima del 12 dicembre 1936, che nella causa intentata dell’operaio della Niccioleta, Orlando Orioli, contro la Montecatini, aveva condannato quest’ultima a pagare la somma richiesta dal lavoratore (15,91 lire), più gli interessi e le spese del giudizio. Orioli, classe 1908, nato a Siena e residente a Massa Marittima, aveva citato la Montecatini innanzi al pretore di Massa Marittima per ottenere il pagamento di 15,8 lire a titolo di corresponsione della differenza fra il salario percepito nel mese di agosto 1936 (14,29 lire giornaliere) e quello che gli sarebbe spettato nella misura del minimo garantito per il lavoro a cottimo (paga base di 13,15 lire più il 20% di maggiorazione). La sentenza specificò che la quota di maggiorazione era dovuta a tutti i cottimisti e costituiva parte integrante del salario36. Marino confermava che il sistema di vigilanza attivo in miniera avrebbe impedito la mancanza di laboriosità, essendo previste inoltre le punizioni disciplinari e i demansionamenti degli operai. Quest’ultimi, a loro volta, erano sicuramente interessati a produrre per superare i minimi di paga. L’insufficienza produttiva non era quindi dovuta alla mancata laboriosità dei minatori ma ad un’errata fissazione dell’unità di cottimo o alle difficoltà verificatesi nel corso dei lavori, un fenomeno frequente causato dalla durezza della roccia, dal ritardato scoppio di una mina, dalla mancanza di legname e di armature o da altre imprevedibili circostanze37.

Una quarantina dei 250 minatori adibiti nei lavori a cottimo nella miniera della Niccioleta non percepivano il 20% di maggiorazione perché il minerale estratto non raggiungeva la quantità stabilita e la Montecatini non li considerava laboriosi e di normale capacità lavorativa, appellandosi all’articolo due del contratto provinciale di lavoro. Le compagnie erano formate da quattro o sei operai: solo in quelle che producevano il quantitativo di materiale stabilito la Montecatini corrispondeva la paga giornaliera di 15,8 lire stabilita dal contratto. La repressione di ogni atto di dissidenza all’interno della miniera era all’ordine del giorno. I carabinieri di Massa Marittima, venuti a sapere che fra la massa operaia di Niccioleta vi erano elementi «non laboriosi, che tentano di creare dissidi», svolsero accertamenti per identificare i presunti sobillatori, in realtà colpevoli solamente di richiedere il trattamento economico previsto dal contratto di lavoro. Il 13 gennaio 1937 fu identificato quale «autore principale di tale lagnanza«» l’operaio Gino Quintavalle, classe 1911, un reduce della guerra d’Etiopia, che si batteva affinché agli operai fosse corrisposta la paga prescritta dal contratto. Quintavalle fu licenziato per indisciplina ma il fascio locale non attribuì nessuna colpa alla Montecatini38. Perfino i carabinieri di Grosseto rivelarono però che serpeggiava il malcontento tra gli operai di Niccioleta anche per la severità e l’eccessivo autoritarismo dei dirigenti della miniera. Quest’ultimi avrebbero dovuto porre, quindi, una maggiore attenzione al riguardo, per evitare che questo di stato di cose, giudicato ancora non allarmante, si acuisse39.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2124)

Nel corso del 1937 continuarono le lamentele degli operai di Niccioleta sia per la totale inadeguatezza della paga minima giornaliera in relazione al costo della vita (il riferimento era soprattutto alle paghe giornaliere dei manovali, pari a 11,4 lire per i 225 manovali esterni e a 11,7 lire per i 191 interni), sia per lo sconsiderato rialzo dei prezzi degli spacci aziendali, che dopo l’aumento del 7% dei salari degli operai erano addirittura cresciuti del 20%. Il questore di Grosseto invitò, dunque, i carabinieri ad esercitare assidua vigilanza e a comunicare ogni emergenza riguardante l’ordine pubblico40. Il 15 gennaio 1938 entrò in vigore il contratto collettivo per la disciplina dei cottimi, che all’articolo due garantiva ai cottimisti il guadagno della paga ad economia più la maggiorazione del cottimo togliendo la condizione dell’”operaio laborioso e in normale capacità produttiva”, mentre all’articolo tre prevedeva che agli operai dovessero essere comunicate per iscritto e da subito le indicazioni del lavoro da eseguire e del compenso unitario corrispondente (tariffa di cottimo). La Montecatini, come rilevato dal sindacato fascista, non solo non assolse a tali doveri, ma aumentò considerevolmente il personale addetto alla sorveglianza degli stessi operai, al fine di ottenere da essi un aumento della produzione con mezzi coercitivi. «Pertanto gli operai che non riescono ad aumentare il proprio rendimento vengono, su indicazione degli stessi sorveglianti, chiamati in Direzione e diffidati di licenziamento. Gli operai temono fortemente che la Direzione miri a ottenere delle medie di rendimento assolutamente superiori alla loro normale capacità fisica, le quali non potrebbero essere mantenute, mentre potrebbero costituire dei precedenti di riferimento in caso di contestazioni o revisioni di tariffe di cottimo», scriveva il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, che segnalò tale fenomeno alla competente federazione nazionale di categoria e chiese all’Unione fascista degli industriali di Grosseto di rispettare sia l’articolo 19 del vigente contratto collettivo nazionale di lavoro per l’industria mineraria, sia l’articolo tre del contratto collettivo per la disciplina dei cottimi41.

L’ultima modifica contrattuale degli anni Trenta si ebbe con il contratto collettivo per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto, siglato a Roma il 27 gennaio 1939 ad integrazione di quello nazionale stipulato il 9 maggio 1937. Per i lavoratori delle singole miniere della Montecatini furono stabiliti dei minimi di paga ad economia per la giornata lavorativa di otto ore, con i guadagni di cottimo adeguati a tali minimi e maggiorati della percentuale di cottimo (20% per le miniere di Niccioleta e Boccheggiano)42. Altre controversie sorsero però in merito all’accordo interconfederale per gli aumenti del ventennale, sottoscritto il 20 marzo 1939, che doveva essere applicato nella misura del 10% su tutti gli elementi di retribuzione. La Montecatini, però, rivalendosi su un presunto onere derivato dal nuovo contratto, dispose l’aumento del solo 5%, suscitando ancora una volta il malumore degli operai. Quest’ultimi, temendo di non vedersi concessi gli aumenti disposti dal duce, manifestarono al sindacato fascista la forte volontà di trasferirsi in altre province per poter guadagnare di più. La vertenza, risolta il 19 giugno 1939 dopo ampio esame presso le competenti federazioni nazionali, stabilì l’aumento del solo 7% da applicarsi su tutti i guadagni a cottimo o ad economia degli operai interessati, a far data dal 31 marzo 1939. La Montecatini si impegnò a corrispondere gli arretrati nella misura differenziale del 2% entro il mese di luglio43. Anche tale transazione non segnò la fine dei problemi per i minatori delle miniere di Gavoranno, Ravi e Rigoloccio della Montecatini: dopo la modifica unilaterale delle tariffe di cottimo da parte della direzione delle miniere fu infatti aperta una nuova vertenza collettiva44.

I minatori di Niccioleta rimasero stretti, da una parte, dalle rigidità del corporativismo fascista, subalterno alle esigenze del mondo imprenditoriale e incapace di migliorare le sorti degli operai nonostante gli apparenti sforzi – e i ben più rilevanti limiti – del sindacato dei lavoratori dell’industria, ridotto generalmente all’impotenza; dall’altra, dal crescente autoritarismo della Montecatini, spalleggiata dalle autorità locali fasciste e votata in primis a tutelare i suoi profitti.

Dopo questa lunga disamina, riteniamo che la complessità delle condizioni socio-economiche dei minatori nel corso degli anni Trenta sia stato un fattore che abbia contribuito a creare fra di loro un clima di diffusa ostilità al regime, in un territorio, il massetano45, dove tra l’altro nel corso del tempo si erano compenetrate varie tradizioni: repubblicana ottocentesca (mazziniano-garibaldina), anarchico-libertaria, socialista e comunista.

«Nelle miniere di Boccheggiano e Niccioleta, in tutto il periodo del fascismo si manifestarono avversioni alla dittatura. Gli antifascisti intensificarono la loro lotta con il reclutare nuovi proseliti alla causa contro la dittatura mussoliniana, quando ancora non tutti avvertirono che l’aggressione fascista alla giovane repubblica di Spagna avrebbe messo in pericolo la pace nel mondo, si era negli anni 1936-1937. Ebbene, a Massa Marittima fin da questi anni operava un gruppo di ispirazione anarchico-libertario, facente capo a Giuseppe Gasperi, operaio della miniera di Niccioleta. Nel 1938, a Boccheggiano, per iniziativa di Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni, si costituì una sezione clandestina comunista»46.

Lo scrittore Luciano Bianciardi, autore insieme a Carlo Cassola del libro inchiesta “I minatori della Maremma”, confidò nella lettera all’editore in cui spiegava come era nato il volume, che «negli anni del fascismo furono proprio certi minatori di Niccioleta che mi parlarono, per la prima volta, di Gramsci, quegli stessi minatori che da me volevano sentir parlare di Croce»47.

Negli anni Trenta possiamo isolare alcuni episodi di manifesta opposizione al regime nella miniera di Niccioleta. L’11 luglio 1935 furono arrestati quattro operai originari dell’Amiata, più precisamente di Abbadia San Salvatore (SI), traferitisi nel territorio di Massa Marittima dopo la chiusura delle miniere di mercurio amiatine, che aveva comportato il licenziamento di molti operai. Erano stati accusati di aver cantato canti sovversivi come “Bandiera Rossa”, di essersi fatti fotografare con delle maglie rosse per mettere in evidenza le loro idee politiche (e perfino di aver litigato con il fotografo perché nell’immagine non si scorgeva bene il colore rosso), nonché di aver rivolto offese all’effigie del duce riprodotta sui giornali, sputandovi pure sopra. La data scelta per compiere questi “atti sovversivi” non era per nulla casuale e fa capire molto di più: si trattava infatti del 1° maggio, il giorno della festa del lavoro, abolita dal regime il 20 aprile del 1923, in favore della ben più autarchica e individualista festa del lavoro italiano, fissata il 21 aprile, in coincidenza con la fondazione (Natale) di Roma.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_7395)

I quattro giovani arrestati48 erano: Primo Vagnoli, classe 1901, comunista, dal 1935 domiciliato a Massa Marittima e minatore nella miniera di Niccioleta; Carlo Contorni, classe 1902, di fede comunista, che ad Abbadia San Salvatore non risultava avesse mai svolto propaganda o partecipato a manifestazioni sovversive; Mauro Capecchi, classe 1909, anche lui giunto alla miniera di Niccioleta nel 1935 dopo aver perso il posto di lavoro nelle miniere di mercurio dell’Amiata; Lorenzo Contorni, classe 1910, celibe, con due fratelli e tre sorelle, un minatore di idee comuniste privo di precedenti penali che ad Abbadia San Salvatore non aveva mai dato luogo a rilievi, trasferitosi a Massa Marittima nel 1935 per dare un sostegno alla famiglia. Il loro caso fu trattato dalla Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia, che nella seduta del 23 luglio 1935 condannò al confino i quattro giovani minatori – considerati un pericolo per l’ordine nazionale – assegnando pene differenti: un anno per Vagnoli, due per Capecchi e Contorni Carlo, tre per Contorni Lorenzo.

Quest’ultimo ebbe la condanna più pesante nonostante gli accertamenti eseguiti avessero escluso che potesse trovarsi a cantare “Bandiera Rossa” con i compagni la sera del primo maggio. I carabinieri reali della tenenza di Massa Marittima non escludevano però la sua partecipazione ad altre manifestazioni sovversive, riferendosi ad atti raccolti a suo tempo e dichiarando che i suoi ideali e comportamenti erano di dominio pubblico sia nel suo paese di nascita, sia nell’ambiente in cui lavorava. Tutto ciò bastò per la condanna a tre anni, a dimostrazione di quanto fosse sommaria l’amministrazione della giustizia nella dittatura fascista.

Lorenzo Contorni49 fu assegnato al confino di Ponza (LT), dove «tenne cattiva condotta, affiancando i comunisti più pericolosi e non dando prova di ravvedimento». Fu prosciolto il 10 marzo 1937 e munito di foglio di via obbligatorio per Siena. Neanche il confino placò però il suo antifascismo, visto che ottenne la qualifica di patriota per la sua attività svolta all’interno della III Brigata Garibaldi SAP di Campiglia (Livorno), dal marzo 1944 fino al 25 giugno dello stesso anno50.

Carlo Contorni51, invece, fu confinato a Ventotene (LT), mantenne sempre le sue idee e continuò a frequentare i comunisti della colonia, senza dar luogo a particolari rilievi. Trasferito a Fuscaldo (Cs) il 15 settembre 1936, fu dimesso dal confino il 10 luglio 1937 e tornò a svolgere il lavoro di minatore nella miniera di Sirai-Pozzo Tanas in Sardegna. Scontò due anni di confino a Ventotene pure Mauro Capecchi, che prese poi le armi nella lotta di Liberazione nel territorio amiatino. Fu infatti partigiano combattente dal 12 settembre 1943 al 20 luglio 1944 all’interno della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, dove ricoprì pure la carica di comandante del VII distaccamento (nome di battaglia “Faro”)52.

La pena minore toccò invece a Primo Vagnoli53, che fu tradotto a Palazzo San Gervasio (Mt) e dopo aver scontato un anno di confino andò a vivere nella provincia di Siena, dove era nato e aveva domicilio.

Almeno due dei quattro protagonisti di questo primo gesto eclatante di antifascismo all’interno della miniera di Niccioleta condividono un lungo percorso di opposizione al regime, sfociato nella lotta partigiana. La dura realtà di vita di miniera negli anni Trenta, non solo a livello lavorativo ma anche per la difesa delle proprie idee di libertà e giustizia, è ben restituita dallo stesso racconto di Mauro Capecchi.

«Il lavoro era duro è in mezzo a noi erano sempre presenti spie fasciste, ma anche operai che, in caso di necessità, si sarebbero prestati al gioco dei fascisti: gente debole, paurosa e soprattutto affamata. Iniziai a prendere contatto con i minatori. Loro esprimevano lamentele ed eravamo tutti d’accordo nell’attribuire al governo fascista la colpa dei mali che ci affliggevano. […] Come ho detto, la vita a Niccioleta era assai dura. Nelle pause di lavoro discutevamo e i nostri nuovi compagni recepivano con piacere i nostri rilievi contro i padroni e il fascismo. Mi ricordo che la domenica andavamo a Massa Marittima, dove si ritrovava la maggior parte degli operai; si faceva merenda e si beveva il vino, che era la medicina che faceva riprendere le energie a chi era costretto a fare un lavoro così pesante. Intanto ad Abbadia il fascio locale, a nostra insaputa, prendeva misure per controllarci: spesso a Niccioleta venivano operai che si spacciavano per minatori di altre miniere e che erano pronti ad unirsi alle critiche contro il fascismo, per poi riferire alla polizia quanto avevano sentito dire da noi»54.

Servivano dunque tanto coraggio, una coscienza vigile ed occhi accorti per fare un minimo di propaganda e mantenere almeno una piccola opposizione interna nei luoghi di lavoro, ora che il fascismo al potere aveva spazzato via ogni forma di libertà e compresso i diritti dei lavoratori all’interno dell’ideologia corporativa. Tutto era più complicato soprattutto negli anni Trenta, considerati periodo di massimo consenso al regime.

Eppure qualcosa in miniera continuava a muoversi ed ancor prima della guerra di Spagna, che segnò un periodo di ripresa per l’antifascismo. Perfino il capo servizio della miniera di Niccioleta, l’impiegato Corrado Rossetti, classe 1895, originario di Vercelli, finì nel mirino del regime per la sua attività considerata ostile. I fatti si riferiscono al febbraio 1935, quando l’ingegnere Mario Delfino, addetto alla miniera e fiduciario del fascio, venne a conoscenza che alcuni operai dipendenti dal capo servizio Rossetti non volevano aderire al versamento delle quote in favore dell’Ente opere assistenziali (EOA). La responsabilità ricadde sullo stesso Rossetti, accusato di non aver svolto adeguata attività propagandistica fra i lavoratori. Fu dunque sollecitato da Delfino ad adoperarsi affinché quest’ultimi comprendessero «l’alto fine sociale e umanitario delle suddette ritenute». Interrogato dai carabinieri, Rossetti dichiarò che avrebbe rifiutato tal compito, perché contrario a qualsiasi forma di collaborazione e dubbioso sul reale impiego delle trattenute. In generale, l’impiegato non iscritto al Partito nazionale fascista (Pnf) era descritto come individuo dal carattere impulsivo e contrario al regime, non ossequiente alle leggi e non ben visto sia dalla maggioranza della popolazione, sia dalle autorità politiche locali, che lo ritenevano capace di esplicare propaganda sovversiva. Pur risultando di buona condotta morale e privo di precedenti penali, Rossetti non partecipava mai alle cerimonie patriottiche del posto, né frequentava persone di sicura fede fascista. In relazione alla nota della Prefettura di Grosseto del 29 maggio 1935, fu diffidato ai sensi dell’articolo 174 del Testo Unico di Pubblica Scurezza dal prefetto di Trento, poiché dopo tale episodio era stato trasferito a Calceranica (TN), sempre alle dipendenze della Montecatini. Qui Rossetti fu adeguatamente vigilato e chiamato a desistere da tali atteggiamenti sconvenienti, pena provvedimenti di polizia di maggior rigore. In seguito, mantenne una buona condotta e fu radiato dal Casellario politico centrale il 19 novembre 193655. Quel che aveva dichiarato non può però passare inosservato: la mancata propaganda a favore delle opere assistenziali del regime, così come la mancata fiducia verso la reale destinazione dei fondi raccolti, testimoniano una consapevolezza abbastanza diffusa sui frequenti casi di peculato, corruzione, conflitto d’interessi, nepotismo e favoritismi vari che contraddistinguevano l’operato del partito fascista nelle province, compresa quella di Grosseto, provocando disservizi e un generale malcontento nella popolazione, oltre a un forte scetticismo sulla moralità dei personaggi pubblici in camicia nera56. D’altronde, per fare solo un esempio simile a quello di Niccioleta riguardante la provincia di Grosseto, sempre nel 1935, ad Arcidosso la sezione del fascio locale era talmente screditata a causa dei molti casi di malaffare, che gran parte dei cittadini del posto preferirono inviare le fedi direttamente al duce, senza alcuna mediazione del partito, in occasione della giornata della fede del 18 dicembre 1935, organizzata per consegnare l’oro alla patria dopo le sanzioni contro l’Italia a causa dell’invasione dell’Etiopia57.

Dalle fonti di polizia la miniera di Niccioleta risulta particolarmente temuta per l’ordine pubblico, tanto da esser costantemente vigilata. Il 15 settembre 1936 il Comando della tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima richiese l’allontanamento dai lavori della miniera dei fratelli Pizzetti (Bruno ed Elvezio), minatori comunisti, e di altri individui sovversivi tutti originari di Abbadia San Salvatore (Settimio Rosati, Corrado Forti, Temistocle Coppi e Giuseppe Pacchierini), «perché capaci di svolgere opera deleteria sul buon andamento del lavoro e di inculcare nell’animo dei compagni sentimenti antifascisti e contrari alle nostre istituzioni»58.

Il durissimo lavoro in miniera comportò anche un alto numeri di morti sul lavoro, a causa sia delle malattie professionali (in primis la silicosi), sia degli incidenti dovuti alle scarse condizioni di sicurezza. Negli anni Trenta 11 persone persero la vita nelle operazioni lavorative in miniera: tra questi vi fu Gino Cini, un ventinovenne minatore di Prata, che morì il 30 marzo 1938 a causa di una frana nel cantiere adiacente alla miniera, dove effettuava lavori nella galleria di scolo. I compagni decisero l’astensione dal lavoro fino al seppellimento della salma, rifiutandosi di obbedire ai voleri della Montecatini che reclamava la ripresa del lavoro per i turni di mezzanotte e commentando con risentimento la decisione della Società59.

Tre anni più tardi, i minatori della Niccioleta sempre provenienti dall’Amiata furono autori di un clamoroso gesto di ribellione verso le autorità fasciste, originato dalla volontà di celebrare l’antico rito farsesco del carnevale morto. Si tratta di una festa satirica e goliardica, ancora oggi celebrata durante il mercoledì delle ceneri soprattutto in alcune parti dell’Italia centro-meridionale, che decreta la fine del carnevale mettendo in scena «la denuncia sociale e il ribaltamento dei ruoli, in forma di parodia delle autorità costituite e di protesta ritualizzata». Attualmente il funerale del carnevale più noto è quello di Montuorio al Vomano (TE), le cui origini paiono risalire proprio agli anni Venti del Novecento, quando alcuni giovani universitari del posto che studiavano a Napoli recuperarono tale tradizione osservata in Campania come forma di opposizione al regime fascista, che provvide a proibirla nel giro di pochi anni. «A Reggello, nel Valdarno, a Marroneto, nel grossetano, ad Amalfi, nel golfo di Salerno, il Carnevale morto era o è incarnato da una persona scelta fra gli abitanti del paese, secondo un modello onnipresente nelle regioni centro-meridionali della Penisola»60.

Difficile non leggere la volontà di criticare il regime anche nella mascherata organizzata dai minatori di Niccioleta per l’ultimo giorno di carnevale, che fu vietata dal segretario del fascio di Massa Marittima, Francesco Casanova. Nonostante il permesso non concesso, il 1° marzo 1938, verso le ore 23, una quarantina di minatori – tra cui undici col viso dipinto di nero – iniziarono a circolare per il borgo minerario, trasportando in barella un compagno che rappresentava il carnevale moribondo. Verso mezzanotte la comitiva giunse dinanzi alla sede del Dopolavoro dove era in corso una festa da ballo: i minatori cercarono di forzare l’ingresso ma il segretario amministrativo del fascio che si trovava sulla porta, Umberto Bellini, cercò di respingerli prima di essere colpito con un pugno al viso dall’operaio Mario Ghilardi, che dette il via all’irruzione nel locale. Dopo esser stato informato su quanto stava succedendo, Casanova si recò sul posto e fu aggredito con alcuni pugni dagli operai, non riportando conseguenze e riuscendo infine a far uscire dal locale i minatori, grazie all’aiuto di Bellini e della guardia giurata della miniera, Luigi Torrini. L’intervento dei carabinieri di Massa Marittima condusse all’arresto di undici operai per violenza contro pubblico ufficiale, tra cui un comunista, due ex sovversivi, cinque apolitici, due giovani fascisti e un fascista.

Retro della scheda anagrafica di Duilio Rosati con la qualifica di Caduto per la lotta di Liberazione (Credits: Fondo Ricompart)

Tra gli arrestati cinque erano originari di Santa Fiora, ovvero i due giovani fascisti Mario e Raffaello Ghilardi, entrambi del 1915, oltre a: Giacomo Bani (cl.1883), il più anziano del gruppo che prima dell’avvento del fascismo professava idee socialiste; Luigi Vagaggini (cl.1906), con precedenti penali ma considerato di buona condotta politica; Armando Dondolini (cl.1913) e Guido Martellini (cl.1914), ambedue privi di precedenti e di buona condotta in genere. Provenivano da Castell’Azzara Flavio Testi (cl.1891) e Agostino Mastacchini (cl.1900), da Abbadia San Salvatore Flavio Paganini (cl.1909) e da Piancastagnaio Duilio Rosati (cl.1907), tutti fino al momento considerati di buona condotta politica61. Fu evidentemente subito rilasciato l’undicesimo componente della carnevalata, il comunista Corrado Fortini. Gli altri dieci, ad eccezione di Mario Ghilardi, furono messi in libertà provvisoria il 17 marzo 1938, circa un mese dopo l’accaduto. Tornarono dunque alla miniera di Niccioleta alle dipendenze della Montecatini mentre il processo era ancora in fase istruttoria. «Quando li liberarono – intervenne anche il Dottor Mori per chiedere la liberazione, perché erano bravi operai – rivennero a Niccioleta e c’era un posto chiamato Poggio della Madonna, un podere con grandi querci. E si ritrovarono tutti su – familiari, amici – e fecero una merenda. Cantavano…tanto è vero che quando tornai a casa chiesi cosa cantavano. Era un motivo, una canzone che non conoscevo, non sapevo. E ‘l mi’ babbo, dopo un pò di tempo mi disse che era ‘L’internazionale’. Però non si vide nessuno», la testimonianza di Stelio Olivelli, cugino di Guido Martellini62. Cinque degli undici giovani minatori che avevano sfidato il regime con quell’irriverente rito carnevalesco, ovvero lo stesso Martellini, Mario Ghilardi, Agostino Mastacchini, Flavio Paganini e Duilio Rosati, trovarono la morte a Castelnuovo Val Di Cecina il 14 giugno 1944, massacrati dai nazisti. I loro nomi risultano nel fondo Ricompart con la qualifica “caduti nella lotta di Liberazione”. Non erano, infatti, partigiani combattenti ma avevano presumibilmente preso parte ai turni di guardia per salvare la miniera (e quindi i loro posti di lavoro) dai possibili atti di devastazione da parte dell’esercito tedesco in ritirata. L’elenco con i nominativi di coloro che svolsero la vigilanza armata agli impianti della miniera fu recuperato dal reparto responsabile della strage, il III Polizei-Freiwillingen-Bataillon-Italien. Se la strage s’inserisce nella logica della “ritirata aggressiva tedesca” che mirava a far terra bruciata e a diffondere il terrore nella popolazione civile, il perché di questa ferocia sui minatori può esser spiegato con la loro «estraneità al fascismo che poi era diventata ostilità acclarata, duratura e quasi unanime nei suoi confronti e quindi nei confronti dei suoi alleati. Un’ostilità che […] trovava proprio nel paese il luogo ove coagularsi»63.

Il miglior ritratto dei minatori di Niccioleta rimasti vittime nella strage emerge dalle accalorate parole di Padre Ernesto Balducci, l’autore de “L’uomo planetario”, originario di Santa Fiora, che di tanti di quei lavoratori era stato amico d’infanzia e compagno di scuola.

«I miei compagni non ebbero modo né tempo di scrivere lettere. Ma non avrebbero saputo che cosa scrivere, dato che non sono morti per la patria, non sono morti per la libertà, sono morti perché hanno fatto, nel luogo di lavoro, quello che dovevano fare. La miniera era il loro inferno, dove morivano un po’ ogni giorno, ma era anche il pane delle loro famiglie. Era la morte e la vita, il luogo della loro servitù e della loro potenza virile. Gli impianti che volevano salvare erano del padrone, ma erano anche parte di loro, gli strumenti della loro fecondità. Morendo per salvarli ci hanno lasciato un messaggio che sarebbe toccato a noi tradurre in un nuovo diritto di proprietà. E invece i padroni si ripresero le miniere. Anzi, si ripresero l’Italia64.

 

 

NOTE:

1Sulla strage vedi: P. Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, Il Mulino, Bologna, 2001; K. Taddei (a cura di), Coro di voci sole. Nuove verità sull’eccidio degli 83 minatori della Niccioleta, Effigi, Arcidosso -Gr, 2017.

2Sulla storia della miniera vedi: R. Zipoli (a cura di), Niccioleta. Fotografie e memoria di una comunità mineraria, Biblioteca comunale “Gaetano Badii” di Massa Marittima, 2022. Per un’ampia e completa bibliografia su Niccioleta si rimanda allo stesso volume pp. 461-472. Il 3 dicembre 2023 a Niccioleta è stato inaugurato il percorso della memoria, un itinerario urbano pedonale che con l’ausilio di 14 pannelli ripercorre le tappe salienti della storia di questo villaggio minerario. Il progetto, realizzato dal Comune di Massa Marittima e dal Parco nazionale delle Colline Metallifere con il contributo della Regione Toscana e di Massa Marittima Multiservizi, ha ottenuto il patrocinio del Comitato provinciale Anpi “Norma Parenti” e dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).

3ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione situazione maestranze dipendenti della miniera di pirite ella Niccioleta della S.A. Montecatini (18/5/1936).

4Prima ancora della fase corporativa, il sindacalismo fascista in Maremma conobbe una sonora sconfitta con la destituzione di Luigi di Castri, il segretario provinciale dei sindacati fascisti che nell’estate 1924 guidò la mobilitazione dei minatori al fine di promuovere uno sciopero generale della categoria, per recuperare parte delle conquiste del Biennio rosso che erano state cancellate nel contratto del 1923. Di Castri sfidò la stessa Montecatini, che stava diventando uno dei maggiori sostegni del regime nell’ambito dell’economia nazionale. A fine 1924 fu deposto da ogni incarico, espulso dall’organizzazione e costretto a lasciare Grosseto. Successivamente, con la svolta totalitaria ed i patti di Palazzo Vidoni (2/10/1925), la Confederazione generale dell’industria e quella delle corporazioni fasciste si riconobbero reciprocamente quali unici rappresentati del capitale e del lavoro, abolendo le commissioni interne di fabbrica. Seguì la legge 3 aprile 1926 n. 563, che segnò la fine dei sindacati non fascisti, disciplinò giuridicamente i contratti di lavoro, istituì il ministero delle Corporazioni, creò la Magistratura del Lavoro per la risoluzione delle controversie ed abolì serrate e scioperi. Il 21 aprile 1927 fu emanata la Carta del Lavoro, il documento simbolo del corporativismo fascista. Sulla questione Di Castri vedi A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, in S. Campagna e A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2021, pp. 228-233.

5ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del sindaco di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (22/4/1926).

6ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del segretario provinciale dei sindacati fascisti Gino Finotello all’Unione industriale grossetana (16/9/1926).

7Le sorti di Gino Finotello, segretario dei sindacati fascisti della provincia di Grosseto dal maggio 1924 al maggio 1927, non furono migliori di quelle del suo predecessore Di Castri. In seguito ai forti contrasti con il segretario federale Ferdinando Pierazzi, denunciò le ingerenze della Federazione provinciale del Pnf sull’organizzazione interna e l’autonomia dei sindacati, chiese urgentemente l’invio di un ispettore confederale per porre termine al dissidio tra la Federazione provinciale del Pnf e l’Ufficio provinciale dei sindacati fascisti, difese il proprio operato e richiese il trasferimento in altra provincia (21/5/1927). Secondo Finotello, le gerarchie politiche premevano per affidare compiti sindacali di notevole importanza all’interno dell’Ufficio a uomini di cultura limitata e completamente digiuni di sindacalismo. In seguito, un passaggio fondamentale fu lo “sbloccamento” dei sindacati fascisti del 22 novembre 1928, che comportò lo scioglimento della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti con la conseguente costituzione delle Confederazioni autonome di categoria, privando di ulteriore forza contrattuale il sindacato, ormai ridotto al totale controllo governativo. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 498.

8ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 595. Lettera del podestà di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (30/8/1928).

9Le nuove tariffe salariali per i minatori della Montecatini ne “La Maremma” (8/12/1929).

10ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (5/10/1931).

11ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Tabelle salariali delle maestranze della miniera di Niccioleta della Società Montecatini dopo le riduzioni del 21%.

12ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria Solimeno Petri al segretario federale e al prefetto di Grosseto (27/10/1931).

13ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del ministero delle Corporazioni al prefetto di Grosseto (30/12/1931).

14ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Circolare del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima. Oggetto: situazione economica e politica a Massa Marittima (1/3/1932).

15ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Biglietto postale di stato urgente del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima (28/2/1932).

16ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Ordine del giorno della riunione del Direttorio federale del 2/4/1932, trasmesso al prefetto di Grosseto e al ministero delle Corporazioni (19/4/1932).

17ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Circolare del prefetto di Grosseto Giuseppe Celi ai ministeri delle Corporazioni, dell’Interno e delle Comunicazioni (15/6/1932).

18ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Telegramma del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima al prefetto di Grosseto (30/7/1932).

19ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Verbale della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932.

20ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 538. Rapporto mensile sulla situazione industriale della provincia, stilato dal commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, Solimeno Petri (27/12/1933).

21ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 634.

22«[…] Un ordinamento come quello fascista nel quale il capitale e il lavoro sono sullo stesso piede di uguaglianza dinanzi allo Stato, non può e non deve servire ad una Compagnia straniera a carattere commerciale, per fare i suoi interessi permettendo lo sfruttamento della nostra più grande ricchezza: l’uomo. […] I primi a fare la grande esperienza del nordico sistema di meccanizzazione umana sono stati proprio i forti minatori di Gavorrano e Boccheggiano non abituati certo né a cronometrare lo sforzo generoso delle proprie braccia, né a numerare le gocce del loro sudore. Istintiva e naturale è stata, sin dal primo momento, la loro avversione al Bedeaux […] Per la sua unilateralità il sistema stesso sfuggiva ad ogni controllo, ad ogni disciplina sindacale, ed i rappresentanti degli operai, nei loro tentativi di tutelare gli interessi dei lavoratori, sempre si trovavano di fronte agli ostacoli creati dalla sfuggente tortuosità del sistema. Così per due anni è stata la nostra provincia il campo di questa battaglia senza clamore, combattuta dalle forze sane della nuova economia nazionale contro la prepotente invadenza della tendenza esotica. […] Oggi l’intervento del Duce ha sciolto il nodo inestricabile ed ha aperto la strada maestra alla soluzione del problema. E la provincia di Grosseto […] terra che ha per primo promosso la crociata del diritto e della giustizia, esulta oggi che il grande gesto di giustizia è compiuto, ed al Duce magnifico rivolge il tributo di gratitudine e devota riconoscenza». Giustizia mussoliniana, ne “La Maremma” (17/11/1934).

23Collaborazione fascista in atto, ne “La Maremma” (2/2/1935).

24A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., pp. 234, 236.

25Dopo l’abolizione del Bedeaux: la stipulazione dell’accordo per le tariffe salariali degli operai della Montecatini, ne “La Maremma” (23/2/1935).

26«[…] Si sono così dimostrati pienamente infondati gli allarmi diffusi prima della liquidazione tra la massa operaia, e le diffidenze di questa verso l’organizzazione sindacale dei lavoratori, i cui dirigenti, centrali e periferici, hanno invece dimostrato in quest’occasione di saper tutelare gli interessi degli operai con avvedutezza ed energia». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645. Relazione mensile sulla situazione politica ed economica della provincia, inviata dal prefetto di Grosseto Francesco Palici Di Suni al Capo del Governo, ministro dell’Interno (3/5/1935).

27ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, all’Ispettorato corporativo, Circolo di Firenze (14/7/1939).

28ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Promemoria sulle applicazioni degli aumenti del ventennale alle maestranze minerarie della Società Montecatini della provincia di Grosseto (17/6/1939).

29ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione prefettizia sulla situazione delle maestranze dipendenti dalle miniere di pirite della Niccioleta della Società Montecatini (18/5/1936).

30ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del questore di Grosseto Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (25/6/1936).

31ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni al ministero delle Corporazioni e p.c. al ministero dell’Interno. Oggetto: miniera della Niccioleta, vertenze salariali (23/5/1936).

32ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del ministero delle Corporazioni, Direzione generale del lavoro, previdenza e assistenza, al prefetto di Grosseto. Oggetto: accordo integrativo salariale per gli operai della miniera di Niccioleta (24/7/1936).

33ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 640. Accordo integrativo salariale del contratto provinciale per le miniere della Provincia di Grosseto, da valere per gli operai dipendenti dalla Miniera di Niccioleta della Società Montecatini (23/7/1936).

34ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (12/9/1936).

35ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto (3/10/1936).

36 Il testo della sentenza chiariva che «[…] la quota di maggiorazione è dovuta a tutti i cottimisti e fa parte integrante del salario onde il datore di lavoro non può in nessun caso corrispondere al lavoratore una retribuzione inferiore a quella resultante dalla paga base e dalla percentuale minima di lavorazione. […] Il contratto di cottimo non è fatto per gli operai inferiori al tipo normale per laboriosità e capacità. La laboriosità e la normale capacità sono dunque qualità che devono sussistere in ogni operaio che viene adibito al lavoro a cottimo. La dichiarazione XIV della Carta del Lavoro prescrive dunque che il lavoratore a cottimo di normale laboriosità e capacità deve conseguire un minimo di guadagno oltre la paga base; dal che può desumersi che essendo i lavoratori adibiti al cottimo tutti presumibilmente forniti delle supradette qualità, tutti gli operai che lavorano a cottimo devono conseguire quel minimo di retribuzione che è costituito dalla paga base più la maggiorazione di cottimo». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666.

37ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto. Oggetto: garanzia minimi di cottimo operai miniera Boccheggiano-Niccioleta (12/1/1937).

38ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: paghe degli operai della miniera di Niccioleta (29/1/1937).

39ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: malcontento negli operai addetti alla miniera Niccioleta della S.A. “Montecatini” di Massa Marittima (23/4/1937).

40ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis.

41ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 688. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, al prefetto di Grosseto (31/1/1938).

42ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 709. Contratto collettivo integrativo a quello nazionale per l’industria mineraria, da valere per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto (27/1/1939).

43 ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703.

44 La modifica consisteva nell’includere nelle voci di cottimo già esistenti delle nuove operazioni (ad esempio la colmata di carrello, lo spostamento di carrello ecc.) precedentemente pagate a parte. In pratica, mentre prima l’arrivo del carrello carico di minerale alla bocca del fosso comprendeva numerose operazioni separatamente retribuite, con il nuovo metodo la Montecatini mirava a retribuire le squadre operaie complessivamente per ogni carrello giunto alla bocca del fosso. Si cercava quindi di ottenere dagli operai un maggior rendimento con la stessa retribuzione. I lavoratori furono invitati a squadre per accettare i nuovi prezzi di cottimo: chi rifiutò di accettare tali condizioni senza aver prima consultato l’organizzazione sindacale competente fu passato al sistema di retribuzione a economia, con una riduzione di guadagno del 10% e l’ammonizione di severi provvedimenti disciplinari in caso di un calo di rendimento. Il sistema in pratica eludeva l’articolo due del contratto nazionale sulla disciplina del lavoro a cottimo, permettendo di non aumentare le tariffe insufficienti. Il malcontento tra gli operai crebbe, mentre la Montecatini, spalleggiata dall’Unione degli industriali, accusava di demagogia gli esponenti dei sindacati. I carabinieri di Grosseto riferirono che l’influenza della Montecatini era tale che gli stessi ambienti locali avrebbero preferito soffocare la tesi dei sindacati pur di conservare la benevolenza della Società. La situazione era definita preoccupante per ragioni economiche, di equità e per il mantenimento dell’ordine pubblico. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del Comando del gruppo carabinieri reali di Grosseto al prefetto di Grosseto (20/5/1939).

45Al Comune di Massa Marittima è stata attribuita la medaglia d’argento al Valor Militare per il suo contributo alla lotta di Liberazione. Nella motivazione è stata citata anche la difesa degli impianti minerari di Niccioleta.

46M. Tanzini, “Sui martiri di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici, culturali e ambientali per Santa Fiora“, anno IX, Effigi, Arcidosso, 2004. Su Giuseppe Gasperi vedi: www.bfscollezionidigitali.org/entita/13539-gasperi-giuseppe. Sulla cellula comunista di Boccheggiano vedi: R. Zago, O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano, in “Toscana Novecento” (www.toscananovecento.it).

47L. Bianciardi, C. Cassola, “I minatori della Maremma“, Laterza, Bari, 1956 (ultima edizione Minimum Fax, Roma, 2019).

48ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645, relazioni sulla situazione politica della provincia inviate dal questore Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (30/7/1935 e 31/7/1935).

49ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 422, f. Contorni Lorenzo.

50https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1c42b689817c8bac296

51ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 449, f. Contorni Carlo.

52https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1852b689817c8bab62e

53ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 471, f. Vagnoli Primo.

54F. Avanzati, Gente e fatti dell’Amiata. Abbadia S. Salvatore fra storia, mito e memoria 1900-1937, La Pietra, Milano, 1989, pp. 220-221.

55ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 466, f. Rossetti Corrado.

56 P. Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura, Carocci, Roma, 2015; M. Grilli, Il governo della città e della provincia, in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2018.

57Per la situazione politico-amministrativa di Arcidosso vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 628; ACS, MI, DGAC, Podestà e consulte municipali, b. 168, f. 1007, s.f. 1, Arcidosso.

58ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 518.

59ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519. Per le statistiche sui morti sul lavoro nella miniera di Niccioleta vedi: S. Polvani, Miniere e minatori. Il lavoro, le lotte, l’impresa, Leopoldo II, Follonica -Gr, 2002, pp. 40-41.

60www.gransassolagaich.it/riti-e-pratiche-sociali/allegro-funerale/

61Tutta la documentazione su questo episodio in: ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519.

62L. Niccolai, Resistenza e guerra di Liberazione sul Monte Amiata (ottobre 1943-giugno1944), in AA.VV., Miniere e società, Giornate di Studio. Dal “memoriale unico” del 1919 alla strage di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici culturali e ambientali per Santa Fiora”, anno IX, Effigi, Arcidosso -Gr, 2004, pp. 67.

63A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., p. 265.

64E. Balducci, Quei miei compagni di scuola diventati minatori e fucilati, ne “L’Unita”, (20/6/1984).




O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano

Nell’estate del 1938, pochi giorni dopo l’annuncio del censimento degli ebrei — preludio all’emanazione di una speciale normativa[1] che avrebbe reso evidente la natura razzista e antisemita insita nell’ideologia fascista sin dalle origini — nel piccolo borgo minerario di Boccheggiano, situato nella Maremma grossetana, venne fondata una cellula clandestina comunista[2]. L’obiettivo era ridare impulso alla lotta per l’emancipazione, la libertà e la solidarietà, ideali conosciuti prima del fascismo ma da anni soffocati e silenziati. Infatti, con le “leggi fascistissime”, emanate tra il 1925 e il 1926[3], ogni forma di opposizione fu repressa tanto che «alla fine del 1926 tutti i partiti, tranne il Pnf, furono messi praticamente fuori legge, mentre, per iniziativa del segretario del Pnf, la Camera dichiarò decaduti i deputati dell’opposizione “aventiniana” e del Partito comunista (9 novembre)»[4]. Negli anni ’30, persino le attività clandestine divennero impossibili a causa dell’inasprimento del controllo totalitario, attuato attraverso la repressione della polizia tradizionale e dell’OVRA, l’Opera Vigilanza Repressione Antifascismo, che operava sia entro i confini italiani sia all’estero, con l’obiettivo di spezzare ogni possibile legame tra gli antifascisti. È in questo scenario di violenza e censura che alle 15:30 dell’8 agosto 1938 Anuello Lorenzoni, Altero Lorenzoni, Bruno Traditi, Ideale Tognoni, Eraldo Periccioli e Bandino Pimpinelli[5] decisero di costituire la cellula clandestina di Boccheggiano. Erano quasi tutti minatori, ad eccezione di Anuello, che lavorava come falegname, e di Altero, muratore.

In un’intervista collettiva rivolta ad Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni fu proprio quest’ultimo a specificare l’importanza della cellula comunista già nel 1938: «Ebbene, anche se non riuscì a prendere contatti con l’esterno, si riuscì invece a organizzare e a tenere viva la lotta nelle miniere anche sotto il regime fascista; si riuscì soprattutto a far sì che tutta la zona circostante Boccheggiano si avesse dalla nostra parte anche chi non combatteva apertamente.»[6]

Peraltro, non stupisce che sia proprio in un contesto minerario a sorgere la cellula clandestina comunista. Già nel 1919 il Partito Socialista aveva conquistato l’egemonia tra i minatori[7] ottenendo importanti risultati grazie alla stretta collaborazione tra forze politiche e organizzazioni sindacali[8], come l’introduzione di minimi salariali e la regolamentazione delle tariffe a cottimo[9]. Tale forza, tuttavia, era già segnata da una frammentazione interna che avrebbe portato alla scissione del 1921 e alla nascita del Partito Comunista d’Italia, cui aderirono principalmente le nuove leve della Federazione Giovanile e della Camera del Lavoro, affascinati dalle spinte rivoluzionarie[10].

Montieri, di cui Boccheggiano era importante frazione anche dal punto di vista della forza politica dei minatori, oltre ad essere stato il primo Comune socialista della provincia, fu l’ultimo a soccombere alle sistematiche azioni punitive[11] dello squadrismo dei fascisti, che avevano creato una propria roccaforte a Gerfalco da cui partivano per compiere le loro violenze[12].

All’alba della marcia su Roma il movimento operaio e socialista della provincia di Grosseto era stato sostanzialmente soffocato: nessuna organizzazione, nessun organo di stampa, nessuna sede per le riunioni, nessuna lotta contro il padronato delle Società minerarie della Montecatini e della Ravi-Marchi era possibile. Questa repressione si intensificò ulteriormente con il connubio tra fascismo e industria che trovò la consacrazione nel Patto di Palazzo Vidoni nell’ottobre del 1925[13].

La soppressione delle organizzazioni politiche e sindacali sancita dalle leggi fascistissime[14] portò progressivamente a un generale peggioramento delle condizioni di lavoro dei minatori e, in particolare, ad una significativa contrazione del salario operaio[15], fenomeno che si aggravò ulteriormente con la Grande Depressione. Durante questo periodo, la produzione della lignite calò drasticamente e solo alla fine degli anni ’30, in concomitanza con la politica autarchica e l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, i livelli della produzione e il numero degli operai impiegati nelle miniere tornarono ai livelli del primo dopoguerra[16]. Meno accentuato fu, invece, l’impatto della crisi sull’estrazione della pirite che, anzi, grazie al suo impiego nell’industria chimica, conobbe un importante potenziamento[17].

Tutto ciò contribuisce a spiegare l’esistenza, fin dalle origini del regime fascista, «di forme, spesso spontanee e contraddittorie, ma tuttavia assai vivaci, di resistenza all’azione di snaturamento delle tradizioni di classe attuata dal fascismo e di difesa dell’identità sociale e ‘culturale’ dei minatori»[18].

Anche l’isolamento geografico dei luoghi[19] – borghi e villaggi appositamente sorti negli anni ’30 – favoriva sia un capillare controllo da parte della Società mineraria e degli organi del regime fascista, sia una certa atomizzazione della lotta operaia. Allo stesso tempo, però, tale isolamento teneva vivo un sentimento di appartenenza e di emancipazione che, pur latente, talvolta si manifestava nell’antifascismo spontaneo, fino a tradursi in forme più collettive. Un esempio significativo è l’episodio che nel 1930 vide protagonista Ideale Tognoni, futuro fondatore della cellula clandestina e figlio di un militante e dirigente del PSI già vittima di attacchi, arresti e perquisizioni per mano fascista: non ancora maggiorenne, venne arrestato e imprigionato per un mese con l’accusa di aver disegnato la falce e il martello sui carrelli della miniera[20]. Inoltre, all’inizio del ‘32 i minatori di Montieri e Boccheggiano chiesero di non risultare più iscritti al sindacato fascista, criticando la sua inadeguatezza nel difendere i diritti dei lavoratori, e immediatamente furono imitati dai minatori di Prata e Roccatederighi che lavoravano con loro. Da Boccheggiano la protesta si estese a Niccioleta, dove il conflitto trovò espressione anche all’interno del villaggio[21], in quel quartiere operaio che la Montecatini aveva volutamente costruito come sobborgo ghettizzato.

Contro ogni soffio di rivendicazione si alzava la repressione della Società mineraria e del suo alleato fascista: la battaglia più aspra fu condotta contro il metodo Bedeaux[22] che sfruttava la forza-lavoro operaia. I minatori reagirono con azioni di propaganda cui la Montecatini rispose chiamando un battaglione della Milizia per piantonare la miniera giorno e notte[23] e avviando licenziamenti. Il conflitto culminò il 3 settembre 1933 quando un corteo di operai si diresse verso l’ufficio del direttore della miniera di Boccheggiano per protestare contro le riduzioni salariali: lo scontro finì con la distruzione dei mobili negli uffici[24]. La Montecatini ebbe però la meglio, con il supporto della Milizia. Seguì poi la minaccia di inviare gli operai nella guerra in Africa se non avessero “rigato dritto” mentre quasi tutte le domeniche gli squadristi arrivavano nel borgo minerario, dove si facevano consegnare degli elenchi dai fascisti locali per proseguire le violenze nelle case degli oppositori[25]. Ogni giorno, all’uscita della miniera, i fascisti ricordavano ai minatori chi comandasse, non solo perché erano «comunisti, ma anche e soprattutto perché…operai».[26]

Questo fu il clima in cui, ai primi di agosto del 1938, sorse la cellula clandestina comunista, quasi segnando un nuovo corso nel contingente della lotta antifascista che, fino a quel momento, si era svolta nelle gallerie della miniera, resistendo all’annichilimento voluto dal regime. Rispetto alla prima fase di attività della cellula, l’azione si concentrò principalmente sulla propaganda, vista come l’unico mezzo per rimpolpare le fila, un compito estremamente difficile ma che doveva essere tentato.

La prima riunione della cellula, tenutasi il 22 agosto[27] 1938, stabilì il nome che avrebbe dovuto avere: Organizzazione Comunista Rivoluzionaria. Si decise, tuttavia, di abbreviare il nome in “O-3-R”, da utilizzare anche nei registri, per evitare che il richiamo esplicito al comunismo potesse attirare l’attenzione o provocare rappresaglie dei fascisti. La cellula assunse un nome emblematico che da un lato richiamava il legame con il Partito Comunista (un legame più teorico che pratico, almeno in questa fase), ma dall’altro si connotava in modo autonomo, come segno di emancipazione e di lotta. La scelta del numero “3” potrebbe coincidere con la posizione della lettera ‘C’ nell’alfabeto oppure evocare la Terza Internazionale, l’organizzazione fondata nel 1919 sotto la guida del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, con il compito di coordinare i partiti comunisti a livello mondiale per diffondere la rivoluzione socialista. Così Ideale Tognoni descriveva le origini della cellula, sottolineando come la spinta rivoluzionaria che portò alla sua costituzione fosse il frutto dell’influenza politica trasmessa fin dall’infanzia dai loro padri, di fede socialista, e fortemente segnata dagli eventi del 1917: «ci ha permesso di ricostituire una sezione comunista in pieno regime fascista, chiaro segno questo che l’insegnamento e l’esempio dei nostri vecchi aveva dato i suoi frutti»[28].

Fondazione della cellula

Una delle caratteristiche che emerge immediatamente dai primi verbali delle adunate è la ritualizzazione interna, frutto di quel processo di mitizzazione nei confronti del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, rappresentato in particolare dalla figura del suo segretario Stalin. Già alla prima riunione, infatti, venne stabilita la formula del giuramento per le nuove adesioni, nonché la necessità di dotarsi di regolamenti e di norme disciplinari, definendo subito gli obiettivi perseguiti dai fondatori: cercare di inserirsi tra le fila fasciste «per sabotare e scrutare» ovvero «collaborare materialmente e politicamente a contatto con la nostra classe operaia e attirare a sua volta gli elementi abili alla nostra propaganda ed al nostro Ideale»[29]. Soprattutto nella fase iniziale, infatti, la funzione della cellula fu principalmente quella di tenere insieme gli stessi ideali, offrire un barlume di speranza nella condivisione di una società diversa e far sentire vicini coloro che quotidianamente erano sotto minaccia di violenze.

La capacità organizzativa, in termini di forza, di idee e di supporto economico, fu al centro della seconda adunata che si tenne il 1° settembre. In quell’occasione venne stabilito per ciascun associato il versamento di una quota mensile di 2 lire, una cifra sostanzialmente simbolica che poteva essere garantita da tutti, ma che al contempo rappresentava un segnale di appartenenza e di supporto. Per la prima volta fu approvato il giuramento e Anuello Lorenzoni fu eletto capo della cellula, ruolo che ricoprirà per tutto il periodo della clandestinità. Per garantire la segretezza e tutelare gli iscritti – ispirandosi più a pratiche massoniche[30], la cui tradizione era ben radicata nelle Colline maremmane, che a organizzazioni clandestine internazionaliste – si decise di chiamare i compagni non per nome, ma utilizzando numeri progressivi, in ordine di iscrizione.

Nell’adunata successiva del 10 ottobre, dopo averne discusso negli incontri precedenti, venne letto e approvato il programma, al motto marxista “Proletari di tutti i paesi: unitevi!”. Il programma prevedeva un’organizzazione basata su cellule, ponendo come primo obiettivo la propaganda, rivolta soprattutto ai giovani che meno di altri avevano conosciuto la possibilità di una libertà di pensiero e il pluralismo dei partiti, ormai relegati alla clandestinità all’estero dalle leggi fascistissime. La finalità dell’azione propagandistica era esplicitamente dichiarata: abbattere il governo fascista, in tutti i modi[31], e dar vita ad un nuovo governo.

L’influenza delle idee comuniste – più per evocazione del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e della teoria rivoluzionaria di Lenin che per effettiva militanza pregressa tra le fila del PCd’I – si riflette nel programma: tra gli obiettivi, la cellula si prefiggeva la lotta per l’abbattimento del capitale individuale, un lavoro al servizio di tutti, la socializzazione delle terre, il diritto di eleggere i propri rappresentanti[32], una parità di diritti tra uomo e donna, un connubio uomo-scienza che richiamava il progresso del modo di produzione. Dalla lettura del programma si percepisce un ‘socialismo umanitario’[33], caratterizzato da un profondo senso di solidarietà e dalla volontà di costruire una società più uguale e giusta, nella speranza di riuscire ad abbattere la barriera che separa l’uomo dall’uomo, contro quell’egoistico individualismo finalizzato solo al soddisfacimento dei propri interessi. Se pensiamo agli abusi, alle violenze, alle torture che la popolazione aveva conosciuto già con lo squadrismo del movimento fascista delle origini, questo desiderio di solidarietà e rispetto risulta quanto mai vivo e sentito. Tale pensiero si riflette nell’ultimo punto del programma: «Vogliamo infine essere uomini e non più Massa bruta», un’espressione che invitava a superare la condizione di passività e ignoranza, per sviluppare una coscienza di classe e diventare protagonisti consapevoli della propria storia.

L’impronta comunista della cellula fu riportata anche nel timbro che uno dei nuovi iscritti, Bosco Brachini, fabbricò nell’officina della miniera: qui incise lo stampo che però risultò con la falce e il martello rovesciati, forse per la sua giovane età che gli impediva di ricordare correttamente il simbolo del partito ormai da tempo vietato o perché non tenne conto del fatto che il timbro avrebbe riprodotto l’immagine specchiata.[34]

Per quanto riguarda le disposizioni disciplinari, oltre alla puntualità nelle adunate – proprio per evitare il rischio di essere scoperti –, ogni affiliato avrebbe dovuto prestare giuramento e obbedire agli ordini. In caso contrario, una Commissione avrebbe giudicato il suo operato e il tradimento delle disposizioni avrebbe comportato la condanna a morte. Da un punto di vista morale – perché la cellula non regolava solo la vita politica – all’iscritto era vietato l’abuso di alcol e il gioco.

Ogni iscritto doveva salutare, all’inizio e alla fine di ogni adunata, con il braccio alzato e il pugno chiuso: un gesto che diventava un segno di condivisione e appartenenza acquisendo un significato ancora più profondo nel contesto di paura, violenza e individualismo che caratterizzava quei tempi.

Nel giro di poche settimane il numero degli iscritti e le richieste di adesione aumentarono significativamente, facendo presagire una ventata di speranza, in nome di una lotta collettiva che avrebbe liberato un intero Paese dal giogo fascista. Si rese necessario creare due cellule per consentire l’organizzazione e la clandestinità, ciascuna delle quali dotata di un capo e di un gruppo per l’esecuzione dei compiti[35]. Da quel momento in poi, l’O-3-R avrebbe vissuto fasi alterne di adesioni, con l’obiettivo primario di garantire l’incolumità e la segretezza degli iscritti e delle attività, obiettivi che un numero eccessivo e non controllato non avrebbe potuto garantire.

Il giuramento dei membri della cellula

Il crescente contingente di affiliati richiedeva inevitabilmente un luogo più sicuro per le adunate[36], che dal nuovo anno si svolgevano con cadenza mensile. Così, il 15 febbraio 1939 il capo della prima cellula, Bandino Pimpinelli, con i compagni Altero Lorenzoni e Ideale Tognoni vennero incaricati di andare alla ricerca di un posto sicuro. La stessa sera il luogo fu individuato: era un rifugio situato poco sotto il centro di Boccheggiano, tra gli alberi di castagno tipici delle Cornate, un cunicolo all’interno di una grotta, una vecchia galleria che collegava la miniera e che ora avrebbe permesso di raccogliere in sicurezza tutti i partecipanti alle riunioni clandestine. Era un luogo perfetto, che però necessitava di alcuni lavori per renderlo idoneo all’organizzazione: due sere dopo, a buio inoltrato, tutti i componenti della prima cellula si ritrovarono con «picconi, pale, puntelli, bacchi, ascia, [e] fu così iniziato il lavoro di disgaggio, armamento e porta»[37].

Il 30 marzo il rifugio fu inaugurato con l’adunata di entrambe le cellule: la prima cellula decise che quella vecchia galleria, da quel momento, avrebbe preso il nome di “Rifugio Stalin”, un ulteriore omaggio ideologico alla patria della rivoluzione. Per festeggiare quel luogo condiviso di lotta e ideali, gli iscritti quella sera brindarono con due fiaschi di vino.[38]

Una volta trovato un luogo sicuro per le riunioni, l’attenzione si poteva completamente concentrare sull’opposizione politica. Dai verbali di agosto emerge chiaramente che il primo obiettivo fosse quello di reperire armi automatiche, per garantire la sicurezza e prepararsi allo scontro con l’oppressore fascista. Tuttavia, ad un certo punto, si verificò un evento che sconvolse i comunisti del borgo minerario: la Germania stava varcando “furibonda”[39] le frontiere e pertanto l’O-3-R ordinò di cessare ogni attività di propaganda politica al fine di «iniziare subito il sabotaggio nelle fabbriche, nelle miniere e nelle officine e dove si costruisca per la guerra»[40]. La notizia venne commentata a poche settimane dall’occupazione tedesca della Polonia – al pretesto di “Morire per Danzica” – alla quale, lo stesso 1° settembre, Francia e Gran Bretagna avevano risposto con la dichiarazione di guerra, mentre l’URSS avanzava da Oriente, forte del Patto Molotov-Ribbentrop, firmato il 23 agosto proprio con la Germania, che sanciva la non aggressione tra i due Paesi. Lo scenario che si stava delineando sembrava chiaro anche ai comunisti della cellula clandestina: l’aggressione tedesca ai danni della Polonia non poteva che destare preoccupazione e paura[41], nonostante Mussolini, già il giorno dell’invasione, avesse proclamato la non belligeranza dell’Italia in accordo con Hitler, appellandosi al carattere difensivo del Patto d’Acciaio del 22 maggio 1939. Tuttavia, per quanto tempo avrebbe potuto reggere questa posizione di neutralità? Quale tipo di supporto sarebbe stato richiesto all’alleato fascista? L’Italia, assolutamente impreparata sia dal punto di vista bellico che industriale, era comunque destinata ad entrare nel conflitto.

Lo scoppio della guerra aveva determinato, anche a livello nazionale, la conversione delle fabbriche per soddisfare le crescenti esigenze belliche, con la produzione di armi, munizioni e mezzi per l’esercito. L’azione di sabotaggio assumeva quindi una duplice valenza: da un lato rappresentava una manifestazione politica di opposizione all’iniziativa militare, dall’altro costituiva una rivendicazione sindacale e civile contro le sempre più drammatiche condizioni di lavoro. È necessario precisare, comunque, che probabilmente tali azioni consistevano più in piccoli atti per rallentare i lavori che in vere e proprie opere di sabotaggio, di cui non risultano testimonianze.

Lo scoppio della guerra non poteva non avere ripercussioni sulla vita della cellula comunista: mentre alimentava il desiderio di intensificare lo scontro con il regime fascista, imponeva un’attenzione ancora più alta verso le nuove richieste di adesione all’O-3-R. La principale preoccupazione riguardava il coinvolgimento dei più giovani: se senza dubbio erano accolti favorevolmente l’entusiasmo e l’energia delle nuove generazioni che chiedevano di partecipare, al contempo, si temeva l’infiltrazione o la scarsa preparazione politica dei nuovi membri. La sincera lealtà alla causa rivoluzionaria era garantita dal giuramento liturgico pronunciato dai nuovi e giovani iscritti: si arrivò così alla nascita dell’O-Giovanile-R[42], affidata alla guida di Ideale Tognoni.

Nel frattempo, il conflitto militare procedeva nella forma della drôle de guerre: la Germania, con una grande velocità grazie alle sue divisioni corazzate[43], aveva occupato Polonia, Danimarca e Norvegia mentre Francia e Inghilterra non avevano sparato ancora un colpo. Man mano che passavano le settimane, anche sul fronte interno cresceva la tensione: l’esigenza di controllo sul territorio, per evitare ogni passo falso e soprattutto ogni ripresa delle forze di opposizione, portò infatti il regime a rafforzare le misure repressive, anche nelle zone più isolate. È con questo intento che nella notte del 25 aprile 1940[44] il borgo minerario di Boccheggiano venne quasi completamente accerchiato dalle spie fasciste, spingendo Anuello Lorenzoni a ordinare riunioni bimestrali e a sospendere le nuove iscrizioni, per evitare rischi di infiltrazioni o arresti. Questo stato di cose perdurò per tutta l’estate: Mussolini, sicuro di salire sul carro del vincitore, il 10 giugno aveva oramai dichiarato guerra attaccando i francesi sulle Alpi, ma già dai primi scontri emerse l’inadeguatezza dell’esercito italiano, mentre la Germania continuava imperterrita a occupare Olanda, Belgio fino alla capitolazione della Francia. Anche a Boccheggiano l’atmosfera che si respirava era pesante e, proprio per non destare sospetti, fu deciso di trasformare gli incontri tra i compagni in occasioni di convivialità, come poteva essere una merenda sotto i castagni.

Tuttavia, mentre si cercava di prestare la massima attenzione per evitare ogni rischio di scoperta, la cellula valutò che i tempi fossero maturi per organizzare l’azione politica tanto attesa: fu pertanto eseguito il censimento delle armi acquistate nel ’39, verificandone la funzionalità e lo stato di conservazione, annotando chi le detenesse. L’inventario rivelò la presenza di una rivoltella automatica e due rivoltelle a tamburo. L’O-3-R sembrava operare su due fronti distinti ma complementari: da un lato, rafforzava la propria organizzazione in vista di un possibile ritorno di quella ‘guerra civile’ vissuta nei primi anni dello squadrismo, dall’altro proseguiva convintamente l’attività di propaganda, che ora si faceva più che mai cruciale per attrarre fidati proseliti, pur restando instancabilmente ma necessariamente nell’ombra[45]. Per queste ragioni, le adunate tornarono ad avere una cadenza mensile e nell’aprile del ’41 si unì una terza cellula composta da compagni più maturi.

Le notizie dal fronte concorrevano ad indebolire sempre più l’immagine di Mussolini e del suo regime, così come le ragioni dell’entrata in guerra: la disfatta della flotta italiana per mano inglese, la resa in Africa di 20.000 soldati italiani, con l’abbandono di 100 carri armati nelle mani di appena 3.000 britannici, le numerose disfatte in terra greca che richiesero l’intervento dell’alleato tedesco.

Elenco dei membri della cellula

Con il costante aumento dei fallimenti dell’esercito fascista, che riflettevano un regime sempre più in crisi, cresceva il bisogno di condividere ideali di libertà e di lotta, espressi ancora una volta attraverso la simbologia politica. Con questo intento, durante l’adunata del 1° maggio 1941 – data simbolo di solidarietà e fratellanza operaia – venne mostrato il vessillo ufficiale dell’O-3-R: una bandiera rossa, ricamata a mano da Miranda Marzolini, moglie di Ideale e l’unica donna a conoscenza della cellula clandestina. La bandiera fu realizzata anche grazie al contributo dei fratelli Ideale e Mauro Tognoni, rinominati adesso rispettivamente alfiere e scorta d’onore. Su quella bandiera rossa spiccava la scritta: “Partito Comunista di Boccheggiano”[46].

All’inizio dell’estate del ’41, ad un anno esatto dall’entrata dell’Italia in guerra, il clima a Boccheggiano si presentava ancora più teso e carico di preoccupazioni, ma a differenza del passato, quando la cellula era arrivata a sospendere le iscrizioni e a rallentare le adunate, adesso l’azione sembrava proseguire: lo stesso Lorenzoni, in qualità di capo, esortava a mantenere viva la propaganda in un paese ormai «assediato dai malfattori, che vigilano oggi più di ieri, per vedere se riescono a toglierci fra le sue ormai minate file impossibilitate di vincere e di abbatterci.»[47]

Dai verbali si ha l’impressione che l’attività clandestina riuscisse a portare nel Rifugio Stalin organi di informazione che diventavano un momento di lettura collettiva e confronto sugli accadimenti. L’unione e il senso di appartenenza si rafforzavano anche grazie a questo, in un contesto in cui il livello di alfabetizzazione era limitato rendendo difficile per molti l’accesso alle informazioni e la comprensione degli eventi. Così, la lettura ad alta voce dei pochi articoli che riuscivano ad arrivare clandestinamente diventava un’importante occasione di condivisione, non solo della cronaca, ma anche dei valori e dell’identità di classe. I più attivi a distribuire «L’Unità» erano i fondatori Bandino, Ideale e Altero, particolarmente impegnati anche nella ricerca di nuovi proseliti per creare altre cellule, persino nei paesi limitrofi. Tra i nuovi iscritti, che andarono a rimpolpare l’organizzazione nei mesi successivi[48], vi era invece Paride Lucchesi, uno dei pochi istruiti di Boccheggiano, che riusciva a portare con sé un «giornaletto di piccolo formato e dalla veste tipografica alquanto dismessa che presto si consumava a passarlo di mano in mano»[49], ovvero il giornale ufficiale del partito comunista che aveva da poco ripreso la stampa clandestina[50].

Tra le notizie che arrivavano dal fronte, quella che colpì maggiormente fu la dichiarazione di guerra alla Russia da parte della Germania, «dopo essere già entrata di soprassalto nel suo territorio»[51]: il Terzo Reich lanciò le sue divisioni corazzate oltre i confini sovietici, un atto che fu definito dall’organizzazione clandestina un vero e proprio tradimento di quel patto militare e politico siglato all’alba della occupazione della Polonia. L’ “Operazione Barbarossa” tedesca finì col rafforzare ulteriormente il senso di appartenenza alla causa comunista. Inoltre, ai compagni non poteva sfuggire che fin dall’inizio Hitler aveva posto tra gli obiettivi del Terzo Reich l’annientamento del comunismo, la fine di ogni prospettiva di internazionalizzazione della rivoluzione proletaria e la conquista di tutti i popoli slavi per estendere il suo potere anche ad Oriente. I verbali non riportano i resoconti delle discussioni politiche ma all’adunata del 10 agosto del ’41 venne approvato un ordine del giorno che ben esprime quel clima: sabotare «qualsiasi lavorazione dove i compagni si trovino occupati per prima fiaccare i due eserciti uniti»[52]. Ancora una volta il sabotaggio veniva indicato come principale strumento di lotta mirato a colpire le forze dell’Asse. Ancora una volta l’alleanza nazifascista doveva essere abbattuta, ancora di più se l’altro fronte era rappresentato dalla ‘Patria dei lavoratori’.

Rispetto all’attività dell’O-3-R, la convocazione delle adunate era diventata, ormai da tempo, una variabile dipendente dal livello di attenzione e pericolo che si respirava per le strade del piccolo borgo, permeato da una presenza sempre più massiccia di fascisti. I crescenti controlli erano la conseguenza di quanto accadeva sul fronte militare, con l’intento di incutere terrore mediante un’oppressione sempre più soffocante: «In molti Paesi e città si verificano fatti da loro commessi a molti de’ nostri compagni da essi scoperti nelle organizzazioni»[53]. Evidentemente non solo a Boccheggiano, ma anche nei paesi vicini gli insuccessi del regime avevano riacceso un fervore politico che dopo anni di silenzio sembrava piano piano riprendere voce. Per questo motivo, a partire dal 1942 l’O-3-R iniziò a cercare collaborazioni esterne: un primo tentativo fu fatto a Prata[54], dove alcuni locali avevano manifestato interesse a unirsi alla lotta politica, ma l’incontro di maggio, cui parteciparono Altero Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Oscar Rocchi, rivelò che il contesto non era ancora favorevole a una struttura organizzata e ideologicamente coerente[55]. La questione, tuttavia, venne ripresa a luglio, ancora una volta sollecitata dai compagni di Prata, perché sempre più imminente si presentava l’esigenza di trovare un contatto con altri centri organizzativi e creare una rete di collegamento: l’obiettivo era quello di diffondere anche presso di loro giornali come «La Giovane Italia», «L’Italia libera» e «L’Unità»[56], strumenti di informazione e propaganda, pur con orientamento politico diverso, contro l’oppressione fascista che continuava a registrare fallimenti militari, e con essi la morte di tanti soldati al fronte. Si percepisce chiaramente il desiderio di rendere l’organizzazione più capillare, creando contatti con altri comunisti locali e mettendo insieme le forze per unirsi nella lotta che li attendeva. Del resto, dall’estate del ’42, sembrano avviarsi i primi rapporti con il PCI, che sarebbero diventati diretti e stabili con la caduta del regime[57]. Anche gli stessi strumenti propagandistici, pur circolando ancora in forma clandestina, cominciavano a farsi sentire con maggiore frequenza, quasi come voler rispondere all’esigenza di un maggiore approfondimento teorico e pratico, mirato a risvegliare la coscienza di classe. Infatti, se da una parte l’attività della Organizzazione Rivoluzionaria aumentava di intensità, dall’altra anche i controlli degli «abbietti e miserabili fascisti»[58] si facevano sempre più stringenti, specialmente agli inizi del ’43. Per questa ragione, l’O-3-R si trovò di fronte ad una scelta, dolorosa ma inevitabile: distruggere tutto ciò che era stato prodotto fino a quel momento fatta eccezione della bandiera, del registro cassa e del registro dell’organizzazione[59]. Nessuna traccia doveva restare, nessun rischio doveva essere corso. Soprattutto ora.

Nel frattempo, le notizie che arrivavano dal fronte rappresentavano motivo di soddisfazione e stimolo per l’Organizzazione, in particolare per i successi degli Inglesi e soprattutto dei “compagni Russi”[60]. La guerra tra Germania e Unione Sovietica aveva visto un enorme dispiegamento di forze da entrambe le parti, ma l’iniziale avanzata tedesca del ‘41 fu l’ultimo successo della guerra lampo della Panzerdivisionen. Già verso la fine dell’anno, la Germania non poteva più contare sulla superiorità tecnologica dei panzer, sopraffatta anche dalla strategia sovietica e dall’inverno russo, proprio come accaduto con Napoleone. La battaglia di Mosca (ottobre 1941-gennaio 1942) rappresentò la prima sconfitta terrestre della Wehrmacht, provocando una pesante frattura psicologica poiché aveva dimostrato la non invincibilità tedesca. All’Armata Rossa si unì la guerra partigiana locale e il tracollo della Germania arrivò definitivamente con la battaglia di Stalingrado dove, dopo mesi di assedio, l’esercito tedesco si arrese, il 31 gennaio 1943.

La crescente speranza accompagnò gli animi della cellula fino alla notte del 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo votò l’ordine del giorno, presentato da Dino Grandi, per deporre il Duce. Di fronte alla notizia della «lunga e desiderata caduta del fascismo e del carnefice oppressore Benito Mussolini»[61] i capicellula diedero ordine ai compagni di rimanere pronti per qualsiasi direttiva potesse arrivare dall’organizzazione provinciale, invitando tutti ad aspettare ulteriori istruzioni.

Il programma della cellula

La valutazione che emerge rispetto a questo concitato momento è chiara: il fascismo era caduto ma per la cellula di Boccheggiano il sistema rimaneva “fascista borghese”, anche sotto la guida del Generale Badoglio «il quale spacciandosi come liberatore del Popolo imponeva dopo poche ore della capitolazzione (sic) leggi che terrorizzarono il popolo Italiano essendo ormai disorientato da 20 anni dall’oppressione fascista»[62]. Il riferimento è sicuramente al proclama del giorno successivo che introdusse lo stato d’assedio insieme a quello del coprifuoco, trasferendo i poteri civili nelle mani dei comandi militari, vietando assembramenti e manifestazioni pubbliche, mettendo in atto repressioni contro eventuali disordini.

Alla concitazione e al rischio di smarrimento legato alla situazione nazionale seguì un fervore di attesa per gli sviluppi degli eventi. Nel verbale del 18 agosto si fa riferimento allo “sciopero per la dimostrazione di Pace mondiale”[63], indetto dai compagni di Prata e svolto per 24 ore presso la miniera del Baciolo e contemporaneamente a Niccioleta. Nonostante le precarie e drammatiche condizioni cui gli operai erano stati sottoposti nel ventennio fascista, alla base dello sciopero non vi erano rivendicazioni economiche, ma un chiaro intento politico: manifestare il dissenso contro il regime appena caduto e sostenere ideali di pace e giustizia, in contrasto con il grido badogliano de “la guerra continua”.

Nel frattempo, continuavano i tentativi di costruire una rete politica territoriale. Il giorno prima della dichiarazione dell’armistizio – già firmato il 3 settembre – Bandino Pimpinelli, nuovamente incaricato da Lorenzoni, si recò a Massa Marittima per prendere contatto con gli altri compagni del PCI e, al suo ritorno, riferì la decisione di costituire un nuovo e più numeroso Comitato[64]. La cellula comunista di Boccheggiano era consapevole del momento storico che stavano vivendo e delle sfide che li attendevano, impegnati in azioni che richiedevano un’organizzazione solida ed efficace. Quella praxis tanto agognata adesso si presentava con tutta la sua forza: anni di regime, di violenza, di oppressione avevano segnato la società, gli animi, le speranze e le illusioni e il cammino verso la liberazione non sarebbe stato facile.

Alla notizia dell’armistizio, trasmessa da Radio Londra e ascoltata nel bar del Lorenzoni[65], che comunicava la resa incondizionata dell’Italia, i capicellula si riunirono con il compagno capo: l’unico ordine fu quello di dar vita a “dimostrazioni patriottiche”. Alle 21 dell’8 settembre fu pertanto organizzato un corteo al quale partecipò tutta la popolazione e due simpatizzanti dell’organizzazione comunista intervennero invitando, sì, al risveglio ma anche alla calma[66].

I mesi successivi avrebbero segnato una nuova fase per l’O-3-R. Tutte le speranze di quei compagni si riversarono nella lotta partigiana.

 

NOTE:

[1] Il censimento fu annunciato il 5 agosto 1938 ed effettuato a partire dal 22 agosto. Fu lo strumento attraverso il quale «gli ebrei d’Italia vennero accuratamente individuati, contati, schedati», Sarfatti M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione in Collotti E., Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Bari-Roma, Laterza, 2006, p. 65. Ciò costituì la base della più mastodontica legislazione antiebraica del mondo, dopo quella tedesca. Per un approfondimento si veda, ad esempio, l’opera sopra citata di Collotti.
[2] Questo articolo è il risultato di un lavoro di ricerca condotto sul Fondo Pimpinelli, in particolare attraverso l’analisi del Registro dei verbali della Organizzazione Comunista Rivoluzionaria, conservati presso l’AISGREC, Archivio dell’ISGREC – Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea.
[3] Si vedano il Regio Decreto n. 1848 “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” del 6 novembre 1926 e la Legge n. 2008 “Provvedimenti per la difesa dello Stato” del 25 novembre 1926 che, peraltro, istituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e reintrodusse la pena di morte. Da questo momento, ogni forma di critica, di opposizione, di lotta al governo fu vietata e penalmente perseguita, tutti i partiti e le organizzazioni che manifestavano azione contraria al partito furono sciolti, fu istituito il confino di polizia «per quanti manifestassero il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire gli ordinamenti costituiti dello Stato», i giornali di opposizione furono soppressi; molti antifascisti fuggirono all’estero da dove cercarono di guidare la lotta al regime mussoliniano, contando anche su qualche appoggio di gruppi che provarono a continuare ad agire sul territorio italiano in forma clandestina. Si veda anche Spriano, P., Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, v. 3 parte prima, Einaudi editore, collana per «L’Unità», Torino, 1969, pp. 61-62.
[4] Gentile E., Fascismo. Storia e interpretazione, Economica Laterza, Bari-Roma, 2023, p. 20.
[5] Fondo Pimpinelli (da questo momento: FP), Registro verbali, f. 121. Bandino Pimpinelli fu curatore prima e poi custode di tutti i verbali dell’attività clandestina, fino alla sua morte nel 1996. Era il figlio di Ireneo, che fu l’ultimo sindaco di Montieri prima delle leggi fascistissime, socialista e autore di poesie popolari; sarà anche il primo sindaco nominato dal CLN subito dopo la Liberazione.
[6] Nesti A., Anonimi compagni: le classi subalterne sotto il fascismo, Coines, Roma, 1976, p. 143.
[7] Alle elezioni politiche del 1919 e alle amministrative del 1920 il Partito Socialista era risultato il primo partito: i socialisti conquistarono tutte le amministrazioni comunali ad eccezione dell’Isola del Giglio, dove si registrò la vittoria dei liberali, Monte Argentario, dei popolari, Castiglion della Pescaia e Massa Marittima, vinte dai repubblicani. Cfr. Rogari S. (a cura di), Il biennio rosso in Toscana 1919-1920, Atti del convegno di studi Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso 5-6 dicembre 2019, Firenze: Consiglio regionale della Toscana, 2021.
[8] Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 139.
[9] Cfr. «Il Risveglio», agosto 1919. Si veda anche Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani fra le due guerre, in Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘700. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, All’insegna del Giglio, Firenze, 1984, p. 199.
[10] Cfr. «Il Risveglio», 27 marzo 1921. Ancora Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 200.
[11] Si rammenti la conquista armata di Grosseto (30 giugno 1921) che portò anche alla distruzione della Camera del Lavoro e della Lega dei Terrazzieri, delle sedi del partito socialista, comunista e repubblicano, nonché della tipografia de «Il Risveglio»; inoltre, l’incursione squadrista a Roccastrada (24 luglio 1921) considerata “roccaforte rossa”. Per un approfondimento, Cansella I., Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco www.toscananovecento.it/custom_type/roccastrada-1921-un-paese-a-ferro-e-fuoco/
[12] Cfr. Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 202-03.
[13] Stipulato il 2 ottobre 1925, l’accordo tra il regime fascista italiano e i rappresentanti della Confindustria rappresentò una svolta significativa nei rapporti tra il mondo del lavoro e il governo fascista, a scapito della classe operaia.
[14] In particolare, con la legge n. 563 del 3 aprile 1926, venne istituito un sistema corporativo che prevedeva il riconoscimento di un unico sindacato per ogni categoria, strettamente controllato dallo Stato fascista.
[15] Nel 1939 la legione territoriale dei carabinieri reali di Livorno, gruppo di Grosseto, inviò al prefetto di Grosseto una relazione in cui di fatto sì evidenziava una riduzione dei salari nel corso degli ultimi 20 anni che oscillava tra il 36 e il 40% circa. Si veda Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 209.
[16] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 208- 209.
[17] A conferma di ciò, si possono citare, nella prima metà degli anni ’30, l’inaugurazione del villaggio di Niccioleta e la costruzione di un sistema di teleferiche che collegava le tre miniere della Montecatini (Boccheggiano, Niccioleta e Gavorrano) al mare, da dove i materiali venivano imbarcati verso i mercati nazionali e internazionali. In particolare, Niccioleta nacque nel 1933 come villaggio minerario di proprietà della Società Montecatini, ruolo che mantenne fino al 1976, quando divenne frazione del Comune di Massa Marittima.
[18] Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 210.
[19] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Quaderni ISGREC, 08, Effigi, Arcidosso (GR), 2021, p. 239.
[20] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218; Tognoni M., Visi sporchi coscienze pulite. ‘Storia’ di un paese minerario della Toscana, Il Paese reale, Grosseto, 1979, p. 57.
[21] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 213.
[22] Il metodo Bedeaux fu introdotto per la prima volta a Gavorrano nel marzo del 1932 in un contesto di grave crisi che aveva già causato una drastica riduzione del salario e numerosi licenziamenti. In generale, il metodo consisteva in uno strumento volto ad aumentare i ritmi di lavoro, senza collegare lo sforzo fisico al salario percepito; inoltre, prevedeva penalità per i lavoratori che non rispettavano i tempi massimi stabiliti per ogni attività, con l’effetto di alienare ulteriormente il controllo degli operai sul loro lavoro. Molti furono i tentativi da parte della classe operaia di riprendere il controllo delle loro attività, sfruttando ad esempio la voce “lavori eventuali”, ovvero piccoli lavori che richiedevano uno sforzo fisico minore (la riparazione di un quadro d’armatura o il perfezionamento di un disgaggio etc.), ma che venivano valutati nel computo finale dei punti, contribuendo a ristabilire un equilibrio salariale sfruttando la minore produttività richiesta. Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 140.
[23] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 141.
[24] Per un approfondimento si veda la Testimonianza di Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli, Ideale Tognoni in Nesti, A., Ibidem.
[25] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 143.
[26] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 142.
[27] Verbale del 22 agosto 1938, FP, f. 123.
[28] Nesti, Ibidem.
[29] FP, f. 123.
[30] Si veda anche Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Ibidem.
[31] Cfr. FP, f. 124.
[32] Si rammenti che le leggi fascistissime segnarono anche la morte della democrazia parlamentare: il parlamento, ormai privato delle sue funzioni legislative e di controllo nei confronti dell’esecutivo, non venne più eletto ma nominato con elezioni dette plebiscitarie. D’altronde il regime fascista aveva sempre mostrato disprezzo nei confronti delle elezioni che definiva “ludi cartacei”, Cfr. Viola P., Il Novecento. Storia moderna e contemporanea, v. 4, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2000, p. 93.
[33] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma cit., pp. 239-240 e Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 219.
[34] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., Ibidem.
[35] All’alba del 25 aprile 1943 gli iscritti erano arrivati a 26 per poi aumentare fino ad una quarantina.
[36] Benché dai verbali non emerga il luogo fino a questo momento utilizzato, si può pensare a sedi fortuite e che non destavano sospetti, tra cui pare lo scantinato o il retrobottega di Anuello Lorenzoni, come riportato da Tognoni, Visi sporchi cit., p. 61.
[37] FP, f. 131.
[38] FP, f. 132.
[39] Verbale del 20 settembre 1939, FP, f. 134.
[40] FP, Ibidem.
[41] Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., pp. 115-116. Per un approfondimento si veda Rogari S., L’opinione pubblica in Toscana di fronte alla guerra (1939-43), in Antifascismo, Resistenza, Costituzione. Studi per il sessantesimo della liberazione, Franco Angeli, Milano, 2006.
[42] FP, Ibidem.
[43] Hitler era convinto che le Panzerdivisionen sarebbero state cruciali per la Blitzkrieg (guerra lampo), cfr. Viola, Il Novecento cit., pp. 188-89.
[44] Cfr. FP f. 137.
[45] Cfr. FP f. 139.
[46] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 69-70.
[47] Verbale del 18 giugno 1941, FP f. 140.
[48] Verbale del 20 dicembre, FP f. 141.
[49] Tognoni, Visi sporche coscienze pulite cit., p. 18.
[50] L’ultimo numero ufficiale del giornale fondato da Antonio Gramsci fu pubblicato il 31 ottobre 1926. Il 27 agosto 1927 uscì il primo numero dell’edizione clandestina, che ebbe origine nella sede francese di Rue d’Austerlitz e poi nel ’31 con una stamperia a Milano. La pubblicazione clandestina subì una battuta d’arresto tra il ‘34 e il ’39 per riprendere con lo scoppio della guerra e della lotta antifascista. Il giornale tornerà alla pubblicazione ufficiale a Roma il 6 giugno 1944, con l’arrivo delle truppe alleate.
[51] Cfr. Verbale del 10 agosto 1941, FP Ibidem.
[52] FP, Ibidem.
[53] Verbale del 12 gennaio 1942, FP f. 143.
[54] Piccolo borgo confinante, residenza di molti minatori di Niccioleta e Boccheggiano.
[55] Cfr. Verbale del 03 maggio 1942, FP f. 144.
[56] Cfr. Verbale del 22 luglio 1942, FP Ibidem.
[57] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218.
[58] Rapporto I del 12 gennaio 1943, FP f. 147. Tale decisione fu poi approvata da tutta l’O-3-R.
[59] FP, Ibidem.
[60] FP, Ibidem.
[61] Rapporto “IIII” del 25 luglio 1943, FP f. 148. Nel rapporto è sottolineato in rosso.
[62] FP, Ibidem.
[63] Verbale del 18 agosto 1943, FP f. 152. Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., p. 227.
[64] Cfr. Rapporto V del 7 settembre 1943, FP f. 148.
[65] Il suo bar era la sede da cui si poteva ascoltare Radio Londra, con una sicurezza garantita da un compagno con il ruolo di palo sulla porta mentre altri compagni facevano finta di giocare a carte per non destare sospetti. Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 61-62.
[66] Cfr. FP, Ibidem.



Monumenti, lapidi, segni e luoghi di memoria della Seconda guerra mondiale e della Resistenza maremmana

La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone
Italo Calvino

 

Nessuno di questi monumenti parla davvero del passato: sono al contrario tutti espressione di una storia che è ancora viva e che, ci piaccia o no, continua a governare le nostre vite
Keith Lowe

 

A ottant’anni dalla Liberazione dei nostri territori dal nazifascismo è utile riflettere sulla memoria della Resistenza, provando a capire quale sia l’impatto di lungo periodo o, meglio, l’eredità della Resistenza ai nostri giorni. Di fatto, perché l’anniversario di quest’anno rappresenti nel discorso pubblico un momento significativo per porre all’attenzione il tema, come lo sono stati gli anniversari “tondi” che ci hanno preceduto, è necessario accompagnare le celebrazioni della Liberazione toscana e, nello specifico maremmana, a una riflessione profonda sul senso del parlare di Resistenza oggi, sui termini in cui farlo e sulle modalità memoriali che hanno caratterizzato questi ottant’anni trascorsi dall’estate del 1944, che vide la conclusione per la provincia di Grosseto dell’esperienza della lotta armata.

Philip Cooke scrive che c’è ancora il bisogno di colmare quello che lui definisce come “il divario fra l’indagine storica e l’analisi culturale”, per indagare quella doppia elica costituita dalla politica italiana e dalla cultura della Resistenza italiana, “due filamenti legati fra loro […] componenti strutturali del DNA dell’Italia contemporanea” che aiutano a comprendere la natura profonda di un paese che sulla memoria della Resistenza è in parte divisa (L’eredità della Resistenza. Storia, culture, politiche dal dopoguerra a oggi, 2015). Senza poter qui approfondire la questione per gli anni più recenti, come il bel volume di Philip Cooke fa, è necessario però almeno partire da questo ragionamento per evidenziare le diverse fasi nella costruzione della memoria della Resistenza che riguardano direttamente l’argomento di questo articolo (ovvero l’immediato dopoguerra, il decennio successivo che potremmo definire della “canonizzazione” del discorso resistenziale e gli anni Sessanta che sono caratterizzati dalla presenza del tema della “Resistenza tricolore”).

Su tale costruzione memoriale agiscono diversi vettori legati alla storia culturale come la letteratura, le arti figurative, il discorso pubblico e la memoria istituzionale (ad esempio, il calendario civile), la comunicazione politica, i testi giornalistici, le culture popolari, il cinema, la televisione, la musica, la rappresentazione fotografica; si tratta di alcuni dei temi a cui sono state maggiormente dedicati studi specifici, a partire soprattutto dagli anni Ottanta. Scarseggia invece, anche per quanto riguarda la provincia di Grosseto, una specifica attenzione al tema dei monumenti e dei segni di memoria dedicati alla Resistenza e questo nonostante il fatto che, se si considera la Resistenza come religione civile dell’Italia repubblicana, proprio i monumenti condensino di fatto riti, simboli e commemorazioni che fanno parte di questa tradizione memoriale.

Sul perché questo avviene Iara Meloni pone, a partire dal caso piacentino (saggio in Piedistallo della storia, a cura di S.Nannini e E. Pierazzoli, Viella 2022), alcune riflessioni molto interessanti a livello generale, a partire dalla considerazione evidente che rispetto al caso delle “memorie di pietra” della Prima guerra mondiale, su cui invece gli studi abbondano, non ci siano stati per la Resistenza miti unificanti, come ad esempio quello della mater dolorosa, e non esista una figura unica come quella del soldato in armi, richiamata dalle diverse forme di monumentalizzazione legate al milite ignoto: esistono invece una moltitudine di protagonisti e, di conseguenza, anche una moltitudine di atteggiamenti, comportamenti, azioni e quindi narrazioni diverse a cui gli studi sulla memoria della lotta di Liberazione dal nazifascismo devono fare riferimento. Altro aspetto da tenere in considerazione è anche la diffidenza, che in quel momento storico si impose con forza, nei confronti di tutta quella serie di retoriche celebrative e di miti patriottici, che erano stati retaggio del bagaglio culturale fascista e che nel dopoguerra invece si volle nettamente evitare, proprio per segnare una cesura con quell’esperienza. In questo senso, Iara Meloni parla di una vera e propria volontà di “smonumentalizzazione”, evidente sia nella modalità di creazione dei diversi segni di memoria, sia nell’assenza di studi specifici su di essi.

In provincia di Grosseto, negli anni, sono stati tentati progetti di mappatura delle “memorie di pietra” del territorio, facendo interagire monumenti, lapidi e segni di memoria con un approfondimento storico che potesse narrare e approfondire le vicende da essi ricordate (si veda, ad esempio, il progetto Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale). Ma al di là di alcuni tentativi portati avanti da diversi soggetti, fra cui l’Isgrec, non c’è stato un tentativo di contestualizzazione di quei monumenti che abbia coinvolto tutto il quadro provinciale, ovvero non si è guardato a quelle tracce del passato resistenziale con uno sguardo d’insieme che ne indagasse genesi e caratteri specifici.

Altro aspetto che caratterizza i primi anni dopo la fine del conflitto è il concentrarsi dell’asse della narrazione memoriale in località periferiche, in luoghi isolati e poco frequentati che però sono i luoghi che vengono riconosciuti significativi per singole comunità o per specifici gruppi sociali o politici. Si struttura in quei primi anni, insomma, un vero e proprio binomio fra evento e luogo, per cui il monumento – e il ricordo – si colloca nel luogo in cui l’evento avviene. Se teniamo presente che la memoria a livello locale della Resistenza è per lo più innervata in singole comunità[1], il ragionamento che ne deriva è che proprio lo spazio comunitario alla fine della guerra diventa una delle modalità principali attraverso cui la storia della Resistenza inizia a farsi discorso pubblico e a essere narrata, con modalità che ovviamente cambiano nel tempo[2].

In questa fase immediatamente successiva alla Liberazione si vedono chiaramente nascere gli archetipi di quella che sarà la successiva rappresentazione della Resistenza.

Lapide in memoria di Giovanni Pastasio

Cippi e monumenti sorgono numerosi nei luoghi di uccisione di partigiani o, in alcuni casi, di vittime del fascismo; nell’immediato dopoguerra, infatti, la precisa volontà di non dimenticare i caduti del periodo squadrista e di tornare a commemorare persone che non si erano potute commemorare fino ad allora porta alla creazione di alcune targhe e monumenti legati alle vicende degli anni Venti[3]. Già il 17 agosto 1945, ad esempio, a Gavorrano viene apposta una lapide che ricorda il luogo e il giorno in cui nel 1921, Giovanni Pastasio, giovane minatore antifascista, fu ucciso durante un’incursione di squadristi di Follonica, mentre a Scarlino viene collocata una targa in ricordo di Gabriello Dani, capolega dei contadini del territorio, ucciso l’11 settembre 1921 da una spedizione fascista.

Di contrasto, nella toponomastica si evidenzia la necessità impellente di una vera e propria epurazione simbolica rispetto a quel retaggio culturale fascista che aveva segnato profondamente le architetture delle città ma anche appunto i nomi delle strade, in particolare in riferimento al periodo squadrista.

In un documento del Comune di Grosseto dell’agosto 1943 (quindi ancora prima dell’inizio della Resistenza) appare evidente come già a seguito del 25 luglio ci si ponesse immediatamente la problematica di cambiare alcuni di questi toponimi (tornando in questo caso a quelli precedenti): ad esempio, a Grosseto si eliminò Piazza Rino Daus, martire del fascismo, squadrista senese della prima ora che aveva partecipato alla cosiddetta “presa di Grosseto” del giugno 1921; nella stessa logica avvenne la trasformazione in Via Piave di Via Ivo Saletti, squadrista che aveva partecipato alla spedizione punitiva su Roccastrada del luglio 1921, colpito poi sulla strada del ritorno o da un’imboscata o per fuoco amico – secondo due ricostruzioni contrapposte difficilmente verificabili –, alla cui morte seguì l’uccisione per rappresaglia da parte dei fascisti di dieci cittadini del paese.

Cippo di Boccheggiano in ricordo dei partigiani Ghiribelli, Malossi e Tompetrini

Se in merito alla memoria dello squadrismo il centenario della marcia su Roma nel 2022 ha avviato una riflessione complessiva, in questo primo tentativo di indagine è difficile pensare di poter anche solo citare, invece, i moltissimi cippi che a partire dal 1945 vengono dedicati ai caduti partigiani, spesso collocati in località davvero impervie e isolate, per cui si rimanda alla mappatura realizzata sul sito ResistenzaToscana creato della Federazione Regionale Toscana delle Associazioni Antifasciste e della Resistenza di cui fanno parte fra le altre ANPI, ANED e FIAP, a partire dal 2003. Fondamentale, però, è soprattutto sottolineare come questi luoghi diventino centrali nelle prime commemorazioni del 25 aprile o in cerimonie che avvengono nella ricorrenza delle date in cui le persone ricordate sono state uccise: i monumenti in questione diventano fin da subito, insomma, luoghi di ricorrente vivificazione rituale del ricordo, incarnando tutta una serie di rituali commemorativi che li hanno tenuti vivi come luoghi di memoria fino ad oggi.

Lapide a Campo al Bizzi (Monterotorndo Marittimo)

Quello che però è soprattutto utile, in quest’ottica, è guardare ad alcuni luoghi che sono centrali nella narrazione “canonica” della Resistenza maremmana, senza alcuna pretesa di esaustività, ma solo come riflessione di partenza sul tema. Ad esempio, la lapide di campo al Bizzi che ricorda l’Eccidio del Frassine (Monterotondo Marittimo) avvenuto il 16 febbraio 1944: posta sul casale che fu bruciato durante il rastrellamento del gruppo di giovani partigiani, in cui persero la vita Otello Gattoli di Massa Marittima, Silvano Benedici di Volterra, Pio Fidanzi di Prata, Salvatore Mancuso di Catania e Remo Meoni di Montale (Pt), è un esempio lampante di tutte le caratteristiche finora evidenziate perché nonostante il notevole isolamento del luogo la lapide (che oggi è stata spostata dal casale, che sta cadendo a pezzi, e inserita in un monumento scultoreo collocato nelle immediate vicinanze) è tuttora commemorata annualmente alla presenza di moltissime persone che la raggiungono dopo una lunga escursione a piedi organizzata dall’Anpi e dal Comune di Monterotondo Marittimo.

Commemorazione al cippo in memoria del tenente Gino (2021)

Simile per perifericità, anche se più elaborato dal punto di vista stilistico, il monumento commemorativo al Tenente Luigi Canzanelli, noto come “tenente Gino”, caduto insieme al suo attendente, il soldato Giovanni Conti, il 7 maggio 1944, a seguito di un’imboscata tesa da un gruppo di nazifascisti, nei pressi di Murci, frazione di Scansano; in questo caso il ricordo si colloca nell’ambito della Resistenza “con le stellette”, trattandosi di militari che aderiscono alle formazioni partigiane e, in questo caso, le guidano. Interessante è notare come questo monumento, collocato nel luogo dell’imboscata, sia stato restaurato nel 2021 dal Comando dei Carabinieri, un soggetto diverso da quelli che tipicamente agiscono quali vettori di memoria. Del resto, la stessa caserma del Comando provinciale dell’Arma di Grosseto è intitolata proprio a Luigi Canzanelli.

Monumento a Ponte del Ricci

Altro monumento particolarmente precoce in provincia di Grosseto è quello di Ponte del Ricci, nel Comune di Roccastrada. Collocato di fatto a un semplice bivio stradale, lontano dai paesi e isolato, si situa in un luogo che si trovò in prossimità del passaggio del fronte, dove il 17 giugno 1944 persero la vita quattro giovani partigiani della formazione “Gramsci” di Roccastrada, fra cui il comandante del distaccamento dei “Lupi rossi” di Montemassi. La memoria di questo episodio si è modificata nel corso del tempo grazie alla ricostruzione storica: dapprima identificato come una strage di civili, grazie alla ricerca di Cinzia Pieraccini del 2005, è stato riconosciuto come un episodio avvenuto durante un combattimento, legato, quindi, a uno scontro a fuoco tra partigiani e tedeschi in ritirata. Il monumento che oggi è presente, e che ha sostituito un semplice cippo con i nomi dei caduti, è stato realizzato nel 1973 dallo scultore Vittorio Basaglia.

Se lo spontaneismo è spesso all’origine di questi primi luoghi di memoria, con gli anni Cinquanta la monumentalizzazione risente maggiormente del discorso nazionale che si struttura sulla Resistenza.  Nell’Italia del centrismo democristiano e dell’alleanza occidentale la tradizione diviene infatti il serbatoio più rassicurante a cui la politica della memoria può attingere; anche per parlare di Resistenza ci si rifà a nodi narrativi che si legano alla pietas o che si rifanno all’interpretazione della Resistenza come a un secondo Risorgimento e che, quindi, interpretano le figure dei partigiani caduti secondo uno schema narrativo che si richiama alla lettura nazional-patriottica del martirio eroico.

Addirittura, a Grosseto la Chiesa cattolica e in particolare la figura del Vescovo Galeazzi contribuiscono negli anni Cinquanta a sottolineare questo aspetto della pietas cristiana fino al punto di cristallizzare in qualche modo la memoria di una “guerra senza Resistenza”. La costruzione della cripta della Chiesa del Sacro Cuore, infatti, contribuisce a incentrare la narrazione della guerra appena trascorsa sulle vittime civili, ricordando in particolare la “strage delle giostre” del 26 aprile 1943, quando nel corso del primo bombardamento subito da Grosseto, persero la vita 134 cittadini tra cui decine di bambini. [4] La narrazione del bombardamento di Pasquetta si manterrà incardinata al registro della pietas anche successivamente; ritroviamo la stessa impostazione, infatti, anche in monumenti successivi che continuano a fare riferimento a un universo simbolico prettamente religioso.

Cripta della Basilica del Sacro Cuore – Memoriale alle vittime dei bombardamenti (anni Cinquanta)

 

Monumento alle vittime dei bombardamenti di Grosseto (2003)

In merito, invece, al topos della Resistenza come “secondo Risorgimento” va precisato che, sebbene il racconto di taglio patriottico fosse già emerso durante la guerra per narrare la Resistenza come sforzo corale del popolo italiano, si strutturerà soprattutto in seguito in contrasto con la narrazione egemonica da parte comunista. Un’altra delle caratteristiche su cui riflettere nei monumenti della Resistenza del primo dopoguerra e degli anni Cinquanta è, quindi, la tendenza diffusa ad aggiungere (o comunque ad affiancare negli spazi pubblici) i nomi dei caduti del 1940-45 e dei caduti della Resistenza ai monumenti dedicati ai caduti della Prima guerra mondiale.

Memoriale ai caduti di Massa Marittima

In questa logica della Resistenza come secondo Risorgimento, in sostanza, essi vengono in qualche modo inseriti, come evidenzia anche Iara Meloni, in un “patriottico abbraccio cumulativo” (Massimo Baioni, Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita, 2020).

 

Per esemplificare in relazione al contesto grossetano, non si può non citare il memoriale dei Caduti di Massa Marittima, luogo chiuso al pubblico (aperto solo in alcune occasioni), che raccoglie i caduti delle guerre di indipendenza, i caduti della Prima guerra mondiale, i caduti della campagna di Russia e i caduti della Seconda guerra mondiale, fra cui alcuni partigiani.

Monumento ai caduti della Resistenza, cimitero di Sterpeto (Grosseto)

Allo stesso modo, si può fare riferimento alla terminologia impiegata nel monumento ai caduti della Resistenza realizzato nel 1954 nel cimitero di Sterpeto a Grosseto. Nelle lapidi laterali che fanno parte di questo monumento è interessante soffermarsi sul linguaggio, sulla retorica: una delle targhe recita “i partigiani caduti non risposero ad alcun bando, non alzarono bandiera, l’Italia li aveva chiamati per il suo tricolore morirono” (entra qui in gioco il tricolore, come simbolo evocativo del patriottismo), mentre sulla seconda lapide viene richiamato il “sangue versato per la patria”, in uno schema discorsivo chiaramente inserito in questa logica.

Il terzo tema cui si accennava, evidentemente collegato, è quello della memoria pubblica, militare e combattentistica, quasi epica, della Resistenza a cui si lega la figura dell’eroe, commemorato attraverso un vero e proprio “culto del martire”. Questa interpretazione martirologica della Resistenza è evocata nelle poche rappresentazioni figurative di quegli anni in Maremma, di cui un esempio fra tutti è il cippo di Potassa (la cui rappresentazione scultorea è in questo senso autoevidente). Fu dedicato al partigiano Flavio Agresti, Medaglia d’Argento al valor militare con la seguente motivazione: “In un tragico periodo della Patria invasa dal nemico, si faceva organizzatore ed animatore del Fronte Clandestino di Liberazione nel paese di Scarlino. Offertosi spontaneamente per una difficile e rischiosa missione di collegamento, tra un gruppo e l’altro di patrioti, veniva catturato dai reparti tedeschi. Sottoposto a stringente interrogatorio e ad ogni specie di sevizia e di tortura, onde rivelare l’entità dei patrioti e la missione a lui affidata, si rifiutava decisamente.

Monumento in memoria del partigiano Flavio Agresti

Legato, poi, dietro a un barroccino con le braccia incatenate dietro la schiena e trascinato per diversi chilometri, non avendo voluto tradire i compagni, veniva barbaramente finito da una raffica di fucile mitragliatore, chiudendo, così gloriosamente, una vita interamente dedicata alla Patria”.

Il rapporto fra i concetti di “eroe” e “martire”, ma anche lo slittamento semantico da “vittima” a “caduto per la lotta di Liberazione”, del resto, variano anch’essi al variare dell’evoluzione del discorso pubblico sulla Resistenza, quindi in base al contesto storico di riferimento. Ad esempio, la spinta a una narrazione eroica della Resistenza può essere interpretata come una reazione al clima della fine degli anni Quaranta con il fallimento dell’epurazione e l’avviarsi dei primi processi ai partigiani. Si rifugge in questo momento dal rischio di una “memoria debole”, sia attribuendo anche alle vittime delle stragi nazifasciste la qualifica di caduti per la lotta di Liberazione, sia ricorrendo al lemma del martirio e quindi quasi imponendo al lutto un senso a posteriori, determinato dalla scelta di donare la vita per la causa della lotta partigiana. Ci troviamo di fronte a una forma di narrazione estremamente ricorrente, che permane significativamente anche in monumenti di molto successivi.

Monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), Cittadella dello Studente (Grosseto)

Ad esempio, nel monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), che pure è del 1985: una composizione architettonica in cemento e metallo, “tempietto moderno”, costituito da linee strutturali orizzontali e verticali, alternate a linee curve, immerso nel verde. Fu progettato da Maria Paola Mugnaini, allora studentessa del Liceo Artistico di Grosseto, in preparazione dell’esame di maturità, con la guida e la collaborazione dell’architetto Pietro Pettini, già docente del Liceo. La Provincia di Grosseto lo realizzò in occasione del quarantesimo Anniversario della Liberazione e fu collocato nella sede attuale, all’interno della Cittadella degli Studi. Si tratta di un monumento completamente astratto, ma al cui interno una targa recita “La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio  – Uno studente fucilato dai nazifascisti il 4 maggio 1944”.

Una riflessione che può essere ampliata grazie agli spunti offerti dallo storico inglese Keith Lowe che, nel 2021, facendo riferimento alle molteplici categorie memoriali di “eroi, martiri, mostri, apocalisse, rinascita”, ha evidenziato che “queste cinque declinazioni della memoria non solo si fanno forza ma si amplificano a vicenda. L’idea dell’Armageddon fornisce il contesto perfetto per l’immaginario condiviso della guerra come scontro titanico intorno all’anima dell’umanità. Gli eroi sono più eroici di fronte al male assoluto contro il quale lottavano; e i mostri sono più mostruosi se ci soffermiamo sull’innocenza dei martiri che hanno torturato. Il fine ultimo è collegare tutte queste immagini, per ottenere la fede in un mondo nuovo, che rinasce dalle ceneri di quello vecchio” (Prigionieri della storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della Seconda guerra mondiale sulla memoria di noi stessi, 2021).

Monumento ai martiri d’Istia realizzato dal Comune di Magliano in Toscana a Maiano Lavacchio nel 1964

Un ragionamento estremamente interessante da applicare, in particolare, ai monumenti dedicati ai martiri d’Istia e alle vittime della strage di Niccioleta, su cui ci si soffermerà quindi in conclusione. Nel primo caso, si fa riferimento alla strage fascista avvenuta a Maiano Lavacchio, nel Comune di Magliano in Toscana, il 22 marzo 1944: furono fucilati dai fascisti 11 giovani che avevano rifiutato di arruolarsi nel costituendo esercito della Repubblica sociale italiana, 11 inermi nel sentire popolare, “11 agnelli” nei primissimi canti in ottava rima che diedero forma alla precoce narrazione (strutturata in forme capaci di “passare di bocca in bocca”) di una vicenda che lasciò una cicatrice profondissima nella memoria collettiva grossetana, per la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza, per la crudeltà e la barbarie dei carnefici, per il gesto coraggioso del parroco d’Istia d’Ombrone, don Omero Mugnaini, che sfidò le autorità fasciste opponendosi al divieto di dare sepoltura alle vittime.

Successivamente il discorso pubblico che si stava strutturando intorno alla Resistenza trasformerà gli 11 ragazzi giocoforza in partigiani combattenti, partecipi anche da morti dello sforzo corale del popolo maremmano per la Liberazione della provincia. La ricostruzione storica, avviatasi con la raccolta di materiali e fonti documentarie che l’Isgrec ha portato avanti nel corso di ricerche pluriennali (confluite nel volume di Marco Grilli Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei Martiri d’Istia del 2014), ha dimostrato però che sulla possibile scelta partigiana sono possibili solo congetture, mentre di fatto da testimonianze di familiari e amici emerge con forza la scelta di Resistenza civile e non in armi dei ragazzi. Bisogna quindi contestualizzare quella memoria, ricordando che nel dopoguerra la possibilità di una scelta di forte e netta opposizione non in armi al nazifascismo, come quella forse degli 11 “martiri d’Istia”, è preclusa dall’orizzonte del riconoscimento morale: siamo ancora ben lontani da quell’accettazione di una complessità di esperienze e percorsi impostasi poi anche nel senso comune grazie alla feconda categoria interpretativa di Resistenza civile.

La “chiesina” di Maiano Lavacchio

La memoria degli 11 ragazzi di Maiano Lavacchio è impressa in molti luoghi; a Maiano Lavacchio, è presente un tempietto votivo, conosciuto da tutti come “la chiesina”, fatto costruire dalla famiglia Matteini proprio nel punto in cui i ragazzi furono uccisi. Poco distante, il monumento fatto installare dal Comune di Magliano nel 1964, semplice obelisco sormontato da una lanterna funebre. Al suo fianco è presente anche la Casa della memoria al futuro dell’Isgrec, un “progetto partecipato” da cittadini e Istituzioni che ha trasformato un edificio presente sul luogo della strage in uno spazio culturale per la comunità, un laboratorio dove promuovere e produrre arte, cultura e formazione, attraverso l’aggregazione, la coesione e l’inclusione sociale. Un luogo di memoria dove ospitare studenti e stagisti, pensato per custodire una biblioteca ed essere sede di incontri, che è stato inaugurato il 22 marzo 2023 in occasione della 79° commemorazione ufficiale dei Martiri d’Istia.

La Casa della memoria al futuro a Maiano Lavacchio

Altri monumenti e segni di memoria sono dislocati nei paesi di origine delle vittime, a Grosseto, a Cinigiano, a Istia d’Ombrone, ma anche a Ispica in Sicilia e a Serre in provincia di Salerno, da cui provenivano due dei “martiri”, e sono stati mappati e presentati dalla mostra online realizzata dall’Isgrec nel 2021 (https://martiridistia.weebly.com/). Monumento, nel senso più elevato del termine, è anche la lavagna su cui uno dei due giovanissimi fratelli Matteini, nei momenti precedenti la fucilazione, scrisse un messaggio per la mamma, quello straziante “Mamma, Lele e Corrado un bacio” che è diventato uno dei simboli identitari dell’antifascismo grossetano. Oggi la lavagna è conservata nel Municipio di Grosseto, nell’ufficio del primo cittadino, a ricordo indelebile del valore fondante su cui si basa la Costituzione e la convivenza nella civitas.

La lavagna con l’ultimo saluto alla madre dei fratelli Matteini

Come dimostra il caso di Maiano Lavacchio, quella delle stragi è del resto memoria specifica all’interno della più ampia memoria resistenziale dell’intero territorio provinciale. Una memoria che genera un processo di monumentalizzazione estremamente ampio e diffuso a livello territoriale, già evidente nel caso della strage di Maiano Lavacchio e che si riconferma anche nel caso della strage con il più ampio numero di vittime della provincia di Grosseto, quella del villaggio minerario di Niccioleta del 13-14 giugno 1944:[5] in questo episodio le vittime furono 83 minatori, che provenivano dalla provincia intera ed erano arrivati nel piccolo villaggio minerario, soprattutto dal monte Amiata, in cerca di un lavoro, faticoso e pericoloso, ma che potesse garantire vita e sostentamento per sé e per i propri familiari. L’istituzionalizzazione del ricordo si legò di conseguenza ai diversi momenti di traslazione delle salme nei cimiteri di origine[6], in occasione dei quali furono collocati la maggior parte dei monumenti e delle lapidi più antichi.

Tabernacolo dedicato alle vittime di Niccioleta

 

Lastra in memoria di Aurelio Cappelletti, morto a Niccioleta, collocata a Tatti in occasione della traslazione della salma nel 1945

 

Monumento ai caduti di Niccioleta nel Cimitero di Castellazzara, collocato nel dopoguerra in occasione della traslazione delle salme, s.d. (la stele ai caduti di Niccioleta e di tutte le guerre è invece stata collocata nel 1990)

 

Monumento di Giulio Porcinai in memoria dei martiri dell’eccidio di Niccioleta nel Cimitero comunale di Santa Fiora (1951)

 

Lapide a Massa Marittima

 

Lapide a Massa Marittima

La memoria dell’eccidio vide così declinarsi numerose narrazioni su pietra non soltanto a Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina, luoghi delle uccisioni degli 83 minatori, ma in tutta la provincia, sia in monumenti dedicati sia con l’inserimento delle vittime nelle targhe dedicate ai caduti dai differenti Comuni maremmani di origine.

Si tratta inoltre di una monumentalizzazione che si colloca in varie fasi storiche, modificando le sue caratteristiche nel corso del tempo, e che quindi risulta estremamente utile da considerare in relazione al tipo di analisi che si è tentato qui. Un aspetto che si può mettere in evidenza, ad esempio, è quello relativo agli anni Sessanta quando i monumenti, salvo rare eccezioni, si spostano dal luogo degli eccidi nelle piazze principali dei centri abitati, venendo a occupare uno spazio centrale nella narrazione pubblica, come ad esempio succede a Castelnuovo, dove nel ventennale del 1964 oltre al monumento presente nel vallino della fucilazione, viene costruito il Monumento ai Caduti della Niccioleta nella centrale piazza Matteotti. Nello stesso anno a Massa Marittima il carrarese ex partigiano Nardo Duchi realizza il monumento di Parco di Poggio a Massa Marittima: la collocazione è in questo caso simbolica quanto il monumento stesso, che vede i martiri alzare le mani per proteggere la città presente nel panorama immediatamente sottostante.

Massa Marittima (Parco di Poggio), Monumento ai caduti di Niccioleta, scolpito dall’artista carrarese e ex partigiano Nardo Durchi nel 1964

 

Monumento ai Caduti della Niccioleta – Castelnuovo Val di Cecina, piazza Matteotti (1964)

Lo stesso fenomeno di occupazione dello spazio urbano è evidente nel piccolo villaggio di Niccioleta dove alla targa sulla parete prospiciente il cortile dove avvenne la prima fucilazione di sei minatori si sono aggiunti nel corso degli anni a qualche metro di distanza, ma in posizione chiaramente centrata rispetto allo spazio urbano, il cippo commemorativo del 2004 e la targa con i nomi dei minatori uccisi nel 2005, in un processo che satura il luogo simbolico di memorie sovrapposte collocate durante i diversi anniversari.

Lapide a Niccioleta

 

Cippo a Niccioleta

 

Lapide a Niccioleta

Evidente da quest’ultimo esempio è anche come la monumentalizzazione della strage di Niccioleta, dopo una fase di oblio abbastanza prolungato (scrive Paolo Pezzino che nel dopoguerra «la memoria è stata coltivata nelle zone di origine delle famiglie dei minatori, ma il fatto che questi fossero dispersi nell’Amiata, che poi l’eccidio sia avvenuto in un’altra terra ancora, Castelnuovo Val di Cecina, fa sì che la strage di Niccioleta, come altre in Italia, sia stata ben presto dimenticata») abbia ripreso vigore dalla fine degli anni Novanta, con l’avviarsi delle ricerche storiche che portarono a contestualizzare la vicenda nel fenomeno della ritirata aggressiva dell’esercito tedesco (Paolo Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, 2001).

Lapide posta sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina 2016

Segni di memoria sono comparsi quindi anche recentemente, ad esempio nel 2016 è stata apposta una lapide sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina dove i prigionieri trasferiti da Niccioleta furono imprigionati, mentre dal 2022 Niccioleta è stata accolta nella rete dei Paesaggi della memoria.

Il luogo di memoria specifico relativo alla strage è comunque da sempre rappresentato dal Vallino dei Martiri a Castelnuovo Val di Cecina: qui, in mezzo al rumore assordante dei soffioni boraciferi, avvenne il 14 giugno la fucilazione di 77 minatori e qui inizialmente le salme furono seppellite in fosse senza nome. Sul luogo una semplice croce e un cartello individuarono fin da subito lo spazio simbolico della commemorazione; oggi nel Vallino esiste un museo diffuso, realizzato da Isgrec negli anni Duemila con l’apposizione di pannelli esplicativi.

Il vallino subito dopo la strage

 

Il vallino di Castelnuovo Val di Cecina

 

In seguito, in data imprecisata, ma probabilmente già nel 1945, venne costruito subito a monte un monumento che negli anni ha subito una piccola ma significativa trasformazione (emersa grazie al raffronto con le foto storiche, ma non ancora indagata attraverso le fonti d’archivio): sulla facciata del monumento, alla targa originaria, che era molto evocativa ma non faceva riferimento ai fatti, pare sia stata aggiunta in un secondo momento – imprecisato – una parte iniziale descrittiva dell’episodio (mentre sul retro una seconda lapide ricorda i nomi dei 77 minatori uccisi); quasi che il passare del tempo avesse reso necessario un chiarimento rispetto alla vicenda, non più ritenuta autoevidente per chi incappava nel monumento.

Se per luoghi di memoria intendiamo quei luoghi che «sono percepiti dalle popolazioni che li abitano o li conoscono come espressivi di identità legate al loro vissuto, ai racconti dei loro genitori e nonni» è evidente che la capacità di questi luoghi di dialogare con le comunità di riferimento cambia nel tempo, si perde o semplicemente si trasforma con il passare delle generazioni. I segni di pietra della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, a ottant’anni dai fatti, paiono sempre più necessitare quindi dell’attenzione degli storici e dell’esercizio attivo di memoria da uomini e donne, singolarmente o in gruppo. Solo così pare possibile preservare ciò che questi monumenti e segni di memoria hanno tutti, quell’aspirazione a raccontare «qualcosa di universale per eccellenza: sia l’opposizione alla tirannia, all’ingiustizia o sia la lotta per i diritti e la libertà, per la liberazione della patria» (Massimo Dadà, Paesaggi della memoria. Dai luoghi alla rete, e viceversa, 2018).

Note
[1] Si veda l’esistenza datata ormai al 2017 dei Paesaggi della memoria, rete di musei e luoghi di memoria dell’Antifascismo, della Deportazione, della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della Liberazione in Italia che fa da contraltare all’assenza, fino ad oggi, di un museo a livello nazionale (www.paesaggidellamemoria.it).
[2] Per capire come alla Resistenza del territorio maremmano si è guardato nei diversi momenti storici si possono considerare le diverse opere che al tema si sono approcciate nel contesto locale: ad esempio, I minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola del 1956; Visi sporchi coscienze pulite. Storia di un piccolo paese minerario della Toscana di Mauro Tognoni, che è del 1975; il racconto autobiografico di Aristeo Banchi, Si va pel mondo. Il partito comunista dalle origini al 1944 che è del 1993. Si tratta di scritti sulla Resistenza o memorialistici che, se comparati, possono ben darci il senso di come è cambiata questa narrazione.
[3] Sui limiti della memoria e della ricostruzione storica dello squadrismo maremmano si veda Ilaria Cansella, L’avvio dello squadrismo in provincia di Grosseto: il 1921 e i fatti di Roccastrada, in Roberto Bianchi (a cura di), 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, Olschki, 2022.
[4] Cfr. Adolfo Turbanti, Stefano Campagna, Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Effigi, Quaderno Isgrec n. 8, 2021.
[5] Cfr. Katia Taddei, Il massacro dei minatori di Niccioleta. 13-14 giugno 1944, su https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-massacro-dei-minatori-di-niccioleta-13-14-giugno-1944/.
[6] La prima cerimonia avvenne a Massa Marittima alla fine del settembre 1944. Una grande folla seguì gli autocarri che trasportavano i feretri. In quell’occasione, al parco  della Rimembranza parlò a nome dell’intera cittadinanza il socialista Emilio Zannerini.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Il massacro dei minatori di Niccioleta, 13-14 giugno 1944

Niccioleta è un villaggio minerario nel comune di Massa Marittima, al centro delle Colline Metallifere. La storia di Niccioleta è legata all’attività estrattiva della pirite i cui giacimenti furono acquisiti, agli inizi del secolo scorso, dalla Società Montecatini. Nel 1935 la scoperta di un grosso quantitativo di minerale dette un nuovo impulso alla miniera e la Società iniziò l’edificazione di un villaggio costruito su livelli altimetrici separati per classe sociale: i palazzi occupati dalle famiglie degli operai si trovavano in basso e circondavano la piazza, al livello superiore erano disposte le abitazioni degli impiegati e sulla sommità si ergeva la villa del direttore. I dipendenti provenivano in gran parte dal monte Amiata, dove le miniere di cinabro si erano esaurite, in particolare da Santa Fiora e Castell’Azzara, ma ve ne erano anche provenienti da altre località o regioni come Veneto e Sicilia: forza lavoro specializzata, che si trasferiva da un ambito minerario all’altro, in cerca di occupazione. Al personale impiegato nella miniera non era richiesta l’iscrizione al partito fascista, ma è probabile che i dipendenti vi fossero iscritti d’ufficio al momento dell’assunzione[1]. Le mansioni particolari dei minatori, non così facilmente sostituibili, concedevano loro il vantaggio di conservare le proprie opinioni politiche senza dover necessariamente rischiare la prigione o il confino. Si andava così costituendo sottotraccia, una base di opposizione al fascismo tutt’altro che risibile: «le famiglie contrarie al fascismo erano tante, più del 60% senz’altro, ma gli esponenti diciamo quelli più in vista, saranno stati una dodicina»[2].

La Direzione ne era senz’altro a conoscenza e ad ogni visita da parte delle autorità fasciste, si procedeva all’arresto preventivo dei più facinorosi, rilasciati all’indomani della manifestazione. Dopo l’8 settembre 1943, con la costituzione della Repubblica Sociale, a Niccioleta si contavano circa una quindicina di famiglie di fascisti, su una popolazione di circa ottocento persone. Il direttore Mori Ubaldini che aveva aderito convintamente al PNF, all’affermarsi del secondo fascismo se ne discostò, in particolare quando, dalla primavera del ‘44 nel villaggio si stagliò nettamente una maggioranza antifascista ed i fascisti iniziarono a chiudersi in difesa, nel timore che le forze partigiane potessero prendere il sopravvento e vendicarsi dei loro abusi (alcuni fascisti come Aurelio Nucciotti, segretario politico, avevano partecipato a rastrellamenti di partigiani).

I partigiani dell’area erano in contatto con il villaggio attraverso fiancheggiatori che li rifornivano di dinamite, chiodi a tre punte ed altri manufatti utili al sabotaggio. Alla fine di maggio i fascisti percependo il crescente isolamento, iniziarono ad apostrofare gli antifascisti e le loro famiglie minacciandoli dell’arrivo in loro aiuto di qualcuno che “avrebbe messo a posto la Niccioleta”. Il 5 giugno gli ufficiali tedeschi del presidio di Pian di Mucini in prossimità del villaggio, chiesero al direttore di poter interrogare cinque operai accusati di essere sostenitori dei partigiani. Si presentarono in tre, uno fuggì dalla finestra e gli altri furono redarguiti e rilasciati. Si trattò di una prima avvisaglia che denunciava la presenza di delatori al villaggio. Tre giorni dopo, mentre quegli stessi ufficiali si dirigevano in auto verso Boccheggiano, caddero in un’imboscata tesa dai partigiani e i soldati rimasti al presidio si diedero alla fuga.

Il 9 di giugno del 1944 alcuni antefatti, collegati tra di loro, determineranno le sorti del villaggio e della sua popolazione. Nel pomeriggio una squadra di partigiani della formazione “Camicia Rossa” giunse a Niccioleta; i giovani, accolti dalla popolazione festante, bruciarono qualche camicia nera e dopo aver disarmato i carabinieri e chiesto ai fascisti di restare in casa, se ne tornarono alla loro base, lasciando il paese nelle mani di un comitato pubblico costituito da vecchi antifascisti che organizzarono turni di guardia agli impianti e al paese. All’alba di quello stesso giorno, il III Freiwilligen Batallion Polizei Italien, partiva da San Sepolcro con destinazione Castelnuovo di Val di Cecina, ove giunse all’alba del giorno successivo, seguendo una logica poco comprensibile visto il contingente di reparti tedeschi in ritirata che transitavano in quei giorni sulla via Aurelia, o sulle strade più interne, verso la linea Gotica.

Il battaglione, costituito da truppa italiana e ufficiali tedeschi e italiani, era comandato dal maggiore Kruger che da subito si assentò, lasciando gli uomini sotto la guida tenente Emil Block. La mattina del 10 giugno il battaglione, al suo ingresso in Castelnuovo, catturava tutti gli uomini incontrati per strada e li conduceva presso il municipio in qualità di ostaggi. La popolazione, memore che il 7 giugno una squadra di partigiani della XXIII brigata aveva catturato e passato per le armi Pietro Palmerini, impiegato comunale fascista, al giungere del battaglione pensò ad una rappresaglia legata a quel fatto. In realtà accadde qualcosa di assolutamente indecifrabile. Durante la mattina del 10 giugno una squadra del battaglione in avanscoperta si scontrava presso Monterotondo Marittimo con una squadra di partigiani: cinque di loro persero la vita, ma furono colpiti anche numerosi militi. Il tenente Block, nonostante le perdite, non effettuerà alcuna rappresaglia su Monterotondo e neanche contro gli ostaggi di Castelnuovo che nel pomeriggio furono tutti rilasciati, tranne quattro giovani in età di leva deportati in Germania. Tuttavia, il 12 giugno il comandante chiedeva che fosse approntato un locale in grado di ospitare almeno 150 uomini; la notte stessa un reparto di circa 70 uomini lasciava Castelnuovo per Niccioleta e accerchiava il villaggio, prelevando tutti gli uomini dalle case.

Gli uomini del turno di notte fuggirono nascondendo le note con i turni di guardia nel rifugio antiaereo, gli altri furono trascinati nella piazza con le mitragliatrici puntate contro, sei di loro su indicazione di fascisti locali furono prelevati, percossi a lungo e poi passati per le armi quella stessa mattina: Ettore Sargentoni con i due figli Ado, che era in contatto con i partigiani, e Alizzardo; Bruno Barabissi, a cui fu trovato un fazzoletto rosso; Rinaldo Baffetti, noto antifascista, e Antimo Chigi che aveva un lasciapassare partigiano utilizzato per raggiungere i cantieri della Todt dove lavorava. Una volta trovate le note dei turni di guardia, gli uomini furono rinchiusi nel rifugio antiaereo e alla sera condotti a Castelnuovo Val di Cecina con i fascisti del paese e le loro masserizie.

Partirono con un moderato ottimismo, pensando che la fucilazione dei sei uomini al mattino avesse in qualche modo soddisfatto il desiderio di vendetta dei nazifascisti. Fu loro ordinato di prendere un cambio per tre giorni poiché sarebbero stati condotti a scavare trincee anticarro e a minare la centrale elettrica. Furono condotti a Castelnuovo e rinchiusi nei locali del cinematografo. Il giorno dopo avvenne la selezione: ventuno giovani nati tra il 1914 e il 1927 non presenti nelle note, pur avendo partecipato ai turni, furono condotti a Firenze e da qui in Germania ai lavori forzati; gli uomini di età superiore ai cinquant’anni furono inizialmente trattenuti, poi rilasciati successivamente alla strage dove perirono molti dei loro figli. Durante la selezione il fascista Calabrò ricevette il “privilegio” di salvare sei uomini, ma ne salvò solo due dal gruppo destinato alla fucilazione.

In settantasette furono quindi condotti in prossimità della centrale elettrica e qui uccisi da mitragliatrici occultate.

Il processo che seguì alla strage si concluse con una condanna dopo due gradi di giudizio ed un ricorso in Cassazione a 20 anni per Calabrò e Nucciotti, accusati di aver chiamato il battaglione a Niccioleta, e a 10 anni per Aurelio Picchianti, un milite riconosciuto da un giovane del villaggio. Un indulto nel 1952 liberò definitivamente i condannati. Gli uomini che fecero parte del plotone di esecuzione, denunciati inizialmente da un commilitone, saranno prosciolti in seguito al ritiro della denuncia. Il segretario del direttore, un ex capitano dei servizi segreti militari, tale Nicola Larato, si era allontano da Niccioleta ai primi di giugno e vi ritornò il giorno stesso in cui il battaglione aveva accerchiato il villaggio. Fu riconosciuto da un milite ed era atteso dal comandante; dunque, era precedentemente stato in contatto con il battaglione, forse attraverso il tenente medico Domenico Fracchiolla, pugliese come il Larato. Larato fu catturato dal CLN di Niccioleta nel dopoguerra e consegnato agli Alleati, che lo tratterranno due anni nel campo di concentramento di Padula; tuttavia non fu mai imputato al processo. Il tenente medico, invece, non fu mai ritrovato perché all’epoca si ignorava il suo nome. Molti anni dovettero passare prima che gli storici si interessassero all’eccidio e ritrovassero i documenti utili all’individuazione dei responsabili tedeschi, che tuttavia restarono impuniti.

Note

  1. Presso l’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea a Firenze sono conservati i registri contenenti l’elenco di tutti i dipendenti della Società Montecatini iscritti al PNF, tra questi anche oppositori al fascismo, e da un riscontro presso le famiglie risultava che nessuno ne fosse a conoscenza.
  2. Si veda l’intervista a Mario Fatarella, in Katia Taddei, Coro di voci, Il Ponte Editore, Firenze 2003, p. 310.

Per approfondimenti: https://memoriavittimenazismofascismo.it/ nel quale si possono consultare le interviste a Siliano Sozzi, Mario Fatarella, Bruno Travaglini, accessibili previa registrazione gratuita.

Articolo pubblicato nel febbario 2024.




Gli internati militari follonichesi: nodi storiografici e metodologia di una ricerca

Gli internati militari rappresentano il più consistente gruppo di italiani trattenuti con la forza in Germania durante la guerra: oltre 600.000 furono infatti coloro che opposero un netto rifiuto, determinati a continuare volontariamente la propria reclusione pur di non aderire ancora al progetto nazifascista. Di loro, oltre 40.000 morirono prima di poter riabbracciare le proprie famiglie per le dure condizioni di prigionia a cui furono sottoposti. Dai sondaggi avviati negli archivi di alcuni Comuni della provincia di Grosseto, si intuisce che anche da questo territorio il numero di IMI deportati fu probabilmente abbastanza alto rispetto alle conoscenze acquisite dalla storiografia: il riordino in corso a cura dell’Isgrec dell’Archivio postunitario del Comune di Roccastrada, ad esempio, restituisce un prospetto riassuntivo con una quarantina di nominativi di deportati militari in Germania rientrati nell’ottobre del 1945, mentre una segnalazione del suddetto Comune al Comitato provinciale Reduci dalla prigionia fa presente che “i reduci da rientrare ammontano a circa un centinaio” (Archivio Comunale di Roccastrada, in stato di riordino).

L’internato militare follonichese Lisio Nunzi nel campo di prigionia

Una ricerca condotta dall’Isgrec sul contesto di Cinigiano nel 2015, invece, ha permesso di  avviare un’operazione di recupero della memoria della deportazione che esitò in quel caso in un documentario (Fu la loro scelta. Racconti di Resistenze, prodotto dall’ISGREC e finanziato dal Comune di Cinigiano, che ruota attorno alle interviste rilasciate da testimoni, reduci e internati militari della Seconda guerra mondiale): consentì di mettere in luce tramite le residue memorie orali del territorio la drammaticità dell’esperienza vissuta da tre deportati, cosiddetti “schiavi di Hitler”, privati dei loro diritti, umiliati e sfruttati nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma che non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. La metodologia applicata in questo progetto dimostra come la ricostruzione evenemenziale dei percorsi umani sia la base da cui partire per una riflessione di taglio storico anche sul tema della deportazione; una metodologia che permette da un lato di dettagliare e accrescere i profili biografici di partenza, dall’altra mirante all’individuazione del numero più veritiero possibile di deportati.

Opera dell’artista Evrio Cicalini, internato militare

Quella degli IMI fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie su cui una recente iniziativa del Comune di Follonica ha portato i ricercatori delll’ISGREC nuovamente ad indagare, allargando il quadro conoscitivo a un altro Comune della provincia. Infatti, dalla volontà espressa con una mozione dal Consiglio comunale di Follonica di realizzare una ricerca storica che permettesse “di individuare con esattezza i nomi dei follonichesi deportati nei lager nazisti”, è stata affidato all’Isgrec un incarico per il recupero della storia e della memoria degli internati militari di Follonica, portato avanti grazie alla sinergia fondamentale con la sezione Anpi “Virio Ranieri” di Follonica.

Obiettivo della ricerca era quello di procedere a livello locale, tenendo fermo come criterio quello della provenienza generica dal territorio follonichese, per rintracciare i nati o vissuti a Follonica deportati come internati militari dopo l’8 settembre. Questo a partire dai pochi nominativi inizialmente reperiti nel volume del 1996 “Il mi’ paese è libero: fra testimonianze orali e carteggi. Follonica dal 1940 al 1945” e in parte forniti dal Comune, prevedendo sondaggi sulle Banche dati online e tramite il contatto con associazioni dei reduci (in primis l’Associazione nazionale reduci della prigionia – ANRP – e l’Associazione nazionale ex Internati) per la verifica dei nominativi ed eventualmente l’incrocio dei dati.

Targhetta identificativa di Lisio Nunzi, internato nello Stalag V-B di Villingen, nella regione tedesca del Baden-Württemberg

Proprio le competenze maturate dall’Isgrec durante la pluriennale attività di indagine a livello locale sul tema della deportazione razziale (si vedano gli studi condotti da Luciana Rocchi), sulla deportazione politica (con la posa delle pietre di inciampo dedicate ad Albo Bellucci, Giuseppe Scopetani e Italo Ragni davanti al Comune di Grosseto e di quella dedicata a Tullio Mazzoncini a Campo Spillo) e sulla memoria degli IMI, cui già si è accennato, hanno suggerito di procedere a livello locale, tenendo fermo come criterio quello della provenienza dal Comune di Follonica. Una tipologia di lavoro storico che permette di mettere in luce non soltanto alcune figure importanti della storia del territorio, ma anche di evidenziare questioni rilevanti per l’interpretazione del quadro nazionale, che potrebbero tornare utili nel momento in cui verranno realizzate altre ricerche a livello provinciale ma anche regionale.

Targa apposta nella Giornata della Memoria 2023 a Follonica in ricordo degli IMI

Scopo del lavoro, inoltre, è stato anche quello di riportare queste vicende all’interesse collettivo, restituendo a Follonica la memoria storica dei suoi internati militari, ormai quasi dispersa. Proprio per questo motivo, alla ricerca storica vera e propria, che confluirà prossimamente in un volume, si è scelto di affiancare iniziative di public history dedicate alla comunità follonichese, come l’apposizione, a gennaio 2023, di una targa in memoria presso lo spazio antistante il palazzo comunale, con la partecipazione delle autorità cittadine, dell’Anpi e dei ricercatori dell’ISGREC e con il coinvolgimento delle famiglie degli IMI, della cittadinanza e delle scuole. L’iniziativa pubblica ha restituito quindi i risultati della ricerca portando con forza all’attenzione della collettività il tema in maniera simbolica, nella giornata dedicata dalle leggi dello Stato italiano a tenere insieme la memoria della Shoah, cioè lo sterminio e la persecuzione del popolo ebraico, con quella dell’internamento militare e della deportazione politica. La visibilità data dall’evento alla ricerca, ha permesso di raggiungere ulteriori famiglie che conservavano una memoria familiare privata di internamento militare, anche tramite una mail dedicata presso il Comune di Follonica finalizzata alla raccolta di segnalazioni. Ne sono emersi, allo stato attuale, ben 23 nominativi, 23 storie, che rappresentano rispetto al numero iniziale, un notevole allargamento delle conoscenze storiche che riguardano il territorio.

L’invito del Comune di Follonica a rintracciare gli Imi che nella città sono nati o che l’hanno resa la sede della loro crescita personale e professionale, è uno dei gesti istituzionali che contribuisce nel modo più sensibile e concreto, a distanza di ormai ottanta anni, a restituire la riconoscenza mancata verso persone che dedicarono tutti i loro sacrifici per l’Italia. Molto profondo anche il senso di comunità espresso alle origini stesse della ricerca. Non si è infatti trattato di analizzare i follonichesi nati o residenti nella città, per quanto le loro storie siano state ripercorse anche attraverso la ricerca negli archivi dell’anagrafe. Ma si è voluto comprendere tutti coloro che hanno vissuto una parte importante della loro vita a Follonica, contribuendo allo sviluppo della città, o anche alla sua ricostruzione nel dopoguerra. In qualche modo, cioè, parti integranti di una comunità, intesa come insieme di persone e di valori che hanno fatto dell’antifascismo (nel dopoguerra) e del senso civico della memoria (ai nostri giorni) le colonne portanti della propria identità. Quanto voluto da una istituzione cittadina come quella di Follonica è certamente un gesto di grande valore e di importanza storica, sebbene condotta su un numero estremamente ristretto di militari in confronto agli oltre 600mila che vissero la loro stessa esperienza. Ma è fondamentale anzitutto perché restituisce valore al sacrificio fatto dai prigionieri nei campi tedeschi, che dopo lunghi mesi di sofferenze e lavoro forzato tornarono in una patria poco pronta ad accoglierli e a capirli. Si tratta poi di un tassello di un mosaico molto grande che, per quanto necessiti di altri studi locali per andare a completare il panorama complessivo, è pur sempre un esempio ed un punto di partenza importante.

Ruolo matricolare di Rino Burgassi, Archivio di Stato di Grosseto

Lo studio condotto si è avvalso di più fonti. Le testimonianze raccolte hanno rappresentato soltanto la seconda fase di una ricostruzione che, come di dovere, è partita dagli archivi e ha cercato conferme e integrazioni nell’incrocio dei dati e delle informazioni. Gli elenchi di nominativi conosciuti a livello locale (grazie al contributo dell’Associazione Il Golfo) o apparsi su alcune pubblicazioni di vecchia data sono stati analizzati e verificati presso molteplici diversi fondi. Questo ha permesso anzitutto di scartare alcuni militari che, anch’essi prigionieri, non vissero la vicenda dell’internamento in Germania. La ricostruzione degli arruolamenti e della dislocazione dei militari all’8 settembre 1943 si è ricostruita principalmente attraverso i ruoli matricolari custoditi presso l’Archivio di Stato di Grosseto e di alcune altre provincie dove gli internati erano residenti al momento della leva. Le nuove fonti online messe a disposizione da Arolsen e altre iniziative sorte recentemente per valorizzare il sacrificio degli Imi sono parimenti state consultate per ottenere conferme o smentite. Gli archivi di Onorcaduti rappresentano poi la fonte principale per verificare gli eventuali caduti. Una ricerca a livello locale, infine, non poteva prescindere da un approfondito lavoro presso gli uffici dell’anagrafe comunale. L’aver incluso nell’analisi cittadini di Follonica nel senso più ampio, ha infatti implicato che si verificassero gli spostamenti di residenza, per comprendere quando e perché gli internati raggiunsero Follonica, o se ne allontanarono nel corso del dopoguerra. Se tutto questo ha preparato il terreno per la consultazione dei parenti dei militari, è stata fondamentale anche un’intensa opera di ricerca per passaparola al fine di rintracciare i figli, i nipoti e gli altri parenti dei protagonisti di quelle ormai lontane vicende. Da Follonica ci siamo quindi spostati anche in altre città italiane, dove nel tempo le famiglie si sono trasferite. Un percorso di ricerca dunque non facile ma che ha messo in rilievo la partecipazione e la vicinanza di questi nuclei familiari ormai stabilitisi altrove con le origini follonichesi dei genitori.

I familiari di alcuni IMI di Follonica davanti alla targa che ne ricorda la tragica vicenda

Se l’analizzare l’esperienza degli Imi a livello locale presenta alcuni precedenti, alcuni dei quali condotti con studi ben più ampi e completi, quanto svolto a Follonica rappresenta tuttavia una novità non trascurabile. Non sono state ricostruite le storie degli Imi soltanto attraverso le carte d’archivio né con le testimonianze dirette dei reduci, come in gran parte degli studi condotti sino ad ora. Il lavoro si è intenzionalmente allargato allo studio delle conseguenze dell’internamento sulla personalità dei militari dopo il loro rientro in patria e delle reazioni dei familiari e della comunità al ritorno dei prigionieri. Cosa ha lasciato in ognuno di loro la dura esperienza vissuta? Ha influito, e in che misura, nel loro costruirsi una famiglia, trovare lavoro, trascorrere il proprio tempo libero? E ancora: cosa hanno raccontato alle proprie famiglie, e in che modo lo hanno raccontato? Ciò che non hanno voluto dire e spiegare, a cosa fu dovuto? Per rispondere a queste domande la fonte più efficace sono state le testimonianze dei familiari, coloro cioè che in prima persona accolsero o conobbero gli Imi dopo che riuscirono a rientrare in patria. Ascoltando le loro voci si è potuta ricostruire non soltanto la storia della loro vita, ma anche il loro stesso atteggiamento verso l’esperienza subita, ed il loro approccio con i figli e con la comunità locale. Da tante storie diverse e comportamenti diversi si può tuttavia ricostruire un’unica storia: quella della difficoltà per gli internati militari di ricongiungersi con la nuova Italia che trovarono al rientro dalla Germania. Un’Italia che aveva mostrato i suoi nuovi tratti anche a Follonica, impegnata nella ricostruzione e amministrata da nuovi partiti politici e nuove figure istituzionali.

Storiograficamente, infine, lo studio si apre ad un’altra novità: l’utilizzo di testimonianze di seconda generazione. In un panorama in cui molte pubblicazioni, anche di grande valore scientifico, hanno utilizzato le testimonianze dirette degli Imi per ricostruire le vicende della prigionia e del loro ritorno in patria, l’utilizzo di racconti secondari non è ancora sviluppato. Da una parte sembra naturale aver voluto interpellare i testimoni diretti di quelle tragiche esperienze fino a che è stato possibile. Ma ascoltando i parenti degli Imi follonichesi ci è sembrato che le loro testimonianze non fossero un ripiego, una fonte di rimpiazzo. Abbiamo riscoperto piuttosto il loro grande valore per analizzare l’impatto della prigionia sui familiari degli internati e come quei duri mesi in Germania segnarono per sempre le loro vite, lasciando ferite indelebili e sofferenze prolungate. Ma anche qualche insegnamento, sapientemente tramandato ai figli e ai nipoti. Certo, i dettagli della detenzione, del lavoro nei campi, della vita nelle baracche possono subire alcune sfumature passando di generazione in generazione, molti aneddoti possono andare perduti. Le voci dei parenti ci aprono molti altri ambiti di riflessione, sia sulla metabolizzazione del ricordo che sulla sua funzione ed influenza sulla memoria della comunità.

Dino Ferri, libretto del campo di lavoro e prigionia

Le storie emerse sono tutte diverse l’una dall’altra. Hanno in comune alcuni punti cruciali della vicenda degli Imi, come la cattura, il viaggio in Germania, gli aspetti della prigionia. Ma hanno anche tante sfaccettature diverse. Il panorama degli internati follonichesi spazia fra momenti diversi nei quali vennero catturati, e soprattutto in luoghi diversi dello scacchiere di guerra del settembre 1943. Provenivano da famiglie di estrazione sociale, politica ed economica diversa, e questo contribuì a modellare l’impatto con la prigionia e, soprattutto, il loro reinserimento nella società locale del dopoguerra. Appartenevano ad armi e reparti differenti, sebbene nessuno di loro appartenesse al ruolo degli ufficiali. Quello che avevano lasciato a Follonica, o nei loro luoghi di origine, era un contesto altrettanto diversificato. Qualcuno aveva un’attività lavorativa bene avviata, altri erano dei ragazzi che si avvicinavano proprio in quel momento al mondo del lavoro, magari aiutando i genitori o facendo apprendistato in qualche azienda locale. Vi erano padri di famiglia, sposati e con figli, mentre altri erano i figli giovani di famiglie che avrebbero avuto necessità del loro supporto. Conseguenza inevitabile dei reclutamenti fascisti, che univano i richiamati alla leva in un susseguirsi sempre più affannato di nuovi uomini al fronte.

Molto interessanti sono poi le storie delle nuove vite. Se qualcuno tornò, pur con i suoi traumi interiori, alla vita precedente, molti altri iniziarono proprio al loro rientro a Follonica una nuova esistenza. Si sposarono, trovarono un impiego, nel difficile contesto economico dell’immediato dopoguerra, e si reinserirono in modo non sempre semplice nella comunità locale. Un approccio spesso difficile per la scarsa propensione della società di quei mesi ad accogliere e ad ascoltare chi, suo malgrado, ricordava la guerra e la disperazione. Eppure tutti loro avviarono attività a Follonica, collaborarono alla ricostruzione della città, parteciparono attivamente ad iniziative sportive, culturali, ricreative.

Lo studio dell’impatto della prigionia degli internati militari sulle famiglie e sulle comunità in cui vissero dopo il rientro in patria è in gran parte da scrivere. L’interesse mostrato a Follonica dai figli e dai parenti degli Imi ha dimostrato come essi stessero ancora aspettando un riconoscimento del sacrificio dei loro padri. L’adesione al progetto, l’impegno dimostrato nel rendersi disponibili, la loro voglia di raccogliere i documenti che conservano gelosamente e di offrirli alle nostre letture sono tutti segnali di apprezzamento per l’iniziativa di valorizzazione e di memoria che si è voluta realizzare. L’interesse dimostrato anche da persone più giovani, come i nipoti, ci suggerisce anzi che siamo forse in ritardo nell’ascoltare i loro padri. Una terza generazione sembra già a disposizione, almeno a Follonica, per raccontare quanto i loro padri raccontano dei loro padri.




Note sulla Repubblica sociale italiana in Maremma

Le recenti polemiche innescate dalla prevista intitolazione a Grosseto di una via a Giorgio Almirante, storico leader del Movimento sociale italiano e già funzionario del Ministero della Cultura Popolare della Repubblica sociale italiana (RSI), hanno riportato all’attenzione del dibattito pubblico locale le responsabilità del fascismo nonché il lascito drammatico della guerra civile, combattutasi con accanimento anche in Maremma tra il 1943 e il 1944[1]. Va comunque notato che a fronte di un precoce – e certo comprensibile – interesse storiografico alla vicenda resistenziale, oggetto sin dalla metà degli anni ’60 di significativi tentativi di indagine, non è corrisposta un’altrettanto vivace attenzione all’esperienza del fascismo repubblicano grossetano, fatte salve le pioneristiche ricerche di Nicla Capitini Maccabruni e il più recente lavoro di Marco Grilli sulla strage fascista di Maiano Lavacchio[2]. Altrettanto significativo è il fatto che a comporre un primo affresco complessivo sulla Repubblica sociale italiana nella provincia, seppur di taglio cronachistico e apologetico, fosse nel 1995 la penna di Vito Guidoni, all’epoca giovane ufficiale della Guardia nazionale repubblicana (GNR)[3].

Nel dicembre 2021, la pubblicazione del volume dell’Istituto Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma – curata da Stefano Campagna e Adolfo Turbanti – ha quindi voluto, tra le altre cose, colmare questo gap conoscitivo, potendo ora contare sulla disponibilità della documentazione prodotta nel corso del cosiddetto “processone”, intentato nel dopoguerra dalla Corte d’Assise speciale di Grosseto per giudicare e punire capi e gregari della RSI in Maremma. Grazie anche a questa ricchissima fonte archivistica, in larga parte inedita, la ricerca ha cercato di ricostruire i caratteri identitari, organizzativi e repressivi di un fascismo repubblicano ben deciso a riappropriarsi del perduto spazio politico sgretolatosi con il brusco crollo del regime mussoliniano, imponendo una propria seppur limitata statualità al riparo delle armi naziste[4].

Alceo Ercolani (Credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Alceo Ercolani (Credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

All’indomani dell’armistizio e della fulminea occupazione tedesca della penisola, la federazione fascista   riapriva i battenti il 18 settembre 1943. A farsene interpreti, in un contesto segnato tanto dall’incertezza che dalla volontà di rivalsa contro vecchi e nuovi «traditori», erano in primo luogo alcuni esponenti di lunga data del fascismo maremmano: Generoso Pucci, Inigo Pucini e Silio Monti, destinati a ricoprire nei mesi a seguire ruoli politici e istituzionali di primo piano a livello locale. Un aspetto che anche nel caso grossetano lascia intravedere, nonostante i frequenti appelli propagandistici al rinnovamento e a un im­probabile ritorno alle origini sansepolcriste del movimento mussoliniano, quelle linee di continuità, più che di rottura, dell’esperienza della RSI con il defunto regime[5]. A riaffiorare erano inoltre i dissidi interni al fascismo maremmano, trascinatisi lungo tutto il Ventennio[6], che consigliavano la nomina quale commissario federale di una figura del tutto estranea al contesto locale. La scelta sarebbe caduta sul viterbese Alceo Ercolani, già ufficiale del Regio Esercito con alle spalle alcuni importanti incarichi tra le fila del Partito nazionale fascista (PNF), designato poi quale capo della provincia di Grosseto. Nonostante l’attivismo della nuova leadership fascista, il tentativo di mobilitazione ai fini bellici dell’intero corpo sociale si sarebbe dimostrato estremamen­te difficoltoso, scontrandosi da un lato con il palpabile deficit di legittimità della neonata repubblica fascista, gravata dall’invadente presenza dell’«alleato-occupante» e dalla difficile situazione militare[7]; dall’altro, scontando la diffusa indifferenza, quando non l’aperta ostilità, di larga parte della società civile grossetana, stremata da oltre tre anni di conflitto.

Le adesioni al nostro governo repubblicano – sottolineava Ercolani in una relazione stilata nell’ottobre 1943 – pervengono lentamente [e] altrettanto dicasi per le iscrizioni al partito. […] La popolazione nel grossetano è ottima sotto ogni aspetto, ma è perplessa, indecisa politicamente […]. Inoltre l’opera intrapresa da noi viene quotidianamente smantellata dal contegno arrogante e prepotente dei camerati tede­schi. […] Il popolo tutto vede e commenta sfavorevolmente, spronato da coloro che attendono ancora gli inglesi[8].

Un’alterità immediatamente percepibile tanto dal modesto, seppur non trascurabile, numero di iscritti al partito fascista repubblicano – 3.168 aderenti nel marzo 1944, appena una frazione dell’elefantiaco apparato del PNF[9] – che dal disastroso esito delle operazioni di leva, disposte per il Grossetano a partire dalla seconda metà di dicembre 1943. Nonostante l’irrigidimento delle misure coercitive mes­se in campo dalle autorità fasciste, solo un esiguo numero di reclute avrebbe infatti risposto all’appello dell’esercito di Salò, certificando con il proprio dissenso un ormai generalizzato «rifiuto della guerra» impensabile sino ad alcuni mesi prima. Come notava il comando provinciale dell’esercito, a favorire questa vera e propria «renitenza di massa»[10] avrebbe contribuito anche la presenza di «numerose, forti, ben armate […] bande di ribelli», capaci di minacciare la già precaria credibilità e la tenuta stessa dell’ordinamento fascista repubblicano[11]. L’azione via via più aggressiva delle prime formazioni alla macchia – particolarmente intensa nel Massetano e lungo il lembo meridionale della provincia – avrebbe quindi spinto le autorità saloine a mettere in campo una sempre più incisiva reazione repressiva: stante il cauto atteggiamento inizialmente dimostrato dalle forze di occupazione tedesche, scarsamente inclini a intervenire direttamente nella lotta antipartigiana laddove non direttamente minacciati nei propri interessi[12], erano soprattutto i reparti militari e di polizia italiani a rendersi protagonisti, nei primi mesi del 1944, di una serie di operazioni di rastrellamento, sviluppatesi in più occasioni a cavallo delle confinanti province di Siena e Viterbo. Aspetti questi che oltre a rimarcare l’attivismo di Ercolani, già messosi in luce per lo zelo persecutorio dimostrato verso gli ebrei[13], confermano i margini di iniziativa e gli spazi di autonomia – tutt’altro che trascurabili – attribuiti a livello locale alle formazioni armate saloine[14]. Non a caso, è nelle settimane tra febbraio e marzo 1944 che il fascismo repubblicano toscano riusciva a imporsi quale soggetto attivo della violenza, dimostrando sul campo una fattiva e brutale capacità repressiva in larga parte slegata dall’ancora limitata azione antipartigiana condotta dell’alleato tedesco nella regione. Un’offensiva che, come nel caso grossetano, dove numerose erano le camicie nere reduci da una lunga esperienza nel teatro di occupazione balcanico, avrebbe attinto alle pratiche di controguerriglia sperimentate nel corso delle precedenti guerre del fascismo.

La violenta dialettica con le formazioni partigiane trovava in Maremma il massimo sfogo nei tragici episodi del Frassine – dove il 16 febbraio venivano fucilati cinque membri della banda Camicia Rossa – e nella strage perpetrata il 22 marzo successivo a Maiano Lavacchio: in questo caso, 11 tra renitenti e sbandati catturati sui bassi rilievi di Monte Bottigli erano passati per le armi dai militi della GNR dopo un simulacro di processo sommario, alla presenza di alcuni dei familiari delle vittime accorsi dalle vicine case coloniche nel tentativo di salvare i propri cari[15]. La ricercata ostentazione del successo, volta a riaffermare la fermezza e la radicalità d’intenti delle autorità della RSI, tradiva in realtà le malferme fondamenta del potere fascista. In tal senso, ha notato Toni Rovatti, «la debolezza sul piano della legittimità, che caratterizza costituzionalmente il nuovo Stato fascista», si dimostra «una chiave interpretativa essenziale» per comprenderne l’«evoluzione nelle scelte sull’uso politico della violenza» estrema[16]. Gli effimeri successi delle forze nazifasciste non avrebbero in ogni caso impedito il crescente sviluppo del movimento resistenziale, sempre più padrone dell’iniziativa e capace ormai di contendere il controllo di ampie porzioni del territorio maremmano. Con l’inoltrarsi della primavera e la ripresa dell’offensiva alleata sulla Linea Gustav, la situazione era destinata rapidamente a precipitare, mentre le ultime segnalazioni inviate dal capo della provincia denunciavano il senso di abbandono e l’angoscia serpeggiante tra le schiere fasciste, già falcidiate dalle numerose defezioni. «La si­tuazione qui è gravissima e peggiora di giorno in giorno» lamentava Ercolani sul finire di maggio. «Non ho le armi e i pochi ar­mati non sono assolutamente sufficienti a fronteggiare le bande. Da otto mesi chiedo invano […] armi e rinforzi. Finora ho potuto resistere […]; ma ora non più. Bisogna provvedere tempestivamente!»[17].

L’improvvido allontanamento del capo della provincia, assentatosi l’8 giugno per conferire con il ministro dell’Interno, segnava infine il disordinato tracollo delle residue strutture politico-militari ancora presenti nella provincia, che si accompagnava con le ultime violenza sfogate nell’imminenza della disfatta contro una popolazione punita per aver voltato le spalle al fascismo[18]. Difficile azzardare una stima su quanti – tra militari e civili, in diversi casi seguiti dalle proprie famiglie – avrebbero deciso di abbandonare la provincia e riparare oltre l’Appennino, per sfuggire alle incognite della Liberazione e continuare la guerra al fianco delle forze tedesche. Mentre la federazione fascista prendeva sede nel piccolo centro gardesano di Bardolino, i reparti superstiti della GNR convergevano in buona parte verso Vicenza, dimostrando nei mesi a seguire un rinnovato impegno nell’azione di controguerriglia. Interessante infine notare come l’ex-capo della provincia Ercolani, elogiato dal segretario del PFR Pavolini per il «comportamento» tenuto di fronte alla «spinta dei ribelli»[19], fosse dirottato alla guida dell’Ente nazionale per l’assistenza ai profughi e la tutela degli interessi delle province invase, che avrebbe assunto nel corso dell’estate 1944 compiti politicamente assai delicati per la tenuta del residuo consenso al fascismo repubblicano.

All’indomani della Liberazione, la richiesta di giustizia proveniente dalle comunità colpite dalla violenza saloina avrebbe dovuto attendere sino al 18 dicembre 1946, quanto al termine di una lunga e complessa istruttoria, la Sezione speciale della Corte d’Assise di Grosseto pronunciava condanne piuttosto pesanti nei confronti dei maggiori responsabili del fascismo repubblicano maremmano. I successivi esiti giudiziari della vicenda avrebbero però significativamente attenuato le pene spiccate dalle corte grossetana, palesando la difficile e contradditoria transizione dal fascismo alla democrazia[20].

 

**Note**

[1] Nicola Ciuffoletti, Le vie della discordia. Polemica per l’intitolazione ad Almirante e Berlinguer, «La Nazione» (ed. on line), 15 marzo 2023 (www.lanazione.it/grosseto/cronaca/le-vie-della-discordia-polemica-per-lintitolazione-ad-almirante-e-berlinguer-64674de5). La vicenda è stata oggetto, a più riprese, di attenzione anche dalla stampa nazionale, come ad esempio in Stefano Cappellini, Hanno tutti ragione. Berlinguer, Almirante e la farsa di Grosseto. Si scrive pacificazione, si legge parificazione, «La Repubblica» (ed. on line), 17 marzo 2023 (www.repubblica.it/politica/2023/03/17/news/berlinguer_almirante_grosseto_via_pacificazione_hanno_tutti_ragione-392537736/). Per un più ampio inquadramento si veda inoltre l’approfondimento Perché no a una via intitolata ad Almirante, curato dall’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea (www.facebook.com/isgrec.istitutostoricogr). Tutti gli URL sono stati verificati alla data del 25 maggio 2023.
[2] N. Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, La Commerciale [stampa], s.l. 1985 e M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia, Effigi, Arcidosso (Gr) 2014. Per uno sguardo bibliografico d’insieme rimando a S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, Effigi, Arcidosso (Gr) 2021, pp. 379–382.
[3] V. Guidoni, Cronache grossetane: settembre 1943 – giugno 1944, Associazione Famiglie Caduti e Dispersi della RSI, Grosseto 1995.
[4] Il presente contributo condensa alcuni degli aspetti già messi in luce in L. Pera, Alla periferia della repubblica fascista: caratteri, identità, violenza del fascismo repubblicano grossetano (1943-1945), in S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, cit, pp. 131–172, cui mi permetto di rinviare per una più ampia e articolata trattazione. Le carte del procedimento della Corte d’Assise speciale di Grosseto, raccolte in quattro corpose buste, sono conservata in Archivio di Stato di Perugia, Corte d’Assise, Processi penali (ultimo versamento), bb. 79-79quater.
[5] Riprendo qui l’interpretazione offerta da D. Gagliani, Biografie di “repubblichini” e continuità e discontinuità culturali e politiche, in S. Bugiardini (a cura di), Violenza, tragedia e memoria della Repubblica sociale italiana, Carocci, Roma 2006, pp. 205–213. Per una concisa ma ricca sintesi dell’esperienza del fascismo repubblicano cfr. A. Osti Guerrazzi, Storia della Repubblica sociale italiana, Carocci, Roma 2012.
[6] Sui caratteri e i profili del fascismo maremmano vedi M. Grilli, Il governo della città e della provincia, in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Effigi, Arcidosso 2018, pp. 51–153.
[7] Sull’occupazione tedesca della penisola, rimane tutto essenziale il lavoro di L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
[8] ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, b. 1, f. 1/Ris, Grosseto – Situazione politico-economica della provincia, s.d. [ma presumibilmente metà ottobre 1943]. Più in generale cfr. S. Campagna, Civili in guerra e guerra ai civili. Per un profilo storico della provincia di Grosseto tra fascismo e secondo conflitto mondiale, in S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, cit., pp. 29–72.
[9] Traggo queste cifre da ACS, MI, Gabinetto, RSI, b. 6, f. 45, Prefettura di Grosseto, Situazione politico-economica della provincia – Mese marzo 1944, 1° aprile 1944.
[10] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, pp. 218–219. Sul caso grossetano cfr. M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit., pp. 40 segg..
[11] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, I-1, b. 10, f. 130, 49° Comando Militare Provinciale, Situazione sulla chiamata alle armi dei militari delle classi 1923-1924-1925 per conto dell’Esercito, 18 febbraio 1944.
[12] C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2015, pp. 86–87.
[13] L. Rocchi, Ebrei nella Toscana meridionale: la persecuzione a Siena e Grosseto, in E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), Vol. I. Saggi, Carocci, Roma 2007, pp. 254 segg.; più in generale cfr. S. Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano 2015, che richiama a sua volta l’attenzione sul caso grossetano.
[14] Su questi aspetti, ben evidenziati dalla più recente storiografia, si veda in particolare T. Rovatti, Leoni vegetariani. La violenza fascista durante la RSI, CLUEB, Bologna 2011 e Id., La violenza dei fascisti repubblicani. Fra collaborazionismo e guerra civile, in G. Fulvetti – P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Il Mulino, Bologna 2016, pp. 145–168.
[15] L. Pera, Alla periferia della repubblica fascista, cit., pp. 158–165 e M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit.. Sull’episodio di Maiano Lavacchio si veda inoltre la mostra virtuale Per noi il tempo si è fermato all’alba.
Storia dei Martiri d’Istia
, raggiungibile all’indirizzo: https://martiridistia.weebly.com.
[16] T. Rovatti, Leoni vegetariani, cit., p. 117.
[17] ACS, MI, Gabinetto, RSI, b. 10, f. 13, Telegramma n. 2522, da capo Provincia Grosseto Ercolani a Ministero Interno Gabinetto, s.d. [ma precedente il 29 maggio 1944].
[18] Tra il 9 e il 10 giugno, nei pressi di Roccalbegna e di Scarlino, militi della GNR venivano uccidevano due civili, presumibilmente le ultime vittime fasciste della provincia.
[19] Lettera di Alessandro Pavolini a Benito Mussolini, 18 giugno 1944, pubblicata in N. Capitini Maccabruni, La situazione della Toscana nel giugno 1944 in alcune lettere di Pavolini al duce, «Ricerche storiche», VIII (1978), n. 2, pp. 538–540.
[20] Sulle vicende del “processone” vedi M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit., pp. 97 segg.. Sulle aspettative e le reazioni della società civile italiana di fronte alla stagione di giustizia di transizione imbastita nel dopoguerra si rimanda, A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma 2019.



Resistenza civile e movimento partigiano nelle zone minerarie della Maremma

La Resistenza civile dei minatori maremmani contro le truppe tedesche occupanti e i loro alleati italiani trasse origine da un sentimento di ostilità e di rabbia verso il fascismo, presente nelle zone minerarie prima che lo facesse proprio la gran parte del popolo italiano, quando si rese palese la possibilità della sconfitta militare e si moltiplicavano gli effetti disastrosi della guerra. I minatori invece avevano maturato da tempo quello stato d’animo; nello stesso modo l’avevano maturato i loro familiari e in generale gli abitanti dei paesi in cui abitavano, ad eccezione forse dei collaboratori stretti dei direttori di miniera con il loro contorno di guardie giurate. Non si può dire che fosse una convinzione politica strutturata, fondata su analisi del regime totalitario condivise e che lasciassero intravedere qualche obiettivo perseguibile: o fosse sostenuta, come ci si aspetterebbe, da nuclei antifascisti clandestini. Di questi anzi non c’era traccia nelle zone minerarie della Maremma. C’era stato, è vero, qualche timido tentativo sul Monte Amiata, a Abbadia San Salvatore, a opera di comunisti grossetani, ma non aveva avuto seguito e chi vi era stato implicato finì poi al confino. Piuttosto si verificavano qua e là manifestazioni di dissenso; il più delle volte frasi o imprecazioni imprudenti pronunciate all’osteria, magari un motivetto sovversivo che tornava in mente: niente che le autorità non potessero agevolmente derubricare a intemperanza di qualche originale, a maggior ragione se avvinazzato.  Eppure, come prova il numero di provvedimenti repressivi, il regime se ne preoccupava, avvertendo evidentemente anch’esso, sotto traccia, un’ostilità diffusa, difficile da contenere. In effetti, dopo aver condotto coscientemente al fallimento le velleità “sindacaliste” delle origini, il fascismo aveva finito per considerare i minatori come un’entità estranea, irrimediabilmente impermeabile alla sua propaganda, insensibile alla retorica delle sue ritualità e assolutamente non inquadrabile nelle sue organizzazioni. Tanto più insidiosa, quanto più concentrata attorno ai suoi luoghi di lavoro.

Come spiegare tale situazione? La ragione deve essere cercata nelle condizioni materiali di vita dei minatori: in particolare nelle tensioni che si producevano nel rapporto di lavoro, nel momento in cui proprio lì, nei cantieri della miniera, gli operai sperimentavano sulla propria pelle una contrapposizione irriducibile nei confronti del direttore, dei capi-servizio, delle guardie, talvolta dei sorveglianti. Era il classico conflitto di classe, tra lavoro e capitale, che l’ideologia corporativa, con i suoi espedienti giuridici e organizzativi, si illudeva di risolvere e non riusciva invece neppure a nascondere. Che si trattasse appunto solo odi ideologia lo aveva mostrato, tra il 1931 e il 1932, una serie di agitazioni spontanee verificatesi a Gavorrano e a Boccheggiano. Ci furono allora astensioni – illegali – dal lavoro e anche manifestazioni violente, dirette infine a contrastare il tentativo della Montecatini di introdurre in miniera il sistema di cottimo Bedaux: fu insomma una rivolta, che traeva motivo unicamente dalle condizioni di lavoro, senza mostrare alcun contenuto politico definito.

Le tensioni, originatesi nel fondo della miniera, si rispecchiavano all’esterno e inevitabilmente, una volta venute in superficie, coinvolgevano il regime e producevano avversione al fascismo. Accanto alle società minerarie, e perfettamente solidale con esse, si ergeva infatti appena fuori dai pozzi di estrazione l’apparato dello stato totalitario, che ne faceva propri gli interessi e, quando era il caso, anche le politiche paternalistiche. Non erano allora tanto i vecchi desideri di vendetta a tornare a galla, i conti in sospeso dai primi anni Venti, o almeno non erano solo quelli; nasceva piuttosto nella giovane generazione operaia una rabbia nuova rivolta contro il sistema di potere che si era costituito: quel perfetto connubio fascio-capitalista sancito, ai piani alti, dalla solida comunanza di interessi che le società minerarie, prima tra tutte la Montecatini, avevano stretto con il governo di Mussolini e saldato, ai piani bassi, dallo stesso intento di sfruttare e di opprimere quanti lavoravano per loro.

Venne dunque a crearsi progressivamente un antifascismo di massa, di carattere prettamente operaio e ancora privo in larga parte di consapevolezza politica. Esso costituì tuttavia, all’indomani dell’8 settembre, il più solido fondamento del movimento di Resistenza.

Già in agosto del resto i minatori avevano ritrovato un motivo politico di mobilitazione nella rivendicazione della pace. Ci fu anche uno sciopero verso la fine del mese e in quell’occasione, a Boccheggiano, un corteo di lavoratori e di popolo si mosse lungo i sentieri che conducevano alla miniera chiedendo di porre fine alla guerra. Ci fu qualche tafferuglio con le forze dell’ordine e qualche arresto, a dimostrazione di quanto il governo Badoglio non tollerasse le manifestazioni di protesta. La novità però fu la ripresa in quei giorni dei contatti con l’antifascismo politico e specificamente con l’organizzazione comunista, che aveva ripreso a operare a livello regionale e stava inviando ovunque i propri emissari. Fu così, ad esempio, che proprio a Boccheggiano un gruppetto di giovani che da qualche anno avevano preso a riunirsi di nascosto e che, per qualche reminiscenza familiare già si autodefinivano “comunisti”, divennero a tutti gli effetti una cellula del partito e iniziarono a porsi concretamente il problema della Resistenza armata.

L’obiettivo della pace, che dopo il 25 luglio sembrava dovesse consistere nella cessazione delle ostilità, per farla finita subito con le morti, le distruzioni e la miseria, dopo l’8 settembre e l’occupazione tedesca di gran parte dell’Italia, richiese modalità in apparenza opposte: fu chiaro a molti a quel punto che la pace si poteva ottenere solo con la sconfitta militare della Germania, ovvero imponendo ai nazisti una resa senza condizioni. Si trattava dunque di continuare la guerra e stavolta contro la Germania. Il Partito Comunista, che continuò a agire in clandestinità ma con contatti sempre più solidi e estesi tra i minatori, si mosse su questa linea, non esitando a recuperare motivazioni patriottiche mai del tutto estinte nelle zone minerarie.

I comprensori minerari furono il terreno ideale per la diffusione delle parole d’ordine comuniste e per la costituzione di cellule o sezioni di paese che a quell’organizzazione facevano riferimento. Il radicamento sociale fu il primo obiettivo del partito e la lotta armata rappresentò il compito più urgente da assolvere. Ben presto gran parte dei giovani affluiti nelle numerose bande che, tra l’autunno e la primavera, si formarono nelle macchie della Maremma, si proclamarono comunisti, anche quando, e furono la maggior parte dei casi, i loro comandanti erano ex-ufficiali monarchici e le loro formazioni facevano capo alla rete intessuta dagli emissari del governo del sud, piuttosto che a quella delle brigate garibaldine. La proposta comunista, che non si limitava a nuclei ristretti di rivoluzionari, ma riusciva ormai a raggiungere la grande massa dei lavoratori, rispondeva all’esigenza di rivolta dei giovani, al loro bisogno di abbattere il vecchio ordine e di aprire nuove e più libere prospettive di vita. La posizione dei comunisti riguardo alla Resistenza peraltro era molto chiara: no all’attesismo, che consisteva nel rinvio del confronto con il nemico; no alle trattative e agli accordi anche parziali; no a qualsiasi richiesta – e ce n’erano – di usare benevolenza con il nemico per il timore di rappresaglie e nell’illusione che così si giungesse prima alla fine della guerra. La disponibilità di armi era ovviamente la prima condizione perché le formazioni partigiane fossero operative; l’assalto alle caserme della GNR fu il modo principale per procurarsele, fino a quando gli alleati non provvidero a rifornimenti sistematici tramite i cosiddetti e tanto attesi aviolanci. Si comprende come entro questo quadro non trovasse spazio alcuna opzione pacifista.

Eppure la Resistenza dei minatori rimase essenzialmente una Resistenza civile, non armata. In molti casi ci fu da parte della popolazione un supporto materiale, politico e organizzativo alle formazioni partigiane, soprattutto tramite i CLN comunali di cui i minatori fecero parte in rappresentanza per lo più del Partito Comunista. Non ci fu però una partecipazione generalizzata di minatori alla Resistenza armata. Si deve considerare che i minatori, lavorando in aziende militarizzate, erano soggetti alla disciplina militare e proprio per questo erano esclusi dal reclutamento. Anche i tedeschi del resto, che nel periodo dell’occupazione assunsero il controllo delle miniere, avevano interesse che gli operai rimanessero al loro posto a garantire la produzione. Il fenomeno della renitenza al reclutamento della RSI toccò quindi solo marginalmente le famiglie dei minatori, mentre erano proprio i renitenti alla leva di Salò, contadini, studenti, artigiani, operai non militarizzati, a infoltire le formazioni partigiane. Non mancarono episodi di incomprensione tra minatori e partigiani, come nel caso del minamento  del pozzo Baciolo, che fu l’unico esempio di attacco diretto da parte dei partigiani a una struttura mineraria e, in generale, l’unico esempio di sabotaggio industriale vero e proprio nella provincia di Grosseto. I minatori, che pure dettero la loro collaborazione all’operazione, rimasero perplessi e sicuramente preoccupati per le conseguenze che ci sarebbero state sul loro lavoro, che infatti rimase sospeso per qualche settimana.

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Le vedove di Niccioleta, 1944

Il maggiore contributo che i minatori dettero alla lotta di Liberazione fu, com’è noto, il martiro di 83 di loro, abitanti di Niccioleta, fucilati dai tedeschi tra il 13 e il 14 giugno 1944. Si trattò anche in quel caso di Resistenza civile, visto che il rapporto di quel villaggio con la Resistenza armata, nelle settimane e nei mesi precedenti, era stato del tutto sporadico, essendosi limitato a qualche aiuto materiale e semmai a qualche scorribanda in paese da parte di uomini armati, accolti con entusiasmo – questo sì – dagli abitanti. Ci fu sicuramente, da parte degli abitanti di Niccioleta, il desiderio di contribuire in qualche modo alla cacciata dei tedeschi, che, data la vicinanza degli alleati, sembrava essere imminente. Fu forse la voglia di essere protagonisti, di non star solo a guardare, che suggerì l’idea di organizzare la cosiddetta “guardia armata” attorno al paese e alla miniera, che poi fu il pretesto della strage. Immagine 025Niente in realtà che potesse realmente impensierire i comandi tedeschi. Gli episodi che si susseguirono durante tutta l’estate in molte località della Toscana fanno pensare piuttosto a un piano stragista preordinato, del quale Niccioleta rappresentò nient’altro che una tappa, una delle prime. I motivi per i quali fu scelta Niccioleta per attuare il piano possono essere stati diversi: si è pensato alle vie di comunicazione da rendere sicure per la ritirata, a contatti particolari che il reparto responsabile della strage poteva avere nel paese, ma possono essercene stati altri. Si trattava comunque per i tedeschi di spezzare il legame tra la popolazione civile e le formazioni partigiane: legame che essi ritenevano essenziale – e lo era effettivamente – per l’operatività e la stessa sopravvivenza delle bande e che, senza bisogno di ulteriori prove, supponevano funzionasse ovunque queste operassero. E chi se non i minatori, concentrati per di più in un villaggio isolato e abitato solo da loro, com’era appunto Niccioleta, poteva offrire sostegno ai partigiani, anzi costituire il brodo di coltura stesso del partigianato? Ecco dunque emergere la colpa originale dei minatori: quell’antifascismo ostinato legato alla condizione di lavoratori salariati in lotta perenne con il loro datore di lavoro, per cui il fascismo li aveva sempre considerati una categoria litigiosa, infida, non riducibile ai propri canoni di ordine e disciplina. Non c’è bisogno di andare in cerca di altre motivazioni di ordine politico o militare: il solo fatto di essere minatori bastò a renderli colpevoli e segnò il loro destino.




INFAUSTA COINCIDENZA

E pensare che un anno prima, nello stesso giorno, Maria Bergamas era stata chiamata a scegliere tra undici bare quella del Milite Ignoto. Una scelta, passata alla storia come “Rito di Aquileia”, che dette inizio al viaggio verso Roma – cinque giorni e 800 chilometri in treno percorsi in più tappe – per la sua traslazione al Vittoriano, dove venerdì 4 novembre 1921 fu solennemente tumulata nell’Altare della Patria.
L’anonimato di quella salma riuscì a trasformare la disperazione del singolo in lutto collettivo e da subito il Milite Ignoto assurse a simbolo dell’identità nazionale, a luogo della Memoria di un popolo, fatto di gente comune, unito nel desiderio di dimenticare la Grande Guerra e le sue tra-gedie.
Una memoria tuttavia assai labile, che vide la sospirata identità nazionale ispiratrice di un nuovo “viaggio”. Quella Marcia su Roma cui dette un fondamentale contributo lo squadrismo toscano. Una regione, la nostra, ormai “fascistissima” dove in men che non si dica, superato il “Biennio rosso”, quel “colore più cupo” era “virato al nero”. I fascisti toscani mobilitatisi per Roma furono circa 14.000, equivalenti a oltre l’85% del totale (16.500 unità): 2.200 proveniva-no dalla provincia di Firenze, 1.100 da Arezzo, 1.500 dalla Lucchesia, 1.600 dal Grossetano, 3.000 dalla sola città di Livorno, 2.450 dal Pisano, 1.500 dal Senese e 700 dall’attuale territorio di Massa-Carrara. (da Andrea GIACONI, La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla Marcia su Roma alla notte di San Bartolomeo, Foligno, Il Formichiere, 2019)
Anche la Val di Cecina, dove l’influente Piero Ginori Conti, a tutela dei suoi interessi, fin dall’ottobre 1920 aveva costituito il “Fascio X” (poi Fascio di Larderello), avvalendosi delle “prestazioni” di squadristi fiorentini capeggiati da Giuseppe Fanciulli, uomo di fiducia di Dino Perrone Compagni, plenipotenziario del fascio toscano, non mancò di offrire il proprio contributo.
Montecatini, paese dalle tradizioni rosse ma ormai fascistizzato grazie anche alle scorribande squadristiche, nonostante fosse retto ancora da una Amministrazione socialcomunista, sembra-va intuire l’avvicinarsi dell’ora della “rivoluzione” e si preparava così.

FESTA FASCISTA, 17 ottobre (ritardata)
Domenica (15 ottobre) furono inaugurati il Gagliardetto di questa Sezione Fascista e la Fiamma della squadra «Guido Mori». Il paese era tutto imbandierato di tricolore e adorno di festoni (con) scritte patriottiche ed inneg-gianti al fascismo.
Alle ore 9 incominciarono a giungere i primi camion di camicie nere e azzurre dai paesi vicini, ricevute dalla locale squadra fascista e dal Corpo musicale paesano.
Alle ore 10,30 agli squilli di tromba tutte le squadre, musiche ed associazioni si raccolsero in Piazza Vittorio Emanuele per avviarsi in corteo al luogo dell’inaugurazione,
Il Segretario Politico del Fascio locale sig. Mazzolli-Manzi David presentò l’oratore Tenente De Franceschini il quale pronunciò un vibrante discorso ripetutamente applaudito; lo seguì la madrina del Gagliardetto, la leggiadra signorina Mori Lorenza, che tra vivi applausi fece la consegna all’alfiere Martini Ernesto il bellissimo e ricco ga-gliardetto.
Indi parlò la signorina Borghi Fernanda madrina della Fiamma di squadra, «La Guido Mori», la quale ha pronun-ciato il suo discorso con disinvoltura, anche essa applauditissima; appena ebbe consegnata all’alfiere Ivo Lenci la «Fiamma» prende la parola il capitano Bruno Santini della Federazione Fascista provinciale e il poderoso avvin-cente discorso (fu) interrotto spesso da approvazioni e da nutriti applausi.
Terminata la cerimonia, il lunghissimo corteo fece il giro di tutto il paese al canto di «Giovinezza».
Abbiamo notato nel corteo il Fascio locale, Avanguardia e Fascio di Volterra, Fascio Femminile di Volterra e Avanguardia, Fascio e Musica di Laiatico, Nazionalisti di Saline, Fascio e Musica di Orciatico, Fascio di Saline, Fa-scio di Villamagna, Nazionalisti di Sassa, Sezione Combattenti, Società Filarmonica e Corpo Musicale locali, So-cietà Artigiana e Sindacato politico locali.
Alle ore 12 ebbe luogo un banchetto a tutte le rappresentane convenute.
Nessun incidente, il più schietto entusiasmo (da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 44, 29 ottobre 1922).

Inquadrati nella III Legione Maremmana, I Coorte, I Centuri, I Manipolo, III e IV Squadra comandate da Gherardo Maffei e Guido Dell’Aiuto, i marciatori volterrani furono 70. Nel II Manipolo, I Squadra comandata da Sisto Giannelli, erano iscritti 19 marciatori di Villamagna; nella II Squadra comandata da Cesare Becorpi, 29 salinesi, e nella III Squadra comandata da Rodolfo Bianchi, 20 montecatinesi.
– La squadra dei “marciatori” montecatinesi, appartenenti alla III Squadra del II Manipolo (de-curione, Baroncini Livio) della I Centuria (centurione, Ambrosino Magdalo) della I Coorte (se-niore, Paolo Pedani) della III Legione Maremmana (console, Piero Pelamatti), era composta da Bianchi Rodolfo, Bartolini Rodolfo, Bartolini Verdi, Berti Giuseppe, Cavicchioli Francesco, Ceppatelli Giuseppe Pietro, Colò Mario, Demi Alfredo, Francalacci Guido, Giaganini Raffaello, Giuntini Primo, Lenci Francesco, Lenci Ivo, Magozzi Secondo, Marsili Furio, Martini Ernesto, Mori Francesco, Rossi Narciso, Sarperi Ferdinando, Staccioli Tranquillo.
– Sempre nel II Manipolo, la I Squadra comprendeva 19 uomini di Villamagna: Giannelli Sisto, Baldini Igino, Bernardeschi Dario, Busdraghi Alberto, Busdraghi Paolino, Gori Ugo, Gronchi Dante, Gronchi Nello, Mannucci Gualtiero, Mazzei Maurizio, Pasquinucci Giuseppino, Pedani Giuseppe, Pedani Mario, Pitti Guglielmo, Simoncini Ernesto, Simoncini Italo, Simoncini Pietro.
– La II Squadra, vedeva arruolati 29 salinesi: Becorpi Cesare, Bardi Dante, Barlettani Ezio, Bar-lettani Raffaello, Bartolini Guido, Bigazzi Angiolino, Boni Carlo, Cappellini Leo, Cardellini Re-nato, De Vespri Arturo, Donati Pilade, Gazzarri Garibaldi, Gazzarri Valfrido, Gori Vittorio, Gotti Carlo, Guerrieri Gino, Manzi Gino, Manzi Giovanni, Meucci Pietro, Morelli Mario, Pa-squaletti Alvaro, Pasqualetti Wladimiro, Pratelli Bruno, Ricca Francesco, Simi Liberato, Tani Giulio, Trovato Orazio, Vannini Natale, Volterrani Guido.
– I volterrani facevano parte invece della III e IV Squadra del I Manipolo (decurione, Cini Gio-vanni). Erano 70: Maffei Gherardo, Dell’Aiuto Guido, Alboni Bruno, Baccerini Libero, Benas-sai Pilade, Berti Argante, Bessi Donatello, Bimbi Bruno, Brogi Esamillo, Cancelli Mario, Canti-ni Guido, Caporioni Dino, Cheli Luigi, Conte Leo, Corrieri Ubaldo, Del Rosso Giuseppe, Del Secco Egidio, Del Testa Secondo, Dello Sbarba Emilio, Duccini Faustino, Fiumi Pietro, Galga-ni Settimo, Gazzanelli Dino, Ghilli Olinto, Ghilli Silla, Ghionzoli Valente, Grossi Dino, Grossi Claudio, Guelfi Guelfo, Guerrieri Gino, Guerrieri Guido, Guidi Guido, Guidi Marcovaldo, Im-morali Giuseppe, Incontri Mario, Inghirami Ennio, Inglesi Umberto, Isolani Emilio, Landucci Lando, Leduc Alberto, Lupetti Antonio, Lupetti Giulio, Lupetti Roberto, Maffei Ascanio, Maf-fei Mario, Maffei Niccolò, Maffei Salinuccio, Maggiorelli Umberto, Mancini Doddo, Mannucci Manfredo, Mannucci Umberto, Mariani Mario, Mechini Federigo, Nerei Guido, Ormanni Or-manno, Pagnini Gino, Pagnini Iacopo, Paolini Renato, Papalini Pietro, Parenti Mentore, Pesa-galli Tersilio, Pini Giuseppe, Piras Giovanni, Raffaelli Guido, Santi Libero, Taddeini Carlo, Tamburini Primo, Tommasini Giulio, Trafeli Giulio.
A questi dobbiamo aggiungere i 20 marciatori di Lustignano (capo squadra, Musi Vincenzo) e 7 di Larderello (capo squadra, Gallori Aldo), appartenenti alla I e II Squadra del III Manipolo (decurione, Bulichelli Enrico).
– Il Fascio di Lustignano era composto da Musi Vincenzo, Baldassarri Fabrizio, Bianchi Ermin-do, Bianchi Ghino, Bianchi Severino, Bocci Boccino, Bulichelli Pietro, Gherardi Dionisio, Ghe-rardi Gherardo, Musi Guglielmo, Musi Licurgo, Musi Spinello, Nasti Gennaro, Nati Raffaello, Pineschi Ugo, Rossi Iroldo, Socci Dante, Spinetti Augusto, Spinetti Guido, Tassi Emilio.
– Mentre il Fascio di Larderello annoverava Gallori Aldo, Alocci Ettore, Chiti Amerigo, Gui-ducci Ugo, Maccanti Pietro, Matteucci Ugo, Rosselli Rodolfo.
Infine la I, II, e III Squadra del IV Manipolo (decurione, De Franceschi Umberto) comprende-vano 23 volontari di Pomarance (capo squadra, Pollina Bartolomeo), 7 di Castelnuovo V.C. (capo squadra, Antonelli Gino) e 10 di Sasso Pisano (capo squadra, Trenti Edoardo).
– Nel Fascio di Pomarance erano schierati Pollina Bartolomeo, Bacci Angiolo, Baldini Giovan-ni, Cappellini Gino, Cavatorta Pietro, Dal Canto Giuseppe, Falcini Cesare, Fignani Giuseppe, Fontanelli Fontanello, Galgani Albano, Galletti Celso, Gazzarri Cesare, Ghilli Leone, Giudici Giordano, Landi Elio, Nichesola Galesio, Pasquinucci Luigi, Pini Enrico, Ristori Pompilio, Ta-ni Ascanio, Taviani Enrico, Zani Antonio, Zoccolini Giulio.
– Il Fascio di Castelnuovo Val di Cecina poteva contare su Antonelli Gino, Menichelli Alfìero, Nardi Ofaleno, Ovidi Piramo, Pierattini Francesco, Talanti Giuseppe, Togoli Domenico.
– Mentre Trenti Edoardo, Aldrovandi Etimio, Battieri Pietro, Baroncini Giulio, Bertini Mode-sto, Casalini Antonio, Chiti Pietro, Fillini Osvaldo, Fillini Remo, Pineschi Tertulliano, Trenti Iacopo costituivano il Fascio del Sasso Pisano. (Da Renzo CASTELLI, Fascisti a Pisa, Pisa, Edi-zioni Ets, 2006)
Alla III Legione Maremmana, erano affiancate la I Legione Pisana e la II Legione “Zoccoli Ser-lupi”: tutte appartenenti alla Colonna Lamarmora.

E qui una piccola postilla per rilevare che la marcia della Legione Maremmana ebbe anche un risvolto un po’ grottesco.
Bloccati per contrattempi diversi a Civitavecchia prima e poi a Santa Marinella, i nostri, così come avvenne per le altre legioni della Colonna Lamarmora, furono in effetti gli ultimi a giungere a Roma il 31 ottobre, quando Mussolini – ricevuto il giorno prima dal re l’incarico di formare un nuovo governo – si era già insediato al potere e la città era ormai invasa dalle altre squadre fasciste.
Non solo, furono anche tra i primi a ripartire, la notte stessa del loro arrivo nella capitale, su ordine perentorio di smobilitare da parte del Duce stesso.
Fra la delusione e l’irritazione per il mancato protagonismo, la Marcia si ridusse quindi a poco più di una scampagnata, che al ritorno in alcune località – e mi si dice anche a Montecatini – fu oggetto di scherno, prontamente rintuzzato dalla retorica fascista.
Mal di poco, i nostri marciatori di quell’impresa poterono parlare con orgoglio per tutto il Ven-tennio (dopo, un po’ meno). Così come fece la Redazione de “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 45. Del 5 novembre 1921:

VITTORIA FASCISTA
Il nostro giornale che ha seguito con simpatia, con fiducia, con ammirazione fervida e sincera, il fascismo, fino dal suo sorgere, ne celebra oggi la piena e assoluta vittoria con la più grande letizia e con la ferma sicurezza che esso saprà ottimamente ricostruire come efficacemente ha saputo compiere l’opera di santa demolizione.
Alle Camicie nere, al genio di Benito Mussolini – duce romanamente grande – l’Italia deve la sua salvezza e dovrà la sua rinascita e il definitivo trionfo.
I primi atti del nuovo Governo infondono un ritmo nuovo alla vita nazionale: il ritmo dei forti.
Finalmente – dopo l’avvicendarsi di governi abulici, inerti, tentennanti, deboli – L’Italia – per merito di Vittorio Emanuele III – ha oggi alla sua testa un Uomo dal pugno di ferro e dalla mente superiore, un Uomo che è espres-sione pura e genuina della nostra razza imperiale!
Salutiamo in Benito Mussolini il continuatore dell’Italia di Vittorio Veneto; diamo a Benito Mussolini adesione piena, completa, entusiastica, incondizionata; stringiamoci concordi intorno al Fascismo trionfante: questo è il dovere di quanti hanno amore e rispetto per la Patria, affetto e devozione per il Sovrano: chi non sente questo dovere è un traditore.
Il Corazziere

Della grande festa riservata a Volterra ai reduci della Marcia e degli entusiastici interventi del commissario prefettizio Filippo Cardelli, del segretario del fascio Gherardo Maffei, del commissario di zona Paolo Pedani e di altri “notabili” ne dà ampia cronaca ancora “IL CORAZZIERE” nelle pagine interne dello stesso numero.
Più modestamente Montecatini, nel suo piccolo – allora non proprio piccolo come adesso – non mancò di acclamare i suoi venti eroici marciatori e la vittoria fascista

Da Montecatini, 7 novembre 1922
FESTE PATRIOTTICHE
Questa popolazione dopo avere con entusiasmo patriottico, con esposizione del tricolore a tutte le abitazioni e cortei salutato la vittoria del Duce Mussolini, accolse e portò in trionfo ricoprendoli di fiori la squadra dei baldi fascisti al suo ritorno da Roma.
Il 4 poi ricorrenza della vittoria fu questa solennemente festeggiata […]. [da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 47 del 17 novembre 1922)

Il giorno della Marcia su Roma segnava l’avvio del Ventennio.
Sarebbero trascorsi solo pochi giorni prima che anche a Montecatini gli Amministratori socialisti si mettessero da parte.
In effetti, dopo il “Biennio rosso”, che aveva provocato reprimende e manifestazioni anche violente contro lo spettro del bolscevismo, nonché il discredito del sindaco “bolscevico” Luigi Lazzerini (con il Congresso di Livorno del 15-21 gennaio 1921 aveva aderito all’opzione comunista) e le sue conseguenti forzate dimissioni nell’aprile 1921, suggestionata dal perdurare delle accuse di antinazionalismo rivolte ai socialisti da coloro che avevano saputo farsi interpreti del-la memoria dei Caduti e del cordoglio dei familiari, la gente non trovava più punti di riferimento nella Giunta guidata da Giuseppe Rotondo. Sindaco facente funzione, che proprio nel novembre 1922 vide venir meno le condizioni per rimanere alla guida del Comune. A seguito delle dimissioni dell’intero Consiglio socialista, il Comune fu guidato per circa due mesi da Giulio Malmusi, commissario prefettizio, e nelle elezioni del gennaio successivo, a compimento della fascistizzazione del potere locale, la lista fascista e nazionalista avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta. In pratica con la Marcia su Roma vide la fine quel dominio socialista che dal 1895 aveva caratterizzato quasi ininterrottamente la guida del Comune.
Infine una curiosità.
Su “IL CORAZZIERE”, sempre nel numero del 17 novembre 1922, nella medesima pagina dell’articolo montecatinese “Feste Patriottiche”, non può non venire all’occhio una “dichiara-zione spontanea” di certo Baroni Bramato.

[…] Trascinato dalla corrente impetuosa, per qualche mese fui semplicemente ascritto nei socialisti unitari; riconosciuto pienamente il mio errore, dichiaro pubblicamente che fin da gennaio 1921 non appartengo più ad alcun partito politico sovversivo, ma che con piacere e volontariamente tengo a far sapere ai lettori del «Corazziere» che mi sento di voler bene alla Patria e pronto a sacrificare me stesso per la salvezza e la gloria d’Italia.

Uno dei tanti ravvedimenti pubblici (ne troveremo altri sia su “Il Corazziere” sia su altri giornali dell’epoca) che caratterizzarono quel non breve periodo di transizione e che avrebbero ripreso campo in occasione del percorso inverso, ossia nel trapasso dalla dittatura fascista alla democrazia, allorché per molti fu ancor più grande la necessità di redimersi.
Ricordar quindi non nuoce. Perché non sempre, anzi raramente, le persone sono come suol dirsi tutte d’un pezzo. Interessi particolari – materiali e talvolta anche affettivi – accentuano la debolezza di noi umani, inducendo spesso all’ambiguità, all’ipocrisia, alla perdita di dignità.

Articolo edito su “La Spalletta”, a. XXXVIII, 20 novembre 2021.