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Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Il 21 gennaio 1944, Giovanni Martelli e Otello Frangioni si erano recati alla Casa Manna, un luogo di ritrovo per gli antifascisti comunisti livornesi e situato in via Trieste, col fine di prender parte a una riunione. Il punto di ritrovo era però fissato in un altro luogo e, visto che nessuno si presentò all’appuntamento, Frangioni e Martelli si recarono alla Casa Manna. Una volta entrati, caddero in una trappola, perché ad attenderli vi era un commando unificato composto da ufficiali tedeschi, repubblichini e questori.
Il terzo arresto mette a dura prova l’animo di Martelli e lo segna nel profondo perché i rischi che poteva correre erano maggiori del passato. Viene arrestato perché le autorità fasciste identificavano in lui il «filo conduttore» col movimento di liberazione e l’esponente ideale da cui trarre informazioni sulle formazioni partigiane della Brigata Garibaldi[1]. In quei giorni viene ripetutamente interrogato dal questore Moraglia, dal capitano della polizia Porquier, dai marescialli Marchesi e Artieri[2].
Martelli continua a negare qualsiasi coinvolgimento o relazione con gli altri membri della Resistenza livornese, afferma che non sapeva niente sui manifesti della propaganda partigiana e sui volantini del movimento di liberazione. Martelli ricorda il suo terzo interrogatorio con le seguenti parole:

«[…] A domanda risposi: io, nella mia prima giovinezza mi ero interessato di politica, ma soprattutto in seguito ai due arresti ed alla condanna cui fui sottoposto, nonché per l’essermi trovato in luogo di capofamiglia, non mi era interessato più di nulla. Da allora a quel momento, aggiunsi, c’era anche l’esperienza dell’Africa Orientale e, immediatamente dopo la vita di fabbrica come operaio specializzato, alla qualcosa tenevo al di sopra di tutto. Citai la esperienza del cantiere Orlando, […] e, infine, la esperienza alla Moto Fides. Le domande che attorno a queste risposte mi furono date furono sempre pronunciate dal tenente Purchié e dall’agente repubblicano Hippert. Sia l’Altieri come il Marchesi, non solo non mi fecero mai domande ma mai si opposero alle mie risposte. E, sia chiaro, solo loro due potevano farlo! Questo comportamento mi fu di grande conforto e non mancai di riferirlo a chi, dopo di me, doveva passare sotto quel “torchio”. Ciò che soprattutto poteva incutere maggiore timore, cosa che io stesso subii, era che a quell’interrogatorio erano sempre presenti uno o due rappresentanti della “Gestapo” e, spesso, erano loro a suggerire domande […]»[3]

Alla domanda posta dalle autorità repubblichine sul perché non fosse fascista, lui risponde con fermezza dicendo che non lo era e che non lo sarebbe mai stato, perché si definiva come eticamente diverso da loro. Nel periodo della terza detenzione presso il carcere Don Bosco di Pisa conosce esponenti di spicco della Resistenza locale e ebbe degli scambi epistolari con alcuni di questi, come Fortunato Garzelli e Oberdan Chiesa[4]. Purtroppo, venne a conoscenza di una tragica notizia, ovvero che un mese prima erano stati catturati all’Ardenza tutti i frequentatori della Casa Manna, come Vasco Iacoponi, Corrado Faiani e lo stesso Oberdan Chiesa[5]. Prima condividevano le celle in comune con altri, ma con l’arresto di Frangioni e di Martelli vennero messi in celle di isolamento.
Chiesa ebbe degli scambi epistolari con Martelli e gli chiese quale fosse la sua posizione, aveva un brutto presentimento e temeva per la sua vita. Quando Martelli cercò di inviare un biglietto di risposta, venne a conoscenza che Chiesa era stato fucilato. I due si erano incontrati due mesi prima a Cevoli, perché quest’ultimo attendeva Chiesa per l’invio di materiali col fine di realizzare dei documenti falsi. La scomparsa di Chiesa ebbe «l’effetto di una doccia fredda sull’intero gruppo e richiamò alla mente di ognuno la realtà del momento» che stavano vivendo[6].
Il 12 febbraio per ordine del prefetto Fac-Duelle viene messo in isolamento e conosce di nuovo la dura vita nel carcere fascista, soffre la fame, la sete, il freddo, la solitudine, la paura di non potercela fare. L’esperienza di Modena lasciò un segno indelebile, soprattutto per le condizioni in cui viveva: predominava una sensazione di insicurezza, perché spesso venivano prelevati alcuni prigionieri da parte dei nazisti e dei repubblichini per fucilarli[7]. Alle azioni di sabotaggio della Resistenza corrispondevano spesso queste rappresaglie nelle carceri.
Quattro mesi dopo viene trasferito nel carcere Sant’Eufemia di Modena e tenta una fuga durante il bombardamento dell’11 giugno. Il giorno successivo viene chiamato per un presunto interrogatorio, ma Martelli teme di non far ritorno. Al suo ingresso nella stanza dell’interrogatorio si trova davanti due marescialli tedeschi, i quali gli chiedono di spogliarsi per effettuare una valutazione delle sua condizioni fisiche. Molti detenuti e rivali politici venivano sottoposti a queste fittizie valutazioni che servivano per “attestare” l’idoneità fisica dell’individuo. È facile intuire che qualora una persona fosse risultata debole, malata o anziana, veniva mandata in Germania con la scusa fittizia che sarebbero stati inseriti in nuovi contesti lavorativi. In realtà venivano spediti nei campi di concentramento.
Nella medesima occasione, un capitano delle brigate nere gli promette che, in caso avesse preso parte a delle opere di volontariato, sarebbe stato scarcerato. Molti aderirono all’iniziativa perché ciò avrebbe permesso ai detenuti di uscire dal carcere e di raggiungere le altre formazioni partigiane attive nel modenese. Martelli rifiuta la proposta perché non lo convince, non si fida delle promesse dei repubblichini.
Nell’ultima settimana di luglio, i nazifascisti realizzano degli attacchi contro la Repubblica partigiana di Montefiorino, a cui i gappisti della sessantacinquesima Brigata “Walter Tabacchi” rispondono con diversi attacchi contro gli automezzi e le strutture delle forze di occupazione tedesche. Nella tarda mattinata del 30 luglio i militari del Rustungskommando di Bologna ricevono la notizia dell’ennesimo attentato nel centro storico di Modena, dove è detenuto Martelli: nel primo pomeriggio una delegazione parte dalla città felsinea e raggiunge la Ghirlandina. Convocate le autorità̀ civili e militari della RSI, i soldati del Rustungskommando invocano una rappresaglia esemplare. In un primo momento propongono di rastrellare venti persone da catturare nei caffè del centro storico e di fucilarle in Piazza Grande, ma le obiezioni di alcuni fascisti li convincono a desistere. Dopo una breve discussione, i tedeschi accettano che gli ostaggi siano prelevati dalle carceri di Sant’Eufemia, ma impongono di eseguire la missione nel più breve tempo possibile poiché vogliono tornare a Bologna per cena. Mentre i venti detenuti scelti per la strage vengono incolonnati e fatti uscire dalla prigione, suona l’allarme aereo e i modenesi affollano il rifugio di Piazza Grande. Sul selciato, il plotone d’esecuzione fa distendere le vittime sul ventre formando due file e tutti vengono uccisi con dei colpi alla nuca. Dopo il cessato allarme, la popolazione della città resta inorridita dal macabro spettacolo della piazza: i venti corpi inerti vengono lasciati sul selciato per quasi ventiquattro ore, poi un autocarro li trasporta al cimitero di San Cataldo.
La paura di non poter tornare a casa si materializza per Martelli: i prossimi che verranno condannati a morte sono proprio i detenuti antifascisti toscani. Sulla base di ciò che accadeva fuori dalle mura di Sant’Eufemia, ognuno poteva avere le ore contate. Molte persone che aveva conosciuto in quel periodo erano già morte per fucilazione o per impiccagione. La speranza di rivedere la sua amata Livorno si affievolisce, così tanto che sostiene:

«noi tutti fondavamo la nostra speranza sul fatto che i nostri verbali fossero rimasti a Livorno, per mio conto ciò voleva dire fino ad un certo punto, poiché io ero negativo, ma così non era per altri compagni, che in seguito a prove schiaccianti o accuse, o per non aver saputo resistere all’interrogatori avevano dovuto ammettere qualche cosa. Un giorno fummo di nuovo chiamati ed interrogati, insistemmo sull’atteggiamento assunto al primo interrogatorio e questa volta – ormai delusi delle volte precedenti – che non credevamo più a nessuna possibilità di uscirne, fu proprio la volta decisiva […]».[8]

Alla fine di agosto, Martelli viene scarcerato insieme ad altri compagni di Partito come Otello Frangioni ed è proprio a Otello che dedica la sua Autobiografia, proprio perché con lui ha «condiviso la vita nel partito subendo insieme rischi ed arresti»[9]. Di quel periodo così difficile, Martelli racconta:

«[…] Dopo alcuni giorni da quel triste episodio [dell’uccisione dei venti detenuti del Carcere di Sant’Eufemia] fu inviato al carcere, per interrogarci, un giudice istruttore. Uno alla volta fummo tutti interrogati e tenuto conto che quel giudice non aveva nulla in mano, in quanto i documenti istruttori erano rimasti al di là del fronte, fu relativamente facile a tutti a confermare le dichiarazioni già fatte e, chi si era troppo esposto, a rettificare la propria posizione. Capimmo di lì a pochi giorni che quel giudice era stato inviato dal Prefetto Repubblichino (credo di chiamasse De Santis), il quale era in rapporti con il Cnl.
Fu veramente la volta buona: a fine settembre – così mi sembra ricordare – fummo invitati tutti ad uscire con gli indumenti personali. Ci fu chiaramente detto che eravamo liberi. L’unico che rimase, per uscire dopo un mese circa, fu Vasco
Iacoponi. Una volta in libertà io fui incaricato dai compagni, eravamo tutti alloggiati in un grande albergo di Modena, di recarmi in una segheria nei dintorni di Modena dove conobbi il Baroni che era stato al confino con Vasco, il quale mi consegnò i documenti falsi, naturalmente repubblichini, con i quali avremmo dovuto viaggiare nei territori occupati […]»[10].

Il 5 settembre 1944, lui e Otello Frangioni tornarono a Livorno, a seguito di un lungo viaggio per l’Emilia-Romagna e dopo aver attraversato le zone di Vergato e di Marzabotto. Dovettero superare i campi minati, evitare le pattuglie e i rastrellamenti. Il rientro a Livorno non fu facile, ma Martelli riuscì a tener fede all’obiettivo: tornare a casa. Livorno era stata liberata il 19 luglio e il loro rientro venne consacrato con una festa all’interno della Federazione comunista livornese.
Il nuovo Segretario era Aramis Guelfi, che assegnò Martelli alla Federazione di Pisa col compito di dirigere le attività dell’organizzazione sindacale Federterra. Pisa resterà un luogo caro a Martelli, perché proprio lì aveva avuto origine il suo percorso di resistenza attiva al nazifascismo e lì aveva pianificato le attività dei Nuclei del Fronte Nazionale di Liberazione in Toscana. Inizialmente, crede che col suo incarico possa entrare più in contatto con l’anima di quei luoghi che conosceva bene. In realtà, già nei primi mesi del 1945 lascia la mansione perché «non [lo] entusiasmava»[11]. In compenso, viene incaricato della propaganda presso la redazione del bollettino della Federazione. Martelli nella Nota autobiografica del 1987 si lascia ad una confessione, in cui afferma:

«[…] Tutti quegli incarichi, tuttavia, rappresentavano per noi le prime esperienze di vita legale del partito per cui non mancavano, da parte di ognuno di noi, comportamenti tutt’altro che idonei alle responsabilità che ci erano state affidate […]»[12].

Effettivamente, Martelli all’epoca ha 32 anni e conosce ben poco la vita di partito, forse non l’ha nemmeno sperimentata fino in fondo. Martelli ha lavorato in ambito propagandistico e nel contesto della lotta armata al nazifascismo, ma sapeva ben poco di politica. La ridefinizione e il ripristino delle istituzioni democratiche sarà un problema che in realtà coinvolgerà tutto il Paese, la vita politica, le istituzioni pubbliche, i civili.
Dopo la liberazione, Aramis Guelfi venne trasferito alla Federazione comunista di Taranto e poi di Lecce, e Ilio Barontini successe alla guida della Federazione livornese. Martelli diventò Vicesegretario nel periodo in cui Ilio Barontini entrò a far parte prima della Consulta e poi della Costituente.
Negli anni successivi, Martelli diventerà una figura di spicco nell’ambito sindacale e svolgerà una serie di impieghi che lo porteranno lontano da Livorno per diversi anni. Diventerà segretario delle Federazioni comuniste di Treviso e di Carrara, poi svolgerà degli impieghi presso la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) e la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro). Rientrerà nella città labronica solo negli anni Sessanta, anni in cui verrà nominato come presidente della Commissione di Controllo del PCI locale e come Presidente del Bacino del Carenaggio[13]. Martelli è morto il 22 ottobre 1992 a Livorno.

Conclusioni.

Da decenni la storiografia sta producendo numerose monografie sulle vite degli antifascisti e sulle esperienze di lotta durante la Resistenza (1943-1945), col fine di esaminare complessivamente i valori condivisi e le azioni compiute dai gruppi antifascisti. Allo stesso modo, questo elaborato ha cercato di esaminare i valori di un uomo molto attivo nella resistenza toscana e livornese. Il tema è quindi importante per ricostruire le storie e le figure di chi si è fatto testimone di libertà in un periodo segnato dalla violenza e dall’autoritarismo.

Nello sviluppo dell’elaborato, una domanda è emersa: come si potrebbe descrivere l’esperienza politica di Giovanni Martelli?

L’esperienza politica di Martelli ricorda le esperienze di tanti altri militanti attivi nel periodo della Resistenza all’occupazione nazifascista, in cui questa lotta ha rappresentato un punto di svolta e una chiave di lettura per il futuro repubblicano e democratico del Paese. Per Martelli, la verità è stata rivoluzionaria e ha sempre fatto riferimento a questo valore in qualunque sua battaglia, nelle fabbriche, nella sua città, a livello nazionale. La storia di Martelli è la storia di un uomo resiliente, che ha saputo adattare i suoi ideali davanti a qualsiasi difficoltà o situazione storica; di un militante determinato e fedele agli ideali del Partito; di un sindacalista che poneva le questioni operaie e sociali al centro di qualsiasi analisi sulla realtà circostante.

L’analisi ha evidenziato quanto sia difficile saper racchiudere le esperienze di vita e di militanza politica in poche semplici parole. Ogni storia, seppur piccola, può esser densa di sfumature ed un caso emblematico è proprio quello della vita di Martelli.

Le problematiche emerse nello sviluppo dell’elaborato possono esser riscontrate consultando le fonti utilizzate. Metter insieme di documenti così personali e all’apparenza scollegati ha significato entrare in contatto con dei materiali biografici vivi, che non hanno delle vere e proprie controparti, ovvero: non ci sono dei documenti da confrontare con quanto racconta lo stesso Martelli. Le fonti consultate sono principalmente fonti primarie, arricchite da ricerche realizzate personalmente sui destinatari dei documenti o sui contenuti.

L’augurio da fare per un futuro è che la storiografia possa approfondire maggiormente le biografie di quegli uomini e di quelle donne che hanno apportato notevoli contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza, col fine di poter comprendere maggiormente quali sono stati quei valori e quelle speranze che hanno permesso la nascita della Repubblica italiana e della Costituzione.

NOTE

1 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 10.
2 Martelli conosceva bene il capitano della polizia Luigi Porquier (alias Porchié) perché, come racconta nella Nota autobiografica, era quel ragazzo che aveva percosso nel 1928 durante i corsi premilitari. Dopo le percosse che dette a Porchié, venne mandato al commando di polizia (all’epoca in via Cairoli), dove successivamente venne sottoposto a un interrogatorio e radunato con altri in via Ippolito Nievo. Dopo i rituali di circostanza, venne invitato ad uscire ed espulso per indegnità. Per fortuna, Porchié non lo riconosce durante la terza cattura di Martelli.
3 Allo stesso modo, Martelli conosce anche il brigadiere Marchesi perché è sempre stato presente ai suoi interrogatori, ma lo definisce comunque come una brava persona. L’impressione di Martelli sul brigadiere Marchesi viene descritta anche nel testo: Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 354.
4 Fortunato Garzelli (1902-1944): nasce in una famiglia proletaria e si trasferisce a Livorno perché lavora come aiuto macchinista presso le Ferrovie dello Stato. Aderisce al Partito Comunista e nel 1933 subisce i primi fermi, arresti e perquisizioni. Nel 1941 costituisce il primo Fronte nazionale antifascista ed è membro della Concentrazione antifascista, poi diventato CLN di Livorno. Muore a pochi giorni dalla liberazione di Livorno mentre guida una pattuglia partigiana nei pressi di Quercianella (una frazione di Livorno), in uno scontro a fuoco avvenuto con i tedeschi il 15 luglio del 1944.
Oberdan Chiesa (1911-1944): nasce in una famiglia liberale e aderisce al Partito Comunista. Ben presto viene schedato dall’OVRA e definito come pericoloso antifascista. Negli anni Trenta, vive per un breve in Francia e partecipa alla Guerra Civile spagnola. Al suo rientro viene nuovamente arrestato e liberato in vista dell’8 settembre. Successivamente prende parte alle formazioni partigiane nell’entroterra livornese, ma viene arrestato il 22 dicembre del 1943 e trasferito al carcere Don Bosco di Pisa. Da quell’arresto non vi farà più ritorno, viene infatti fucilato a Rosignano Solvay (LI) il 29 gennaio 1944. Per un approfondimento sul tema, vedi: Brunetti G., Oberdan Chiesa: un uomo, una vittima, un mito. Pisa: Edizioni ETS, 2022.
5 L’Ardenza è un quartiere periferico situato a sud del comune di Livorno.
6 Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 355.
7 Ivi, p. 357.
8 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
9 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
10 Ibidem.
11 Id, Nota autobiografica riferita al “dopo Liberazione”, marzo 1987, p. 2.
12 Ibidem.
13 Quando viene nominato Presidente del Bacino del Carenaggio, Martelli mostra delle doti manageriali che fino ad allora non era riuscito a sperimentare, contribuendo alla costruzione della Lips (la Società addetta alla progettazione e commercializzazione di eliche e alberi di trasmissione nel campo navale) e della piattaforma Sincrolift (una piattaforma della Darsena Morosini). Lasciò la Presidenza nel 1979, perché a lui successe Nelusco Giachini.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Come affermato in precedenza, Giovanni Martelli viene arrestato a Livorno l’11 giugno 1932, ha solo diciannove anni e definisce negli anni quell’evento come «un duro colpo».[1] Allo stesso modo, il 1932 rappresenta un anno difficile per la riorganizzazione della Federazione comunista livornese, in quanto molti militanti adulti e di spicco vengono arrestati.

Dapprima, Martelli viene fermato e perquisito da un poliziotto dell’OVRA, successivamente gli viene trovato un biglietto che testimonia la sua attività nell’organizzazione del Soccorso rosso.[2] Viene interrogato alla Questura Centrale dal Commissario dell’OVRA Parlagreco, il quale deduce che non solo egli militava nel PCd’I, ma che addirittura apparteneva alla Federazione insieme ad altri esponenti che erano già stati arrestati nei giorni precedenti. Martelli è costretto a riconoscere ed a identificare gli altri compagni di partito, come Leonardo Leonardi, Roberto Vivaldi e Giovanni Tardini. Martelli affermò che non conosceva nessuno, se non qualche individuo adulto dell’organizzazione comunista. Resistere però non è sempre facile e si può comprendere dalle parole usate nell’Autobiografia, in cui egli stesso racconta:

«[…] Pur insistendo a negare […], essi mi fecero uscire e dopo poco fui di nuovo chiamato e così mi trovai di fronte al Vivaldi, il quale – disgraziato – era in uno stato da fare pietà.

Mi domandarono: lo conosci?

No, risposi, non l’ho mai visto.

Essi allora si rivolsero al Vivaldi il quale mi disse: è inutile Martellino, non negare, sanno tutto, essi sanno e conoscono tutto del nostro movimento e quindi non vale la pena insistere, del resto hanno confessato tutti.

Per la verità rimasi molto colpito, non riuscivo a comprendere come esso avesse capitolato così; tuttavia, continuai a negare […]»[3]

Successivamente, viene sottoposto a una perizia calligrafica per vedere se davvero fosse stato lui l’autore del biglietto sul Soccorso rosso. Il biglietto conteneva un prestito in denaro da fare ad alcuni esponenti del Partito ed era stato realizzato da un altro militante, Iedo Tampucci. Martelli non rivelerà mai il nome dell’autore e il contenuto del biglietto.

Durante l’interrogatorio scopre che la denuncia era stata avanzata dal dirigente della Federazione, Roberto Vivaldi. Vivaldi era stato costretto a denunciare proprio perché, come si legge nell’Autobiografia, l’OVRA aveva scoperto l’organizzazione comunista. Effettivamente, molte cose erano cambiate all’interno della Federazione durante l’arresto di questi esponenti: l’organizzazione sembrava essersi sfasciata e sembrava aver smarrito le linee guida necessarie per ricostituirla. L’unica speranza era quella di riedificare il movimento con una nuova linfa, ma i militanti rimasti si rifiutavano di prendere parte a questo processo in quanto temevano l’intervento della polizia fascista.

Nel luglio 1932 Martelli viene mandato in prigione presso il carcere S. Leopoldo e denunciato al Tribunale speciale con l’imputazione prevista dall’articolo 270 del Codice Penale. Viene poi trasferito al carcere dei Domenicani e liberato nell’ottobre dello stesso anno in occasione dell’amnistia per il decennale dalla Marcia su Roma. Quell’arresto fu uno dei più grandi realizzati dall’OVRA, non solo per il numero di arrestati, ma anche perché raggiunse i compagni che stavano espatriando. Con la scarcerazione poco sarebbe cambiato nella vita di Martelli, perché sa che la condizione di vita in clandestinità e la lotta al fascismo sarebbero continuate. Lui stesso racconta:

«[…] La libertà era certo bella per tutti noi tuttavia, quasi spontaneamente, una parte di noi giovani decise di dare continuazione alla propria attività clandestina. Dico una parte perché, sia nel campo giovanile come in quello degli adulti non pochi si ritirarono a vita cosiddetta privata. Non ce ne facemmo motivo di scandalo. Pertanto ci rimettemmo a lavoro […] con una maggiore attenzione […]».[4]

Nel 1933 prende parte alla rifondazione del movimento comunista, un’iniziativa profondamente sostenuta dai giovani livornesi come Renzo Tamberi, Garibaldo Benifei, Otello Frangioni, Marte Corsi, Angiolo Giacomelli. In quel breve periodo, Martelli realizza dei volantini di propaganda e contribuisce alle attività della stampa clandestina.

A nove mesi dalla scarcerazione, il 1° agosto 1933 viene fatto salire su un’automobile in cui lo attendevano tre fascisti. Martelli è tranquillo perché sa che i materiali eversivi del PCd’I sono rimasti a casa sua e viene accompagnato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, un luogo tristemente noto per esser teatro di interrogatori e di torture che i fascisti infliggevano agli oppositori politici. Successivamente, viene bendato e portato in una stanza dove ad attenderlo c’è il tenente Gagliano. Il motivo della cattura è il seguente: Gagliano ha scoperto chi è l’autore dei volantini sovversivi, vuole sapere con chi collabora e dove sono custoditi. Il tenente gli mostra i volantini che effettivamente erano stati realizzati da lui e Tamberi, ma Martelli continua a negare tutto.

Gagliano lo invita a spogliarsi ed esamina le sue mani con una lente di ingrandimento. A quel punto, dei giannizzeri iniziano a picchiare violentemente Martelli soprattutto sulle mani, considerate il vero «corpo del reato».[5] Però, la polizia fascista non si limita a interrogare Martelli e decide di indagare su Tamberi. A seguito di diverse indagini compiute nelle settimane precedenti, la polizia fascista aveva scoperto che Martelli e Tamberi collaboravano insieme alla realizzazione dei volantini eversivi.

Quando si consultano delle autobiografie, ciò che sorprende sono sia le emozioni che possono produrre anni dopo sullo stesso lettore, che i minimi dettagli che vengono raccontati. L’Autobiografia di Martelli è un vero e proprio racconto dettagliato di tutte le vicende e le torture subite durante il Ventennio fascista, ma forse non è la minuziosità del racconto a sorprendere un qualsiasi lettore, quanto il pathos che trasmette quando narra le torture subite dagli amici e dai compagni di Partito, i giorni in carcere, la difficoltà a comunicare e a mantenersi in contatto con loro. Durante quell’interrogatorio, Martelli non vedrà mai arrivare Tamberi e crede che l’amico possa aver fatto dei nomi di altri militanti, che possa aver tradito tutti e che sia ceduto davanti alle violenze fasciste. In realtà, Tamberi non verrà interrogato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, ma direttamente a casa sua.

Martelli non sa che fare, continua a dire che non era a conoscenza di niente, ma a che scopo? Col passare delle ore e con l’aumento delle percosse subite ha anche egli paura di non farcela, di non saper resistere e di non sapere per quanto potrà mentire. La coercizione fascista era in grado di permeare la psiche di molti giovani e antifascisti che erano stati catturati. Martelli vede l’interrogatorio come una sfida in cui non vuole cedere, anche perché non ha un’altra scelta: deve resistere alla violenza per tutelare non solo l’organizzazione, ma anche i suoi compagni di Partito.

Il militante livornese seppe resistere a quelle brutalità, ma non per questo va raffigurato (e non avrebbe mai voluto definirsi) come “eroe”, piuttosto seppe assolvere le mansioni perché credeva fervidamente a un sistema valoriale basato su libertà e resilienza, così come altri compagni di Partito che cedettero alle violenze. Il raccontare determinati dettagli sulle attività o sulle organizzazioni considerate come eversive, non era sinonimo di “codardia”: non era facile resistere alle violenze e alle percosse che i fascisti infliggevano alle persone col fine di estorcere con mezzi disumani la verità.

L’interrogatorio durò sette ore e l’arrestato venne ripetutamente percosso dal maresciallo Niccoletti, verrà interrogato alla Questura di San Leopoldo e lì vi rimarrà in prigione per diverse settimane. A tre giorni dall’arresto alcuni suoi compagni della stessa organizzazione vengono arrestati e scoprirà che la denuncia era partita dal militante Sirio Vincensini. Vincensini aveva confessato da chi aveva avuto il manifesto originale, ovvero da Garibaldo Benifei che a sua volta aveva fatto il nome di altri militanti. Lo stesso Martelli racconta:

«[…] il Vincensini (un altro militante) informò il fascio che tanto io come il Tamberi quella sera eravamo a stampare, però non sapendo il luogo indusse i fascisti ad attendermi. Preso me, essi pensavano di cavarmi di bocca sia il luogo ove eravamo stati a stampare, come il nome Tamberi, questo per salvare il delatore […]».[6]

Insieme agli altri militanti livornesi, egli promise che avrebbe evitato di compromettere la posizione degli altri compagni, altrimenti il processo sarebbe andato avanti all’infinito.

Il 9 dicembre del 1933 Martelli viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione da scontare alla Casa di pena di Civitavecchia. Il periodo di detenzione non è così duro, a detta di Martelli stesso, perché le condizioni igienico-sanitarie in cui viveva erano buone, aveva diritto due ore di aria invece che una, e poteva prendere parte a laboratori di scrittura e di traduzione. Questa esperienza costituisce un punto di svolta nella sua formazione politica nella quale potrà sperimentare delle nuove forme di mobilitazione politica ed attività pratiche che non aveva mai testato a Livorno. All’interno della cella stipula delle relazioni con esponenti di spicco come Giovanni Parodi e Pietro Carsano, i quali gli trasmettono i principi fondamentali del comunismo e lo avviano a un vero e proprio percorso di formazione sul comunismo.[7] A Civitavecchia, Martelli studia dalla mattina alla sera ed è sottoposto a una disciplina ferrea, perché «il Partito pretendeva che i giovani fossero preparati nel migliore dei modi».[8] L’obiettivo prefissato dal PCd’I era quello di insegnare varie discipline concernenti il materialismo storico, l’economia politica, la letteratura.

Il capo della cella era Giovanni Parodi, ma vi erano comunque altre celle separate dove vi erano esponenti illustri del Partito. Tra una cella e l’altra avvenivano degli scambi di informazioni grazie alla complicità di alcune guardie carcerarie, le quali si rendevano disponibili allo scambio di «farfalle», ovvero biglietti scritti su cui venivano annotati gli argomenti di discussione da trattare nelle ore di aria.[9]

Nel settembre del 1934 viene scarcerato grazie ad un indulto concesso straordinariamente in seguito alla nascita della prima figlia di Re Maggio, il luogotenente dell’epoca della Casa di pena di Civitavecchia. Martelli sa bene che niente sarebbe stato più come prima, perché non vuole più essere il semplice ragazzo che diffonde volantini eversivi ed ha capito che per rovesciare il regime è necessario agire diversamente.

Nel febbraio del 1935 il padre muore e deve far fronte a una difficile situazione economico-finanziaria che travolge tutta la famiglia, tenta più volte di poter far rientro ma senza successo. Dapprima viene mandato al settantacinquesimo di Fanteria di Siracusa, un reggimento di disciplina composto dai criminali più disparati (ladri, stupratori, pochi antifascisti e qualche renitente alla leva) e poi viene assegnato alla scuola di Allievi Ufficiali.[10] In quel breve periodo cerca più volte di tornare a Livorno dai suoi cari, ma senza successo. Nei suoi tentativi di rientrare a casa viene ostacolato perché non aveva completato i corsi premilitari in età adolescenziale che soltanto gli avrebbero permesso di tornare nella città di residenza. Il 5 marzo dello stesso anno viene inserito nel corpo di spedizione in partenza per l’Africa Orientale, per l’Abissinia.  Secondo il figlio, Walter Martelli, la sua esperienza nella Guerra in Africa Orientale non fu completamente negativa per il padre, in quanto non prese parte a delle iniziative militari e riuscì a stabilire delle buone relazioni con gli abitanti del luogo.[11] Martelli ha raccontato ai suoi figli di aver diffuso nei villaggi dei consigli medici e delle nozioni generali per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.

Al suo rientro a Livorno, avvenuto nel 1936, molte cose erano cambiate. Alla fine del 1936 venne assunto presso i Cantieri Orlando, un’esperienza positiva che l’autore definì come una «grande conquista».[12] Lo stabilimento racchiudeva la storia del movimento operaio antifascista livornese e, per queste ragioni, riuscì a mettersi nuovamente in contatto con i compagni antifascisti che aveva conosciuto durante la clandestinità. La rete dei rapporti tra i militanti comunisti venne prima stabilita all’interno del cantiere e poi estesa al di fuori, ed era retta proprio dallo stesso Martelli.

A livello nazionale, il PCd’I abbandonò il precedente carattere settario che negli anni precedenti aveva portato il movimento ad isolarsi rispetto alle iniziative di altri partiti antifascisti. Tra il 1934 e il 1938 venne creato un Fronte popolare, in cui erano riunite tutte le forze politiche in aperta opposizione al regime. Questa fu anche la fase in cui i due partiti operai – il Partito Socialista e il Partito Comunista – ripristinarono delle forme di dialogo e di collaborazione dopo anni di scissione, culminate con la stesura di un patto di unità di azione nel 1934.

A livello locale, la Federazione livornese si ricostituì con esponenti di spicco e di varia provenienza come militanti storici, intellettuali, teorici, professori, figure pubbliche e notorie della comunità labronica. Un lieve passo avanti che venne messo di nuovo a dura prova da un’ondata di arresti senza precedenti.[13] Grazie alla rete di relazioni che Martelli aveva edificato ai Cantieri Orlando col militante comunista Mario Galli, l’organizzazione potè stabilire delle relazioni con intellettuali del calibro di Vittorio Marchi, Antonio Maccaroni, Aldo Balducci, Giorgio Stoppa. Le riunioni del nuovo partito si tenevano presso la casa dell’intellettuale Umberto Comi ed affrontavano temi svariati, come il rapporto tra il fascismo e la guerra, la Germania nazista, l’utilizzo della cultura e degli ideali comunisti come unica soluzione davanti alla violenza.[14] Mentre, Martelli e altri esponenti di partito che avevano vissuto direttamente sulla loro pelle la condizione proletaria, si facevano portavoce di altre tematiche, come i problemi della fabbrica e dello sfruttamento dei lavoratori.

Martelli non condivideva la nuova struttura della Federazione perché «nonostante i nuovi componenti si dichiarassero comunisti erano ben lungi dall’esserlo».[15] Secondo il militante di adozione livornese, gli ideali che quest’ultimi condividevano erano ideali social-liberali e poco affini ai principi marxisti-leninisti. Inoltre, a suo giudizio, esisteva una profonda differenza tra chi studiava il marxismo dalla cattedra e chi conosceva il marxismo perché apparteneva alla classe operaia.

Nel 1939 non gli viene riconosciuto più l’esonero dalla leva, riconosciutogli nel 1935 in quanto orfano di padre e unico capofamiglia, ed è per questo motivo che lascia il suo impiego ai Cantieri Orlando. L’ingegnere Bechi, all’epoca direttore dei Cantieri Orlando, si oppone al suo trasferimento inviando una lettera alla Questura di Livorno, ma senza successo. Inizia quindi a lavorare per un’azienda che produceva bombe a mano a Fiume, nota come Motofides. Durante quel periodo lavora alla realizzazione dell’Incrociatore San Giorgio, prende parte ad azioni di insubordinazione dalla catena di montaggio e viene licenziato nel 1942, perché considerato politicamente pericoloso.

Nel 1943 viene mandato a Torino alla Caserma Marmora ma, in seguito ai bombardamenti, viene mandato a Massa Marittima, una città in provincia di Grosseto. In quel piccolo centro rafforza il proprio legame con altri militanti comunisti locali e lì vi rimane fino alla ratificazione dell’Armistizio di Cassibile. Grazie all’aiuto di un militante locale, riesce a scappare dalla città grossetana e a raggiungere la famiglia sfollata ai Bagni di Casciana, dove si trovava anche sua moglie insieme alla sua famiglia. Si unisce alle formazioni partigiane locali nate dopo l’8 settembre e fa parte del Partito del Comitato militare ed ha come compito quello di organizzare i vari nuclei di partigiani della zona prima dell’arrivo del fronte di liberazione.[16]

NOTE

[1] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[2] Il Soccorso rosso, noto anche come “Soccorso rosso internazionale per i combattenti della rivoluzione” in sigla MOPR, è stata un’organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Il Soccorso rosso è rimasto attivo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale e condusse campagne di solidarietà sociale, di supporto materiale e umanitario, a sostegno dei prigionieri comunisti.

[3] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[4] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti. Livorno: Media Print, 2020, p. 346.

[5] Come compare sul dizionario Treccani, originariamente il giannizzero era un soldato di un corpo scelto di truppe a piedi dell’impero Ottomano, spesso adibito alla guardia del corpo del sultano. Nel periodo fascista si indicavano invece tutte quelle persone al servizio di qualche personaggio illustre della milizia fascista. Ma lo stesso termine può anche esser usato in senso dispregiativo per indicare uno scagnozzo o tirapiedi, forse questo è il significato a cui fa riferimento Martelli nella sua Autobiografia. La citazione compare in: Martelli G., Autobiografia, cit., p. 4.

[6] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 6.

[7] Giovanni Parodi (1889-1962) nasce in una famiglia operaia e diventa ben presto militante del PCd’I, viene arrestato nel 1927 dal Tribunale Speciale Fascista e gode dell’amnistia nel 1937. Fugge in Francia nel 1940 e viene arrestato l’anno successivo. Fortunatamente riesce ad evadere e a continuare il lavoro politico clandestino, nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano e Segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici (in sigla, FIOM).

Giovanni Carsano (1891-1965): inizialmente operaio torinese, aderisce al PCd’I e partecipa al biennio rosso. Come Parodi viene arrestato nel 1927 e rilasciato dopo dieci anni, viene mandato al confino nel 1943 dove rimane fino alla liberazione. Dopo la guerra lavora presso i sindacati dei pensionati e presso l’Unione internazionale dei sindacati dell’Alimentazione.

[8] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 349.

[9] Ibidem.

[10] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[11] Intervista dell’autrice a Walter Martelli, svoltasi il 2 aprile 2024 presso l’abitazione di quest’ultimo a Livorno.

[12] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[13] Tra gli esponenti di spicco vengono arrestati Garibaldo Benifei e Aramis Guelfi.

Aramis Guelfi (1905-1977): inizialmente maestro d’ascia, viene condannato nel 1939 dal Tribunale speciale a scontare quattro anni di reclusione. Viene liberato anch’egli con l’Armistizio dell’8 settembre, ma continua a combattere nella zona di Volterra. Diventa esponente di spicco del Partito Comunista livornese, per poi aderire nel 1963 al Partito Socialista Democratico.

[14] Umberto Comi era vicedirettore del giornale fascista “Sentinella Fascista” e spesso scriveva articoli non proprio conformi all’ideologia fascista, ma erano spesso difficili da decifrare nei loro contenuti e, proprio per la sua adesione al Partito, si crearono delle divisioni all’interno del movimento.

[15] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 9.

[16] L’area sottoposta al controllo di Giovanni Martelli è relativamente grande e comprendeva molte piccole città della provincia di Pisa, come: Lari, Cascina, Crespina, Terricciola, Chianni, Peccioli.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Introduzione
Giovanni Martelli è stato un antifascista, militante comunista e sindacalista livornese. Ha dedicato la sua vita ai lavoratori e agli ideali di libertà, in cui credeva fervidamente. È stato vittima delle violenze fasciste, di incomprensioni da parte dei suoi stessi compagni di Partito e dei dirigenti dei sindacati, di un sistema politico che cambiava costantemente e in cui si identificava sempre meno.
Questo articolo vuole ripercorrere una parte della vita di Martelli, dalla sua precoce militanza nel Partito Comunista d’Italia fino alla detenzione nelle carceri [1]. Verranno esaminate anche tutte quelle persone che hanno assistito Martelli nel proprio percorso politico, come alcuni antifascisti e militanti livornesi, partigiani attivi nella Resistenza all’occupazione nazifascista, politici e sindacalisti della Prima Repubblica. Tale ricerca non può esser scissa da un’analisi complessiva sul contesto nazionale che ha fatto da sfondo alla sua vita, un contesto segnato dal fascismo prima e dalle tematiche del secondo dopoguerra.
Il progetto è nato sulla base della consultazione dell’Autobiografia e delle note autobiografiche redatte da Giovanni Martelli stesso, e successivamente è stato esteso grazie a degli approfondimenti attuati su altri documenti conservati dal militante. Fino ad oggi la biografia e le esperienze di vita di Martelli sono state poco note alla comunità livornese odierna ma, grazie ad un lavoro di ricerca attuata personalmente presso l’Istituto Storico della Resistenza e delle Società Contemporanee della provincia di Livorno (in sigla, ISTORECO), adesso sarà possibile ricostruirle passo dopo passo. Martelli non era di origini livornesi, eppure il suo impegno politico è sempre stato rivolto alla città labronica fin da quando aveva diciassette anni, fin dal 1930.
L’articolo illustra non solo la sua figura, il suo impegno politico e sociale, ma anche i valori che ha condiviso e che lo hanno contraddistinto in tutti i suoi anni di militanza. Perché al di là della figura, c’è stato un uomo che ha creduto negli ideali di libertà, solidarietà, verità, lavoro. Martelli è stato proprio questo: un militante che ha corso dei rischi per i valori in cui credeva, ed è proprio partendo da questi valori che sarà possibile definire con maggior chiarezza la sua figura.
Per la realizzazione dell’elaborato sono stati consultati i documenti redatti e conservati da Martelli stesso, come ad esempio: le note autobiografiche, la propria biografia, lettere e opuscoli, articoli di giornali, comunicati. Le fonti sono state dapprima analizzate analiticamente, approfondendo i contenuti e gli eventi riportati, e successivamente sono state esaminate complessivamente col fine di tracciare un filo rosso che le ponesse in correlazione. Le persone non decidono casualmente di conservare determinati documenti, il tutto dipende dal grado di importanza che per essi rivestono; oppure, ogni individuo conserva un determinato oggetto perché lo rappresenta intrinsecamente. I documenti accumulati da un essere umano non sono mai agenti neutrali della storiografia, ma vanno osservati con attenzione e cautela.
Per esaminare questa storia particolare ed affascinante, l’elaborato è stato suddiviso in tre brevi paragrafi (pubblicati in tre articoli distinti).
Il primo paragrafo (pubblicato qui di seguito) illustra i primi anni di militanza di Giovanni Martelli nel Partito Comunista d’Italia durante il regime fascista e il suo incontro precoce con la classe operaia. Come afferma nella sua autobiografia, Martelli incontra la politica in età giovanile e quasi per caso, senza rendersi conto di cosa significasse aderire a un partito costretto alla clandestinità durante un regime totalitario. Si accorge delle responsabilità che ricopre solo quando vivrà sulla propria pelle la perquisizione e l’arresto.
Il secondo evidenzia i suoi due periodi di detenzione nelle carceri fasciste e le difficili condizioni psico-fisiche in cui ha vissuto. Nonostante gli arresti, Martelli apporterà un contributo significativo alla causa dell’antifascismo livornese e della Resistenza.
Il terzo ripercorre l’ultimo periodo di detenzione avvenuto prima presso il carcere di Don Bosco a Pisa e poi presso il carcere di Sant’Eufemia a Modena. L’ultimo arresto segnerà in maniera indelebile la vita del giovane antifascista di adozione livornese, soprattutto perché temeva di non poter più far ritorno a casa.

La presa di consapevolezza (novembre 1913-giugno 1932).
Giovanni Martelli nasce il 17 novembre 1913 a Castelfiorentino in una famiglia di umili origini: suo padre è operaio presso la Metallurgica Italiana e sua madre è casalinga. Per questioni lavorative il padre si trasferisce col resto della famiglia a Livorno, quando Martelli era molto piccolo. Lo stesso padre era nato e domiciliato a Livorno.
Vista la difficile situazione economica in cui viveva la famiglia, Martelli è costretto a lavorare non appena ha terminato le scuole elementari. Il suo primo impiego è presso l’ufficio telegrafico, dove vende a domicilio i telegrammi in arrivo, e a quindici anni lavora alla Cristalleria Torretta. Conosce il mondo del lavoro molto presto, quando è poco più che un bambino. Il contatto precoce con questa realtà lo segna così tanto nel profondo che le battaglie proletarie rimarranno al centro dei suoi interessi e delle sue discussioni.
Fino ai diciotto anni svolge più impieghi: diventa manovale edile, costruisce i blocchi di Shangai, svolge degli incarichi presso l’impresa Feltrinelli[2]. Successivamente, inizia a lavorare presso la ditta francese Mathon in uno stabilimento di materiali refrattari[3]. L’autore descrive la difficile condizione lavorativa in cui viveva, il difficile rapporto col sistema di produzione industriale fordista e la scarsa remunerazione che riceveva. Martelli racconta quella realtà con le seguenti parole:

«[…] Lavorai in quella fabbrica per circa due anni e fu in essa che conobbi veramente la durezza del lavoro e delle condizioni imposte all’operaio. In questo stabilimento, costruito secondo i moderni criteri dell’epoca, nonostante il paternalismo di quella direzione, le condizioni del lavoratore erano subordinate alla “salute” dei materiali […]. La condizione [in] cui si trovava l’operaio addetto alla macinazione del materiale refrattario, immerso per ore e ore permanentemente [nel] nuvolo di polvere e così via. Una forte percentuale di quegli operai, che per anni avevano dovuto lavorare a quelle condizioni, veniva colpita da malattie tubercolari o da gravi forme di silicosi […]»[4].

Quelle difficili condizioni lavorative gli fecero capire l’importanza della formazione, dell’istruzione e della scuola, di quei percorsi che aveva dovuto abbandonare a causa della povertà. Martelli comunque tra i diciotto e i ventuno anni riesce a frequentare delle scuole serali di avviamento professionale, dove si specializza in motori e in aviazione.
Sempre all’età di diciotto anni, Martelli si avvicina alla politica e al PCd’I quasi per caso. Nella sua Autobiografia racconta che non si è mai spiegato il perché a quell’età nutrisse una «profonda avversione verso il sistema fascista» e una «certa simpatia per il Partito comunista»[5]. In realtà, esisteva una motivazione di fondo che spiegava i suoi sentimenti contrastanti: come altri giovani cresciuti durante il Ventennio, era costretto a frequentare dei corsi premilitari che detestava nel profondo.
L’attività politica di Martelli si inserisce proprio in un periodo storico molto complesso. Nel 1931 si iscrive alle organizzazioni giovanili della Federazione comunista livornese a Iedo Tampucci e Leonardo Leonardi ma, a causa della sua giovane età, inizialmente non ricopre dei ruoli di rilievo politico all’interno della federazione e svolge altre attività, come: azioni di propaganda, organizzazione delle cellule, distribuzione e lanci dei manifesti di propaganda, preparazione dei materiali da discutere nelle riunioni. Aderire a un movimento considerato come eversivo in un regime autoritario, significava prender parte consapevolmente alla vita clandestina.
Un anno dopo entra a far parte del Comitato federale dei giovani e conosce molti giovani comunisti livornesi, tra cui Otello Frangioni e Garibaldo Benifei[6]. È necessario precisare che questi giovani non solo svolgeranno dei ruoli di rilevanza all’interno della lotta al regime nazifascista, ma continueranno anche a ricoprire degli incarichi di spicco all’interno del Partito dopo la guerra. Inizialmente prendono parte a riunioni su argomenti concernenti i presagi di una guerra imminente e la possibile partecipazione del fascismo ad essa, e successivamente svolgono il ruolo di trasmissione all’interno dell’organizzazione delle inaudite difficoltà che stava vivendo il Partito a livello nazionale. Inoltre, svolgeranno azioni di proselitismo clandestine nelle fabbriche e nelle giornate di festività dei lavoratori, come il primo maggio abolita dal regime e realizzeranno dei volantini inneggianti lavoro, pace e libertà.
Il 1932 è un anno che segnerà in maniera irreversibile la vita di Martelli in quanto viene arrestato l’11 giugno dall’OVRA, la polizia politica e segreta del regime che aveva il compito di reprimere l’antifascismo. Fino al 1944, Martelli verrà arrestato complessivamente tre volte e verrà denunciato al Tribunale speciale, come compare anche nella scheda biografica del Casellario Politico Centrale[7].
Le torture subite, gli arresti, le condanne e i trasferimenti, cambieranno le scelte di vita di Martelli che da militante per caso, divenne sinceramente convinto delle proprie scelte e continuerà ad opporsi al regime con un coraggio senza precedenti. È proprio con queste esperienze difficili che Martelli acquisirà una maggior consapevolezza e coscienza su cosa vuol dire esser militanti in un partito di opposizione durante un regime totalitario.

Note

  1. D’ora in avanti il Partito Comunista d’Italia verrà indicato con la sigla PCd’I.
  2. Presso l’impresa Feltrinelli, Martelli lavora allo scarico e carico del legname. Per un’impostazione generale sul tema, vedi: Martelli G., Nota autobiografica, Livorno, gennaio 1985, p. 1.
  3. Lo stabilimento qui menzionato è la “Società toscana per lo sfruttamento di cave e miniere C. Mathon”, attiva in tutto il territorio toscano e collocata a Livorno all’epoca in Piazza San Marco. Per un approfondimento sul tema, vedi: Camera di commercio della Maremma e del Tirreno, Fascicolo delle Società cessate, b. 838.
  4. Martelli G., Nota autobiografica, cit., p. 3.
  5. Martelli G., Autobiografia, Direzione del Partito Comunista Italiano (Sezione Quadri), 20 marzo 1945, p. 1.
  6. Otello Frangioni (1913-1952): è coetaneo di Martelli, con cui stringe un solido rapporto di amicizia. Anche lui si iscrive al Partito Comunista quando è giovanissimo e nutre un interesse profondo per le questioni proletarie. Sposerà una delle sorelle di Martelli e diventerà suo cognato. Muore in un incidente stradale a Scandicci insieme a altri militanti livornesi, come Leonardo Leonardi e Ilio Barontini.
    Garibaldo Benifei (1912-2015): Nasce in una famiglia antifascista, composta dal fratello anarchico Rito e dal fratello socialista Antonio. Nel 1933 viene arrestato con Martelli e condannato a un anno di reclusione presso il Palazzo dei Domenicani a Livorno, dove conobbe Sandro Pertini. Dopo l’arresto nel 1939 viene condannato a sette anni di carcere, ma viene liberato con l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Tornato a Livorno aderisce al CLN e prende parte attivamente alla guerra di liberazione. Nel dopoguerra ha continuato a lavorare come operaio ed è stato esponente di spicco del Partito Comunista livornese.
  7. Casellario Politico Centrale, Giovanni Martelli, b. 3092, < http://dati.acs.beniculturali.it/CPC/ >, data di consultazione: 18 marzo 2024.



LA LEGGENDARIA BANDIERA ROSSA DEL PONTINO

Un episodio del sovversivismo livornese che, attraverso i racconti orali, è rimasto a lungo nella memoria popolare è quello della funambolica bandiera rossa del Pontino.
La leggendaria beffa è stata narrata in chiave antifascista, a distanza di oltre cinquant’anni, da alcuni militanti comunisti, ma con particolari diversi e, soprattutto, con incerta e contraddittoria collocazione temporale, tanto da indurre in errore chi – compreso il sottoscritto – ne ha riferito.
In realtà, l’avvenimento è tutt’altro che dubbio in quanto, come ho potuto appurare, è attestato e datato dal seguente articolo, pubblicato su la «Gazzetta Livornese» del 29 settembre 1921, in cui è descritto con ricchezza di particolari:

Una bandiera rossa sul Pontino.

La polizia veniva ieri informata che sul Pontino i sovversivi avevano posto in luogo ben visibile una insegna rossa.
Verso le 24 di questa notte alcuni agenti e un plotone di regie guardie si recavano in camion nel luogo indicato.
L’insegna era legata ad un fascio di fili dell’energia elettrica, che passando al di sopra degli stabili del Pontino attraversano il canale – all’altezza di una quindicina di metri e oltrepassano la Fortezza.
Sotto il vento freddo funzionari e agenti lavorarono a lungo a bordo di un navicello per preparare una lunghissima pertica, all’apice della quale era un cencio imbevuto di benzina a cui fu appiccato il fuoco, ma si accorsero che l’insegna era di latta e rimandarono ad oggi l’operazione.

La bandiera in possesso della polizia.

Il Questore, nel pomeriggio d’oggi, ha disposto che alcuni operai specialisti ritentassero la prova onde impossessarsi del vessillo.
Gran folla ha assistito all’… esperimento.
Gli operai mediante una scala Ponte piazzata sulla strada, sono riusciti, operando abilmente, a giungere fino all’altezza dei fili.
La folla ha seguito l’operazione come semplice spettatrice. Alla fine gli operai sono riusciti a staccare la lastra di bandone foggiata a bandiera che però è caduta in acqua.
Una squadra di agenti con funzionari a bordo di una barca, si recavano là dove l’oggetto era caduto e dopo brevi ricerche riuscivano a recuperarlo.
La polizia aveva spiegato un largo apparato di forza.
Non si è verificato alcun incidente.

Appurata dunque la cosiddetta verità storica, può essere interessante considerare le narrazioni più conosciute dell’episodio che, nella loro contraddittorietà, si sovrappongo ad alcuni episodi analoghi, avvenuti negli stessi luoghi, ma in tempi diversi.
Infatti, pochi mesi prima, per festeggiare la vittoria elettorale socialista, «sugli Scali delle Cantine, un marinaio della marina mercantile, salito col mezzo di una fune all’altezza del filo conduttore della luce elettrica, vi stendeva sopra un drappo rosso» («Gazzetta livornese, 18-19 maggio 1921») e il 30 agosto 1930, come riferisce un rapporto di Questura, una bandiera rossa con falce e martello venne appesa sugli Scali del Pontino.
Un primo racconto lo troviamo nell’intervista al comunista Eletto Allegri, classe 1903, raccolta da Iolanda Catanorchi a metà anni Settanta, secondo il quale l’episodio era avvenuto il primo maggio del 1925 o 1926, quindi in pieno regime fascista, e collegata alla figura di Ilio Barontini, segretario della federazione livornese del Partito comunista d’Italia, indicato come il “regista” dell’iniziativa, mentre invece non vi era alcun accenno all’esecutore materiale del gesto, attribuito anzi ad un generico «noi»:

il primo maggio era proibito e allora noi decidemmo di fare qualcosa per il primo maggio. In quell’occasione, ma non mi ricordo bene se era il 25 o il 26, quella data lì di sicuro, ci organizzammo […] si mise una bandiera rossa attraverso dalla fortezza ai fossi del Pontino, dalla fortezza nuova, al centro del fosso, con un cavo. Questa bandiera rossa, lui pensò, sai Barontini ci diceva tutto di fare queste cose, questa bandiera rossa fu messa ma non di stoffa, era un pezzo di lamiera pitturato con il minio e la falce e martello. Barontini disse “vedrete che questa non la spostano”; si mise questa cosa […] E la mattina poi ti puoi immaginare la sorpresa degli operai, delle guardie, a vedere queste cose qui. Noi pensammo al nostro rione, io ero del rione Pontino-San Marco dove abitava Barontini […] mi ricordo appunto l’episodio di questa bandiera; venne i pompieri, la polizia; i pompieri in mezzo con la barca a motore con delle torce cercavano di bruciarla, ma invece si anneriva, diventava rossa e nera e allora dovettero venire con la scala porta, levarla, fare un sacco di storie. Barontini soddisfatto.

Una seconda versione, è quella trasmessa da Mauro Nocchi (1934 – 2020), figlio del militante comunista Alcide e lui stesso dirigente del PCI. Il testo, risalente agli anni Novanta ed in seguito rielaborato, riprende in parte la testimonianza di Allegri, raccolta da Catanorchi, e coincide col racconto di De Santi, con l’aggiunta di qualche colorito dettaglio ripreso dalla narrazione popolare e forse ascoltato dal padre. Anche in questo caso, l’episodio è collocato in pieno Ventennio e si sostiene che la bandiera sarebbe stata portata ed esposta a Roma, alla Mostra della Rivoluzione fascista del 1932:

Negli anni 30, in pieno regime fascista, a Livorno, seppure in modo clandestino, il sentimento antifascista e di ribellione alla dittatura fascista era ancora molto forte nella gente. Nel notte del 1° maggio si compì un atto memorabile sul Pontino. Un atleta mise un cavo tra la Fortezza Nuova e l’ultima casa del Pontino con appesa una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore. Si chiamava Danilo Bugliesi ed era un compagno omosessuale, e solo per questo era discriminato. E l’hanno picchiato tante volte i fascisti perché era omosessuale e perché era comunista. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase li per giorni. E quando i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra dei cimeli della rivoluzione.
Quel mattino molte persone radunate lungo le spallette dei fossi sugli Scali delle Cantine, gioivano per l’accaduto, e mentre la Polizia con l’aiuto dei pompieri si davano un gran da fare per toglierla, qualcuno dietro le finestre socchiuse fischiettava “Bandiera Rossa”. Le persone che assistettero all’insolito spettacolo, spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera oppure scoprire i fringuelli che cantavano dietro le finestre, correndo qua e la andò nel pallone […] E di questi episodi la storia di Livorno ne è piena…

Una terza versione è quella raccontata da Luigi De Santi, classe 1919, dirigente della Società di Cremazione, intervistato da Catia Sonetti nel 2001. Per evidenti motivi anagrafici, neppure De Santi poteva essere stato testimone dei fatti. Per questo, non indica alcuna data, descrive una bandiera “anacronistica” e nell’indicare Danilo Bugliesi come il principale autore dell’azione, lo ritiene imparentato con una famiglia benestante e lui stesso commerciante in preziosi.

A Livorno c’era quella bandiera di quello, che poi nella vita privata era un diverso. Però […] era un atleta e mise un cavo tra la Fortezza e l’ultima casa del Pontino, una bandiera di metallo, che poi fu la bandiera che fu il primo simbolo del Partito comunista dopo la liberazione. Una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore […] Lui era un compagno omosessuale e a quel tempo c’era la mentalità che un omosessuale era un uomo di terza qualità. Invece era un uomo intelligente, commerciava in oro, brillanti, apparteneva alla famiglia Galli-Marchini, i padroni della zona Pontino che aveva magazzini nella zona degli stracci. Si chiamava Danilo Bugliesi e l’hanno picchiato tante volte povero figlio, e perché era omosessuale e comunista, per tutte e due. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase lì dei giorni, e quando poi i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra sui cimeli della rivoluzione.

Per la cronaca, esiste pure una quarta versione, la più fantasiosa, quella di Umberto Vivaldi, portuale comunista classe 1940, riportata nel libro Livornesi! Storie popolari, pubblicato nel 1998, in cui il fatto del 1921 è diventato un episodio della Resistenza, tra folklore e maldestra rimasticatura delle precedenti narrazioni:

Bugliesi e Galli del rione San Marco Pontino, fecero cucire dalle loro donne, scampoli di stoffa rossa, così che divenne fuori una gigantesca bandiera. La notte del primo maggio, sugli scali delle Cantine, la legarono con una corda sul cavo d’acciaio che dalla Fortezza Nuova attraversa il fosso fino ai caseggiati. Quel mattino, molte persone radunate lungo le spallette dei fossi, gioivano per l’accaduto. Mentre la polizia con l’aiuto dei pompieri si dava da fare per toglierla, alcuni antifascisti da dietro le finestre socchiuse fischiavano Bella Ciao. Le persone che assistevano all’insolito spettacolo spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista, non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera, oppure scoprire i fringuelli che fischiavano Bella Ciao, correndo qua e là andò nel pallone.

Se questa è la leggenda, quel Danilo Bugliesi, generalmente indicato come il principale artefice dell’azione dimostrativa, è stata una persona reale: nato a Livorno il 30 settembre 1903 e deceduto il 19 settembre 1955; figlio di Agostino e Annita Crovatti, nonché appartenente – seconda una nota di Questura del 1933, ad una «famiglia di pregiudicati e sovversivi».
Infatti, il padre Agostino, classe 1864, facchino, risultava schedato nel Casellario politico centrale come anarchico sin dal 1903, mentre il fratello minore Primo (classe 1906) nel 1930 avrebbe subito una condanna per tentato espatrio clandestino e nel 1933 una diffida in quanto «professa idee comuniste» e «per l’opera sovversiva spiegata nel passato».
Anche Danilo era stato “attenzionato” dalla polizia, come si evince da una confusa nota della Questura di Livorno, datata 9 ottobre 1927, che oltre a farci sapere il mestiere (facchino e, successivamente, lavapiatti a Roma) lo indicava in questi termini: «di cattiva condotta morale politica. Egli sebbene non abbia precedenti politici in questa città, prese parte nel passato a manifestazioni simpatizzando coi comunisti […] pure nell’epoca dei moti rivoluzionari rossi, partecipò a tutte e azioni del genere e per molto tempo conservò idee comuniste, e simpatizzante del partito anarchico di cui fa parte il di lui padre».
In aggiunta, per avvalorare lo stigma morale, veniva riferito che «durante il servizio militare, mentre si trovava circa 2 anni orsono in licenza, fu tratto in arresto perché sospetto reato di pederastia passiva poi prosciolto dal reato addebitato».
Riguardo il suo diretto coinvolgimento nella collocazione della bandiera non abbiamo riscontri, ma la residenza di Danilo Bugliesi appare indicativa e avvalora la fondatezza dei “si dice”. Infatti, egli abitava sugli Scali del Pontino n. 3, piano primo, in un edificio demolito nel 1948, oggi corrispondente al caseggiato dove si trova la Farmacia S. Marco. Quindi, corrisponderebbe proprio a «l’ultima casa del Pontino» indicata dal De Santi. Inoltre, non è certo difficile supporre che Danilo potesse contare sulla complicità familiare – piuttosto che su quella di qualche struttura politica – visto che, oltre sul padre e sul fratello, poteva contare sullo zio paterno, Pietro Bugliesi (1862 – 1928), abitante a due passi, ossia sugli Scali delle Cantine al n. 9 (l’attuale civico 78). Anche lui, facchino, era schedato come anarchico nel Casellario politico centrale sin dal 1902 e nel febbraio 1922, sarebbe stato arrestato, a seguito di perquisizione domiciliare, per detenzione di una rivoltella non denunciata («Gazzetta livornese», 16 e 17 febbraio 1922).
Frammenti di un sovversivismo evocato a posteriori a simbolo di un’opposizione collettiva od organica al partito, ma sovente espressione della rivolta informale di sodalizi familiari e individualità per troppo tempo dimenticate.

Fonti archivistiche

Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Agostino;
Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Pietro Paolo Garibaldo Dionisio;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A8, Busta 1384, Fasc. 19, Bugliesi Primo;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A1, Busta 45, 1927, Fasc.128, Bugliesi Danilo.




La battaglia di Piombino

Sono passati 80 anni da quel lontano 10 settembre 1943, quando gli abitanti di Piombino, sostenuti ob torto collo anche dalle forze armate presenti in città (soprattutto dalla Marina di stanza nel territorio della cittadina e lungo le coste del promontorio), si ribellarono alla presenza tedesca e diedero vita ad una vera e propria battaglia caratterizzata sin da subito da un amalgama difficilmente distinguibile di spontaneità e di organizzazione.

Attorno all’episodio, entrato immediatamente – perlomeno alla fine del conflitto – nella narrazione anche retorica costruita attorno alla Resistenza, si sono accumulate intenzioni estranee agli avvenimenti stessi, rendendo la battaglia piombinese un topos obbligato nella rievocazione delle azioni partigiane. Resta comunque il fatto incontrovertibile che essa fu il primo episodio di resistenza nei confronti dei tedeschi, a soli due giorni dall’annuncio dell’armistizio Badoglio dell’8 settembre 1943. A conclusione della guerra, la sua eccezionalità attirò l’attenzione non solo di politici (soprattutto comunisti e socialisti), ma anche di storici che si confrontarono più o meno dettagliatamente sulla vicenda.

Il primo fu il saggio di Ugo Spadoni, pubblicato nel 1955 (in occasione del decennale della Liberazione) su la «Rivista di Livorno», che portava un titolo significativo: Per una storia della battaglia di Piombino. Un paio di anni prima, invero, ne aveva fatto cenno anche Roberto Battaglia nella sua Storia della resistenza italiana, basandosi sulla testimonianza di Edo Azzolini pubblicata su «Vie Nuove» nel 1952.

Come desumibile l’episodio aveva attirato l’interesse di studiosi e di militanti per le sue caratteristiche di spontaneità e organizzazione, perché era il risultato, in parte perlomeno, di una città operaia e sovversiva dove l’odio per i tedeschi ed i fascisti aveva trovato l’occasione ed i mezzi per esprimersi, prefigurando in qualche modo la potenzialità di una sognata ed idealizzata presa del potere da parte delle classi subalterne che riuscivano a piegare ai loro fini anche le squadre del regio esercito. Con il passare degli anni si sono aggiunte altri ricerche: da quella di Ivan Tognarini (al quale si unì poi la voce di un non professionista della materia come Rocco Pompeo, che nel 1965 vi dedicò la tesi di laurea, successivamente pubblicata) fino ai più recenti ed accurati confronti con le carte d’archivio sulle quali ha lavorato Stefano Gallo, studioso sensibile alla tematica senza però mai farsi prendere la mano da un eccessivo entusiasmo come è invece accaduto per altri ricercatori. La stessa narrazione proposta da Ivan Tognarini risultava in qualche modo piegata alla necessità del riconoscimento della medaglia d’oro. Quella d’argento che era stata conferita nel 1973 apparve a tutta la cittadinanza e alla sua classe dirigente, saldamente in mano al Partito comunista, un riconoscimento non solo tardivo ma anche sminuente.

La vicenda, che si colloca due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, ricorrenza della quale quest’anno ricordiamo l’80° anniversario, si realizzò e si consumò nell’arco di circa 48 ore.

Occorre ricordare che nella città c’erano già state manifestazioni di entusiasmo per le strade in occasione del 25 luglio e che probabilmente già da quella data era andato costituendosi un Comitato di concentrazione antifascista presieduto da Ulisse Ducci, figura piuttosto ambigua nel panorama dei resistenti. Arrivato a Piombino dopo una condanna al confino perché implicato in un tentativo di uccisione di Mussolini, divenne abbastanza presto confidente dell’Ovra e giocò in tutto il periodo della sua presenza nella cittadina toscana un ruolo opaco. Tuttavia, fu anche capace di tessere relazioni con l’ambiente antifascista più genuino espresso dalla città, che vedeva in lui un eroe senza macchia[1]. Al suo fianco troviamo nel Comitato di concentrazione antifascista alcuni sicuri oppositori al regime come Giorgio Millul, Federigo Tognarini, Pio Lucarelli, Adriano Vanni, Renato Ghignoli ed altri. Quanto poi ciò che avvenne fosse tutto frutto della direzione del Comitato e quanto invece fosse il risultato di una volontà spontanea di parte della popolazione, è arduo da stabilire. Probabilmente giocò qui, come da altre parti, una mescolanza di entrambi gli atteggiamenti. In ogni caso furono tali spinte che in primis si rivolsero verso i soldati, in particolare i marinai presenti in città, affinché si facessero carico di uno scontro diretto con le truppe tedesche che, all’inizio della giornata del 10 settembre, erano presenti con forze esigue.

Al comando dei militari dislocati sul promontorio c’erano due personalità ben diverse: da una parte il capitano di corvetta Giorgio Bacherini; dall’altra il capitano di fregata Amedeo Capuano. Come ha sottolineato Bardotti nella sua prolusione alla cerimonia per il 10 settembre 2022, l’apparato di difesa militare che faceva capo all’esercito italiano per Piombino era significativo. Tutta la zona dipendeva dalla 215° divisione costiera agli ordini di Cesare Maria De Vecchi che aveva come comandante il generale Fortunato Perni, il quale, tra l’altro, poteva contare su due efficaci batterie a guardia del porto. Agli ordini del capitano Amedeo Capuano faceva capo una terza batteria, in buona efficienza affidata a Giorgio Bacherini. Il dispositivo era ulteriormente rafforzato dal XIX battaglione carri m42 (in tutto 38 mezzi), dislocato presso la pineta di Torrenuova e posto al comando del tenente colonnello Angelo Falconi. In tutto le difese potevano contare su circa 800 militari, oltre ai soldati in attesa d’imbarco per l’Elba, la Corsica e la Sardegna.

Le forze militari tedesche presenti in campo erano invece assolutamente trascurabili: un piccolo contingente tedesco composto da 7-8 militari dislocati presso una stazione radio, nonché dieci unità germaniche di naviglio leggero, erano ancorate in porto. Prendendo le mosse da queste ultime, un gruppo di trenta soldati tedeschi era sceso a terra poco dopo la proclamazione dell’armistizio per impadronirsi delle banchine portuali. Gli aggressori arrestarono alcune sentinelle a guardia dei moli e tentarono di occupare una postazione di mitragliatrici ma il capitano Bacherini, informato di questi movimenti, ordinò di difendere il porto e intimò l’arresto dei tedeschi presso la stazione radio. La batteria della Marina aprì il fuoco e cinque unità del Reich, di cui quattro in porto e una nel canale, vennero affondate mentre alcuni tedeschi vennero fatti prigionieri. Su questa prima reazione pesò sicuramente la volontà dei soldati italiani che fecero la “scelta”, pur senza ordini dall’alto, di resistere e combattere – sicuramente – sostenuti e incoraggiati dalla popolazione civile.

Questa risposta non era stata messa in conto da parte tedesca neppure come ipotesi: quest’ultima aveva pertanto agito sopravvalutando la propria capacità e la disponibilità alla sottomissione dell’ex alleato italiano.

Prima di procedere ulteriormente nella rievocazione della battaglia, che non risulterà lineare, credo sia utile fare alcune precisazioni, alcune di natura geografico-morfologica sulla collocazione di Piombino ed una di ordine sociale. La prima considerazione riguarda la possibilità di chiudere il capoluogo urbano con una relativa facilità. Vi si accedeva con una sola strada d’ingresso e il promontorio roccioso si prolungava verso il canale di fronte all’Elba. La considerazione di ordine sociale ed economico che probabilmente era il vero oggetto dell’interesse dei tedeschi per prendersi la città, era data dalla presenza di due grandi fabbriche siderurgiche: l’Ilva e la Magona, presenza questa che significava automaticamente una potenzialità di materiale bellico per il contingente tedesco, ma significava altresì anche la presenza di masse operaie che erano state sì sottomesse dal regime ma che non avevano mai coltivato verso di esso nessuna particolare inclinazione. Una composizione di classe fortemente politicizzata e sovversiva come scrivevano i tutori dell’ordine, con una forte e radicata tradizione anarchica, socialista e comunista. Vale la pena ricordare perlomeno due episodi, come fa Rocco Pompeo, della resistenza antifascista e dei lutti che questa dovette sopportare: quello di Lando Landi e quello di Amaddio Lucarelli ed Attilio

Landi. Lando Landi (da tutti conosciuto come “Landino”) era un anarchico per temperamento e per educazione che si era lanciato con tutto l’entusiasmo della sua età giovanile nella mischia sociale. Rappresentante di una resistenza individuale non organizzata, fu ucciso dal piombo di un sicario fascista in via Carlo Pisacane nel giugno del 1922. L’altro episodio della prima resistenza piombinese vide coinvolti Amaddio Lucarelli ed Attilio Landi, ambedue militanti comunisti, e fu di poco successivo al primo. Il 9 luglio 1922, in località “campo alle fave” (Fiorentina), i due giovani comunisti si trovavano sul terreno di campagna del loro vicino: Roberto Cantini. Mentre leggevano e commentavano il giornale, quattro fascisti arrivarono armati di rivoltella. Subito dopo ne giunsero altri sette o otto, ed uno di essi, probabilmente il capo della spedizione, si meravigliò di trovare ancora vivi Lucarelli e Landi, ai quali intimò di alzarsi. Estratta poi la rivoltella, aprì il fuoco: Lucarelli cadde ucciso, mentre Landi, ferito, fu soccorso dalle due sorelle Alfea e Maria, che avevano assistito alla scena[2].

Questi episodi vanno collocati ancora prima della presa del potere da parte delle camicie nere. Ricordiamo che tra gli assalitori di campo alle fave, una zona di campagna alle porte di Piombino, c’era anche il direttore dell’Ilva, Garbaglia. [3] Durante il ventennio le manifestazioni non si spensero mai del tutto anche se in sordina, soprattutto all’interno degli stabilimenti. In particolare, negli ultimi mesi del ’42, quando, per una serie di agitazioni operaie, per la pubblicazione insistente di stampa clandestina e la sua distribuzione nelle fabbriche, per le frequentissime scritte sui muri inneggianti ad un mutamento del regime, per l’ascolto di radio Mosca e radio Londra, centinaia di operai furono attesi all’uscita delle fabbriche e bastonati. Molti antifascisti vennero “mandati a letto” con minacce, purtroppo non vane. Il tutto in un clima nel quale il carattere peculiare del fascismo periferico andava rivelandosi più intollerante e spavaldo di quello centrale.

Ricordiamo anche il volantino diffuso il 30 luglio 1943 dal Comitato di Concentrazione Antifascista che incitava i cittadini piombinesi a stare allertati e a tenersi pronti ma vigili senza approfittare del momento, ciascuno al proprio posto di lavoro e all’ordine dell’esercito italiano. Il volantino finiva con: “Viva l’Italia libera!” [4]

Ma ritorniamo ai giorni della battaglia. Occorre ricordare che una delle otto divisioni tedesche che si trovava tra il Lazio e la Toscana, la 3° Panzer Grenadier, era giunta con il compito di collaborare alla difesa con una decisione unilaterale tedesca, perché Hitler personalmente “temeva molto uno sbarco anglo-americano a Livorno“. Di non minore importanza è il fatto che un’altra divisione germanica (la 90° di fanteria, già Sardinien) occupava nel frattempo la Sardegna e la Corsica.

Però occorre anche precisare che il territorio piombinese era stato munito di piani di difesa dallo Stato maggiore dell’esercito, che considerava poco probabile, ma non impossibile, che l’avversario attaccasse le coste del Tirreno toscano. A questo scopo erano state dislocate una serie di batterie lungo la costa, sul litorale, nei punti chiave per la difesa; altre forze militari dell’esercito nell’immediato retroterra; Rifugi Antiaerei erano stati approntati per la popolazione.

La batteria che si incontrava per prima, venendo da est, era quella della località “il Falcone”. Era una batteria navale da 194 mm, ed aveva il compito di contrastare, o di ritardare il più possibile, un attacco sferrato alla zona est del golfo di Salivoli.

Ad una distanza di circa cinquecento metri, spostandosi verso il centro di Salivoli, era piazzata una batteria con un radar da 88 mm; subito dopo nella località Podere Mazzano c’era una terza batteria da 191 mm. Tutta la zona centrale non vedeva nessuna difesa specifica anche perché in ogni strada, in ogni piazza, in ogni costruzione che dominava il territorio, erano collocate piccole unità che controllavano la zona ed avevano il compito di provvedere alla salvaguardia dei civili.

Tutti questi gruppi erano alle dipendenze dirette del Comando Marina, che si trovava sul “Castello”. Sullo stesso castello vi erano collocate due mitragliere R 76 mm. Così come un dispiegamento di forze era stato programmato per la zona del litorale sino al “Semaforo” dove si incontrava una batteria n. 190 da 120 mm alla quale ne seguiva un’altra, all’altezza del viale Regina Margherita. Era chiamato il gruppo mitragliere sud, per distinguerlo da quello nord, disposto alla sinistra di Corso Italia. Il gruppo nord di Casa Parrini doveva essere il corno sinistro della morsa che si sarebbe stretta intorno a chi fosse entrato dal porto per portarsi al centro della città. Il corno destro era dato dal gruppo complementare sud.

Nel retroterra erano dislocate altre tre batterie: una in direzione di “Ponte d’oro”, l’altra in direzione di “Monte Castelli”, la terza in direzione di Populonia: avevano l’ordine di contrastare un eventuale attacco dal lato nord. Erano rispettivamente: una batteria con radar; una batteria da 207 mm; una batteria antiaerea.[5] L’episodio dal quale tutto probabilmente si generò e precipitò è legato all’iniziativa militare di un gruppo di navigli leggeri tedeschi che, per impadronirsi delle banchine portuali, decise di sbarcare con circa trenta soldati poco dopo la proclamazione dell’armistizio. In seguito allo scontro tra i militari tedeschi e i marinai di Bacherini, questi ultimi ebbero la meglio. La catena di comando italiana ebbe a questo punto la sua prima crisi. Il generale Perni ordinò di liberare i prigionieri e di restituire loro le armi. Il capitano Capuano protestò energicamente contro l’ordine e intimò ai tedeschi di lasciare il porto prima delle 12:00 del giorno successivo.

Alle 4:30 un convoglio tedesco, comandato da Karl Wolf Albrand, formato da due cacciatorpediniere, un piroscafo e 10 unità minori, chiese di entrare in porto per approvvigionarsi di acqua e carbone e poi di ripartirsene. Quest’ultimo venne autorizzato ma, una volta attraccato, sarebbe dovuti ripartire immediatamente. Invece sbarcò velocemente, ma i soldi disarmarono le sentinelle e occuparono il punto di osservazione del semaforo. Fu a questo punto che l’azione, limitata fino a quel momento ai militari, passò nelle mani della popolazione, o perlomeno di una parte di essa. Furono gli operai del turno di notte dell’Ilva i primi a diffondere la notizia e a scendere per le strade e manifestare, chiedendo che la città venisse difesa, ma il generale Perni si limitò a schierare le sue truppe per il solo mantenimento dell’ordine pubblico.

Ricordiamo che le batterie aeree e navali erano in mano ai marinai (eccezion fatta per quelle di Salivoli e di Bocca di Cornia, nelle mani di militari del corpo di Artiglieria); un battaglione era dislocato nella pineta di Terranova. Nei pressi della stazione ferroviaria si trovava un centro di smistamento per la Sardegna, la Corsica, e l’Elba che ospitava in quel momento alcune centinaia di militari ed ufficiali. Sicuramente con queste forze in campo era possibile resistere anche se non possiamo sapere per quanto e con quale finalità.

Sul piano sociale e politico, la città a partire dal 25 luglio era stata attraversata da manifestazioni che chiedevano la pace e il ritorno a casa degli uomini partiti per la guerra e la pressione era stata tale che il Comune di Piombino prese una delibera, in data 3 settembre, solo 5 giorni prima dell’annuncio dell’armistizio, con la quale decideva di mutare nome a tutte le strade e località che ricordassero persone o avvenimenti del caduto regime per sostituirli con nomi che ricordassero cittadini e avvenimenti della lotta antifascista piombinese.

Tutto sembrava concorrere per uno scontro aperto. La situazione cominciò a muoversi più velocemente dopo il primo attacco da parte tedesca del 9 settembre, che, vista l’esiguità delle forze in campo poteva risultare, come poi risultò, avventato. Ma probabilmente la presa del porto di Piombino, vicino com’era all’isola d’Elba e alla Corsica costituiva un obiettivo certamente prioritario per le forze germaniche che queste non avrebbero assolutamente potuto mollare. All’inizio i tedeschi ebbero la peggio e corsero verso le loro imbarcazioni dopo una colluttazione con i marinai italiani che costò sicuramente dei feriti da ambo le parti.

Il passa parola su quello che stava avvenendo riempì le strade della città di popolazione e dei membri del Comitato di concentrazione antifascista che chiedevano ai soldati di respingere i tedeschi. I membri del comitato decisero quindi di rimanere in riunione permanente e chiesero alla Tenenza dei Carabinieri di frenare lo sfascio delle forze militari.

Nel frattempo i tedeschi non erano rimasti inermi e la mattina seguente entrarono in porto con 21 mezzi da sbarco (chiattoni armati con numerose artiglierie a bordo), 2 cacciatorpediniere, 1 corvetta, varie motolance ed un grande piroscafo da carico. Una volta sbarcati, occuparono militarmente il porto e, secondo parecchi testimoni, anche la capitaneria, disarmarono i marinai, i finanzieri e i soldati; incoraggiati dalla mancanza assoluta di ogni opposizione alcune pattuglie si diressero verso il semaforo, occupandolo senza alcuna resistenza.

La mattina verso le cinque – racconta l’operaio Amulio Tognarini – in fabbrica (Ilva) si sparse la voce: … i tedeschi stanno sbarcando… bisogna uscire… andiamo a vedere… bisogna difendersi. Poche ore dopo usciamo in massa dagli stabilimenti ed andiamo in piazza dove c’erano altri operai e molta folla:…cosa vogliono i tedeschi?…Perché i comandi li fanno entrare nel porto?…Ai comandi, andiamo a sentire cosa dicono i comandi… Perché i comandi non mettono in atto gli ordini di Badoglio? … Vogliamo combattere anche noi! Vogliamo le armi!

Ad un tratto comparvero i carabinieri gridando l’ordine di circolare e di sgombrare. Noi si rimaneva fermi e si cercava di parlare anche con i carabinieri. Ad un certo punto i militari stavano per aprire il fuoco. Ma non ebbero il tempo; ci si strinse intorno alla macchina urlando. Il maresciallo Ripoldi invitava alla calma e cercava di far comprendere la gravità della situazione. La folla spingeva…[6]

In questi scontri tra la popolazione ed i carabinieri Ermete Cappelli, un testimone e militante antifascista, ricorda che fu estremamente prezioso il deciso atteggiamento delle donne. “Furono loro … che si buttarono addosso ai carabinieri, li abbracciarono, ed impedirono che si facesse fuoco sulla folla. Si evitò così un inutile spargimento di sangue”.[7]

Le forze tedesche, consapevoli del pericolo che correvano, provarono a tergiversare promettendo che sarebbero tornati sulle loro imbarcazioni dopo essersi riforniti di acqua senza colpo ferire. Intanto i militari italiani presenti avevano cominciato a dileguarsi nel caos della situazione e senza ordini superiori chiari si verificò il fenomeno già ampiamente documentato sia dalla storiografia, che dalla memorialistica, che dal cinema di “Tutti a casa”.[8]

In città si formarono commissioni incaricate di fare opera di persuasione presso i soldati italiani che avevano abbandonato le loro posizioni, così come le fortificazioni preposte alla difesa della costa. Alcuni gruppi di cittadini andarono in camion fino a Campiglia per convincere soldati e marinai a tornare alle batterie. Anche il comandante della postazione del Semaforo era scappato con abiti civili e fu riportato indietro e rimesso a difesa della città.

Il generale Perni, visto che la battaglia era inevitabile, chiamò in rinforzo una colonna di carri armati dal senese che giunse verso sera. Da parte del Comitato di Concentrazione fu inviato un messaggio al Comando Marina dell’isola d’Elba per chiedere l’invio di alcuni caccia che si trovavano a Portoferraio.

Vennero decise le ultime misure difensive: squadre di cittadini controllavano alcune zone di accesso al porto, con l’ordine di “aprire il fuoco al minimo segno di ostilità da parte tedesca”. Altre squadre furono incaricate di procedere alla sorveglianza sulle spiagge che potevano diventare vie di accesso per imbarcazioni ed evitare così attacchi di sorpresa. Tali squadre, inoltre, avevano il compito di fermare tutti i soldati ed i marinai che affluivano dalle varie parti, e dalle città dove l’occupazione tedesca era già in atto, per obbligarli a riprendere le armi sotto il comando di zona.

La popolazione fu invitata con segnalazioni acustiche (macchine che giravano per le strade fornite di altoparlanti) a rifugiarsi nei ricoveri antiaerei prima delle ore 19.

Verso le 18, 00 arrivarono i rinforzi chiesti dal generale Perni, che si concretizzarono con l’arrivo del XIX° Battaglione Carri M/42 che, accampato alla pineta di Terranova (Venturina) a disposizione del comando del settore costiero di Piombino, si portò lungo la via piombinese nel tratto Osteria Fiorentina – Strada Statale, poi a Piombino nel pomeriggio del 10 settembre. Comandato dal tenente colonnello Angelo Falconi, disponeva di 20 carri armati e di 18 semoventi: a mezzo di ufficiali e di commissioni cittadine, tale battaglione fu disposto nei punti strategici ed in ordine di combattimento. Falconi poi scrisse:

Sotto l’imperversare del noto bombardamento scatenato improvvisamente dalle armi a bordo dei mezzi navali tedeschi, nella notte sull’11 settembre 1943, completai lo spiegamento delle forze schierate tra il semaforo e gli stabilimenti Ilva, e coordinai e diressi l’azione…[9]

La battaglia era sicuramente già cominciata alle 21.00 del 10 e si era aperto un forte scontro militare con la partecipazione della popolazione (perlomeno quella maschile e più organizzata) di rinforzo alla Marina e all’esercito italiano presenti. Sul luogo e l’inizio della battaglia i testimoni però non sono concordi. Di sicuro, quando lo scontro terminò, i tedeschi fatti prigionieri provenivano sia del Lazio che della Toscana, così come dalla Sardegna e dalla Corsica. Non si trattò solo di uno scontro tra truppe militari ma di una battaglia che vide la partecipazione attiva dei cittadini soprattutto nella difesa che partiva dalle batterie.

Verso la mezzanotte si udì un grande boato: la santa barbara del piroscafo da carico attraccato al lato destro del pontile dell’Ilva era saltata. Tutti, nelle ore della notte del 10 settembre 1943, ebbero da fare. All’ospedale fu assicurato un servizio completo ed interrotto per tutta la notte. Cosa normale in tempi normali, ma quando si osserva che a prestare servizio per tutta la notte fu don Ivo Micheletti ci si rende conto sia di come tutti contribuirono a dare un decisivo contributo alla battaglia, sia di come dalla vicenda emergesse una situazione di caos diffuso.

A trovare la morte per le ferite riportate nella battaglia di Piombino fu Giovanni Lerario, forse la prima vittima della Resistenza italiana. (Il Comune poi gli ha intitolato una via). Alle 3 del mattino dell’11 settembre i tedeschi si ritirarono. Coloro che invece si erano nascosti furono successivamente rastrellati e portati prigionieri al comando italiano. Sul numero dei morti tedeschi non c’è mai stata unanimità; c’è chi parla di 300 vittime e chi di 400. Certo è invece il numero dei prigionieri: 300.

Il disastro dei mezzi da sbarco tedeschi invece fu assai consistente: un caccia saltato in aria; un altro gravemente danneggiato; un piroscafo di medio tonnellaggio ed uno più piccolo, carichi di armi, viveri e munizioni, affondati; varie motolance e varie chiatte da sbarco danneggiate o affondate. Da parte italiana alcuni danni allo stabilimento dell’Ilva, due morti, e solo pochi feriti tra i militari.

Nonostante tutto, nonostante l’esultanza della popolazione, nonostante quella di alcuni militari coinvolti, ci fu un epilogo tragico, forse quasi scontato. Il gen. e fascista Cesare Maria De Vecchi, che da Massa Marittima comandava la divisione costiera della zona, venuto a conoscenza di tutto l’accaduto, impartì l’ordine di liberare i prigionieri.

I prigionieri, che erano stati condotti al castello ove aveva sede il Comando Dicat, furono così prelevati e fatti imbarcare su motozattere tedesche. Fu il comandante Bacherini a consegnarli ad un ufficiale dell’esercito che li aveva chiesti con un ordine del gen. Perni. Lo stesso ufficiale scortò i prigionieri fino al porto e sorvegliò le operazioni di imbarco.

Una sola trasgressione fu presa contro l’ordine di De Vecchi. Mentre quest’ultimo aveva ordinato il rilascio dei tedeschi armati liberi in città, il generale Perni non se la sentì di fare quello che sicuramente sarebbe stato visto e considerato dalla popolazione come una provocazione persino gratuita. Gli ufficiali, i soldati e i marinai abbandonarono i loro posti dove erano tornati per volere della popolazione. Alcuni di loro tentarono di opporsi a tale ordine, ma non poterono nulla per fermare la dispersione dei militari.

Al controllo del Presidio era rimasto un solo piantone: il comandante ed il vice avevano abbandonato la città, dopo aver dato ordine a tutti i reparti di abbandonare le proprie posizioni. Solo il Comando Marina, che già nei giorni precedenti la battaglia aveva fatto sua la volontà popolare, esitò prima di abbandonare la popolazione in mano al nemico.

La sera dell’undici, anche il comandante generale della piazza lasciava la città. Intanto tutti i militari avevano provveduto a rendere inservibili i carri lasciati sparsi per le strade. I pezzi delle batterie erano stati messi fuori uso e le armi e le munizioni fatte sparire. Alcuni vogliono che queste, poi, siano state consegnate ai gruppi di partigiani; altri affermano il contrario.

Le notizie provenienti dalle zone vicine fecero dilagare la sfiducia che si impadronì piano piano di tutti. Le poche novità che giungevano erano infatti sconcertanti e tragiche: solo Piombino, in tutta la Toscana, era insorta contro gli invasori. La città di Livorno era in mano tedesca; a Cecina un generale italiano ed un ufficiale tedesco si erano presentati al comando del Presidio per accordarsi sulla consegna del materiale bellico. A Grosseto l’aeroporto era caduto in mano tedesca.

L’isola d’Elba, su cui si era scatenato un bombardamento infernale da parte dei tedeschi, era caduta, dopo un’eroica resistenza, sotto il dominio germanico, e non aveva potuto inviare le due torpediniere richieste dai piombinesi durante la battaglia. Incombeva inoltre su Piombino la minaccia di un bombardamento, nel caso che i cittadini avessero deciso di continuare a combattere.

In parecchi a Piombino si erano compromessi e decisero di partire, di abbandonare la città prima che finisse in mano tedesca e di sicuro, tra questi, i più coinvolti nel Comitato di concentrazione antifascista. Bacherini ebbe l’ingrato compito di rendere inservibili le armi delle batterie ed i cannoni, e di distruggere tutti i documenti segreti. Fornì inoltre di una licenza-premio i suoi uomini che velocemente si dileguarono.

Dopo una notte insonne arrivarono i primi tedeschi. Nelle prime ore del 12 settembre 1943 erano di nuovo all’ attacco. Ma stavolta, a differenza di due giorni prima, solo le loro armi facevano fuoco. Nessuna reazione da parte italiana; la difesa, le batterie costiere, tacquero come cose morte.

Preceduti da fitte raffiche di mitraglia e da un ben nutrito fuoco di armi di bordo crivellarono di colpi alcune abitazioni di Piombino nei pressi del porto e iniziarono l’occupazione della città, completata da gruppi provenienti da Venturina. Alcuni pensarono addirittura che l’occupazione della città stesse arrivando via terra.

Si concluse così la “battaglia di Piombino”. Con una sconfitta cocente, ma con il ricordo per coloro che vi avevano partecipato di aver provato a difendere la propria dignità e ad uscire vittoriosi dentro una cornice sicuramente ostile.

*Tutto il testo che segue non è il frutto di una ricerca originale ma si appoggia in particolare al volume di Rocco Pompeo La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, prendendo in considerazione anche il testo della prolusione di Riccardo Bardotti (Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea d Siena) pronunciata per la celebrazione del 2022 a Piombino e l’Introduzione al volume di Pompeo di Stefano Gallo, direttore della Biblioteca Serantini di Pisa e ricercatore presso il Cnr di Napoli. A Bardotti e a Gallo va il mio più sentito ringraziamento; per Pompeo rivolgo il mio ringraziamento ai suoi eredi. Le ricerche di Ivan Tognarini sono state ampiamente utilizzate da entrambi e quindi sono entrate in questo pezzo senza difficoltà.

[1] Come aveva sottolineato Pietro Bianconi in La resistenza libertaria. L’insurrezione popolare a Piombino nel settembre ’43, Tracce, Piombino 1983, p. X, poi ripreso da Stefano Gallo nella sua Introduzione al volume di Rocco Pompeo, la polizia aveva ben chiare le caratteristiche della figura di Ducci. Scriveva Bianconi: «Fin dal primo giorno del rovescio del regime fascista, in Piombino, si è messo in evidenza il noto Ducci Ulisse fu Bartolomeo allo scopo evidente di prepararsi una via per una eventuale carica politica. A dire il vero, costui, che ha un ascendente sulle masse operaie, si è affiancato alle autorità e si è tenuto in continuo contatto con i direttori dei locali stabilimenti, con le associazioni dei Mutilati ed invalidi di guerra allo scopo di fare ritornare la calma e perché tale calma continuasse. Nel pomeriggio del 2 andante è stato qui sequestrato l’unito foglio volante – dalle indagini esperite è risultato che autore è stato proprio il Ducci il quale lo ha confessato. Il contenuto di tale foglietto dà la riprova di quanto ho detto e che cioè il Ducci voglia collaborare con le autorità per il mantenimento dell’ordine pubblico. Ciò nonostante d’intesa col locale Comando Militare e con l’Arma dei CC.RR., il Ducci viene sorvegliato attentamente allo scopo di seguirne le mosse ed i precisi suoi scopi».

[2] Rocco Pompeo, La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, p. 3.
[3] www.wuinewsnet, Il delitto di Campo alle fave, ultima consultazione 29 agosto 2023. Nel sito si parla di «direttore del personale e di Garabaglia».
[4] Il testo è riportato in R. Pompeo, La battaglia, cit., p.13.
[5] Tutte le informazioni sulla difesa militare provengono dal volume di Rocco Pompeo.
[6] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.19.
[7] Ivi, pp. 19-20.
[8] Titolo assai azzeccato del film di Luigi Comencini del 1960 (con Alberto Sordi) in cui si racconta lo sfaldamento dell’esercito italiano dopo l’armistizio Badoglio.
[9] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.23.




Tombolo: storia e memoria di un mito politico

«E Tombolo diviene l’inferno del dopoguerra italiano»[1]. L’immagine che il giornalista livornese Aldo Santini restituisce nel capitolo di apertura di un suo libro di successo, edito nel 1990 da Rizzoli, viene da lontano ma rispecchia anche, in modo esemplare, una precisa stagione della memoria. Come insegna Maurice Halbwachs, la memoria collettiva adatta il passato ai bisogni, alle visioni e alle motivazioni ideali del presente. Il volume di Santini non sfugge a questa regola. Il suo anno di pubblicazione è di per sé significativo. La fine degli anni Ottanta, con la crisi della narrazione egemonica antifascista, portava infatti a riscoprire, al di sotto della celebrazione della guerra di liberazione contro il nazifascismo, la dimensione della “guerra civile” e della “guerra ai civili” (due concetti che, di lì a poco, avrebbero dominato la critica e la divulgazione storica). Da qui la fascinazione per gli aspetti più antieroici del conflitto totale, nel suo configurarsi come scontro crudele da entrambe le parti, crimini angloamericani inclusi. [1]
Fin dal 1946-47 la pineta di Tombolo – una striscia di litorale tirrenico tra Pisa e Livorno, che ospitò accampamenti e depositi militari alleati – è stata oggetto di un processo mitografico che ha fagocitato e banalizzato i fenomeni della prostituzione bellica e del mercato del sesso rivolto all’esercito occupante, a sua volta sincretizzati in una delle più fortunate icone dell’anti-italianità: La Segnorina[2]. La storia delle donne che si prostituirono clandestinamente con gli alleati ha suscitato la morbosa attenzione dell’opinione pubblica e degli attori della cultura di massa, perfino a livello internazionale. Visitata dalla cronaca nera, dalla pubblicistica e dal cinema dell’immediato dopoguerra, essa ha assunto lo status di luogo della memoria; a distanza di decenni ha acquisito una rinnovata visibilità, coerentemente col clima di revisione anti-antifascista e post-antifascista che si è imposto nel dibattito mediatico e nell’industria culturale. All’uscita del libro di Santini, i lettori del quotidiano più venduto nel Paese poterono essere istruiti sui peggiori cliché di una «torbida leggenda»: Tombolo come «centro di turpitudini, noto in tutto il mondo, [che] contraddistinse l’epoca non ancora dimenticata della degenerazione umana, del delitto, del sesso criminale, della rapina, della diserzione»; «Mecca d’una ricchezza facile e larga»; «linea del massimo livello toccato dalla degradazione e dalla voluttà animalesca d’un Paese costretto a sopravvivere senza pensare più a niente»; «Quotidiana festa panica», teatro di malfattori licenziosi e déracinés «antesignani d’una beffarda dolcevita»; popolata da «incredibili personaggi», segnorine, sciuscià, «», borsari neri, delinquenti e disertori[3]. Tali stereotipi venivano rimessi in circolazione in modo del tutto acritico, riproducendo senza alcun filtro le rappresentazioni create ai tempi della sortie de guerre.

Negli anni della presenza alleata, Livorno e Tombolo costituirono per l’appunto il palcoscenico di un racconto che mostrava al pubblico italiano l’intollerabile relazione tra GIs neri e donne di inesistente virtù. Grazie all’operazione inventiva di giornalisti, intellettuali e artisti, la realtà prosaica di una striscia di costa tra il mare e l’Aurelia fu trasfigurata nella quintessenza del proibito, dell’esotico e del dissoluto, sintesi di un mondo al contempo repellente e affascinante. «Città proibita», «perduta», «paradiso nero»: le varie sfumature di Tombolo, anche sul piano linguistico, denotano la plasticità di un manufatto culturale capace di intercettare gli umori di strati sociali diversi, per estrazione e appartenenza partitica. Tombolo è stato un dispositivo narrativo di grande efficacia, intrinsecamente politico nel rendere immediatamente percepibili i confini di una comunità (locale/nazionale) in via di rifondazione, e il profilo di una democrazia nascente che non intendeva sovvertire le gerarchie di genere e razza: in tal senso, un “mito politico”.
Si consideri, per esempio, la Gazzetta di Livorno. Tramite Tombolo il quotidiano social-comunista denunciò i guasti del capitalismo statunitense e rivendicò l’onore della stragrande maggioranza del popolo italiano, ritenuto antropologicamente estraneo alla corruzione delle «segnorine silvestri» cadute nelle reti dell’alleato nemico. Fu Gino Serfogli, già nel 1946, a scrivere per la Gazzetta un reportage a puntate, poi raccolte in un opuscolo di «cronache sensazionali» andato a ruba nelle edicole al costo di trenta lire. I pezzi su Tombolo, rilanciati dal Corriere d’informazione, conquistarono le pagine della stampa nazionale, codificando i contorni di una storia a metà tra il noir e il mélo. Insieme all’infelice destino delle prostitute, trattate con un misto di denigrazione, maschilismo e moralismo compassionevole, vennero esposte al giudizio del pubblico la depravazione del meticciato interrazziale e l’infelice sorte dei “mulattini”, frutto del malo incontro tra donne scostumate e selvaggi ubriachi, sfrenati e incivili[4]. Lo stesso Santini, all’epoca firma de Il Tirreno, fu tra i primi a descrivere i fatti della pineta, nella quale accompagnò personaggi come Curzio Malaparte e Federico Fellini, a loro volta richiamati dall’eco di turpi misfatti e relazioni pericolose. Il risultato dei “pellegrinaggi” nella mitica Tombolo furono scritti e pellicole cinematografiche che fissarono nella memoria del dopoguerra una narrazione romanzata, in cui rimaneva intrappolato lo sguardo dei narratori, animati dalla volontà di smascherare le nefandezze dell’esercito americano o l’immoralità della Livorno “rossa”, città simbolo del Partito Comunista Italiano, a seconda che a parlarne fossero Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Giorgio Ferroni, Fellini, Alberto Lattuada, Malaparte e altri ancora.
Montanelli ebbe un ruolo decisivo nel trasformare quel lembo di macchia mediterranea nell'”Africa di quaggiù”, applicando le figurazioni della letteratura coloniale al popolo della pineta. Tra gli sceneggiatori di Tombolo, paradiso nero, film uscito nel 1947 sotto la regia di Ferroni, l’ex-volontario in Etiopia aveva dedicato a Tombolo alcuni articoli sul Corriere d’Informazione: emblematica, tra questi, la storia di un fantomatico disertore afroamericano, nascosto nella pineta e impazzito dopo avere scoperto che il figlio «mulatto», avuto da una segnorina, era stato ucciso dalla madre, e avere a sua volta ucciso l’infanticida. Il «» veniva pensato come «il Tarzan e il King Kong» di Tombolo, vestito di una pelle di leopardo e ululante nella notte[5]. Rappresentazioni simili erano offerte da Malaparte, secondo cui nella foresta toscana «Les nègres avaient créé une espèce d’horrible casbah, une jungle habitée par des fauves à l’aspect humain»[6].
uell’immaginario giungeva dunque quasi inalterato in una memoria degli anni Novanta, che continuava a discettare di neri e di donne di malaffare, ricevendo il plauso della stampa italiana. Vale la pena interrogarsi sul perché di questo persistente successo, nonostante esistessero letture altre rispetto alla denigrazione pura e semplice delle segnorine e dei loro rapporti interrazziali. Basti pensare a Senza pietà di Lattuada (1948), la cui epica neorealista comportava, pur con innegabili ambiguità, uno sguardo indulgente verso i perdenti e le figure marginali/criminali, privo della sprezzante stigmatizzazione della promiscuità tra bianchi e neri che aveva segnato il canone dominante di Tombolo, paradiso nero. Innanzitutto, come già accennato, le descrizioni della pineta incorporavano e divulgavano categorie centrali nella ricostruzione dell’identità politica del dopoguerra, quelle di nazione, genere e razza. Attorno ad esse si concentravano questioni di vasta portata: il posizionamento a favore o contro gli Stati Uniti, la critica o l’assenso al capitalismo “d’importazione”, lo svincolarsi o meno dal retaggio razzista coloniale, l’affermazione di una nuova rispettabilità democratica e la difesa della reputazione internazionale italiana, alla quale si legava la condanna dell’amoralità femminile, sulla base di una reiterata concezione sessuata della comunità politica che trovava facile sponda nella contiguità tra la morale comunista e quella cattolica.eri
Anche il razzismo anti-nero valicò gli steccati politici, in modo più o meno consapevole ed esibito. Se il Corriere non lesinò le esternazioni apertamente afrofobiche e razziste, sul settimanale satirico socialista Il Pettirosso, collegato all’Avanti!, apparvero vignette e storie umoristiche che prendevano in giro le segnorine e gli afroamericani. L’immagine beffarda di un GI nero impacciato nel calzare un paio di scarpe, quasi fosse uno scimmione, mentre i civili italiani erano costretti a indossare sandali o a camminare scalzi per via della loro miseria, rende bene lo spirito della rivista[7]. Nelle fonti socialiste e comuniste, la derisione dei militari neri si combinò all’idea che le prostitute fossero espressione di una stanchezza morale, del desiderio di una vita più ricca e agiata. L’antiamericanismo di sinistra sfociò in banalizzazioni razziste che furono censurate dalla stampa afroamericana e dal giornale militare statunitense Stars and Stripes.
Tombolo racchiudeva le tensioni del dopoguerra: l’avvento dell’egualitarismo democratico insieme alla forza dei cliché discriminatori, l’antifascismo patriottico unito a un antiamericanismo corrosivo, fruibile sia da sinistra che da destra. Non solo: dalla bonifica di quell’anti-Italia passava l’emarginazione di un’umanità degenerata, composta da donne immorali, coi loro amanti afroamericani e una nutrita platea di criminali. Questo sacrificio sarebbe stato fondamentale per riaffermare l’onore e la bianchezza nazionale, lasciando alle spalle le colpe del fascismo, le rovine della guerra e l’onta di una sconfitta che la permanenza dell’alleato invasore rendeva palpabile (e talvoltun insopportabile). Proprio all’ombra di queste contraddizioni nasceva un mito profondamente evocativo, destinato a riemergere nei vari percorsi della memoria.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA

  1. Aldo Santini, Tombolo, Milano, Rizzoli, 1990, p. 7.
  2. Cfr. Chiara Fantozzi, L’onore violato: stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno, 1944-47), «Passato e Presente», 34, 99, 2016, pp. 87-111; Vinzia Fiorino, Smarrimenti e ricomposizioni. Il dopoguerra a Pisa 1946-1947, Pisa, Ets, 2012, pp. 39-41; Charles L. Leavitt IV, The Forbidden City: Tombolo between American Occupation and Italian Imagination, in Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci e Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative, Cambridge, Legenda, 2019, pp. 143-155.
  3. Così nella recensione di Silvio Bertoldi, Quella torbida leggenda delle «segnorine» di Tombolo, «Corriere della sera», 24 maggio 1990, p. 5.
  4. Chiara Fantozzi, Raccontare Tombolo. Prostituzione di guerra e confini della cittadinanza nella transizione alla democrazia, «L’italianista», 38, 3, 2018, pp. 418-432;
  5. Silvana Patriarca, Il colore della repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista, Einaudi, 2021.
  6. Indro Montanelli, C’è un pazzo che urla nella pineta, «Nuovo Corriere della Sera», 30 marzo 1947, p. 3.
  7. Curzio Malaparte, Deux Chapeaux de paille d’Italie, Parigi, Les Editions Denoël, 1948, p. 54.
  8. Scarpe, «Il Pettirosso», 4-11 febbraio 1945, p. 1.



Cattolici e fascismo nella Toscana nord-occidentale (1920-1922)

Ritratto mons. Maffi

Grazie all’apertura graduale degli archivi vaticani, la storiografia ha chiarito ormai nelle sue linee essenziali il rapporto tra cattolicesimo e fascismo. Se per quanto riguarda i vertici la relazione è stata restituita alla storia, lo stesso non può dirsi per il piano locale, su cui disponiamo di informazioni lacunose. Il problema emerge chiaramente nel caso toscano, alla cui conoscenza questo scritto vuole contribuire concentrandosi sull’area nord-occidentale della regione prima della marcia su Roma. L’obiettivo è evidenziare, senza pretese di esaustività, i caratteri fondamentali della vicenda, a cominciare dalla preminenza di Pisa – dovuta soprattutto alla presenza del cardinale-arcivescovo Pietro Maffi, il più noto e influente esponente del cattolicesimo in quell’area e uno dei principali sul piano nazionale, al punto da risultare tra i papabili al conclave del 1922.

Gli studi più accurati hanno individuato nel 1921 l’inizio del confronto tra cattolici e fascisti. Se, infatti, in precedenza le due parti si erano sostanzialmente ignorate, dalla primavera del 1921 s’intensificò l’azione squadrista contro le sinistre e, in misura molto più ridotta, i popolari, suscitando proteste e commenti nel mondo cattolico. Reazioni che, è bene sottolinearlo, non giunsero mai a una piena equiparazione tra socialismo (oggetto di una condanna inappellabile) e fascismo (di cui si deplorarono gli eccessi, cioè le violenze contro i cattolici).
Uno sguardo gettato sulla Toscana nord-occidentale conferma la validità sostanziale di questa cronologia, nonostante differenze significative tra le varie diocesi. Il caso Ritratto Gronchipisano spicca per la presenza di due personalità di rilievo nazionale: il deputato e futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, membro dell’ala sinistra del PPI, sarebbe stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e del commercio nel governo Mussolini (1922-1923); e il già citato Maffi che, alfiere dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano e in ottimi rapporti con i Savoia, nel 1915-1918 si era distinto per l’appoggio entusiastico allo sforzo bellico, fino a divenire il simbolo dell’unione tra fede e patria. Sotto l’impulso del cardinale, il movimento cattolico raggiunse uno sviluppo considerevole, attestato tra le altre cose dal successo del giornale «Il Messaggero toscano» (l’unico quotidiano della città). A Pisa, inoltre, la solida presenza dei movimenti e partiti “sovversivi” fu contrastata da uno squadrismo assai violento, animato da autentici assassini come Alessandro Carosi e dilaniato da faide interne. Nell’insieme, questi elementi fanno di Pisa un osservatorio di prim’ordine per studiare i rapporti tra cattolici e fascismo nel primo dopoguerra – rapporti tesi, perché agli occhi della cittadinanza Maffi incarnava quel patriottismo di cui le camicie nere rivendicavano l’esclusiva. A dire il vero, da parte cattolica non mancò la volontà di trovare un terreno d’incontro con i fascisti, sulla base dell’antisocialismo e del culto dei caduti: caduti della Grande Guerra, come si vide in occasione delle onoranze al Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, cui il cardinale partecipò; e caduti della rivoluzione fascista, come si vide invece durante le esequie degli squadristi Zoccoli e Menichetti nel 1921, legittimate dalla presenza rispettivamente di Maffi e del suo segretario, mons. Calandra. Tuttavia, queste aperture non ebbero l’esito sperato, come emerse nel 1922. In giugno, a Pisa, le camicie nere si piazzarono all’esterno della cattedrale impedendo il regolare svolgimento della tradizionale processione del Corpus Domini e sollevando le proteste del cardinale. In settembre, a Buti, il pievano Cascioni Poli (reduce della guerra e sostenitore del PPI) sparò un colpo di pistola in aria per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e mettere in fuga i fascisti che nottetempo stavano tentando di irrompere nella canonica, allontanandosi poi dal paese per ragioni di sicurezza. Si tratta, com’è evidente, di episodi limitati ma utili a comprendere gli attriti che a Pisa caratterizzano i rapporti tra cattolici e fascisti fino al termine della faida Santini-Morghen e per qualche verso anche dopo.

Ricostruire le vicende delle altre diocesi risulta più complesso, date la mancanza tanto tra il clero quanto tra i laici delle personalità di rilievo nazionale e la debolezza del movimento cattolico nelle zone dove le sinistre erano più radicate. A Livorno, ad esempio, la voce cattolica più autorevole era rappresentata dal «Fides» – un bisettimanale che, cessato al termine del 1921, nella veste grafica e nelle idee (rigidamente integriste, in linea con il pensiero del suo direttore don Giovanni Casini) rivelava una posizione non certo all’avanguardia, preoccupata dalle trame di massoni, ebrei e socialisti più che dal fascismo[1].
Nemmeno a Massa la situazione era favorevole al movimento cattolico, che però si mostrò più battagliero. Ai contrasti tra la curia vescovile e i popolari si sommavano infatti le vivaci polemiche tra il settimanale fascista «Giovinezza» e il corrispettivo cattolico «La Difesa popolare» che, diretto dall’avv. Carlo Perfetti, aveva come motto: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo». Lo scontro culminò nel marzo-aprile 1922, quando i fascisti parlarono di «pericolo clerico bolscevico», accusando il PPI di essere una «forza antinazionale» sostenuta da sacerdoti «traditori della nostra fede». Parole respinte con sdegno dalla controparte, secondo cui se i principi cristiani fossero rimasti confinati nelle chiese per timore della violenza, le «masse sfruttate» non avrebbero mai ottenuto la «giusta mercede» né l’Italia avrebbe ritrovato la pace[2].
Ancora diversa l’atmosfera a Lucca, dove la Chiesa esercitava un’influenza considerevole sulla vita politica e sociale. Qui, non a caso, i fascisti capeggiati da Carlo Scorza agirono con cautela. Il loro obiettivo era chiaro (separare i cattolici dal PPI) ma di difficile realizzazione, perché il foglio cattolico di riferimento (il settimanale «L’Esare») respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di doppia militanza; inoltre, nel maggio 1921 il bollettino diocesano precisò che i cattolici potevano esercitare attività politica ma non militare nei partiti liberali né accettare i principi del socialismo, lasciando come unica opzione il PPI. Pur a fronte di un’opposizione ferma, prima della marcia su Roma le camicie nere evitarono di avviare una vasta campagna di violenze contro i cattolici, limitandosi a rare aggressioni e qualche scritta sui muri. In questo senso, il caso lucchese risulta emblematico del livello di violenza nei rapporti tra cattolici e fascisti, che a queste date restava ancora contenuto.

Ritratto mons. Simonetti

Ritratto mons. Simonetti

L’eccezione maggiore è costituita dal delitto di Collodi, frazione di Pescia, che a conoscenza di chi scrive costituisce l’episodio più grave occorso nell’area in questione. Qui nell’ottobre 1921 i fratelli Lamberti, militanti fascisti e proprietari di una cartiera chiusa a causa di uno sciopero, uccisero a colpi di pistola Ubaldo Ciomei, consigliere comunale di Pescia e attivista dell’Unione del lavoro di Lucca, dandosi poi alla latitanza. Il settimanale cattolico locale, «Il Popolo di Valdinievole», condannò con fermezza i responsabili e presentò la vittima nelle vesti di «martire», senza che si giungesse peraltro a una vera e propria rottura con il fascismo. Al risultato contribuì il vescovo di Pescia Angelo Simonetti, i cui inviti alla pace e alla fratellanza favorivano di fatto il partito più forte; inoltre, fin dal dicembre 1920 egli aveva dichiarato in una lettera a «Il Popolo di Valdinievole» che «la vera azione cattolica non è né deve essere per sé e per i suoi fini politica, né deve perciò confondersi affatto con quella di un partito» – una sconfessione del PPI che certo non aiutò ad arginare l’ascesa del fascismo nella diocesi .

La formazione del governo Mussolini, che includeva esponenti popolari, fu accolta dai cattolici se non con gioia almeno con fiducia in un avvenire più ordinato. I mesi e gli anni seguenti videro in realtà un aumento sensibile degli attacchi contro di loro, senza che per questo si verificasse un ripensamento. Anzi, com’è noto il rappresentante principale dell’antifascismo cattolico, don Sturzo, fu costretto all’esilio dai superiori; il PPI fu sciolto; e sulla memoria di don Minzoni, il parroco ferrarese ucciso dagli squadristi nell’agosto 1923, calarono censura e oblio. Sull’esito incise la minaccia del manganello, certo, ma anche elementi di più lungo periodo, sedimentati a fondo nella mentalità cattolica, come l’insistenza sui doveri più che sui diritti e la convinzione che in mancanza di un accordo con l’autorità politica la missione della chiesa sarebbe fallita. Per queste ragioni, benché consapevoli del carattere agnostico e violento del fascismo, nella grande maggioranza dei casi i cattolici lo ritennero un male minore rispetto al nemico tradizionale: il socialismo. Questa prospettiva caratterizzò tutto il pontificato di Pio XI, che solo negli ultimi mesi di regno cominciò a distaccarsene, con una scelta che peraltro il successore si guardò bene dal sottoscrivere. Solo le sconfitte patite nel corso della Seconda guerra mondiale convinsero il papato e i cattolici italiani a voltare definitivamente le spalle a Mussolini.

Nota:
1. Cfr. ad es. La mala bestia, in «Fides», 16 gennaio 1921.
2. Il cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini ha visto Dio ridotto a portabandiera del P.P. e il popolo insidiato dalla coppia Sturzo-Lenin, in «Giovinezza!», 19 marzo 1922; «Giovinezza» sulle furie!, in «La Difesa popolare», 1° aprile 1922, p. 2.

L’articolo è la relazione presentata in occasione del seminario organizzato il 20 ottobre 2022 dalla Biblioteca F. Serantini dal titolo 1922: Pisa e la Toscana tra fascismo e antifascismo.




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Shangai dal secondo dopoguerra ad oggi

Shangai, nonostante le sue origini, e forse proprio per via di esse, era un quartiere caratterizzato da una forte solidarietà e da un grande senso di appartenenza dei suoi abitanti, fin dai primissimi anni. [1]

In particolare, a partire dagli anni ’70, una marcata coesione sociale ha caratterizzato la sua storia. Le ragioni di questo sono da ricercarsi nelle attività svolte dalla sezione del PCI della zona, dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, dal parroco locale, Don Biondi: si tratta di realtà che erano riuscite a promuovere attività culturali e ricreative, anche di stampo politico, incentivando cooperazione, una buona convivenza e un senso di comunità tra gli abitanti del quartiere. [2]

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Una delle esperienze che ha fatto vivere a Shangai uno dei suoi periodi più positivi è stata la creazione del “Punto incontro donna”, voluto dalle donne di quartiere, su proposta della sezione locale del Pci, per avere un luogo dove ritrovarsi. [3] Dalla sua nascita, nel 1985, il quartiere tutto è stato altamente coinvolto in numerosissime iniziative come rassegne teatrali, concerti, corsi di cucito, sfilate di quartiere, feste di carnevale, mercatini, gite di gruppo e molto altro. Nel video prodotto dall’ISTORECO di Livorno[4], in collaborazione con le Scuole Fermi di Shanghai, nel 2020, sono state raccolte le testimonianze di abitanti del luogo che hanno vissuto e gestito in prima persona queste attività. Anche le foto donate da Luana di Dio, anima del “Punto incontro donna”, raccontano una vita di quartiere vivace e culturalmente attiva. Anche nelle due interviste rilasciate, tra il 2020 e il 2022, alla prof.ssa Catia Sonetti, Direttrice dell’ISTORECO di Livorno, Luana di Dio e Manuela Alfaroli hanno rievocato proprio questa storia. A giugno 2022 l’ISTORECO ha organizzato, insieme all’ARCI di Livorno, un’iniziativa molto toccante, in cui sono state esposte diverse fotografie delle varie iniziative portate avanti dal Punto Incontro Donna, e durante cui hanno preso la parola alcune delle donne che sono state, tra il 1985 e il 2017, coinvolte personalmente nella gestione di tali attività. La passione e l’impegno che queste hanno investito per portare avanti idee di cooperazione sociale e solidarietà in un quartiere tra i più poveri di Livorno erano tangibili nei loro ricordi e nelle loro parole. E’ stato molto interessante anche il collegamento online con la scrittrice Claire Hunter, dalla Scozia, che ha illustrato i molti punti in comune tra alcune delle storie raccontate nel suo libro “I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago” (2020, Bollati Boringhieri) in cui riflette sulla straordinaria importanza del cucito e della sua diffusione e trasversalità a livello sociale, in tutto il mondo e in tutte le culture.

Purtroppo la chiusura del centro donna, avvenuta nel 2017, ha provocato una regressione sociale del rione. I molti, ripetuti, tentativi da parte dell’amministrazione comunale di integrare Shangai col resto della città tramite progetti rigenerativi[5], Bandi ministeriali[6], demolizioni di alcuni dei vecchi blocchi e ricostruzioni di nuovi appartamenti e scuole pubbliche (progetto ancora in corso)[7] si sono rivelati poco risolutivi sia a breve che a lungo termine. Oggi infatti, con la mancanza di associazioni ed altre realtà di quartiere come quelle che hanno operato a Shangai tra il 1970 e il 2017, gli investimenti comunali e i tentativi di de-ghettizzare il quartiere e di reintegrazione dello stesso con il resto della città sono riusciti a raggiungere solo scarsi risultati perché il rione ha via via perso quella coesione sociale interna che lo ha sempre caratterizzato, tramutandosi in parte in una zona di spaccio di droga e di marcato degrado sociale. [8]

Conclusioni

La storia di Shangai dalla sua nascita ad oggi, la traiettoria che ha percorso il quartiere, rispecchia molto bene quanto espresso da David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (2015): si tratta di una delle molte storie di periferie ai margini sociali e geografici delle città italiane, nate, osservate e rappresentate attraverso uno sguardo “esterno”, come un luogo in totale antitesi alla raffinatezza, la ricchezza, la bellezza che invece rappresenta il centro cittadino. E’ interessante vedere come, grazie ad attività, progetti, associazionismo proattivo come quello del “Punto incontro donna” per esempio, si possa quantomeno tentare di ribaltare lo sguardo da cui si osserva il quartiere, insieme alle sue sorti. Anche le immagini che raccontano da dentro quella che era la vita di Shangai e degli “shangaini” in quegli anni sembrano narrare una storia diversa da quella classica di quartiere periferico, popolare, povero e ghettizzato. Esse infatti mostrano storie di persone che partecipavano attivamente alla vita del proprio rione, che contribuivano per quello che era loro possibile al senso di comunità e di sostegno reciproco. Il “Punto Incontro Donna”, così come altre realtà del secondo dopoguerra, volute e dirette dagli abitanti stessi del rione, sono riusciti a creare una vera e propria comunità, a dare vita, a livello culturale e sociale, a uno dei quartieri più popolari e poveri della città.

 La prima parte dell’articolo.

nota:

[1] Susini M., Shangai…,cit., p.23.

[2] Susini M., Shangai…,cit., pp.25-79.

[3] https://iltirreno.gelocal.it/livorno/foto-e-video/2015/03/06/fotogalleria/il-punto-incontro-donna-dishangai- compie-30-anni-1.10992853

[4] Video prodotto da ISTORECO, intitolato “Shangai. Storie e memorie di quartiere” all’interno del progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[5] https://www.comune.livorno.it/_livo/uploads/CdQ%20II%20estratto.pdf

[6] Vedi progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[7] Vedi progetto di riqualificazione anche dei poli scolastici di Shangai https://2017.gonews.it/2015/01/17/quartiere-shangay-inaugurata-la-nuova-scuola-materna-in-via-stenone/

[8] Vedi progetto ISTORECO Livorno “Storie e memorie di Shangai” in

https://www.facebook.com/istitutostorico.livorno/videos/3641411932582974