UNA COSPIRAZIONE IN MARE APERTO.

Fra le diverse ricorrenze dell’Undici settembre (Strage nel carcere di Attica, 1971; Golpe in Cile, 1973; Attacco alle Twin Towers, 2001), ve ne è una che appartiene alla storia dell’antifascismo in Italia, ossia l’attentato politico compiuto da Gino Lucetti contro Benito Mussolini, appunto l’11 settembre 1926. «Della serie di attentati che punteggiarono la soppressione delle libertà italiane – come sottolineò lo storico “azionista” Aldo Garosci – esso fu quello in cui si espresse la più lucida e chiara volontà politica».

Il mancato tirannicida, una volta catturato, davanti agli inquirenti si era proclamato «anarchico individualista», onde evitare conseguenze per altri; ma, in contrasto con l’interpretazione in chiave solipsistica del suo gesto, risulta ormai appurata l’esistenza di una rete cospirativa con condivise finalità che vedeva il coinvolgimento, a diversi livelli, di anarchici di differente tendenza, ex-arditi del popolo e antifascisti “d’azione”. Meno conosciuta ed indagata rimane invece la decisiva riunione tenutasi segretamente un anno prima dell’attentato a Livorno dove, come le autorità non ignoravano, erano attivi imbarchi e collegamenti clandestini.

Infatti, secondo la testimonianza dell’anarchico carrarino – poi comandante partigiano – Ugo Mazzucchelli (1903-1997), avvalorata dallo storico Gino Cerrito, nell’estate del 1925 a Livorno vi era stata una riunione clandestina, a bordo di un barcone in mare aperto, a cui presero parte, oltre a Lucetti e a Mazzucchelli, gli anarchici livornesi Augusto Consani e Virgilio Recchi, già organizzatori del Battaglione degli Arditi del popolo, nonchè due minatori anarchici di San Giovanni Valdarno e qualche altro militante non identificato[1]. Lucetti era infatti rientrato clandestinamente da Marsiglia, dove era espatriato alla fine del 1922 intessendo rapporti con gli ambienti più risoluti del “fuoriuscitismo” antifascista. Da quanto si può dedurre e come confermato dal militante anarchico Piero Di Pietro, in questa riunione, preceduta da altri incontri nel carrarese, era stato deciso e delineato un piano operativo per l’eliminazione fisica di Mussolini, oltre a concertare conseguenti sollevazioni contro il regime. Infatti, dopo la mancata insurrezione a seguito del delitto Matteotti e il fallimento della politica aventiniana, «ogni transazione [era] divenuta impossibile».
Lucetti, anarchico d’azione, era eticamente determinato ad attentare alla vita del duce sin dal dicembre 1922, a seguito della strage operaia di Torino, e già nel gennaio-febbraio 1923 si era recato a Roma per verificarne l’attuazione- Il progetto dovette però essere rinviato in quanto Lucetti rimase coinvolto e ferito in una sparatoria con i fascisti ad Avenza, presso il caffè Napoleone in piazza Rivellino, avvenuta nella notte fra il 25 e il 26 settembre 1925. Ricercato dai fascisti e dalla polizia, dovette quindi nascondersi e l’11 ottobre imbarcarsi come “clandestino” su un naviglio per il trasporto di marmo diretto a Marsiglia[2].

L’ANARCHICO ARDITO

Gino Lucetti era nato ad Avenza, frazione del comune di Carrara (MS), il 31 agosto 1900, da Filippo e Adele Crudeli[3]. Dopo aver studiato sino alla VI classe elementare, aveva iniziato a lavorare in cava, divenendo un lizzatore, ossia addetto al faticoso e pericoloso spostamento dei blocchi di marmo. In gioventù era stato vicino agli ideali repubblicani, peraltro non in contraddizione con quelli libertari[4].
Secondo quanto si può dedurre dal confuso Foglio matricolare n. 17822, il 24 marzo 1918 era stato chiamato sotto le armi e, al 2 luglio seguente, risultava «giunto in territorio dichiarato in stato di guerra» ed assegnato come autiere al 2° Reparto d’Assalto di Marcia che, alla vigilia della battaglia finale di Vittorio Veneto, si trovava dislocato nel trevigiano, fra Pederobba e Palazzon. Probabilmente non aveva preso parte a combattimenti, ma dopo l’attentato a Mussolini, la circostanza d’aver comunque fatto parte degli Arditi venne omessa nelle cronache, eccetto che in un articolo sfuggito alla censura, pubblicato su «La Nazione» del 14 settembre 1926, mentre su altri giornali, come la «Gazzetta livornese» del 13 settembre, fu indicato quale ex artigliere[5].
Dopo essere stato posto in congedo provvisorio il 28 febbraio 1919, il 1° dicembre 1919 venne richiamato in servizio presso diversi reggimenti di fanteria (90°, 65°, 25°), venendo impiegato anche nella bonifica dei residuati bellici. Ancora in grigioverde, nel 1921 per un’assenza di quattro giorni fu denunciato per diserzione e per aver sottratto «oggetti d’armamento» (un fucile 91 con relativa baionetta), venendo però assolto, condonato e finalmente congedato nel novembre 1921.
Tornato ad Avenza, alla fine del 1922 decideva di lasciare illegalmente l’Italia a seguito di scontri avuti con fascisti nella zona di Carrara; aiutato dal fratello Andrea, s’imbarcava su un navicello carico di marmo, approdando a Nizza e poi a Marsiglia dove gli fu sempre possibile trovare lavoro come scalpellino presso laboratori del marmo gestiti da italiani di simpatie libertarie o antifasciste.
In Francia era entrato in relazione con esponenti di primo piano dell’anarchismo, dall’antiorganizzatore Paolo Schicchi al federalista Camillo Berneri, e nel 1924, aveva aderito alle Legioni garibaldine della Libertà che, velleitariamente, avrebbero dovuto penetrare in Italia e rovesciare con le armi il regime mussoliniano.
Nello stesso anno risultava essere abbonato alla rivista anarchica «Pensiero e volontà», di cui erano promotori Errico Malatesta e Luigi Fabbri, collaborando saltuariamente al settimanale «Fede!», diretto da Luigi Damiani; due testate non riconducibili all’anarchismo di tendenza individualista.
Dopo l’infausto epilogo garibaldino, apparve evidente che, contro il totalitarismo fascista, altre strade andavano percorse e, superando le diverse impostazioni teoriche, gli anarchici raggiunsero una sostanziale unità d’azione.
Lucetti, come si è visto, sarebbe rientrato in Italia nell’estate del 1925 per uccidere il duce, nella prospettiva d’innescare sommosse, scioperi e attentati; ma in ottobre dovette precipitosamente ripartire alla volta della Francia.
Ritornato furtivamente in Versilia alla fine del maggio 1926, su un barcone da Marsiglia al porto di Marina di Carrara (secondo diversa fonte, nascosto in un vagone merci al confine di Ventimiglia), s’entrò nella fase operativa del piano: in giugno, Lucetti soggiornò almeno una settimana a Roma, ospite di Caterina Diordi, cercandovi anche un lavoro come scalpellino, e forse ancora un giorno o due a metà luglio.
Fra una “trasferta” e l’altra, trovò ospitalità presso compagni compiacenti a Montignoso e soprattutto a Viareggio, con qualche fugace visita familiare ad Avenza.
Con ogni probabilità in questo periodo, furono reperite le armi, una pistola automatica Browning procuratagli dal repubblicano romano Vincenzo Baldazzi (1898-1982), detto “Cencio”, già dirigente nazionale degli Arditi del popolo, e due bombe a mano SIPE, a frammentazione, che l’anarchico avenzino Gino Bibbi (1899-1999), suo cugino, aveva recuperato a Trieste dall’anarchico Umberto Tommasini (1896-1980), così come confermato da entrambi. Dell’attentato in preparazione appare accertato che furono messi al corrente o vi ebbero una qualche parte gli anarchici Malatesta, peraltro in stretti rapporti sia politici che amicali col Baldazzi, Temistocle Monticelli e Luigi Damiani, esponenti di primo piano dell’Unione anarchica italiana già costretta all’attività clandestina[6].

L’ATTENTATO SENZA FORTUNA

Dopo l’attentato, sia sulla stampa che nell’inchiesta giudiziaria, venne dato molto risalto ai collegamenti dell’anarchico con «le centrali dell’antifascismo» in Francia e lo stesso Mussolini additò «certe tolleranze colpevoli e inaudite di oltre frontiera», ma in realtà Lucetti si era mosso in modo autonomo, facendo piuttosto affidamento sui compagni in Italia. Infatti, ai compagni di Marsiglia tenne nascosto l’imminente partenza per l’Italia e chiese i soldi necessari per il viaggio ad un’ignara compaesana. Considerato che il “fuoriuscitismo” era pesantemente infiltrato dalla polizia politica fascista, tale scelta gli permise di muoversi con relativa sicurezza, cogliendo di sorpresa l’apparato poliziesco, tanto che in conseguenza dell’attentato, Mussolini dimissionò il capo della polizia Crispo Moncada, sostituito dal “superpoliziotto” Arturo Bocchini.
Giunto a Roma, il 2 settembre 1926, Lucetti trovò alloggio, sotto falso nome, presso l’albergo “Trento e Trieste”, grazie all’amico e compagno Leandro Sorio che vi lavorava come cameriere, e la mattina dell’11 settembre 1926 entrò in azione nei pressi del piazzale di Porta Pia, eludendo la vigilanza di una cinquantina di agenti in divisa e in borghese dislocati lungo il percorso “presidenziale”.
Al passaggio dell’auto, una nera “limousine” Fiat 519, che conduceva Mussolini dalla sua residenza estiva di Villa Torlonia al Ministero degli Esteri a Palazzo Chigi[7], Lucetti lanciava, dopo averne accesa la miccia, una SIPE fidando che questa (pesante circa mezzo chilo) sfondasse il vetro dello sportello posteriore laterale destro ed esplodesse all’interno della vettura, dove era seduto il duce. Purtroppo, a causa del sobbalzo dell’auto per un avvallamento della strada, la granata colpì la cornice superiore della portiera, pochi centimetri sopra il vetro, rimbalzando e deflagrando sul selciato, col ferimento di otto passanti raggiunti da schegge[8].
Particolari poco conosciuti dell’azione armata sono stati rivelati da “Cencio” Baldazzi in un’intervista del 1976, che confermano il carattere tutt’altro che “individuale” dell’attentato: «c’entravo io, Malatesta, [Attilio] Paolinelli, c’entravamo tutti, tutto il cerchio nostro della resistenza romana. Noi avevamo preparato due attentati a Mussolini, uno al Tritone, ed uno a Porta Pia […] dopo aver organizzato una certa convergenza intorno Porta Pia»[9].
Lucetti, fu quasi subito catturato dal maresciallo capo Dottarelli e dal vice brigadiere Motta che, assieme all’ispettore di PS Bodini responsabile del servizio di scorta, si trovavano sull’Alfa Romeo che seguiva dappresso l’auto di Mussolini. Lucetti disponeva di un’altra SIPE e della pistola Browning, presumibilmente cal. 7,65, con proiettili artigianalmente modificati per renderli più efficaci, che non potè usare. Condotto in Questura in piazza del Collegio Romano (attualmente commissariato di PS Trevi-Campo Marzio), subì i primi interrogatori e pestaggi, mentre all’esterno fascisti facinorosi provocavano incidenti.
Già mezz’ora dopo l’attentato veniva arrestato Malatesta presso la propria abitazione e a distanza di poche ore la sua compagna, l’anarchica Elena Melli (1899-1946); a Roma, nella retata anti-anarchica finivano militanti noti quali i tre fratelli Turci, Aldo Eluisi, Francesco Porcelli, Carlo Monticelli, Eolo Varagnoli, Adelmo Preziosi ma anche semplici simpatizzanti oppure non anarchici, fra cui i comunisti Umberto Terracini e, a Milano, Ottorino Perrone. Non mancarono le spedizioni punitive, come quella contro l’onorevole socialista Attilio Susi a Santa Marinella.
A Livorno, col pretesto che fra i passanti feriti vi era il cappellaio Garibaldo Paoletti, originario di Livorno, i fascisti assaltarono il consolato francese. Sempre nella città labronica, innumerevoli furono i messaggi di felicitazione ed esecrazione, fra cui quello del Maestro Pietro Mascagni a cui Mussolini rispose personalmente. Nella chiesa di S, Giulia, invece, «venne cantato un solenne “Te Deum” di ringraziamento per lo scampato pericolo del Primo Ministro Benito Mussolini».
Nell’arco di pochi giorni furono effettuati almeno 500 arresti e 600 perquisizioni, soprattutto nella capitale ma anche altrove; ad esempio, tra minatori di S. Giovanni Valdarno. Tra i circa sessanta arrestati fra Carrara ed Avenza, vi erano gli amici, i familiari e i parenti di Lucetti ed anche la sua fidanzata, Nella Menconi (1899-1975). A Roma, furono subito tratti in arresto Baldazzi, Leandro Sorio (1899-1975) e Stefano Vatteroni (1897-1965). Quest’ultimi due vennero condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, rispettivamente a 20 e 18 anni di carcere, «complicità non necessaria»[10]. Baldazzi, invece, ebbe una condanna a cinque anni di carcere per la complicità nell’attentato e ad altri cinque per aver poi fornito aiuto finanziario alla madre di Lucetti[11]. I familiari, fra cui il cugino Gino Bibbi e la madre, furono assolti «per il reato di concorso in mancato omicidio di S.E. il primo ministro» nel giugno del 1927. Nelle settimane seguenti, numerose furono pure le sentenze per «apologia di attentato» nei confronti di persone che avevano espresso, magari in un’osteria, il proprio rammarico per il tentativo non andato a buon fine. Accadde anche a Livorno, dove nei pressi di Piazza dei Mille tre «giovanotti» furono arrestati e denunciati per aver parlato «a voce alta dell’attentato contro la persona di S.E. Mussolini, esaltando l’attentatore, augurando un nuovo infame gesto contro il Duce»[12]. A Rio Marina, per lo stesso reato, il contadino anarchico Narciso Trenti fu condannato a 30 mesi di reclusione e 300 lire di ammenda[13].

CONDANNA E MEMORIA

Il processo, svoltosi dall’8 all’11 giugno 1927, apparve come una farsa, con l’avvocato d’ufficio Emilio Tommasi, che sembrava l’accusatore dell’imputato, mentre il P.M. Enea Noseda lo additava quale «parricida». A presiedere il Tribunale Speciale vi era il generale Carlo Sanna e della corte faceva parte il conte Antonio Tringali-Casanuova, futuro presidente del Tribunale speciale sino al 1943, nato a Cecina e fascista della prima ora. Lucetti venne condannato a 30 anni di reclusione; fra i delitti di cui fu ritenuto colpevole, quello di aver commesso il fatto «anche col fine d’incutere pubblico timore e di suscitare tumulto e pubblico disordine», con evidente allusione alle finalità di destabilizzazione del regime[14]. Da parte sua, durante l’udienza, Lucetti rifiutò decisamente l’accusa di essere un sicario eterodiretto, così come – sin dal primo interrogatorio – aveva tenuto a precisare che «il mio è stato un attentato da proletario».
Lo aspettavano 17 anni di carcere: dal Terzo Braccio di “Regina Coeli” nel luglio del 1927 fu condotto, via Livorno, nel penitenziario elbano di Portolongone (oggi Porto Azzurro) con i ferri ai polsi e «la lugubre casacca a righe», come riferito su «Il Telegrafo» dell’8 e 9 luglio.
Nel febbraio 1930 venne trasferito nel carcere di Fossombrone (PU), dove in occasione del Primo maggio 1932, assieme ad altri sei detenuti comunisti e anarchici – fra i quali il livornese Tito Raccolti e il veronese Giovanni Domaschi – realizzò artigianalmente e fece uscire dal carcere una quindicina di manifestini, oltre a cantare l’Internazionale e Bandiera rossa. A seguito di tale dimostrazione, il mese dopo fu deportato nell’isola-carcere di Santo Stefano (LT)[15]. Nel terribile penitenziario ex-borbonico, Lucetti rimase sino al settembre 1943, trattenuto dalle misure anti-anarchiche del governo Badoglio, anche dopo la “caduta” di Mussolini. Finalmente liberato da paracadutisti americani il 10 settembre, assieme ad una sessantina di “politici”, fu trasferito all’Isola d’Ischia dove, drammaticamente, il 17 dello stesso mese venne ucciso da un colpo d’artiglieria sparato dalle forze tedesche dalla costa napoletana, forse da Monte Procida o da Capo Miseno, con obiettivo le motosiluranti alleate presenti in porto.

Quando la tragica notizia raggiunse il carrarese dove era in corso la resistenza, la prima formazione partigiana di tendenza libertaria assunse il suo nome e così anche quella poi ricostituita come “Lucetti bis”. A liberazione avvenuta, il CLN di Carrara, accogliendo l’ampia sollecitazione popolare, decise di intitolare a Lucetti la centrale e storica piazza Alberica, ma nel 1963 la giunta comunale decise di intitolargli la piazza Rivellino ad Avenza, mentre quella di Carrara tornava all’antica denominazione.

La salma di Lucetti, da Ischia, avrebbe fatto ritorno ad Avenza il 27 aprile 1947, salutata da un’enorme manifestazione popolare nella piazza a lui dedicata, con comizio tenuto dall’anarchico Giuseppe Mariani (1898-1974), suo compagno di detenzione a S. Stefano, e poi accompagnata in corteo sino al cimitero di Turigliano, dove ancora si trova.
Imbarcata su una nave a Napoli era approdata nel porto di Livorno sabato 26 aprile, venendo accolta e salutata – dalle ore 12 alle ore 15 – presso la sede della Federazione anarchica livornese in via Ernesto Rossi 80[16]. Come riferisce «La voca apuana» del 3 maggio 1947, «la salma dell’eroe era posta nella sede degli anarchici coperta di bandiere e una numerosa schiera di persone attendevano l’ora della cerimonia. Erano presenti compagni di tutti i partiti e numerosi cittadini», quindi in corteo il feretro giunse in piazza San Marco e, dopo un breve discorso di commiato, fu caricato su un’autoambulanza per l’ultimo trasferimento.
Accompagnata da una delegazione di anarchici carrarini e livornesi, dopo brevi soste commemorative a Pisa, Massa ed Avenza, il trasporto giunse a Carrara attorno alle ore 20 e la bara venne esposta presso la sede della FAI, in piazza Lucetti, in attesa delle grandi manifestazioni dell’indomani.
Alcuni anni dopo, Alberto Tarchiani, uno dei fondatori del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, riferendosi agli attentati alla vita di Mussolini, avrebbe commentato: «chi condannerebbe oggi quei tentativi che non avevano bassi scopi di vendetta, ma convinti propositi di evitare sciagure infinitamente più vaste, eliminando un uomo che, vaneggiando di gloria conduceva l’Italia alla devastazione materiale e morale?».

NOTE

1. Augusto Consani (1883-1953), pastaio, militante di primo piano dell’Unione anarchica livornese, era stato segretario della Camera sindacale del Lavoro (USI) nonché tra gli organizzatori dell’arditismo antifascista. Condannato a cinque anni di confino quale «elemento pericoloso per l’ordine dello Stato», fu deportato a Lipari nel dicembre 1926, venendo rimesso in libertà nel marzo 1927, in via condizionale, poichè ammalato di tubercolosi; ciò nonostante avrebbe continuato l’attività clandestina. Paradossalmente, nel saggio di Nicola Badaloni e Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926 (Editori riuniti, 1977) viene ritenuto «uno dei principali sostenitori di una linea “attendista”». Virgilio Recchi (1900-1982), operaio elettricista, fra i fondatori degli Arditi del popolo, è schedato dal 1926 come anarchico. Nel 1945, è nel Comitato di liberazione aziendale del Cantiere navale OTO e fa parte del Gruppo sindacale libertario; partecipa al Congresso fondativo della FAI in rappresentanza del gruppo “Pietro Gori” e nel 1947 è nella Giunta esecutiva della Camera del lavoro, per la componente anarchica.
2. Secondo una ricostruzione pubblicata sulla «Gazzetta livornese» del 13 settembre 1926, «raggiunta la spiaggia il Lucetti sempre aiutato dal fratello suo Andrea, si imbarcava notte tempo sopra un piccolo gozzo, raggiungendo a forza di remi Lerici, ove all’alba del giorno dopo, un navicello carico di marmi, alzava l’ancora per la Francia».
3. Nei suoi saggi, lo storico Renzo De Felice l’ha ritenuto «nativo della Garfagnana», probabilmente perché, subito dopo l’arresto, Lucetti aveva declinato una falsa identità dichiarando d’essere nato a Castelnuovo Garfagnana (LU).
4. Nel Carrarese vi era una storica collateralità fra gli ambienti repubblicani e anarchici e, in particolare, proprio ad Avenza questa risultava evidente nella bandiera nera della locale sezione mazziniana.
5. Risaliva forse a tale esperienza negli Arditi il «tatuaggio sinistro» “W la morte” che Lucetti recava sull’avambraccio oppure, secondo la declinazione poetica di Virgilia D’Andrea, alludeva a «La morte che dona la vita / La morte che risveglia i popoli / Non quella che li distende inermi ed inetti dentro una tomba senza gloria / La morte che spezza il tiranno / Non quella che la tirannia riassoda ed eterna» (Gloria anarchica, 1933).
6. Il 17 gennaio 1926 si tenne segretamente un Convegno della UAI a Milano ed un altro in forma clandestina ai primi di agosto dello stesso anno. Esiste, tra l’altro, una lettera alquanto sibillina, scritta da Malatesta il 4 settembre 1926 all’anarchico Alfonso Coniglio, in cui comunicava che «Le seicento lire di cui mi parli furono ricevute al principio di quest’anno e furono adoperate non per Pensiero e Volontà[il giornale anarchico diretto da Malatesta] ma per un bisogno urgente del nostro movimento. Io ti scrissi e ti dissi vagamente che cosa avevamo fatto del denaro – senza però entrare in particolari, perché si trattava di cose che non conviene scrivere […] Siamo pieni di belle speranze, ma per ora sono… speranze. Noi però facciamo tutto quello che possiamo perché presto diventino realtà».
7. Nel 1922, Mussolini dopo aver trasferito il ministero delle Colonie nel Palazzo della Consulta, aveva destinato Palazzo Chigi a sede del Ministero degli Esteri e in virtù della sua doppia carica di Presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri, ne aveva fatto la sua sede ministeriale.
8. Se invece che la SIPE, ad accensione manuale, fosse stata impiegata la variante a percussione (tipo “Gallina”), l’esito avrebbe avuto ben altra efficacia, scoppiando all’urto.
9. Il coinvolgimento di Baldazzi è stato confermato dalla moglie Elena Vitiello, intervistata da Alessandro Portelli: «lo avevano preparato insieme. La cosa che l’attentato non riuscì, con tutte le misure e tutti i calcoli che avevano fatto, non avevano tenuto conto che la strada era leggermente in discesa».
10. Le prove a loro carico erano labili, tanto che secondo Guido Leto, allora funzionario dell’Ufficio speciale movimento sovversivo ed in seguito a capo dell’OVRA, «l’inchiesta assodò che [Lucetti] non aveva complici», forse anche per giustificare il fallimento della sicurezza.
11. Nonostante la stretta sorveglianza, Baldazzi, riuscì ad incontrarsi con Malatesta (erano vicini di casa, in via Andrea Doria) e a prendere accordi con Attilio Paolinelli ed Aldo Eluisi – entrambi anarchici ed ex-arditi del popolo – nel tentativo «di organizzare la fuga» di Lucetti il giorno stesso del processo.
12. L’arresto di in terzetto per apologia di reato, «Gazzetta livornese», 15 settembre 1926. I tre erano l’operaio carpentiere Vittorio Pieracci, il facchino Licurgo Niccolai e il muratore Ilio Fiorini; i primi due schedati come comunisti, il terzo quale socialista.
13. Per offese al Primo Ministro, «Gazzetta livornese», 16 settembre 1926. Sullo stesso quotidiano si trova anche la notizia del rinvio a giudizio per il capitano marittimo Emilio Oliviero, «imputato di non aver esposta la bandiera in occasione dell’attentato al Duce».
14. Le pene accessorie, oltre a tre anni di vigilanza speciale, erano tragicomiche: 300 lire di ammenda, 600 lire per concessioni governative, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In seguito, per effetto dei decreti governativi di amnistia e indulto del 1932, 1934 e 1937, la pena risultò ridotta a 17 anni, con scarcerazione prevista per il 10 settembre 1945.
15. Le inumane condizioni di prigionia sono descritte anche dal comunista livornese (seppure nato a Pisa) Athos Lisa in Memorie. Dall’ergastolo di Santo Stefano alla Casa penale di Turi di Bari, Milano, Feltrinelli, 1973.
16. Anche a Livorno, un gruppo anarchico – quello del quartiere S. Jacopo – assunse il suo nome.

 

Articolo pubblicato nel settembre del 2024.




Sulle tracce della Linea Gotica nelle Apuane

Nel 2019 il Parco delle Alpi Apuane ha promosso un progetto di valorizzazione del territorio e di commemorazione del passato attraverso il recupero e la creazione di sette sentieri di diversa difficoltà che ripercorrono i luoghi e le zone attraversate dalla Linea Gotica. Costruita dai tedeschi sul finire del secondo conflitto mondiale la Linea aveva lo scopo di arrestare e rallentare l’avanzata delle truppe alleate che erano nel frattempo sbarcate nella penisola. Si trattava di una struttura fortificata che da Massa (affacciata sul Mar Tirreno) fino a Pesaro (posta sul Mar Adriatico) attraversava orizzontalmente il paese, sbarrando l’accesso alla Pianura Padana. Come le altre zone e catene montuose attraversate dalla Linea le Apuane divennero teatro di violenti scontri che contrapposero da un lato le truppe nazifasciste e dall’altro gli Alleati e le formazioni partigiane che operavano nella zona.

Grazie a questa rete di sentieri coloro che vorranno visitare il Parco e le sue montagne potranno ripercorrere luoghi dall’importante valenza storica, visitando postazioni fortificate come bunker e trincee, attraversando i paesi vittime delle stragi nazifasciste e ripercorrendo gli stessi itinerari che intraprendevano i civili che volevano sfuggire dalla guerra. L’iniziativa – realizzata attraverso il contributo di diversi enti e associazioni culturali della zona – mira a coniugare la divulgazione storica con il piacere di poter visitare luoghi dall’immensa bellezza naturalistica.

 

Mappa dei sentieri

 

 

Sentiero 1

Attraverso i luoghi della “zona bianca” (itinerario circolare)

Ripercorre i luoghi che furono teatro di uno dei peggiori crimini compiuti dai nazisti durante la seconda guerra mondiale

  •  Percorso: Sant’Anna di Stazzema – Vaccareccia – Focetta – Ossario – Sant’Anna di Stazzema
  • Tempo di percorrenza: 1 ora
  • Difficoltà: turistico / escursionistico
  • Dislivello: ± 113 m

Il sentiero (n. 2 arancione) prende avvio dallo spiazzo situato di fronte alla chiesa di Sant’Anna, dove il 12 agosto 1944 vennero uccisi 132 innocenti . Dopo aver superato l’abitato il percorso prosegue in direzione della borgata di Vaccareccia, anch’essa vittima nell’estate 1944 della violenza nazista, e continua fino ad arrivare al punto panoramico di Focetta. L’ultima parte del sentiero attraversa il Monumento dedicato alle vittime della strage, realizzato dall’architetto Tito Salvatori nel 1948 e si conclude dopo circa un’ora di marcia al Museo Storico della Resistenza, situato a poche centinaia di metri dalla chiesa di Sant’Anna. Oltre al sentiero appena descritto, nella zona sono presenti altri percorsi che permettono ai visitatori di poter ampliare la loro visita e di recarsi  nelle altre borgate vittime delle stragi, come ad esempio i “Sentieri di Pace”, sei percorsi storico-naturalistici creati nel 2012 che ripercorrono i luoghi attraversati dalle truppe nazifasciste.

 

 

Sentiero 2

Dove l’ultimo assalto alleato spezzò la Linea Gotica

Il sentiero attraversa i luoghi dove il 5 aprile 1944 le truppe alleate insieme ai partigiani assaltarono le posizioni nemiche, aprendo il primo varco nella parte occidentale della Linea Gotica e creando le premesse per l’imminente liberazione di Montignoso, Massa e Carrara

  • Percorso: Pasquilio di Montignoso – Monte Folgorito – Cerreta San Nicola – Passo della Canala – Seravezza
  • Tempo di percorrenza: 3.20 ore andata, 3.50 ore ritorno
  • Difficoltà: escursionistico (per “escursionisti esperti” in alcuni tratti lungo il crinale)
  • Dislivello: + 171 m, – 931 m

Pasquilio di Montignoso dista poco più di venti minuti di macchina da Massa. Prima di intraprendere il cammino meritano una breve visita il monumento eretto in memoria della guerra di Liberazione e la chiesetta dei partigiani, entrambi posti all’inizio del sentiero. Dopo una prima parte ascensionale, che termina con l’arrivo sulla cima del Monte Folgorito (911 m), il percorso perde progressivamente quota, fino ad arrivare a Seravezza (65 m). Lungo il percorso sono presenti numerose tracce che testimoniano lo scontro che contrappose gli Alleati e i partigiani con le truppe nazi-fasciste, come bunker, trincee o caverne adibite al riposo dei soldati. Il percorso può essere compiuto anche in senso contrario, partendo da Seravezza ed arrivando a Pasquilio di Montignoso.

 

 

Sentiero 3

Sulla via della libertà dei “patrioti apuani”

Sentiero che ripercorre in parte il percorso gestito dal “Gruppo Patrioti Apuani” che i civili compivano per sfuggire alla guerra e “sconfinare” nell’Italia liberata

  • Percorso: Antona di Massa – Tecchia – Passo della Greppia – La Polla – Azzano di Seravezza
  • Tempo di percorrenza: 4.30 ore
  • Difficoltà: escursionistico / per escursionisti esperti ( per “escursionisti esperti con attrezzature” dal Passo della Greppia all’innesto del sentiero CAI 32)
  • Dislivello: + 885 m; – 835 m

Il percorso può essere iniziato ad Antona, distante otto chilometri da Massa, oppure dal “Sacrario della Tecchia”, raggiungibile in automobile proseguendo in direzione di Arni. Dopo un’iniziale tratto caratterizzato dalla presenza di saliscendi, il percorso diviene più arcigno fino ad arrivare al Passo della Greppia (1.209 m). Superato questo tratto l’itinerario non presenta rilevanti difficoltà altitudinali, ripercorrendo l’antico “Sentiero della Libertà” fino ad arrivare ad Azzano di Seravezza.

 

 

Sentiero 4

Lungo l’antica via di transumanza dei Liguri Apuani

Il sentiero ripercorre le antiche vie della transumanza che i Liguri Apuani utilizzavano prima della colonizzazione romana

  • Percorso: Forno di Massa – Case del Vergheto – Foce Luccica – Foce di Vinca – Foce Rasori – Vinca di Fivizzano
  • Tempo di percorrenza: 5.30 ore da Forno di Massa; 4 ore da Case del Vergheto
  • Difficoltà: escursionistico
  • Dislivello: da Forno di Massa + 1.275 m, – 657 m; da Case del Vergheto + 611 m, – 657 m

La frazione di Forno dista solamente sette chilometri dal centro storico di Massa ed è facilmente raggiungibile con la macchina. Poco prima di giungere nel piccolo paese si incontra il monumento dedicato alle 68 vittime che il 13 giugno 1944 persero la vita a causa di un eccidio nazifascista. Il percorso può essere intrapreso sia partendo da Forno di Massa, sia proseguendo con la macchina e incominciando il cammino da Case del Vergheto. Lungo il percorso, in particolar modo nel tratto da Foce di Vinca a Foce dei Rasori, sono individuabili trincee e gallerie che vennero costruite dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Nell’ultima parte del sentiero, poco prima di giungere a Vinca di Fivizzano, si attraversa Prada-Maestà di Doglio, paese che tra il 24 e 27 agosto fu vittima di un eccidio nazista nel quale persero la vita 173 persone, in maggioranza donne, bambini ed anziani.

 

 

Sentiero 5

Le trincee e i rifugi della “Monterosa”

Il sentiero attraversa le trincee e i rifugi presidiati dagli Alpini della “Monterosa” che nel corso della seconda guerra mondiale combatterono nelle fila della Repubblica Sociale Italiana (RSI) 

  • Percorso: Levigliani di Stazzema – Antro del Corchia – Passo dell’Alpino – Foce di Mosceta
  • Tempo di percorrenza: 2 ore da Levigliani di Stazzema; 1 ora da Antro del Corchia
  • Difficoltà: escursionistico
  • Dislivello: da Levigliani di Stazzema + 658 m, – 58 m; da Antro del Corchia + 380 m, – 58 m

L’itinerario prende tradizionalmente avvio da Levigliani, ma può essere anche intrapreso partendo da Antro del Corchia, raggiungibile in auto o con il bus navetta (negli orari di apertura della grotta). Da Antro del Corchia inizia un ripido tratto, caratterizzato dalla presenza di 20 tornanti che dopo 40 minuti portano al Passo dell’Alpino (1.095 m), chiamato in questo modo per la presenza su queste alture degli alpini della “Monterosa” durante l’inverno 1944-1945. In questa porzione del sentiero sono presenti indicazioni e pannelli illustrativi che aiutano il visitatore ad individuare le cinque postazioni militari presenti lungo il cammino. Percorrendo il sentiero sono inoltre presenti alcune lapidi dedicate ai civili che persero la vita nel secondo dopoguerra a causa delle mine presenti nella zona. Giunti a Foce di Mosceta (1.182 m) si trova il cippo dedicato ai caduti della guerra di Liberazione. Arrivati al termine del sentiero i visitatori percorreranno l’itinerario in direzione opposta, impiegando approssimativamente 45 minuti per giungere ad Antro del Corchia e 1.15 ore per raggiungere Levigliani di Stazzema.

 

 

Sentiero 6

Sui passi del “Gruppo Valanga” (itinerario circolare)

Sentiero che attraversa i luoghi teatro dello scontro che oppose i partigiani del gruppo “Valanga” e le truppe nazifasciste

  • Percorso: Foce di Piglionico – Colle a Panestra – Casa Trescola – Monte Rovaio – Pasquigliora – Colle a Panestra – Foce di Piglionico
  • Tempo di percorrenza: 3.20 ore
  • Difficoltà: escursionistico (per “escursionisti esperti” per un breve tratto)
  • Dislivello: ± 270 m

Rispetto alle altre località di partenza Piglionico non è altrettanto vicina alle principali città della zona e dista poco più di un’ora di macchina da Lucca ed oltre un’ora e mezzo da Massa. Giunti nella località di partenza i visitatori potranno visitare la cappella dedicata ai 19 ragazzi del “Gruppo Valanga” che nell’agosto 1944 persero la vita nella battaglia del Monte Rovaio. Partiti da Piglionico gli escursionisti giungeranno al Colle a Panestra (1.011 m), da dove la strada si biforcherà ed avrà inizio il sentiero ad anello che si sviluppa fuori dalla sentieristica del CAI. Generalmente il sentiero viene percorso in senso orario, svoltando a sinistra in direzione di Casa Trescola, dove Violante Bertoni Mori forniva rifugio e soccorso ai giovani partigiani. Nella località un pannello ed una lapide ricordano i nomi dei 19 membri del “Gruppo Valanga” e ripercorre i principali momenti della loro presenza sulle Alpi Apuane. Dopo aver superato Casa Trescola una deviazione si stacca dal sentiero principale e sale sulla cime del Monte Rovaio (1.060 m) dove nell’agosto 1944 si combatté la battaglia poc’anzi citata. Dopo questa breve sosta si ritorna sul percorso principale e si continua il cammino attraversando Pasquigliora, giungendo successivamente a Colle Panestra da dove sarà possibile poter prendere il sentiero iniziale che riporterà a Foce di Piglionico.

 

 

Sentiero 7

Bunker e camminamenti della Linea Gotica

Visita delle strutture difensive create nella Valle del Serchio durante la seconda guerra mondiale

  • Percorso: Borgo a Mozzano – Anchiano – Domazzano – monte dell’Elto
  • Tempo di percorrenza: da Borgo a Mozzano ad Anchiano 2 ore; con l’escursione al monte dell’Elto 5 ore (a/r)
  • Difficoltà: turistico / escursionistico
  • Dislivello: ± 10 m da Borgo a Mozzano ad Anchiano; ± 165 m con l’escursione al monte dell’Elto

Borgo a Mozzano dista circa 20 chilometri da Lucca e può essere raggiunto impiegando 20 minuti sia in automobile che in treno. Per il sentiero n. 7 viene proposto un percorso differente rispetto a quelli precedentemente descritti, caratterizzato dalla pressoché totale assenza di dislivello e dalla visita di alcune strutture militari presenti nel fondovalle. Inoltre l’itinerario può essere svolto a piedi o utilizzando l’automobile. Dopo aver visitato il Museo della Memoria di Borgo a Mozzano i visitatori possono proseguire in direzione di Domazzano e raggiungere dopo meno di un chilometro la località Madonna di Mao, dove sono presenti i resti di un muro anticarro, alto più di due metri. In prossimità del muro sono inoltre situati i bunker di Madonna di Mao e Pozzori, accessibili solamente con l’accompagnamento di una guida. L’itinerario prosegue poi verso Anchiano, sull’altra sponda del fiume Serchio, dove è presente il continuamento del muro precedentemente visitato. In aggiunta alla visita di Borgo a Mozzano ed Anchiano è possibile raggiungere in auto Domazzano e compiere un piccolo sentiero che permette di osservare le fortificazioni presenti sul monte dell’Elto. In questo caso i riferimenti cronologici sono puramente indicativi, visto che il tempo impiegato da ciascun escursionista dipenderà dalla decisione di voler percorrere il percorso in auto o a piedi e dal tempo impiegato per visitare i luoghi d’attrazione.

 

Prima di concludere poniamo l’attenzione su due importanti aspetti che meritano una breve analisi. Per quanto riguarda la difficoltà riportata per ciascun sentiero abbiamo fatto riferimento ai parametri utilizzati dal Parco delle Alpi Apuane e dal CAI, che possono essere facilmente consultati sul sito del Club Alpino Italiano. In modo sommario possiamo affermare che i sentieri “turistici” sono classificabili come sentieri facili, quelli di livello “escursionistico” equivalgono ad un livello di media difficoltà, mentre quelli per “escursionisti esperti” con o senza attrezzature speciali sono itinerari di elevata difficoltà, adatti a trekkers abili e competenti. Infine prima di intraprendere un sentiero invitiamo gli escursionisti a controllare lo stato e le criticità dei percorsi sul sito del Parco delle Alpi Apuane, cliccando la voce “percorribilità dei sentieri CAI”. In questo modo gli escursionisti potranno conoscere l’attuale stato dei sentieri che sono intenzionati a percorrere, evitando spiacevoli sorprese.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.




Cattolici e fascismo nella Toscana nord-occidentale (1920-1922)

Ritratto mons. Maffi

Grazie all’apertura graduale degli archivi vaticani, la storiografia ha chiarito ormai nelle sue linee essenziali il rapporto tra cattolicesimo e fascismo. Se per quanto riguarda i vertici la relazione è stata restituita alla storia, lo stesso non può dirsi per il piano locale, su cui disponiamo di informazioni lacunose. Il problema emerge chiaramente nel caso toscano, alla cui conoscenza questo scritto vuole contribuire concentrandosi sull’area nord-occidentale della regione prima della marcia su Roma. L’obiettivo è evidenziare, senza pretese di esaustività, i caratteri fondamentali della vicenda, a cominciare dalla preminenza di Pisa – dovuta soprattutto alla presenza del cardinale-arcivescovo Pietro Maffi, il più noto e influente esponente del cattolicesimo in quell’area e uno dei principali sul piano nazionale, al punto da risultare tra i papabili al conclave del 1922.

Gli studi più accurati hanno individuato nel 1921 l’inizio del confronto tra cattolici e fascisti. Se, infatti, in precedenza le due parti si erano sostanzialmente ignorate, dalla primavera del 1921 s’intensificò l’azione squadrista contro le sinistre e, in misura molto più ridotta, i popolari, suscitando proteste e commenti nel mondo cattolico. Reazioni che, è bene sottolinearlo, non giunsero mai a una piena equiparazione tra socialismo (oggetto di una condanna inappellabile) e fascismo (di cui si deplorarono gli eccessi, cioè le violenze contro i cattolici).
Uno sguardo gettato sulla Toscana nord-occidentale conferma la validità sostanziale di questa cronologia, nonostante differenze significative tra le varie diocesi. Il caso Ritratto Gronchipisano spicca per la presenza di due personalità di rilievo nazionale: il deputato e futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, membro dell’ala sinistra del PPI, sarebbe stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e del commercio nel governo Mussolini (1922-1923); e il già citato Maffi che, alfiere dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano e in ottimi rapporti con i Savoia, nel 1915-1918 si era distinto per l’appoggio entusiastico allo sforzo bellico, fino a divenire il simbolo dell’unione tra fede e patria. Sotto l’impulso del cardinale, il movimento cattolico raggiunse uno sviluppo considerevole, attestato tra le altre cose dal successo del giornale «Il Messaggero toscano» (l’unico quotidiano della città). A Pisa, inoltre, la solida presenza dei movimenti e partiti “sovversivi” fu contrastata da uno squadrismo assai violento, animato da autentici assassini come Alessandro Carosi e dilaniato da faide interne. Nell’insieme, questi elementi fanno di Pisa un osservatorio di prim’ordine per studiare i rapporti tra cattolici e fascismo nel primo dopoguerra – rapporti tesi, perché agli occhi della cittadinanza Maffi incarnava quel patriottismo di cui le camicie nere rivendicavano l’esclusiva. A dire il vero, da parte cattolica non mancò la volontà di trovare un terreno d’incontro con i fascisti, sulla base dell’antisocialismo e del culto dei caduti: caduti della Grande Guerra, come si vide in occasione delle onoranze al Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, cui il cardinale partecipò; e caduti della rivoluzione fascista, come si vide invece durante le esequie degli squadristi Zoccoli e Menichetti nel 1921, legittimate dalla presenza rispettivamente di Maffi e del suo segretario, mons. Calandra. Tuttavia, queste aperture non ebbero l’esito sperato, come emerse nel 1922. In giugno, a Pisa, le camicie nere si piazzarono all’esterno della cattedrale impedendo il regolare svolgimento della tradizionale processione del Corpus Domini e sollevando le proteste del cardinale. In settembre, a Buti, il pievano Cascioni Poli (reduce della guerra e sostenitore del PPI) sparò un colpo di pistola in aria per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e mettere in fuga i fascisti che nottetempo stavano tentando di irrompere nella canonica, allontanandosi poi dal paese per ragioni di sicurezza. Si tratta, com’è evidente, di episodi limitati ma utili a comprendere gli attriti che a Pisa caratterizzano i rapporti tra cattolici e fascisti fino al termine della faida Santini-Morghen e per qualche verso anche dopo.

Ricostruire le vicende delle altre diocesi risulta più complesso, date la mancanza tanto tra il clero quanto tra i laici delle personalità di rilievo nazionale e la debolezza del movimento cattolico nelle zone dove le sinistre erano più radicate. A Livorno, ad esempio, la voce cattolica più autorevole era rappresentata dal «Fides» – un bisettimanale che, cessato al termine del 1921, nella veste grafica e nelle idee (rigidamente integriste, in linea con il pensiero del suo direttore don Giovanni Casini) rivelava una posizione non certo all’avanguardia, preoccupata dalle trame di massoni, ebrei e socialisti più che dal fascismo[1].
Nemmeno a Massa la situazione era favorevole al movimento cattolico, che però si mostrò più battagliero. Ai contrasti tra la curia vescovile e i popolari si sommavano infatti le vivaci polemiche tra il settimanale fascista «Giovinezza» e il corrispettivo cattolico «La Difesa popolare» che, diretto dall’avv. Carlo Perfetti, aveva come motto: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo». Lo scontro culminò nel marzo-aprile 1922, quando i fascisti parlarono di «pericolo clerico bolscevico», accusando il PPI di essere una «forza antinazionale» sostenuta da sacerdoti «traditori della nostra fede». Parole respinte con sdegno dalla controparte, secondo cui se i principi cristiani fossero rimasti confinati nelle chiese per timore della violenza, le «masse sfruttate» non avrebbero mai ottenuto la «giusta mercede» né l’Italia avrebbe ritrovato la pace[2].
Ancora diversa l’atmosfera a Lucca, dove la Chiesa esercitava un’influenza considerevole sulla vita politica e sociale. Qui, non a caso, i fascisti capeggiati da Carlo Scorza agirono con cautela. Il loro obiettivo era chiaro (separare i cattolici dal PPI) ma di difficile realizzazione, perché il foglio cattolico di riferimento (il settimanale «L’Esare») respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di doppia militanza; inoltre, nel maggio 1921 il bollettino diocesano precisò che i cattolici potevano esercitare attività politica ma non militare nei partiti liberali né accettare i principi del socialismo, lasciando come unica opzione il PPI. Pur a fronte di un’opposizione ferma, prima della marcia su Roma le camicie nere evitarono di avviare una vasta campagna di violenze contro i cattolici, limitandosi a rare aggressioni e qualche scritta sui muri. In questo senso, il caso lucchese risulta emblematico del livello di violenza nei rapporti tra cattolici e fascisti, che a queste date restava ancora contenuto.

Ritratto mons. Simonetti

Ritratto mons. Simonetti

L’eccezione maggiore è costituita dal delitto di Collodi, frazione di Pescia, che a conoscenza di chi scrive costituisce l’episodio più grave occorso nell’area in questione. Qui nell’ottobre 1921 i fratelli Lamberti, militanti fascisti e proprietari di una cartiera chiusa a causa di uno sciopero, uccisero a colpi di pistola Ubaldo Ciomei, consigliere comunale di Pescia e attivista dell’Unione del lavoro di Lucca, dandosi poi alla latitanza. Il settimanale cattolico locale, «Il Popolo di Valdinievole», condannò con fermezza i responsabili e presentò la vittima nelle vesti di «martire», senza che si giungesse peraltro a una vera e propria rottura con il fascismo. Al risultato contribuì il vescovo di Pescia Angelo Simonetti, i cui inviti alla pace e alla fratellanza favorivano di fatto il partito più forte; inoltre, fin dal dicembre 1920 egli aveva dichiarato in una lettera a «Il Popolo di Valdinievole» che «la vera azione cattolica non è né deve essere per sé e per i suoi fini politica, né deve perciò confondersi affatto con quella di un partito» – una sconfessione del PPI che certo non aiutò ad arginare l’ascesa del fascismo nella diocesi .

La formazione del governo Mussolini, che includeva esponenti popolari, fu accolta dai cattolici se non con gioia almeno con fiducia in un avvenire più ordinato. I mesi e gli anni seguenti videro in realtà un aumento sensibile degli attacchi contro di loro, senza che per questo si verificasse un ripensamento. Anzi, com’è noto il rappresentante principale dell’antifascismo cattolico, don Sturzo, fu costretto all’esilio dai superiori; il PPI fu sciolto; e sulla memoria di don Minzoni, il parroco ferrarese ucciso dagli squadristi nell’agosto 1923, calarono censura e oblio. Sull’esito incise la minaccia del manganello, certo, ma anche elementi di più lungo periodo, sedimentati a fondo nella mentalità cattolica, come l’insistenza sui doveri più che sui diritti e la convinzione che in mancanza di un accordo con l’autorità politica la missione della chiesa sarebbe fallita. Per queste ragioni, benché consapevoli del carattere agnostico e violento del fascismo, nella grande maggioranza dei casi i cattolici lo ritennero un male minore rispetto al nemico tradizionale: il socialismo. Questa prospettiva caratterizzò tutto il pontificato di Pio XI, che solo negli ultimi mesi di regno cominciò a distaccarsene, con una scelta che peraltro il successore si guardò bene dal sottoscrivere. Solo le sconfitte patite nel corso della Seconda guerra mondiale convinsero il papato e i cattolici italiani a voltare definitivamente le spalle a Mussolini.

Nota:
1. Cfr. ad es. La mala bestia, in «Fides», 16 gennaio 1921.
2. Il cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini ha visto Dio ridotto a portabandiera del P.P. e il popolo insidiato dalla coppia Sturzo-Lenin, in «Giovinezza!», 19 marzo 1922; «Giovinezza» sulle furie!, in «La Difesa popolare», 1° aprile 1922, p. 2.

L’articolo è la relazione presentata in occasione del seminario organizzato il 20 ottobre 2022 dalla Biblioteca F. Serantini dal titolo 1922: Pisa e la Toscana tra fascismo e antifascismo.




Cesare Lodovici direttore di «Alalà!» settimanale del Fascio carrarese di combattimento

La ricorrenza del centenario dei fatti di Sarzana è stata un’occasione importante per rileggere e fare il punto (si veda il convegno di studi Resistenza ante litteram. 1921-2021. A cent’anni dai “Fatti di Sarzana”, Sarzana, 16-17 luglio 2021) su un episodio significativo, quasi una momentanea battuta d’arresto, nell’ascesa e nell’affermazione del fascismo in Italia e in particolare nella zona di confine tra Liguria e Toscana dove – proprio a Sarzana – il movimento tardò a prendere piede. Episodio che gli squadristi si affrettarono a definire “eccidio” ma che fu piuttosto un’opposizione ferma delle forze dell’ordine intervenute in quell’occasione e di resistenza popolare, poi, di fronte all’ennesimo assedio che i fascisti tentarono sulla città, questa volta per liberare dal carcere Renato Ricci arrestato il 17 di quello stesso mese.
Tra le tante testimonianze che i giornali si affrettarono a pubblicare nei giorni successivi agli scontri, restava tuttavia parzialmente inedita una lunga e dettagliata cronaca dello scrittore Cesare Vico Lodovici (Carrara, 18 dicembre 1885 – Roma, 24 marzo 1968) e allo stesso modo restava quasi del tutto sconosciuta la sua partecipazione allo squadrismo apuano e all’azione del 21 luglio di cui è, appunto, testimone oculare.
Quasi del tutto perché già nel 1992 lo storico tedesco Roger Engelmann nel libro, mai tradotto in italiano, Provinzfaschismus in Italien. Politische Gewalt und Herrschaftsbildung in der Marmorregion Carrara 1921-1924 (R. Oldenbourg Verlag, Munchen, 1992) indica Lodovici tra i membri del Fascio di Combattimento di Carrara e caporedattore di «Alalà!», settimanale ad esso collegato, che lo scrittore dirige per poco più di due mesi tra il 30 luglio e l’8 ottobre 1921.
Ed è proprio sul numero di «Alalà!» del 30 luglio 1921 che esce il suo resoconto su Come si svolsero i fatti di Sarzana, (ripreso subito dopo da «L’intrepido: settimanale del Fascio di combattimento lucchese» del 14 agosto 1921) a quasi dieci giorni di distanza dagli scontri, sul numero 2 anno I del periodico dove il suo nome figura nell’ultima pagina in basso a destra, nel ruolo di direttore insieme con quello di Lodovico Canepa che ne è gerente responsabile, mentre sul numero precedente del 16 luglio 1921, che corrisponde dunque alla prima uscita del settimanale, il titolo di direttore era affidato al solo Canepa; ed è forse questo il motivo per cui nel regesto di Massimo Bertozzi, La stampa periodica in provincia di Massa Carrara, nella scheda sintetica su «Alalà!», Lodovici non è menzionato (Pacini, Pisa, 1979, pp. 170-171).
Eppure, come emerge dai suoi interventi, il ruolo dello scrittore all’interno del Fascio di combattimento di Carrara non deve essere stato affatto secondario, pur non avendo ricoperto particolari posizioni di comando; né può dirsi anonima l’impronta che la sua direzione imprime al giornale in questo brevissimo ma cruciale lasso di tempo.

Lodovici_La_donna_di_nessunoAllo stesso modo non è trascurabile il ruolo di Lodovici negli ambienti letterari e culturali di quel primissimo scorcio degli anni ‘20 soprattutto per l’eccezionalità delle relazioni che seppe intrecciare e la singolarità della sua scrittura teatrale grazie alla quale il suo nome è ancora citato nelle storie del teatro del Novecento. Amico di Pirandello, di Montale e di Gobetti (solo per citarne alcuni) seppe promuovere presso l’editore torinese, insieme con Sergio Solmi, la pubblicazione del volume degli Ossi di seppia, libro d’esordio di Montale, uscito nel 1925. Del resto Gobetti fu anche editore de L’idiota (1923), uno dei testi teatrali più conosciuti di Lodovici insieme con La donna di nessuno (1920). Infine, bisogna ricordare che ancora oggi è sua la traduzione più accreditata di tutto il Teatro di Shakespeare pubblicato da Einaudi (1965).
Forse a causa di una certa settorialità degli studi, dunque, o forse perché lo stesso Lodovici fin dal 1935, anno in cui si trasferisce a Roma per lavorare come consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, visse appartato con un’accettazione silente ma sofferta del regime fino a quando, nel secondo Dopoguerra, assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano «La Giustizia», organo del Partito socialista democratico italiano.

La sua adesione al Fascio di combattimento di Carrara e al Partito fascista è comunque facilmente inquadrabile e presenta caratteristiche per certi versi comuni a quella di molti altri intellettuali dell’epoca: reduce dalla Prima guerra mondiale, nella quale aveva perso il fratello minore Vico e guadagnato due medaglie al valore dopo essere stato vittima dei gas asfissianti, nel 1917 Lodovici aveva scontato un anno di prigionia nel carcere di Theresienstadt, in Boemia; laureato in legge, ma scrittore e autore teatrale per vocazione, alle idee liberali univa un forte spirito antiborghese; a ciò si aggiunga, a chiudere il quadro, l’appartenenza a una famiglia di industriali del marmo che a Carrara, come molte altre e più potenti famiglie del comprensorio apuano, Lodovici_L'Idiotapartecipavano strategicamente alla vita politica cittadina aderendo all’una e all’altra organizzazione per mantenere inalterata la propria influenza intorno al tema cruciale del possesso degli agri marmiferi. Negli anni di cui ci stiamo occupando, la crisi politico-sociale del dopoguerra aveva infatti accentuato le aspirazioni delle masse popolari e dei cavatori verso la riappropriazione delle cave, anche in seguito alla proposta di legge mineraria presentata alla Camera dall’on. Eugenio Chiesa il 22 marzo del 1920.
A Carrara il sindaco Edgardo Lami Starnuti non seguì la politica del Ministro, anch’esso repubblicano, e la lotta politica per il possesso delle cave passò nelle mani della Camera del Lavoro di cui in quegli anni era segretario Alberto Meschi. Quest’ultimo, in una Lettera aperta a Benito Mussolini individuava negli esponenti delle famiglie proprietarie degli agri marmiferi i sostenitori e gli aderenti allo squadrismo: Ghino Faggioni e Gualtiero Betti fra tutti e poi quelli che ruotano intorno a questo sistema socio-politico: i Corsi, i Giorgi, i Lodovici, gli Ascoli, i Salvini, i Gattini, i Dell’amico, tutti nomi di famiglie già presenti e poi elette nel Direttivo del Partito liberale a partire dal maggio del 1921.

Ritratto di Lodovici

Ritratto di Lodovici

A gennaio di questo stesso anno, anche Renato Ricci era rientrato in città da Fiume e, iscritto inizialmente al fascio di Pisa, dopo aver fondato l’Associazione dei Reduci fiumani, esordisce nella politica locale all’interno della già menzionata Associazione Democratica Liberale Carrarese che si stava organizzando, appunto, in vista delle elezioni politiche indette per il 15 maggio, dopo lo scioglimento della Camera voluto da Giolitti a fine febbraio. Oltre a Ricci, il «Giornale di Carrara» del 9 aprile 1921, organo di stampa del partito, indica nel nuovo consiglio direttivo liberale anche Tommaso Lodovici, fratello maggiore dello scrittore, poi eletto nel Consiglio comunale presieduto dal sindaco repubblicano Lami Starnuti.
Le elezioni politiche passeranno però in secondo piano dopo che lo stesso Ricci, il 12 maggio di quell’anno, fonda a Carrara la sezione locale dei Fasci di combattimento in cui confluiscono sia gli ex-legionari fiumani sia alcuni membri dell’appena rinnovato Partito liberale.
Nei mesi successivi i giornali locali iniziano il racconto degli scontri e delle violenze che da quel momento in poi furono all’ordine del giorno, così come gli atti provocatori e le vendette che lo squadrismo locale organizzò nel territorio apuano contro socialisti e anarchici e, all’inizio dell’anno successivo, all’interno dello stesso movimento fascista provocando la fine dell’alleanza tra liberali e repubblicani e la conseguente caduta dell’amministrazione Lami Starnuti a gennaio del 1922: a questo punto la spaccatura tra squadristi intransigenti e normalizzatori fu insanabile.
Lodovici appartiene chiaramente alla seconda delle due, all’ala moderata del partito come si deduce dai suoi interventi sulle colonne di «Alalà!»: favorevole ai Patti di pacificazione, egli conferma più volte la sua posizione statalista e pubblica accorati appelli alla disciplina in cui chiede con forza la fine della violenza.
La sua fiducia nel capo, anche dopo le dimissioni di Mussolini, non verrà mai meno – almeno in questo periodo – ed egli tenta più volte di riportare all’unità le divergenze interne al movimento, per cui fu uno dei sostenitori della necessità di trasformare il movimento dei Fasci di combattimento in un vero partito politico, cosa che accadrà a Roma il successivo 8 novembre.
L’azione politica del nuovo partito dovrà basarsi, secondo Lodovici, su un programma di rinnovamento civile e sociale a partire dalla questione che, più di ogni altra a Carrara, aveva scatenato gli scontri tra fascisti, socialisti e anarchici: il controllo degli agri marmiferi e il commercio del marmo che non potevano essere separati dal controllo della Camera del Lavoro. Ai primi di settembre, infatti, i fascisti annunciano la costituzione della Camera Carrarese dei Sindacati Economici invitando gli operai ad associarsi e a ritirare le tessere.
Lo scontro allora fu inevitabile: alcuni industriali iniziarono ad esigere la tessera fascista e a licenziare chi, invece, continuava ad avere quella della Camera del Lavoro. Nel mese di settembre la violenza, mai veramente cessata, diventò di nuovo lo strumento principale della politica fascista e fu diretta ancora più apertamente contro i rappresentanti del sindacato.

Lodovici in auto [1923]

Lodovici in auto [1923]

Ad ottobre Renato Ricci concedeva ad Alberto Meschi due ore di tempo per lasciare la città e sgomberare l’edificio in cui aveva sede la Camera del Lavoro.
A questo punto Lodovici pubblica su «Alalà!» ancora un paio di articoli: il 20 settembre partecipa alla manifestazione per la Solenne Consegna del Gagliardetto al Fascio Carrarese di Combattimento e prende la parola con Ricci, Faggioni e Dino Perrone Compagni per ricordare i termini della lotta tra il Sindacato e la Camera del lavoro.
Sarà uno dei suoi ultimi contributi perché l’8 ottobre del 1921 pubblica il suo Congedo in una lettera in cui saluta Renato Ricci, defilandosi così dall’esperienza squadrista e dalla direzione del giornale.
Sul numero successivo, del 15 ottobre 1921, Lodovici non è più indicato come direttore del settimanale, la grafica del periodico è completamente cambiata e l’unico gerente responsabile è di nuovo Lodovico Canepa. Anzi il 29 ottobre, quando Lodovici interviene con un ultimo articolo, una nota della direzione precisa che quell’articolo non impegna alcun fascista a dover condividere tutte le idee esposte.
Nel 1923 Lodovici tentò ancora una volta, ma senza successo, di riconciliare le due correnti del fascismo carrarese quando Ricci si scontrò con il nuovo sindaco di Carrara, Bernardo Pocherra, costringendo alle dimissioni lui e l’ala liberal-conservatrice del partito.
Probabilmente, già a questa altezza cronologica, la fiducia che Lodovici poteva ancora riporre in una possibile svolta liberale del fascismo doveva essere minima e ciò spiega in qualche modo sia la solidarietà e l’amicizia dimostrata a Piero Gobetti sia il suo impegno nella direzione del «Quindicinale», rivista da lui fondata a Milano nel 1926 con Enrico Somarè, che non fu certamente su posizioni filo-fasciste.
È significativa, in questo senso, una lettera da Viareggio del 9 giugno 1923 in cui Lodovici esprime a Gobetti la sua solidarietà: «Ho sentito le sue disavventure; in parola d’onore io non capisco più il mondo – come quel legnaiolo di Hebbel nella Maria Maddalena. Ma: passerà. Io sono convinto che il liberalismo illuminato sarà l’erede del fascismo
Il 19 luglio del 1930 è ancora di Lodovici la firma in calce alla Vibrante e commossa rievocazione dei fatti di Sarzana pubblicata su «Il popolo apuano», organo della federazione provinciale fascista, per commemorare i morti del 21 luglio; ma già nell’autunno del ‘21, quando si congedava da Ricci, Lodovici doveva aver compreso che il liberalismo illuminato sarebbe arrivato probabilmente solo dopo la fine del fascismo.

Le foto pubblicate in questo articolo sono del prof. Gualtiero Magnani di Carrara, che ringraziamo per la gentile concessione. Ogni altro uso, condivisione con terzi e riproduzione non sono consentite.




Una testimonianza sul ruolo degli Arditi del popolo nei «fatti di Sarzana» del luglio 1921

Premessa

La Stampa 22 luglio 1921 i fatti di Sarzana

All’alba del 21 luglio 1921, nella città di Sarzana, all’epoca in provincia di Genova, giunse una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini e Umberto Banchelli, con l’obbiettivo di assaltare la città e recarsi alla Fortezza Firmafede per liberare alcuni fascisti che vi erano incarcerati, fra cui Renato Ricci, il leader del fascio di combattimento carrarese, ritenuti responsabili di efferati atti di violenza e degli omicidi avvenuti nei giorni precedenti. Il prefetto di Genova, per proteggere la città da ulteriori assalti fascisti, aveva ordinato l’invio di un reparto di carabinieri e di militari in città, al comando di Guido Jurgens, i quali fronteggiarono i fascisti, che durante la giornata di scontri persero quattordici uomini, ottenendo infine la liberazione di Ricci grazie solo all’intervento politico del procuratore filofascista di Massa. Ai «fatti di Sarzana» ‒ uno degli eventi principali che segnarono la prima Resistenza armata al fascismo ‒ parteciparono anche un consistente gruppo di arditi del popolo e numerosi contadini del luogo riuniti in un Comitato di difesa.

Nella_città_perduta_Sarzana

Nel 1980 l’uscita del film Nella città perduta di Sarzana girato dal regista Luigi Faccini, che raccontava appunto le vicende relative ai «fatti di Sarzana», avviò un intenso e partecipato dibattito sulle radici del fascismo e dell’antifascismo che coinvolse storici di fama come Renzo De Felice e Paolo Spriano. Il film venne proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia nel 1980, poi a Milano, in seguito in diverse città italiane e anche fuori d’Italia come a Nizza e Villerupt. Al Festival del cinema neorealistico di Avellino (1981), il film ottenne la targa d’argento “Pietro Bianchi” e nell’estate, sempre del 1981, la RAI lo trasmise sul secondo canale nazionale. Anche a Carrara, dove il film venne proiettato, si aprì un serio dibattito testimoniato da vari articoli pubblicati dai quotidiani locali e non poteva essere altrimenti dal momento in cui proprio le squadre fasciste carraresi guidate da Renato Ricci furono tra le protagoniste principali di quell’episodio.

Umberto Marzocchi, classe 1900, originario di Firenze ma all’epoca dei fatti operaio a La Spezia, anarchico e sindacalista, poi fuoruscito in Francia e volontario in Spagna durante la Guerra civile (1936-39) e infine maquis durante la Seconda guerra mondiale, intervenne nel dibattito con una lettera sul ruolo degli arditi del popolo nei «fatti di Sarzana». La lettera, poco conosciuta e citata, crediamo sia una testimonianza preziosa nella ricostruzione di quel episodio e la pubblichiamo, oltre per ricordare la figura di Marzocchi, in occasione proprio del centenario dei «fatti di Sarzana» come contributo per il dibattito e la ricerca storiografica[1].

La testimonianza di uno che c’era[2].

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Ho letto con ritardo i commenti critici al film «Nella città perduta di Sarzana» ed i successivi interventi, direi storici, su «I fatti di Sarzana», tendenti a ristabilire alcune verità in modo chiaro ed inequivocabile, pubblicati nel giornale e, poiché fui uno dei protagonisti di quei fatti, con una cinquantina di Arditi del popolo venuti da La Spezia e rimasti al fianco del sindaco socialista, avvocato Pietro Arnaldi Terzi, a Luigi Luciani, Ugo Boccardi (Ramella), Lucherini ed altri compagni anarchici, socialisti e repubblicani sarzanesi, vorrei contribuire con la mia testimonianza ed i miei ricordi alla necessaria, storica chiarificazione, già in parte compiuta da chi mi ha preceduto.

Se nella realtà si ebbe ragione di criticare il Partito Socialista Italiano per il famoso Patto di Pacificazione, dobbiamo riconoscere che i socialisti di Sarzana ne erano come noi amareggiati e decisi a seguire il sindaco nel suo atteggiamento politicamente onesto che nel film si manifesta con la frase: «Io resto con la mia città». Non si deve però dimenticare che i socialisti (come Giuliani nel film) divenuti dopo il congresso del gennaio 1921 a Livorno, militanti del  Partito comunista italiano, commisero anch’essi un grosso errore nell’accettare la decisione presa dalla direzione del partito ai danni degli «Arditi del Popolo» e quindi della rivolta antifascista del popolo italiano, iniziata con i fatti di Sarzana.

Con l’arrivo a Sarzana, nel tardo pomeriggio del 21 luglio 1921, degli Arditi del Popolo di La Spezia, Carrara ed i paesi intorno a Sarzana, venne organizzata la difesa, dislocando i circa 200 arditi ed un numero maggiore di sarzanesi in blocchi di difesa avanzati verso l’Emilia, verso la Liguria e verso la Toscana. All’interno della città, gruppi di operai e contadini armati vigilavano: sui tetti delle case, sul campanile della chiesa vennero ammucchiati sassi e bombe a mano.

Gli arditi si erano severamente autodisciplinati e furono in parecchie circostanze ragionevoli, rispettosi delle istruzioni che ricevevano da ex ufficiali dell’esercito, un socialista di La Spezia, Vallelonga, e due repubblicani di Sarzana dei quali non ricordo il nome. Lo stesso Trani, ispettore generale di P.S., su cui è incentrato il film di Faccini, nella sua «relazione al ministero dell’Interno», scrive: «… bastò che io sinceramente rassicurassi gli organizzatori e gli esponenti dei partiti estremi di La Spezia e di Sarzana, che bastavano le mie forze a difendere tutti dalla violenza fascista, perché di organizzazioni di Arditi del popolo in armi non si ebbero altre apparizioni». Infatti, onde evitare un conflitto con le forze di polizia che perlustravano le vie cittadine, ci eravamo uniti ai sarzanesi più in vista, raggruppati nei posti di blocco, e ciò risulta anche dagli incartamenti processuali nel processo per l’uccisione di Maiani e Bisagno.

La critica alle presunte atrocità commesse dagli Arditi del popolo richiede una più dettagliata spiegazione, in quanto essi furono estranei a tali eccessi. Solo l’uccisione dei due fascisti spezzini, Maiani e Bisagno, sulla quale venne imbastito un processo, fu attribuita agli Arditi, ma la loro cattura evitò conseguenze peggiori e forse una seconda strage, dopo quella della stazione di Sarzana. La testimonianza dell’ardito del popolo sarzanese Gino Lucherini, raccolta da Franco Ferro in «I fatti di Sarzana» è a questo proposito irreprensibile e ne confermo l’esattezza: «A Sarzana, il mercoledì 21 luglio, al posto di blocco del Ponte sul Magra, venivano fermati i due giovani, e siccome essi non conoscevano la parola d’ordine, furono costretti a tornare indietro. Camminarono da prima disinvolti poi, percorso un centinaio di metri si misero a correre, gettando via qualcosa. Una donna li vide, raccolse ciò che era stato gettato e accortasi che si trattava di due tessere del fascio, diede l’allarme e i due furono ben presto nelle mani degli Arditi del popolo che li interrogarono e li perquisirono accuratamente, trovando nell’interno della giacca di uno dei due giovani, cucito sotto la fodera, un messaggio inviato dai fascisti spezzini a quelli di Carrara, contenente indicazioni precise che avrebbero permesso alle squadre di prendere Sarzana come in una morsa. Il messaggio diceva anche che fra Cerri e Monte Marcelli, e precisamente ad Ameglia, squadre armate erano pronte ad attaccare la città. Il Comitato di difesa decise allora di mandare da quelle parti gruppi di armati: avvenne così il primo scontro nel quale ebbero la peggio i fascisti che furono ricacciati verso La Spezia». Chi ha fatto la Resistenza comprende che cosa si prova in quelle situazioni e la lotta partigiana annovera decine di episodi come questo.

I giornali fascisti e quelli ben pensanti – continua Ferro – subito dopo il 21 luglio, com’era già avvenuto altre volte in simili circostanze, misero in atto la loro tecnica deformatrice della realtà e, poiché la spedizione punitiva c’era stata e di essa i fascisti erano chiaramente i soli responsabili, si diedero a narrare innumerevoli atrocità commesse dai «comunisti» contro le persone degli squadristi che fuggivano attraverso le campagne del sarzanese, e a parlare con insistenza di bande armate che, a cominciare dal 21 luglio avrebbero sparso il terrore nella Lunigiana, mentre i giornali socialisti e quelli anarchici, al contrario si affrettarono a negare tutto ciò. A dire il vero, le atrocità ci furono, ma si trattò di delitti commessi da una popolazione esasperata, perché vissuta per molti mesi sotto una pesante minaccia; delitti che sembrano non potersi attribuire all’organizzazione degli Arditi del popolo, ma piuttosto a gruppi di contadini che, non potendo essere efficacemente protetti dal Comitato di Difesa cittadino, i cui sforzi erano principalmente concentrati in città avevano provveduto ad armarsi autonomamente ed avevano ricevuto armi e munizioni dallo stesso Comitato di Difesa.

Per quanto concerne l’uso dell’aggettivo repubblicano attribuito al Ricci ricordo che il Ricci non fu solo il provocatore fascista ma fu l’ex legionario fiumano accorso con ex interventisti, sindacalisti deambrosiani, futuristi e militanti fascisti al seguito di Gabriele D’Annunzio, per partecipare alla spedizione di Fiume, nel settembre 1920, alla quale nessun militante aderente al Partito Repubblicano tradizionale partecipò. Una parte di quei legionari seguaci di de Ambris auspicò che la Reggenza del Carnaro, retta da D’Annuzio a Fiume, si trasformasse, in odio allo stato liberale e in opposizione agli accordi italo-jugoslavi di Rapallo, in Repubblica del Carnaro. Da qui nacque l’equivoco di legionari repubblicani… improvvisati. E mentre Ricci continuava la sua opera fascista il regime combatteva il Partito Repubblicano Italiano, creato da Giuseppe Mazzini nel 1831-32, fino a sopprimerlo come formazione legale. Bisogna quindi sfatare la leggenda resa per un certo periodo di tempo credibile della Repubblica del Carnaro e dei legionari fiumani repubblicani.

Umberto Marzocchi

[1] La lettera è stata recentemente inserita, insieme ad altri articoli, sul tema nel volume di R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ‘800 e ‘900, Pisa, BFS, 2020, pp. 401-403.
[2] U. Marzocchi, La testimonianza di uno che c’era, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 5 ottobre 1981, p. 21.




Il terribile agosto del 1944 a nord delle Alpi Apuane

Nell’estate del 1944 l’attività partigiana nell’area apuano-lunigianese stava crescendo a ritmi sostenuti. Piccole bande formate da giovani provenienti da Carrara, dalla Lunigiana toscana, dalla Val di Magra e dalla Spezia contendevano il controllo del territorio alle autorità fasciste e ostacolavano i lavori di fortificazione tedeschi lungo la futura Linea Gotica/Linea Verde.

E’ in questo contesto che si colloca l’operato della 16a Panzergrenadier Division “Reichsführer-SS” nell’area apuana durante l’agosto 1944. Analogamente a quanto stava già facendo in Versilia, la divisione comandata dal generale Max Simon s’impegnò infatti a isolare i partigiani e a rendere sicura l’area per i tedeschi colpendo in modo indiscriminato e terroristico la popolazione civile.

Il primo scontro tra SS e partigiani locali avvenne il 24 luglio presso Canova di Aulla, quando due automezzi tedeschi furono attaccati dai partigiani. Per l’uccisione di un militare SS e il ferimento di altri tre furono fucilati quattro uomini e il paese incendiato. Alcuni giorni dopo, il 2 agosto, membri di un battaglione genieri SS di stanza a Fosdinovo furono attaccati dai partigiani della formazione “Ulivi” nei pressi del paese di Marciaso. Non ci furono vittime, ma la sparizione di due militari, datisi alla fuga e ritenuti morti, diede l’avvio a una nuova rappresaglia. Le SS circondarono Marciaso e catturarono decine di uomini, donne e bambini, poi liberati alla ricomparsa dei militari dispersi. L’intero paese fu comunque minato e fatto saltare il 3 agosto e sei anziani che non avevano lasciato le proprie case rimasero uccisi.

Walter Reder

Walter Reder

Lo spaventoso salto di qualità nelle pratiche repressive avvenne però nella seconda metà di agosto: il 17 i partigiani dell’ “Ulivi” si scontrano nuovamente con un reparto di genieri SS a Bardine di S.Terenzo Monti, nel comune di  Fivizzano. Nel combattimento i partigiani subirono alcune perdite, ma ebbero la meglio: 16 militari tedeschi rimasero uccisi e uno gravemente ferito. Nello stesso giorno le SS recuperarono i corpi dei loro commilitoni, incendiarono alcune case e uccisero due anziani coniugi, ma la vera rappresaglia sarebbe avvenuta due giorni dopo.

Il 19 agosto quattro compagnie del battaglione esplorante della 16a divisione SS, sotto il comando del maggiore Walter Reder, si portarono insieme ad altri reparti della stessa grande unità sul luogo dello scontro con i partigiani e vi uccisero 53 uomini rastrellati in Versilia alcuni giorni prima, lasciandone esposti i corpi legati agli alberi e ai pali dei filari delle viti. SS agli ordini di Reder si diressero poi a S.Terenzo Monti, dove uccisero il parroco, e nel vicino podere di Valla, presso il quale catturarono più di cento persone sfollate dalle proprie case per paura della rappresaglia. I prigionieri, in maggioranza donne e bambini, furono uccisi con raffiche di mitragliatrice. Si salvarono solo una donna e sua figlia, fuggite prima del massacro, e una bimba di sette anni che si  finse morta.

Come in Versilia, anche nel territorio apuano la “Reichsführer-SS” aveva ormai oltrepassato i limiti della semplice rappresaglia giungendo a pratiche di sterminio generalizzato di un’intera comunità che richiamavano quelle attuate sul fronte russo. La zona immediatamente a nord delle vette delle Alpi Apuane era stata inoltre identificata dalle SS come un covo di pericolosi “banditi”. Nei giorni successivi il comando della 16a divisione SS pianificò quindi un rastrellamento generale destinato a “ripulire” l’area da partigiani e presunti fiancheggiatori.

Il rastrellamento del 24 agosto (cartina di M.Fiorillo)

Il rastrellamento del 24 agosto (cartina di M.Fiorillo)

Il 24 agosto i rastrellatori circondarono da tutti i lati il basso fivizzanese, mentre il battaglione esplorante SS e reparti della Brigata Nera di Carrara risalivano la valle del torrente Lucido fino alla conca montana di Vinca. L’operazione, diretta dal maggiore Reder, si trasformò presto in un eccidio generalizzato di civili lungo tutto il percorso dei rastrellatori e soprattutto nell’area di Vinca.

Un totale di 171 persone, quasi tutti donne, bambini, anziani, infermi, furono uccisi nei giorni del rastrellamento. I partigiani presenti nell’area, formalmente uniti in un’unica brigata ma incapaci a coordinarsi, non furono in grado di contrastare efficacemente i rastrellatori.

Fino al suo trasferimento in Emilia, verso la metà di settembre, la “Reichsführer-SS” continuò a seminare il terrore nell’area settentrionale delle Apuane, mietendo vittime innocenti sia nel fivizzanese che nel carrarese.

Maurizio Fiorillo, dottore di ricerca presso l’Università di Pisa, collabora con l’Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea; si occupa di storia della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Ha pubblicato saggi su riviste e un volume sulle formazioni partigiane della Lunigiana.




27 aprile 1945: tutta la provincia di Apuania è libera!

“Il comando tedesco ci ha incaricato di rintracciarvi e riaccompagnarvi in città. In caso contrario distruggerà le abitazioni, i viveri; metterà Pontremoli a ferro e a fuoco. Siamo pronti ad accompagnarvi, ad intercedere per voi”. A parlare è il vescovo, mons. Giovanni Sismondo, rivolto a due soldati tedeschi che hanno disertato e sono fuggiti dalla città sulla quale stanno scendendo i partigiani e marciando le truppe alleate. È la sera del 26 aprile: Pontremoli è l’ultimo territorio dell’Italia centrale ad essere ancora occupato. Qui da otto mesi si è trasferito il comando provinciale tedesco assieme a questura e prefettura dopo l’ordine di sfollamento di Massa emanato il 2 settembre 1944 quando la linea del fronte era arrivata a lambire il capoluogo della provincia di Apuania. Ad arrestare l’avanzata delle truppe alleate c’è la Linea Gotica: 300 chilometri fra il mar Tirreno e l’Adriatico. Da quell’estate 1944 che aveva visto la liberazione di quasi tutta l’Italia a sud dell’Appennino, si dovrà attendere ancora a lungo perché anche quell’ultimo ostacolo possa cadere e il nemico essere vinto. Un’estate di eccidi con centinaia di civili trucidati, in prevalenza donne e bambini, facili prede delle incursioni nazifasciste nei paesi dei territori occupati. La strage di Mommio del 5 maggio 1944 era stata la prima e non certo isolata; il fronte non era ancora sulla Linea Gotica, ma i nazifascisti avevano intensificato la loro strategia del terrore. Il 13 giugno a Forno di Massa; il 12 agosto in alta Versilia, a Stazzema, nei giorni successivi nella valle fivizzanese del Bardine poi a Vinca e nei paesi a monte di Carrara. Il 10 settembre in diverse zone di Massa; una settimana dopo a Bergiola Foscalina e sempre il 16 altri morti lungo il Frigido e sepolti nei crateri scavati dalle bombe alleate. Senza dimenticare le vittime di Avenza, Castelpoggio, Gragnola, Tenerano, Regnano…  Poi c’è la lotta quotidiana contro la fame, con il razionamento e le tessere ormai inutili perché cibo non ce n’è, mentre si fanno sempre più fitte le file delle donne lungo la strada della Cisa, del Cerreto o la via Vandelli; un popolo che “emigra” alla ricerca di cibo. Prima si barattano capi di vestiario, pezzi del corredo, infine i pochi oggetti di valore; le donne di Carrara e di Massa imparano a ricavare – di nascosto dalla milizia – il sale dall’acqua di mare per barattarlo con farina al di là delle Apuane. Tra avvicendamenti di reparti e attacchi falliti si arriva al 5 aprile 1945: sono le 5 del mattino ed è quella l’ora dell’offensiva finale per lo sfondamento della Linea Gotica: quel fronte di guerra che da mesi divide le truppe tedesche (sostenute dai militari italiani della RSI) e americane (affiancate dai partigiani) sta per cadere. Nelle ore precedenti, con il favore del buio, reparti della V Armata USA hanno occupato i punti di attacco più favorevoli lungo i canaloni delle Apuane sotto il crinale tra il Monte Carchio e il Monte Folgorito, confine amministrativo tra Montignoso e Seravezza ma soprattutto tra l’Italia libera e quella ancora ferocemente occupata dai nazifascisti. Due versanti di un fronte che tuttavia non è del tutto “impermeabile”: i partigiani riescono a mantenere aperto un passaggio, uno stretto sentiero di montagna, “porta” preziosissima attraverso la quale transitano civili desiderosi di abbandonare la zona di guerra, partigiani e militari alleati in missione. Con l’inizio di gennaio 1945 il passaggio lungo la “via della libertà” è organizzato, gestito dai partigiani del Gruppo Patrioti Apuani: l’attraversamento è più sicuro e sono migliaia le persone che riescono nell’impresa, duemila nel solo mese di febbraio. Un passaggio anche “democratico”: chi può paga in base alle proprie disponibilità; chi non può è accompagnato gratuitamente. Il collegamento è ben noto ai tedeschi che cercano invano di interromperlo; alla fine tentano perfino di raggiungere un accordo: il 20 marzo viene intavolata una trattativa con una delegazione dei “Patrioti Apuani” che però rifiuta ogni compromesso: del resto l’attacco decisivo alla Linea Gotica è ormai questione di giorni. Ed ecco la notte fra il 4 e il 5 aprile: la riuscita dell’operazione non è scontata ed è decisivo il ruolo dei partigiani nella scelta dei sentieri lungo i quali accompagnare i militari alleati nelle posizioni prefissate da dove far scattare l’offensiva. I tedeschi sono colti di sorpresa e in due ore il crinale è conquistato dai Nisei, il reparto di soldati nippo-americani aggregato alla 92.ma divisione “Buffalo”, composta quasi esclusivamente da soldati americani di colore ma comandati da ufficiali bianchi. Grazie al loro coraggio lo sfondamento della Linea Gotica è iniziato, ma vanno sottolineate le fondamentali azioni svolte contro i tedeschi nelle zone a monte di Massa e di Carrara dal “Gruppo dei Patrioti Apuani” di Pietro Del Giudice e dalla Brigata Garibaldi “Gino Menconi” di Alessandro Brucellaria “Memo”. Un attacco finalmente risolutivo dopo alcuni tentativi falliti, come quello della seconda settimana di ottobre ’44 quando i reparti della “Buffalo” avevano lasciato sul campo centinaia di morti o come quello dei primi giorni di febbraio, l’operazione “Fourth Term”, che avrebbe dovuto scardinare il fronte superando il torrente Versilia al Cinquale e il crinale delle Apuane nella zona del Folgorito e che invece si era conclusa con un mezzo disastro nel campo alleato con trecento morti e mille feriti.

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Montignoso 9 aprile 1945: militari della V Armata USA, 370° rgt, entrano nel territorio apuano. (USA National Archives – Washington)

Ma ora la Linea Gotica è alle spalle. In alcune belle immagini i militari l’8 aprile sono in marcia lungo la vallata di Montignoso: il primo territorio della provincia di Apuania ad essere liberato; due giorni dopo tocca a Massa e l’11 aprile i partigiani entrano definitivamente a Carrara facendo prigionieri centinaia di soldati tedeschi che saranno poi consegnati alle autorità americane. È questa la città che si libera due volte: la prima, nel novembre 1944, era stata breve ma fondamentale per comprendere quanto fosse forte e radicato il sentimento antifascista. Ormai tutta l’Italia centrale è in mano alleata: tutta tranne la Lunigiana! L’ultimo atto richiede altri giorni: qui, dove Toscana e Liguria si incontrano c’è un nodo strategico: la via Aurelia piega verso Genova, lasciando alla statale della Cisa l’itinerario in direzione nord. Bisogna fermare la ritirata dei tedeschi senza distruggere le infrastrutture viarie che subito dopo sarebbero servite agli alleati. Il 18 aprile scattano le operazioni, le postazioni tedesche sono neutralizzate e tra il 22 e il 23 aprile la zona è libera. Nella notte del 24 i partigiani di “Giustizia e Libertà” entrano ad Aulla, mentre Fivizzano è libera da un giorno con gli alleati arrivati dalla Garfagnana attraverso il passo dei Carpinelli. Bisogna aspettare ancora fino al 27 aprile perché anche l’ultimo fazzoletto di terra a sud dell’Appennino possa vedere la ritirata dei nazifascisti. Per Pontremoli si prospettano le ore più difficili. Le opere e il lavoro politico quotidiano del vescovo Sismondo fanno sì che il numero delle vittime non sia ancora più grande e che la città non venga distrutta. Ma i timori di azioni disperate del nemico sono forti e aumentano per le ripetute incursioni aeree contro le colonne tedesche e i continui cannoneggiamenti che aprono la strada agli alleati. Infine arriva l’alba del 27 aprile. È carica di nubi, ma la città è libera: da sud entrano le truppe americane, da nord scendono i partigiani delle brigate “Beretta”. Anche gli ultimi tedeschi hanno lasciato l’abitato, facendo saltare alle loro spalle tre ponti stradali ma lasciando intatto quello ferroviario che viene subito riadattato per il transito dei mezzi alleati verso il parmense dove, nella sacca di Fornovo, sta per consumarsi uno degli ultimi sanguinosi atti della seconda guerra mondiale in terra italiana.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2020.