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Il contributo di Edoardo Lombardi alla ricerca storica

Il 4 aprile sarà il trentesimo compleanno di Edoardo Lombardi. Vogliamo ricordarlo come lo abbiamo conosciuto: curioso, pieno di interessi, di ricerche da compiere e da progettare. Per questo motivo, riproponiamo l’articolo “In circostanze mai chiarite”, da lui pubblicato su TN il 29 Agosto 2022, con l’introduzione di Luca Cappellini. 

Introduzione (di Luca Cappellini)

Quando si è palesata l’opportunità di introdurre il lavoro di ricerca di Edoardo Lombardi su Toscana Novecento mi sono immediatamente proposto per svolgere questo compito. Edoardo era un caro amico prima che uno stimatissimo collega, e un grande esempio di acume, intraprendenza e competenza. Il compito che mi viene qui richiesto risulta perciò particolarmente semplice, poiché la passione e il lavoro di Edoardo sono da sempre stati assolutamente evidenti, e sebbene riassumere in poche righe ciò che per lui era un minuzioso lavoro quotidiano sia sempre in qualche misura opera indegna, in questo caso evidenziarne i notevoli pregi scientifici è davvero stato semplice e gratificante.
Come ricercatore Edoardo ha continuato a coltivare la sua prima grande passione, maturata durante gli anni universitari, ovvero gli studi germanici. In particolare la sua attenzione era andata progressivamente soffermandosi sulla DDR (Deutsche Demokratische Republik), la cui breve ma densa storia nazionale, a cavallo tra la fine del secondo conflitto mondiale e i prodromi della Guerra Fredda, ha costituito il fulcro della sua tesi di laurea magistrale, poi subito rimodellata per diventare la prima pubblicazione di Edoardo: Uno stato senza nazione: l’elaborazione del passato nella Germania comunista (1945-1953). In questa monografia egli affronta la spinosa questione della creazione ad hoc della storia e della memoria storica nella Germania Est: tramite numerosi fonti primarie – in special modo lo studio di quotidiani come «Neues Deutschland», – e una nutrita bibliografia, Edoardo ricostruisce minuziosamente il difficile tentativo del regime comunista tedesco di forgiare a tavolino un’identità pubblica sincretica.
Accanto alla sua longeva passione per la storia tedesca, Edoardo aveva sviluppato e tradotto nel campo della ricerca storica un altro suo interesse di lungo corso (per altro condiviso col sottoscritto): il gioco di ruolo e i videogiochi. Al culmine di una serie di riflessioni e collaborazioni con AIPH – Associazione italiana di Public History, Edoardo ha curato insieme ad Igor Pizzirusso un numero della rivista «Farestoria» dell’IsrPt: “E’ in gioco la storia. Giocare il passato nel tempo presente”. Il pionieristico obiettivo era quello di portare al centro della discussione della rivista uno dei temi principali nella public history, ovvero la divulgazione storica attraverso il medium ludico.

In ultimo, ma non per importanza, Edoardo aveva approfondito anche temi fondamentali della Resistenza in Toscana, in particolare alcune controversie sulla morte di Silvano Fedi. Dopo un attento studio sui documenti militari negli archivi tedeschi di Friburgo, Edoardo aveva infine proposto le sue tesi nell’articolo “In circostanze mai chiarite”, offrendo nuovi importanti stimoli di riflessione sul tema.

 

Edoardo Lombardi – “In circostanze mai chiarite” – I documenti tedeschi e nuovi appunti sull’uccisione di Silvano Fedi 

Silvano Fedi è con ogni probabilità il partigiano più noto e discusso dalla letteratura storica locale, nonché uno dei personaggi di maggiore spicco nella memoria collettiva della città di Pistoia. Il suo riconoscimento pubblico si ebbe nell’immediato dopoguerra, prima con il conferimento della medaglia d’Argento al Valor Militare, poi con l’intitolazione di un istituto scolastico, di un’associazione sportiva, infine di una piscina e di un corso centrale. Negli ultimi anni, un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea. La storia di Silvano Fedi) hanno raccontato i suoi ultimi mesi di vita e il suo impegno nella Liberazione. A poca distanza, il riconoscimento del titolo di cittadino illustre, disposto dal consiglio comunale di Pistoia nel 2020, e la recente costruzione di una tomba monumentale (2022) hanno riacceso l’interesse generale per sua persona.

Allo stesso tempo, attorno a Silvano Fedi si è sedimentata una sorta di aura mitica, alla quale ha contribuito la ricostruzione storica e memoriale basata sulle circostanze «mai chiarite» della sua uccisione. Queste ultime, ad oggi, possono essere riassunte come segue: più o meno alle 14:00 del 29 luglio 1944, in località Montechiaro (tra Serravalle e Pistoia) le Squadre “Franche” comandate da Fedi furono coinvolte in uno scontro a fuoco da ingenti forze del Pionier-Bataillon 60, un reparto del Genio che dipendeva dal vicino comando del 14. Panzerkorps (localizzato nei pressi di Marliana). I tedeschi uccisero Fedi e altri due membri dello Stato maggiore delle Squadre, uno dei quali venne fatto prigioniero e giustiziato in un secondo momento. Da qui in poi hanno inizio i problemi.

Per molti tra i partigiani e i civili testimoni di quei fatti e gli studiosi che si interessarono alla vicenda nel dopoguerra, quello tra le unità di Silvano Fedi e i tedeschi non fu un incontro casuale, bensì frutto di una delazione; nacque così la teoria di un vero e proprio «agguato», congegnato ai danni della formazione partigiana e del suo comandante. L’idea di una “soffiata” ai danni di Fedi è stata, a un tempo, attribuita a un gruppo di ladri che si erano finti membri della sua formazione oppure, secondo un’altra ipotesi, a «persone che contavano, probabilmente interne alla stessa Resistenza [pistoiese]», che avevano creduto di potersi sbarazzare di «un personaggio scomodo [e] protagonista indiscusso della lotta partigiana». La letteratura storica pistoiese ha avallato ognuna di queste possibili teorie nel corso degli anni e con esse le numerose – e spesso non contestualizzate coi metodi propri della storia orale – testimonianze oculari di chi era presente il giorno in cui Fedi veniva ucciso dai tedeschi. I rapporti che egli aveva intrattenuto con una figura di grande ambiguità come Licio Gelli, il cui peso nella storia italiana successiva ha contribuito a far crescere l’alone di mistero, hanno fatto il resto. Le numerose ipotesi e la relativa sovrapproduzione di materiale secondario hanno così finito col precludere una qualsiasi ricostruzione efficace e scientificamente corretta dell’uccisione del partigiano pistoiese.

Una lacuna particolarmente sensibile in questo quadro generale è quella della documentazione tedesca, che fino a ora è stata utilizzata in modo molto scarno o approssimativo. Un modo per rimettere “in ordine” l’intera vicenda potrebbe essere proprio quello di ripensare l’attacco tedesco a Montechiaro prendendo in esame uno spettro più ampio di fonti e provando a ricostruire i fatti dall’inizio, tenendo come punti fermi genealogia e contesto degli eventi. La domanda iniziale e centrale che ci dobbiamo porre è la seguente: può una delazione essere l’unica ragione logica in grado di spiegare la presenza di un battaglione tedesco a Montechiaro il 29 luglio 1944?

Il 25 luglio la formazione di Fedi aveva iniziato lo spostamento delle Squadre Franche verso il Montalbano per compiere azioni di disturbo e sabotaggio contro le truppe che si stavano ritirando sotto la pressione alleata. Il piano era stato concordato il giorno precedente nel corso di un incontro con esponenti del CLN locale, in particolar modo del Partito comunista italiano e del Partito d’Azione. Dunque le premesse sono quelle di una operazione di guerriglia contro l’occupante, in linea con quanto stava accadendo nelle «aree vicine al fronte», dove i tedeschi avevano notato un incremento sensibile dell’attività partigiana. Questa situazione, nel corso dell’estate, aveva già spinto i comandi militari a dare il via a tre grosse operazioni «contro le bande» (nomi in codice «Wallenstein») sull’Appennino tra la Garfagnana e il Modenese e ad intensificare la pressione sulle retrovie con tutti i reparti della Wehrmacht e della polizia disponibili. La prima ipotesi che sembra logico prendere in considerazione è perciò quella di un rastrellamento preventivo, i presupposti per il quale, anche con l’utilizzo di numeri non indifferenti di uomini da parte dei Comandi superiori, ci sarebbero tutti: il fronte arretrava rapidamente e l’attività partigiana nei pressi della Linea Gotica stava aumentando; c’è poi da tenere conto del dilagare della cosiddetta «psicosi delle bande», che da sola stava mettendo in seria difficoltà i nervi delle truppe tedesche, ossessionate e convinte che «alle [loro] spalle ci fosse un esercito partigiano» e di essere costantemente «in trappola. Come a Stalingrado». A questo proposito, va però aggiunto che la lotta antipartigiana in Italia può essere solo parzialmente ricondotta a un fenomeno di isteria da parte nei confronti della Resistenza in armi. La «psicosi delle bande» è uno dei tanti fattori che possono contribuire a contestualizzare la vicenda e, nel nostro caso, non è comunque l’elemento predominante.

La ricerca sulle mappe del fondo «RH 2-KART/OKH» del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo ha finora portato alla luce un solo nuovo elemento, ancorché molto significativo. A fine luglio, un’intera divisione meccanizzata tedesca (la 90. Panzer-Grenadier-Division) aveva ricevuto l’ordine di trasferirsi dal fronte alle retrovie, per l’esattezza nei pressi di Modena. L’intero reparto raggiunse la Valdinievole proprio la mattina del 29 luglio 1944, per poi attraversare il Serravalle e cominciare risalire l’Appennino nelle ore successive. Al momento non è possibile stabilire se qualche reparto della divisione abbia partecipato o meno ai combattimenti di Montechiaro, ma la sua presenza servirebbe a spiegare una maggiore attenzione dei comandi militari per le aree limitrofe.

Va poi preso in esame un altro dettaglio, forse tra i più esacerbati da parte delle ricostruzioni sull’uccisione di Fedi proposte finora. Nel dopoguerra, in molte delle testimonianze rilasciate dagli ex-partigiani pistoiesi si può riscontrare un certo accordo sul fatto che quella dei tedeschi fosse stata un’imboscata preparata in modo tale da colpire il nucleo delle Squadre. Questa osservazione però non è mai stata vagliata criticamente, sebbene ci sia tanto da dire su di essa, a partire dal fatto che chiunque venga colto di sorpresa in un conflitto a fuoco abbia quasi sempre la percezione di essere stato messo in trappola. Né si è tentato di elaborare ulteriormente uno dei bollettini dell’Armeeoberkommando 14, già noto, nel quale si legge che il 29 luglio furono le truppe tedesche a subire un attacco dai partigiani e non il contrario. Cosa non difficile da credere, se si pensa che nelle relazioni delle Squadre Franche si fa menzione di un altro conflitto a fuoco, avvenuto quella stessa mattina e che ebbe come protagonista una delle pattuglie poste da Fedi a copertura del centro della formazione. Il comandante partigiano non era stato messo a conoscenza di questa prima schermaglia, ma se assumiamo che questo scontro abbia effettivamente avuto luogo (fatto del quale ci danno conferma sia la relazione delle Squadre Franche che i documenti tedeschi), ciò potrebbe anche suggerire un’altra spiegazione ai fatti di quel giorno. In breve, l’incontro tra i pionieri e la formazione partigiana potrebbe essere avvenuto a seguito della battaglia mattutina, la quale avrebbe poi spinto le unità del Pi. Batl. 60 a indagare più a fondo nelle zone a sud di Pistoia. Un altro dettaglio a questo proposito è costituito dalle operazioni alle quali era stata originariamente destinata l’unità responsabile dell’uccisione di Fedi: il 29 luglio 1944, infatti, i pionieri del 14. Panzerkorps dovevano minare un tunnel ferroviario nei pressi di Serravalle insieme a una unità del Genio ferroviario, la Eisenbahn-Pionier-Kompanie 84. In questo documento non si parla né di rastrellare una precisa area, né tantomeno di dare la caccia a una specifica squadra partigiana, il che alimenta l’ipotesi (pur senza confermarla) di un incontro avvenuto per caso o a seguito di un attacco della pattuglia di Fedi a una delle due formazioni nemiche (se non a entrambe).

Le testimonianze di chi era presente quel giorno a Montechiaro concordano poi su un altro dettaglio, ovvero che i tedeschi sapessero «senz’altro dove andare» e che quindi avessero puntato direttamente sul luogo dove si trovava il grosso della formazione partigiana. Tuttavia, anche questo racconto dovrebbe essere analizzato in maniera più critica alla luce di due considerazioni: la prima è che le truppe di occupazione, soprattutto i reparti del Genio, conoscevano e avevano cartografato la zona periferica di Pistoia da circa un anno (lo stesso Pionier-Bataillon 60 era già stato di stanza a Pistoia nell’autunno del 1943, alle dipendenze della 44. Infanterie-Division); in secondo luogo, non si è mai presa in esame la possibilità che la zona tra Vinacciano e Serravalle potesse avere una qualche importanza strategica per i tedeschi. A questo proposito, vale la pena ricordare la presenza della tratta ferroviaria che da Pistoia conduce ancora oggi a Montecatini e il fatto che le medesime unità della Eisenbahn-Pi. Kp. 84 avevano sondato più volte quell’area nei mesi di giugno e luglio. Quello che è certo, dunque, è che nell’estate del 1944 quella zona possedeva ancora una grande importanza per le forze armate dell’occupante.

Alcuni appunti finali. Il giorno successivo all’uccisione di Fedi, il 30 luglio 1944, il Pionier-Bataillon 60 venne inviato a rastrellare tutto il territorio compreso tra Vinacciano e la zona a sud di Prato. Il risultato complessivo di questa azione fu di settanta uomini catturati, tra i quali «otto noti capibanda» e, nel solo Pratese, di 146 persone. Al momento non è dato sapere se questo tipo di operazione fosse o meno una risposta ai fatti di Montechiaro e, più precisamente, al rinvenimento dei famosi «documenti importanti» sul corpo di Silvano Fedi. Tuttavia, come si è avuto modo di leggere, l’utilizzo di un ventaglio più largo di fonti fa già assumere alle «circostanze mai chiarite» un significato diverso: unite alle testimonianze orali del periodo, che dovranno essere esaminate di nuovo e con criteri diversi, e alla letteratura che finora è stata prodotta su Fedi e sulle sue Squadre Franche, le carte tedesche possono apportare un contributo nuovo e determinante alla ricostruzione di un quadro storicamente corretto delle vicende del 29 luglio 1944.

Note: Sono stati consultati i seguenti fondi: Aisrpt, Fondo Relazioni, Relazione delle Squadre Franche a carattere patriottico, Gruppo “Silvano”; Aisrt, microfilm (US-NARA) T-312, Roll 491, f. 8.084.451, Armeeoberkommando 14, Pi. Tagesmeldungen 1 Jul.-30 Sep. 1944; BA-MA, RH 2/663, fo. 0128, Oberbefehlschaber Südwest, bollettini mattinali dell’Ufficio operazioni Ia e bollettini dell’Ufficio informazioni Ic, giugno 1944; BA-MA, RH 2/9693 K, Morgenmeldungen, Lagerkarte (mappa) del 29 luglio 1944; BA-MA, RH 24-14/153: Armee-Pionierführer (A.Pi.Fü.). Pionier-Tagesmeldungen, messaggi e bollettini delle truppe del Genio, 1° luglio-30 settembre 1944.

Edoardo Lombardi (1994-2023) è stato dottore magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2018 ha collaborato con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia (Isrpt), per il quale ha svolto attività di ricerca e di didattica sul territorio. Nel 2020 è entrato a far parte della redazione del periodico dell’istituto, «Farestoria. Società e storia pubblica». I suoi interessi di studio hanno riguardato soprattutto la storia culturale della Germania e dell’Italia in Età contemporanea. Per conto dell’Isrpt ha svolto una ricerca sull’occupazione tedesca di Pistoia. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Uno stato senza nazione. L’elaborazione del passato nella Germania comunista” (Unicopli, 2022). 

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo “Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).




Passi di storia

«Passi di Storia. Luoghi di memorie del ‘900» è un progetto promosso dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Pistoia e finanziato dalla Regione Toscana nell’ambito di un bando finalizzato a promuovere la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, politico e culturale dell’antifascismo e della Resistenza in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione della Toscana.
Il progetto intende fornire una mappa digitale il più possibile precisa di percorsi strutturati attorno mete legate al patrimonio storico e memoriale della Resistenza e della Seconda Guerra Mondiale nella Provincia di Pistoia. Lo scopo ultimo di Passi di Storia è di connettere luoghi e storie al fine di promuovere la diffusione e la divulgazione della Storia contemporanea attraverso un’esplorazione critica del territorio. I primi due itinerari che abbiamo scelto di realizzare riguardano le vicende del partigiano pistoiese Silvano Fedi e dell’eccidio nazifascista del Padule di Fucecchio, che abbiamo ritenuto significati per il peso che hanno nella memoria e nella storia locale.
Nella fase di ricerca è stato raccolto e studiato il materiale bibliografico disponibile; per ogni percorso abbiamo poi individuato alcune tappe caratterizzate dalla presenza di monumenti, cippi, lapidi, ed edifici di interesse storico e memoriale. Per ogni luogo sono state raccolte le coordinate GPS ed è stato realizzato un archivio fotografico; si è quindi proceduto alla compilazione di una scheda descrittiva che riporta geolocalizzazione, il comune di appartenenza, i riferimenti cronologici, una breve descrizione introduttiva e una più approfondita in cui si illustrano le peculiarità del luogo e si contestualizza l’evento specifico all’interno del percorso. Contestualmente è stata realizzata una scheda che fornisce un quadro generale delle caratteristiche dell’itinerario.
In seguito è stato dato incarico ad un professionista la creazione di un portale web dedicato, sul quale sono state caricate le schede. Sono stati poi acquistati e stampati dei pannelli con un QR-code che rimanda alla scheda descrittiva del singolo luogo sul sito www.passidistoria.it. Una volta ottenuti i permessi dalle amministrazioni pubbliche e dai proprietari privati, si è infine provveduto all’installazione in loco dei pannelli. Per quanto riguarda il sito, esso presenta le schede generali dei percorsi tematici (“L’eccidio del Padule di Fucecchio: dalla tragedia al ricordo”, “Silvano Fedi, luoghi e storia di un partigiano”) corredate da una mappa, sulla quale è possibile visualizzare le varie tappe, e da immagini d’epoca e attuali. Dalla scheda generale è possibile accedere alle pagine dedicate alle singole soste del percorso. I due percorsi si configurano come itinerari percorribili interamente in macchina e in alcuni tratti anche a piedi, a seconda della distanza, dell’interesse storico-paesaggistico e della sicurezza per i pedoni.
Il percorso “Silvano Fedi, luoghi e storia di un partigiano” segue i passi dell’omonimo partigiano pistoiese, morto a 24 anni in combattimento contro i tedeschi vicino Vinacciano (Serravalle Pistoiese) il 29 luglio 1944. L’itinerario, che si snoda tra i comuni di Pistoia, Serravalle Pistoiese, Larciano e Lamporecchio, consente di ripercorrere le vicende biografiche del celebre partigiano e di coglierne il lascito nella memoria storica pistoiese. In questo senso il percorso intreccia la storia personale del comandante delle Squadre Franche Libertarie con quella della Resistenza pistoiese nel suo complesso, connettendo luoghi veramente attraversati da Silvano Fedi con altri che simbolicamente ne
condensano il retaggio attraverso monumenti, cippi e targhe.
L’eccidio del Padule di Fucecchio ebbe luogo il 23 agosto del 1944 a opera di elementi della XXVI divisione corazzata della Wermacht, nel contesto della “ritirata aggressiva” e della strategia terroristica adottata dalle forze di occupazione ai danni della popolazione civile nelle aree prossime al fronte durante ultimi mesi del 1944. Restarono uccise 174 persone nei pressi e all’interno della palude: si trattava per lo più di donne, bambini e anziani. Il percorso tocca alcune delle località teatro delle violenze ed altre che, a partire dal secondo dopoguerra, sono state destinate al ricordo e alla commemorazione delle vittime. Sono interessati cinque comuni della Valdinievole fra le province di Pistoia e Firenze. In molte località, come abbiamo cercato di esplicitare nelle schede, l’interesse per la vicenda dell’eccidio si interseca con quello per la storia precedente e successiva di un territorio le cui peculiarità morfologiche, paesaggistiche e naturalistiche ne fanno un unicum nel contesto nazionale ed internazionale.

«Passi di Storia» è quindi uno strumento di educazione alla cittadinanza e al patrimonio, a disposizione delle scuole e delle organizzazioni della società civile, finalizzato a incrementare lo sviluppo di iniziative didattiche e turistiche. Il portale, in continuo aggiornamento, potrà anche essere implementato per ospitare nuovi percorsi.

Emilio Bartolini è dottore in scienze storiche. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età
Contemporanea in Provincia di Pistoia nella gestione della biblioteca dell’ente e in attività e progetti
inerenti la didattica e la divulgazione storica. Il suo principale interesse di ricerca è la storia ambientale in
età contemporanea.

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).

Emanuele Vannucci è laureando in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Firenze. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età Contemporanea in provincia di Pistoia in progetti inerenti la didattica, la ricerca e la divulgazione storica e l’archivio audiovisivo. I suoi interessi di studio sono legati alla Resistenza, l’Antifascismo e la Seconda Guerra Mondiale.




Rivendicazione di diritti negati

Sono numerose le motivazioni per cui, in epoca contemporanea, si è perpetrata a lungo la posizione subordinata delle donne rispetto agli uomini, che ha comportato la loro esclusione dalla sfera pubblica e ha accentuato la divisione dei sessi a livello lavorativo. In Italia, le cose iniziarono a mutare, soprattutto a livello legislativo, dopo il 1945, nonostante già precedentemente ci fossero stati scioperi e manifestazioni che avevano avuto come protagonista la compagine femminile.

Durante la Seconda guerra mondiale, come già era accaduto nel conflitto precedente, le donne occuparono posizioni lavorative e sociali dalle quali erano state fino a quel momento escluse. Con il crollo del regime fascista e il ritorno definitivo degli uomini dal fronte, si iniziò a riflettere su come accorciare la distanza lavorativa, sociale e culturale che separava donne e uomini. Nonostante non si ripropose l’aggressività che aveva caratterizzato il primo dopoguerra, in un primo momento l’atteggiamento dei sindacati e dei partiti non sembrò mutare rispetto ai primi decenni del secolo: le rivendicazioni riguardanti il diritto al lavoro femminile e la parità salariale sembravano non rientrare nell’agenda politica comunista, molto più interessata ai problemi di disoccupazione operaia maschile.

A livello legislativo furono sicuramente fondamentali il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 (10 febbraio 1946) – che riconosceva anche alle donne il diritto di voto rendendole cittadine a tutti gli effetti – e l’approvazione della legge n. 860 del 26 agosto 1950, sulla «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri», proposta da Teresa Noce (Pci) e sostenuta da Maria Federici (Dc).

Per quanto riguarda l’attività dei sindacati e delle organizzazioni femministe e democratiche, un momento di svolta fu rappresentato dalla Conferenza Nazionale della donna lavoratrice (Firenze, 23-24 gennaio 1954) patrocinata dalla Cgil e di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario. In tale occasione si affrontarono le questioni considerate più urgenti e che la Costituzione italiana avrebbe dovuto garantire: il raggiungimento della parità salariale; il diritto al lavoro; la tutela della salute e della maternità; il rispetto della libertà nei luoghi di lavoro; l’attuazione di una legislazione che difendesse le categorie più sfruttate.

A gettare le basi per la Conferenza furono due distinti momenti nel 1952: il primo risalente all’aprile, quando su «Le nostre lotte» venne pubblicato un resoconto di quanto emerso il 25 marzo durante la riunione a Roma della Commissione Femminile Nazionale della Cgil. In quell’occasione si iniziò a riflettere sull’importanza di un’azione concreta, svolta attraverso riunioni e assemblee, per discutere delle problematiche che interessavano le lavoratrici. Dai momenti di confronto, sarebbero dovute scaturire «proposte, rivendicazioni, richieste concrete e precise che, raccolte in quaderni» sarebbero state studiate e analizzate, rappresentando la base per la loro realizzazione. La C.F. riteneva che per garantirsi l’appoggio dell’opinione pubblica sui diritti delle lavoratrici, fosse fondamentale il contributo dei comitati cittadini, delle organizzazioni sindacali e delle singole personalità che «con iniziative e attività, ciascuna nell’ambito che le è proprio, contribuisca alla liberazione delle lavoratrici dalla schiavitù e dall’oppressione ed al raggiungimento della loro completa emancipazione». Quanto emerso sarebbe poi culminato in una conferenza nazionale.

Il secondo momento in cui si parlò di una possibile conferenza nazionale fu durante il III Congresso Nazionale della Cgil (Napoli, 26 novembre-3 dicembre 1952), durante il quale si chiese al sindacato di patrocinare una conferenza di tutte le associazioni e gruppi femminili nazionali, che avrebbe portato all’elaborazione della «Carta dei Diritti» per un miglioramento della situazione non solo lavorativa, ma anche abitativa e sociale delle donne italiane.

I lavori di preparazione dell’evento iniziarono molto presto, intensificandosi a inizio autunno 1953. La Commissione di coordinamento e di direzione spronò il coinvolgimento alla mobilitazione delle lavoratrici iscritte alla Cisl e alla Uil, ma anche di coloro non sindacalizzate. Furono invitate a prendere parte all’iniziativa anche tutte le associazioni interessate ai diritti delle donne, tra cui l’Unione delle donne in Italia (Udi), che aveva organizzato a Roma, tra il 10 e il 12 aprile 1953, il Congresso della Donna Italiana. Nonostante si trattò di un evento distinto da quello patrocinato dalla Cgil, permise di iniziare a parlare di temi che sarebbero stati approfonditi durante la Conferenza fiorentina. La Commissione di coordinamento invitò, inoltre, le segreterie delle Camere Confederali del lavoro e le federazione a organizzare assemblee preparatorie e diede le indicazioni per l’elezione delle delegate che avrebbero presenziato a Firenze, scelte durante le assemblee aziendali o interaziendali.

Durante le assemblee provinciali avrebbero preso la parola le lavoratrici del territorio per portare le testimonianze delle condizioni nelle quali si trovavano, così da creare delle Carte rivendicative, attraverso cui avanzare le proprie richieste. Esse avrebbero dovuto indicare una serie di informazioni: tipo e numero di riunioni realizzate in preparazione della Conferenza provinciale e di quella nazionale; numero di partecipanti; azioni rivendicative già intraprese ed eventuali risultati raggiunti. La documentazione prodotta sarebbe stata poi raccolta in ‘album’ con anche materiali fotografici: oltre alle immagini che ritraevano le lavoratrici durante lo svolgimento delle assemblee, si chiedeva di inserire anche quelle che potessero testimoniare le loro condizioni di vita e di lavoro.

Molti risultati positivi dati dall’impegno alla preparazione della Conferenza si ebbero anche dalle attività svolte da alcune federazioni di categoria, tra cui la Federmezzadri, che riuscì ad organizzare un’Assise nazionale e che nella provincia di Firenze promosse la «Giornata della ragazza mezzadra», per dare rilievo anche alle condizioni in cui si trovavano le più giovani.

Per quel che riguarda l’organizzazione della Conferenza, in un primo momento Renato Bitossi sperò che la manifestazione si potesse svolgere al Teatro della Pergola, in quanto sede adatta ad accogliere le numerose persone in arrivo da tutta Italia, ma Eugenio Saccenti, a causa della programmazione del Teatro, non riuscì a soddisfare tale richiesta. Gli organizzatori decisero così di svolgere la prima giornata all’interno dei locali del Parterre, dove sorgeva anche il Palazzo delle Esposizioni, in Piazza della Libertà, mentre il discorso conclusivo di Giuseppe Di Vittorio – segretario generale della Cgil – del 24 gennaio si tenne al Teatro Apollo (già Cinema Rex e oggi Mercure Hotel).

La Conferenza si aprì con i saluti di Elsa Massai – responsabile della C.F. della Camera Confederale del Lavoro di Firenze – che sottolineò come «la emancipazione della donna, il rispetto e le affermazioni dei diritti delle lavoratrici sono elementi indispensabili per l’avvento di quella società giusta, civile, progredita, per cui oggi ci battiamo». Dopo di lei, Fernando Santi dichiarò che la Conferenza non era importante solo per le donne italiane, ma anche per il mondo del lavoro nella sua globalità. Egli evidenziò il carattere unitario e democratico della Conferenza, poiché a presenziare erano delegate di provenienza diversa con lo scopo di lottare per cancellare l’inuguaglianza e per realizzare la giustizia sociale. A portare i loro saluti ci furono inoltre le operaie licenziate dalla Magona di Piombino, che, attraverso i lavori della Conferenza, speravano di riappropriarsi del diritto al lavoro del quale erano state private.

Durante la prima giornata dell’evento, presero la parola anche esponenti arrivate dall’estero, a prova del fatto che la manifestazione fiorentina aveva l’attenzione internazionale. Mary Wolfard, a nome della Federazione sindacale mondiale, riconobbe nella lotta delle lavoratrici italiane quella di «tutte le donne di tutti i Paesi capitalistici e coloniali ed anche quella della Federazione Sindacale Mondiale». Allo stesso modo, Germaine Guillé – delegata della Confederazione Generale del Lavoro Francese – sottolineò come a muovere le lotte delle donne italiane e francesi ci fossero dei motivi e delle esperienze comuni.

Uno dei temi più dibattuti riguardò la parità salariale. Nella sua relazione, Rina Picolato – al vertice della Commissione Femminile Nazionale – sottolineò che l’accorciamento delle distanze tra la retribuzione maschile e quella femminile rappresentava un miglioramento per tutti e non solo per le donne, dal momento che «le basse retribuzioni del lavoro femminile sono spesso sfruttate come elemento di freno al miglioramento delle stesse retribuzioni maschili, al progredire di tutto lo schieramento del lavoro verso un migliore tenore di vita». Direttamente collegato alla questione economica, vi erano anche lo sfruttamento massiccio e i soprusi padronali ai quali venivano sottoposte le lavoratrici, di cui parlò nel suo intervento Gina Casetti – segretaria della C.I. della Pirelli di Torino.

Queste, insieme ad altre questioni portate in auge dagli interventi delle relatrici, sarebbero state affrontate ulteriormente attraverso un’inchiesta popolare – promossa durante la Conferenza – all’interno dei luoghi di lavoro. A intervenire e a portare la loro testimonianza furono operaie, braccianti agricole, impiegate, professoresse, delegate di associazioni di categoria e delle Camere del Lavoro provenienti da tutta la Penisola, a dimostrazione del fatto che la manifestazione fiorentina riuscì ad avere una larga risonanza nazionale. Gli interventi diedero prova delle situazioni difficili condivise da gran parte delle lavoratrici, anche se appartenenti a luoghi e contesti diversi.

Attraverso il discorso di chiusura, Giuseppe Di Vittorio evidenziò come le donne avessero acquisito, anche grazie al lavoro di preparazione della Conferenza, «una chiara coscienza che l’inferiorità cui le condanna la società, lo sfruttamento supplementare cui le sottopongono i signori agrari ed industriali, non sono cose inevitabili come si è voluto far credere e come qualcuno tenta di far credere ancora oggi». Egli denunciò il fatto che nonostante la Costituzione democratica italiana sancisse i principi di uguaglianza civile, economica e morale della donna rispetto all’uomo, ancora troppo spesso essi non venivano applicati: non solo a livello di remunerazione economica, ma anche per quel che riguardava la garanzia di igiene, sicurezza e protezione della lavoratrice. Per combattere contro le condizioni nelle quali si trovavano moltissime lavoratrici e per concretizzare le iniziative promosse dalla Conferenza, era necessario che le commissioni femminili sindacali si unissero alle altre organizzazioni democratiche che avevano a cuore queste questioni.

Alla luce delle carte rivendicative compilate durante le assemblee preparatorie e di quanto emerso durante la manifestazione fiorentina, venne emanata la Carta dei diritti della lavoratrice. Attraverso di essa, si chiedeva che «i principi sanciti dalla Costituzione – conquistata anche per il generoso contributo delle donne alle Lotte di Liberazione Nazionale – siano tradotti in operante realtà», tra questi il diritto al lavoro e l’accesso a tutte le carriere e professioni; retribuzione uguale per uguale lavoro; la protezione per la salute; la tutela per la maternità; il rispetto dei contratti di lavoro; il rispetto della personalità umana e delle libertà anche all’interno delle aziende. Con la Carta vennero inoltre promosse «La settimana dei diritti delle lavoratrici» (1°-8 marzo) e la già citata inchiesta popolare sulla situazione all’interno dei luoghi di lavoro.

La Conferenza ha rappresentato dunque un momento fondamentale di riflessione, aprendo un dialogo e un confronto a livello nazionale: nonostante fu necessario qualche anno per raggiungere risultati importanti, si ambiva a una «Patria democratica e indipendente, giusta e umana, per tutti i suoi figli».

Queste e altre questioni saranno i temi principali della mostra in occasione del 70° anniversario della Conferenza, che verrà inaugurata nella prima settimana di marzo 2024 presso il Complesso monumentale delle Murate di Firenze. Promossa dalla Cgil nazionale e Toscana e dallo SPI nazionale e toscano, in collaborazione con la Fondazione Valore Lavoro e l’Archivio storico nazionale della CGIL, e patrocinata dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana, sarà un’occasione per riflettere su quanta strada si è fatta finora e quanta ne resta da fare per il raggiungimento della piena parità tra donne e uomini.

Martina Lopa si è laureata in Scienzie Storiche all’Università degli Studi di Firenze, con una tesi sul ruolo avuto dalle donne nelle prime associazioni per la protezione degli animali, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




Bandiere sovietiche, ritratti di Lenin e altri cimeli

Nell’ottobre 2023 si è avviato alla sua conclusione il progetto di ricerca promosso dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia “L’identità comunista: il PCI in Toscana e il mito dell’URSS”. Il progetto, realizzato grazie al contributo della “Presidenza del Consiglio dei Ministri. Struttura di Missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni”, ha inteso analizzare e documentare il radicamento del mito sovietico entro il Partito Comunista Italiano in Toscana, dalla data della sua fondazione fino al suo scioglimento. Il libro fotografico Il mito sovietico nel PCI in Toscana, edito
da ISRPT Editore, è il frutto tangibile del suddetto lavoro di ricerca: a cura di Andrea Borelli, il volume riunisce documenti, articoli e foto che richiamano, per l’appunto, quel mito sovietico di cui il PCI e i suoi militanti toscani erano imbevuti, a testimonianza della loro forte connessione politico-sentimentale con l’URSS.
Avendo avuto il piacere di collaborare a quest’opera, in questa sede andrò ad approfondire il “pezzo” di ricerca da me curato, ovvero la raccolta delle fonti iconografiche: fonti che, nel volume, sono confluite in maniera particolare nella sezione Cimeli e souvenir, in quanto il mio obiettivo è stato quello di “catturare”, fotograficamente parlando, oggettistica a tema sovietico dei generi più disparati. Ho quindi deciso di indagare, in primis, sulla presenza di eventuali cimeli sovietici nelle Case del popolo e nei Circoli Arci della Provincia di Pistoia, limitatamente alla zona della piana. Case del popolo e Circoli, spesso, hanno infatti ospitato le sezioni e le cellule del PCI: quali luoghi migliori, dunque, per andare a caccia di memorabilia che richiamassero il collegamento fra PCI e URSS? E, in effetti, nonostante siano ormai passati più di tre decenni dalla Bolognina, posso anticipare che qualche traccia di questo legame è rimasta proprio in quelle costruzioni che dell’attività politica del PCI frequentemente furono teatro.
La mia esplorazione è dunque iniziata coinvolgendo, in totale, una quarantina di Case del popolo e Circoli: c’è purtroppo da dire che, nella grande maggioranza dei casi, i cimeli “del tempo che fu” sono andati perduti nel corso degli anni (vuoi per traslochi, vuoi per rimaneggiamenti dei locali, vuoi per la delusione portata, fra gli attivisti, dalla fine del PCI dopo la cesura della Bolognina). Ho infatti rinvenuto oggetti a tema con la mia ricerca solo in sette Case del popolo e Circoli Arci. Si tratta delle Case del popolo di Tobbiana e Fognano (Comune di Montale), del Circolo Rinascita di Agliana, della Casa del popolo di Bottegone, del Circolo Garibaldi, del Circolo Niccolò Puccini di Capostrada e del Circolo di Iano (tutti siti nel Comune di Pistoia). Purtroppo, per motivi di spazio, non tutti questi Circoli e Case del popolo hanno trovato spazio tra le pagine de Il mito sovietico nel PCI in Toscana; ma, nonostante ciò, tutta l’oggettistica a tema sovietico da essi posseduta è stata fotografata e poi catalogata nel fondo archivistico appositamente creato dall’ISRPT in occasione di questo progetto di ricerca.
È dunque iniziata una sorta di “caccia al tesoro”, al termine della quale sono stati riportati alla luce oggetti di vario tipo a tema URSS: gagliardetti, bandiere, libri, busti, quadri, cartoline e manifesti; l’elemento iconografico ivi raffigurato più di frequente è l’immagine di Lenin, assurto a una sorta di icona pop del comunismo (di profilo, di fronte, realistico, stilizzato e così via). Nella maggior parte dei casi, questi “antichi tesori” sono stati conservati nelle stanze delle Case del popolo e dei Circoli pur essendosi perso, nel tempo, il ricordo della loro provenienza, andata dispersa nel lungo periodo trascorso dal secondo dopoguerra a oggi. Ciò che è sicuro è che ho riscontrato ovunque, di fronte alla mia richiesta di “riesumare le vestigia del passato”, una grande voglia di partecipazione e una certa gioia nell’avere l’occasione di ridonare valore a un patrimonio, ormai storicizzato, testimoniante la passione politica e il legame dei comunisti toscani nei confronti dell’Unione Sovietica. Le bandiere, i quadri, i gagliardetti e tutti gli altri oggetti a tema sovietico non sono infatti solamente delle “cose”, ma sono invece vere e proprie rappresentazioni simboliche di un omaggio a un Paese – l’Unione Sovietica – che, per molti militanti del PCI, rappresentava niente di meno che la concreta realizzazione dell’utopia social-comunista. Spero dunque che questo progetto possa fungere da apripista per un ulteriore lavoro di ricerca sul tema che riesca a coprire l’intera Provincia di Pistoia, in quanto sono pronta a scommettere che altre “reliquie sovietiche” siano in attesa di essere scoperte, proprio nelle tante Case del popolo e nei Circoli Arci disseminati nel nostro territorio. Un patrimonio disperso che, senza dubbio, andrebbe valorizzato come merita, in quanto testimonianza tangibile di quel filo rosso che, per lungo tempo, ha legato la nostra Regione con il Paese dove si pensava – col senno di poi, forse ingenuamente –che la “futura umanità” si fosse incarnata, faro di civiltà a cui tendere e ambire, per un domani e un avvenire migliore.

Daniela Faralli collabora con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, di cui è membro del consiglio direttivo. Fa parte del comitato redazionale della rivista “Farestoria” ed ha lavorato nell’ambito del progetto di ricerca “Il Mito sovietico dell’URSS in Toscana”, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. 




Il lavoro femminile a Campo Tizzoro

La Società Metallurgica Italiana – Smi – nacque il 14 aprile 1886 a Roma. Già a partire dall’anno seguente iniziarono ad aprire i primi stabilimenti in Toscana e di particolare rilevanza furono quelli della Montagna Pistoiese: Limestre, Mammiano e Campo Tizzoro. La costruzione di quest’ultimo iniziò nel 1910 e divenne operativo a partire dall’anno seguente. Campo Tizzoro, trovandosi in un fondovalle isolato e stretto tra ripidi monti, veniva considerato un posto protetto da possibili attacchi, era inoltre una zona in cui era presente abbondante «manodopera a basso costo, di provenienza rurale e perciò non ancora politicizzata o sindacalizzata».

L’arrivo della Smi sull’Appenino toscano produsse numerosi cambiamenti a livello sia sociale che culturale: migliaia di persone vennero inserite nel lavoro salariato in zone rurali e montane, inoltre, nel 1915, la Smi contribuì alla costruzione della Ferrovia Alto Pistoiese e anche al finanziamento della rete telefoninca sulla montagna. Ciò che caratterizzava gli stabilimenti della Smi nella zona della Montagna era «l’autoritario disciplinamento delle maestranze, la volontà di consolidare nei lavoratori un sentimento di appartenenza all’azienda e di acquietare insubordinazioni», cose che vennero conseguite sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Se da una parte la Smi era dunque centro propulsore del miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e oprattutto degli operai della zona, dall’altra imponeva una presenza quasi autoritaria. A tal proposito, la Società realizzò numerose infrastrutture sociali che avevano lo scopo di pianificare la vita dei dipendenti e della comunità a vari livelli: culturale, ricreativo, sportivo, didattico. A Campo Tizzoro – zona deserta prima dell’avvento dello stabilimento industriale – venne per esempio creato quello che fu battezzato “Villaggio Orlando”, che racchiudeva istituti scolastici, impianti sportivi, ma anche un museo, una biblioteca, una chiesa, oltre a numerosi alloggi per le famiglie. Venivano organizzati corsi serali di scuola elementare per gli operai e le operaie analfabeti, oltre al cinematografo e alla filodrammatica.

Durante la Prima guerra mondiale, la Smi fu la principale fornitrice delle munizioni per l’esercito e la marina, in quel periodo venne inoltre avviata la costruzione del nuovo impianto di Fornaci di Barga, che cominciò a produrre nel giugno 1916. In occasione dei periodi bellici, la Società metallurgica era stata dichiarata «industria ausiliaria», per questa ragione usufruì non solo di agevolazioni nell’approvigionamento di materie prime e di privilegi relativi alla manodopera, ma anche dell’esonero delle maestranze maschili dal servizio militare, cosa che ebbe sicuramente delle conseguenze nella vita delle comunità locali.

Negli anni Venti, la produzione della Smi non fu costante: nel 1926, in seguito a un momento di crisi, recuperò, per poi retrocedere nuovamente con la crisi del ’29, tanto che a Campo Tizzoro le maestranze erano circa 700 nel 1927, mentre nel 1930 passarono a essere solo 126.

Per quel che riguarda il rapporto della fabbrica di Campo Tizzoro con il fascismo, soprattutto nel periodo dalla guerra di Spagna, emerse l’avversione verso il regime, tanto che nel 1943 cominciarono i rallentamenti per sabotare la produzione di munizioni e in seguito la S.A.P. – Squadra di Azione Patriottica – utilizzò le gallerie sotterranee della fabbrica per trafugare viveri, armi e munizioni destinate ai partigiani. Anche a Fornaci si registrano posizioni antifasciste tra gli operai.

Seguì, nel secondo dopoguerra, un momento di crisi e una diminuzione della manodopera, che portò a numerose mobilitazioni e proteste nel pistoiese in opposizione ai licenziamenti. Complice sicuramente anche il clima che si respirava a livello nazionale e internazionale in quegli anni, ci fu un inaspriamento del rapporto tra lavoratori e direzione aziendale, oltre a forti discriminazioni in base all’appartenenza politica: per esempio a Campo Tizzoro i comunisti furono i primi a essere licenziati.

Nel 1976, la Metallurgia Italiana si dotò di una nuova organizzazione finanziaria e le imprese produttive vennero concentrate nel gruppo La Metalli Industriale S.p.A (Lmi), così che la Smi diventò holding di un gruppo industriale metallurgico internazionale.

Una particolarità dell’industria metalmeccanica della zona della Montagna Pistoiese fu la forte presenza femminile, soprattutto a partire dal periodo del primo conflitto mondiale: nel 1918 le donne a Campo Tizzoro rappresentavano il 44,7% della manodopera, ma già da prima della Grande Guerra vi era comunque una partecipazione femminile considerevole all’interno dell’industria. Nonostante il brusco calo dell’occupazione delle donne nel secondo dopoguerra, il ruolo avuto dalle operaie precedentemente aveva permesso loro di creare un rapporto molto stretto con la fabbrica, di conseguenza iniziarono a ottenere ruoli sempre più importanti e maggiori responsabilità all’interno degli stabilimenti.

Fu proprio a Campo Tizzoro che Gabriella Venturi – sindacalista attiva tra fine anni ’60 e inizi 2000 – mosse i primi passi all’interno della fabbrica. Le vicende che hanno caratterizzato la sua vita sono ricostruibili attraverso i pochi documenti di archivio conservati, ma anche grazie alle parole di chi l’ha conosciuta personalmente: amici, compagni e parenti.

Gabriella nacque il 29 dicembre 1942 a Pistoia e visse tutta la vita a Pracchia, in via Fontana, dove, non essendosi mai sposata, abitò con i genitori. Non si ha una data precisa del suo ingresso alla Smi di Campo Tizzoro come operaia, probabilmente ciò avvenne attorno ai diciotto anni. Per quel che riguarda l’istruzione, sappiamo che Gabriella portò a termine il perscorso della scuola media, ma non frequentò mai le superiori, e, presubilmente, prima di iniziare il suo percorso nell’industria metallurgica, svolse qualche lavoro saltuario.

Proveniente da una famiglia profondamente credente, inizialmente s’iscrisse alla Cisl, in quanto sindacato più vicino al mondo cattolico e quindi alla sensibilità con la quale era cresciuta. In seguito avvenne il passaggio dalla Cisl alla Cgil, nei primi anni Settanta, un passaggio che, nelle loro interviste, Renzo Innocenti e Simonetta Bartoletti descrivono come qualcosa che avvenne in maniera naturale e repentina[1]. La nipote Simonetta sottolinea il fatto che la svolta, quindi il passaggio dal sindacato cattolico alla Cgil, all’interno della famiglia di Gabriella aveva avuto un certo peso, quasi come se la donna avesse tradito alcuni ruoli e alcuni valori con i quali era cresciuta. Simonetta racconta che il padre di Gabriella si ritrovò presto a dover fare i conti con la realtà e ad adeguarsi a essa: i tempi erano cambiati e le cose «stavano andando avanti più vivacemente rispetto a quello che lui aveva vissuto». La trasformazione di Gabriella fu radicale: non solo entrò nella Cgil, ma si iscrisse al Partito comunista italiano nel 1974. Oltre a essere iscritta al Pci, la nipote Simonetta riporta che Gabriella, nel 1984, era iscritta anche all’Anpi. Purtroppo non ci sono elementi che permettono di attestare se fosse iscritta anche precedentemente.

Venne licenziata, per motivi non del tutto chiari, dalla Smi di Campo Tizzoro probabilmente nel 1983 o nel 1984, infatti le ultime attestazioni della sua presenza nella fabbrica trovate in archivio risalgono al 27 gennaio 1983, quando venne eletta, come anche precedentemente, nel reparto Nastro[2]. Nei primi anni Ottanta, all’interno della Lmi vennero eliminati migliaia di posti di lavoro, tanto che si passò dai circa 7’000 occupati nel 1980 ai 3’000 nel 1985. Dopodichè la ritroviamo assunta in Cgil il 2 gennaio 1985 e Simonetta Bartoletti afferma che Gabriella è stata la prima donna in Segreteria Confederale, cosa che, purtroppo, non si può confermare attraverso i documenti consultati.

Renzo Innocenti – segretario provinciale quando Gabriella faceva parte della segreteria Fiom – nella sua intervista racconta che il suo primo incontro con Venturi avvenne nel periodo dell’autunno caldo, in occasione di un’occupazione – probabilmente la prima – dell’Istituto tecnico industriale di Pistoia frequentato dallo stesso Renzo. Gabriella, già dipendente della Smi di Campo Tizzoro, arrivò alla scuola con una delegazione. Si tratta di un evento che conferma il fatto che anche a Pistoia il movimento degli studenti aprì un fronte di confronto e unità con gli operai. Innocenti afferma che, fin dall’inizio, Gabriella gli diede l’impressione di essere una combattente, una persona molto concreta, pragmatica, tenace e una donna che emergeva in un mondo di uomini. Del suo animo guerriero si hanno delle attestazioni grazie ai documenti di archivio. A tal proposito, colpisce un evento in particolare: durante le assemblee di fabbrica del 20 ottobre 1971, viene indetto, attraverso il volantino «No! Ai 400 licenziamenti», uno sciopero per il giorno seguente. In quell’occasione, insieme ad alcuni compagni, Gabriella venne accusata di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, di aver ostacolato la libera circolazione e di avere usato violenza contro alcune guardie giurate. Per queste ragioni, venne citata a comparire il 21 novembre 1973.

Gabriella aveva inoltre un’attenzione e un legame profondo nei confronti della Montagna Pistoiese, sentiva la necessità di scommettere su un suo ruolo più forte e visibile, in modo tale da contribuire a contrastare la perdita del ruolo industriale e manifatturiero dovuto al ridimensionamento della presenza della Smi, ma voleva anche impedire la chiusura di aziende occupate in altri settori nella zona della Montagna. Nonostante Renzo Innocenti non ricordi che Gabriella abbia mai seguito le lavoratrici a domicilio, in un documento risalente al 21 maggio 1985 e a lei destinato, emerge che la donna era stata nominata come componente della Commissione Comunale per il lavoro a domicilio «per il comune di San Marcello Pistoiese in rappresentanza dei lavoratori».

Il rapporto di Venturi con il movimento femminista è interessante, dal momento che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ci fu un radicale mutamento all’interno dei sindacati, sia della partecipazione femminile, sia dell’organizzazione delle strutture delle donne. La maggior parte della nuova generazione delle sindacaliste aveva preso parte alle vicende che avevano caratterizzato il loro tempo: avevano beneficiato della scolarizzazione di massa e in molte avevano preso parte al movimento del 1968. Si erano inoltre distanziate e avevano iniziato a guardare con scetticismo alcune posizioni delle loro precorritrici. Dall’intervista di Renzo Innocenti emerge però il fatto che Venturi non sembrerebbe aver mai avuto stretti rapporti con il femminismo, anzi, in diverse occasioni pare abbia criticato alcune posizioni radicali del movimento. Simonetta Bartoletti ricorda che Gabriella era spesso in giro, in diverse occasioni si recava anche all’estero, e più che cercare di trovare un proprio spazio in quanto donna all’interno del sindacato, con i suoi tempi e le sue differenze, sembrava piuttosto voler adeguarsi a uno stile di vita che solitamente caratterizzava la sfera maschile. Era sicuramente molto legata alla famiglia, ma allo stesso tempo era sempre sui fronti, passava poco tempo in casa. Non erano molte le donne disposte a dedicare tutto il loro tempo a un impegno così totalizzante e questo fu sicuramente un elemento che colpiva tutti coloro con i quali si trovava a confrontarsi Gabriella. Nonostante questa presa di distanza dal movimento femminista, Gabriella era comunque consapevole delle difficoltà, delle differenze e delle disparità di genere all’interno del movimento sindacale per i ruoli di responsabilità e di direzione.

Andata in pensione nei primissimi anni 2000, Gabriella si spense nel 2002, ma il suo ricordo è sopravvisuto a lei. Una prova dell’affetto e dell’importanza che ha avuto la donna all’interno del sindacato si ha in occasione della tredicesima edizione di CGIL INCONTRI del 2009, che si svolse tra il 23 giugno e il 5 luglio. L’incontro del 2 luglio con i ragazzi del campo di lavoro Liberarci dalle Spine s’intitolava «….dedicato alla Lella (Gabriella Venturi) “Racconti di lotte al femminile”», coordinato da Maria Cangioli e con la partecipazione di Anna Goretti.

Martina Lopa studia storia all’Università di Firenze, dove sta lavorando a una testi di laurea sulle prime organizzazioni femminili e l’animalismo nell’800, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




È bene che si vada via, ma però che si torni in Italia.

La Barbiera che vien di Francia è un canto tradizionale, di origine piemontese, conosciuto con alcune varianti più o meno in tutto il centro-nord d’Italia. La versione attestata sull’Appennino toscano parla di una donna che accetta di fare la barba ad un viandante, nel quale riconosce il marito rientrato dalla Francia solo dopo averlo rasato. La diffusione di questo motivo nell’Appennino toscano è provata dal fatto che gli alunni della scuola elementare di Piteglio (PT) la trascrissero, su dettato delle nonne, in un quaderno illustrativo realizzato per un progetto scolastico. Questi quaderni, oggi conservati alla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, rappresentano una fonte popolare di straordinaria originalità, che mostra quanto la migrazione rientrasse negli orizzonti tradizionali degli abitanti dell’entroterra toscano.

All’inizio del Novecento, la Francia rappresentava la mèta europea più frequentata dai migranti italiani, e per alcune regioni la prima destinazione in assoluto. Nel caso della Toscana (come del Piemonte e della Liguria), questa migrazione di massa si era innestata sulle rotte migratorie risalenti all’età moderna, percorse da stagionali e ambulanti, che sino all’Unità d’Italia avevano rappresentato i principali esempi di presenza italiana oltralpe. Dei 21.971 toscani partiti nel 1900, ben 10.571 erano diretti in Francia. L’attrattività di questo paese aumentò dopo la Prima guerra mondiale: nel 1921 il 78% degli emigranti toscani si dirigeva in Francia e tale percentuale giunse al 92% nel 1925, dopo la chiusura delle rotte transatlantiche.
La guerra aveva arrestato le partenze per qualche anno, ma anche posto le basi per una massiccia ripresa: in Francia, la mancanza di crescita demografica e la costante carenza di manodopera erano state aggravante dalle ingenti perdite umane sul fronte occidentale, mentre l’industrializzazione ormai avviata rendeva necessario un costante afflusso di lavoratori stranieri. La storiografia ha evidenziato recentemente il ruolo della Grande guerra come incentivo per una regolamentazione dei movimenti di lavoratori tramite canali diplomatici. Il Commissariato generale dell’emigrazione (CGE) era stato fondato nel 1901 e aveva esteso via via le proprie funzioni; nel 1915 fu incaricato di approvare le richieste di reclutamenti di manodopera dall’estero e di rilasciare nullaosta per le richieste di espatrio, divenendo di fatto «organismo competente» per il disciplinamento dei reclutamenti. Dopo la guerra, il Trattato di lavoro Italia-Francia del 30 settembre 1919, equiparava i lavoratori italiani ai francesi in merito all’accesso alle tutele sociali e previdenziali; a livello pratico, era previsto che il Servizio manodopera straniera presso il Ministère du Travail raccogliesse le richieste e le relative proposte contrattuali e le trasmettesse al CGE, il quale, valutatane la liceità, attivava i canali di reclutamento locali.

Il caso di Piteglio dimostra che questo canale di reclutamento fu talvolta utilizzato da alcuni migranti giunti individualmente nel bacino minerario del Nord della Francia, che riuscirono a servirsene per richiamare amici e parenti.
Il comune di Piteglio si trova sull’Appennino pistoiese, a nord della Val di Nievole, a pochi chilometri dalla provincia di Lucca e a quasi 700 metri sul livello del mare, mal collegato con la pianura e dunque troppo distante dall’agglomerato industriale in via di sviluppo sull’asse Firenze-Prato-Pistoia. L’abitato sparso tipico dell’Appennino comportava l’inclusione nell’ente comunale, oltre al borgo di Piteglio, di diverse località, come Popiglio, Calamecca, La Lima e Prataccio, per una popolazione totale di 4.761 abitanti secondo il censimento del 1921, il primo a registrare un calo demografico che non si sarebbe più arrestato. Ad eccezione della Società Metallurgica Italiana a Campotizzoro, il comparto industriale era praticamente inesistente e la scarsità di entrate provenienti dalle professioni tradizionali, legate allo sfruttamento del bosco e alla raccolta delle castagne, esponevano da tempo l’Appennino pistoiese alla migrazione stagionale.
Il quaderno realizzato dagli alunni della scuola elementare di Piteglio fu prodotto nel 1929 insieme ad altri 362, provenienti dalle scuole del circondario, nell’ambito del progetto La scuola in mostra, lanciato in occasione dell’istituzione della provincia di Pistoia. Con qualche differenza, i quaderni rispondono tutti allo stesso schema dettato dall’insegnante: la storia del paese, le sue caratteristiche geografiche, la piazza, la chiesa, la popolazione e il folklore.
L’emigrazione è una costante nella descrizione dei borghi della montagna, mentre è spesso assente nei quaderni dedicati a comuni di pianura, ad esempio Quarrata; la sua presenza fra gli orizzonti culturali della comunità appenninica è provata anche dalle filastrocche, come era appunto La barbiera che vien di Francia, o Il carbonaio, il cui mestiere «Venire e andare è tutto un via vai». Qualcuno aveva spiegato ai bambini che le risorse della montagna «non basta[no] al mantenimento di tutti, perciò c’è bisogno dell’emigrazione. Senza contar quelli che fanno ogni anno la migrazione nella Maremma, molti àn sic trovato lavoro nelle miniere della Francia del Nord o alle macchie dell’alta Marna. […] Anche quelli che vanno nell’America del Nord son minatori, mentre quelli che vanno nel Brasile sono boscaioli».

L’influenza delle politiche del regime in materia migratoria è presente anche in una fonte così periferica: i piccoli cittadini di Piteglio scrivevano che «è bene che vanno a guadagnare. Arricchisce la famiglia e quei soldi vanno spesi in Italia. È bene che si vada via ma però che si ritorni in Italia». Nei quaderni non mancano i grafici recanti dati demografici sui nati, i morti e le partenze: il 1921 risulta l’anno in cui l’emigrazione toccò picchi particolarmente alti, sono indicate 254 partenze dal solo borgo capoluogo, a dispetto di 90 nel 1920 e 72 nel 1922; 42 dalla frazione di Prataccio, contro le 15 nell’anno precedente e le 12 nel successivo. Nel censimento del 1931 il comune di Piteglio aveva perso il 20% della popolazione rispetto al censimento di dieci anni prima e 1.273 pitegliesi risultavano stabilmente residenti all’estero.
Ritroviamo buona parte dei pitegliesi espatriati nel comune di Fenain, nel Nord della Francia: la ragione di questo trasferimento potrebbe sembrare una richiesta di manodopera al sindaco del comune proveniente dalla Compagnia delle miniere di Aniche, attiva nello sfruttamento dei pozzi di estrazione del bacino carbonifero del Nord-Pas-de-Calais.
L’Archivio storico comunale conserva la corrispondenza in merito tra il sindaco e il sottoprefetto. Un incrocio con i dati contenuti nello Stato civile dimostra che quando le miniere di Aniche si rivolsero al sindaco avevano già alle proprie dipendenze alcuni pitegliesi, arrivati prima della guerra e interessati a farsi raggiungere da amici e parenti. I documenti reperiti ci dicono ad esempio che Giovanni Picchiarini giunse a Fenain con la moglie nel 1911 e che i fratelli Giuseppe ed Eugenio Ferrari lavoravano per la compagnia già nel 1912. Dopo la guerra, tra il 1919 e il 1920 migrarono nel Nord anche i fratelli di Picchiarini e i cognati, Luigi e Orlando Pacini, fratelli della moglie.
La richiesta di manodopera giunse al sindaco alla metà del 1921, momento dell’aumento delle partenze dal borgo appenninico registrato dai piccoli pitegliesi. Non ci è possibile stabilire precisamente il numero di espatri dal comune alla regione mineraria francese, tuttavia negli anni Trenta le fonti di polizia individuano circa una cinquantina di minatori, stabiliti in Francia con le proprie famiglie da diversi anni. Lo Stato civile del comune permette di dire con certezza che una decina di famiglie espatriarono in diversi momenti tra il 1922 e 1929, secondo una prassi ben nota alle dinamiche migratorie: prima gli uomini, in un secondo momento i fratelli minori, le mogli e i figli. Ad esempio, a Pietro e Bruno Orsucci si unirono prima il fratello Renato, poi Duilio e nel 1928 il padre Silvio, con l’omonimo nipotino, rimasto orfano.
È verosimile supporre che l’attivazione del canale di reclutamento ufficiale nel 1921 volesse regolarizzare una filiera migratoria spontanea. Alcuni pitegliesi giunsero nella corona mineraria Douai-Valenciennes per motivi contingenti e vi restarono, verosimilmente in considerazione del fatto che il carbone rientrava fra i propri orizzonti professionali. Una riconversione, dalla produzione di carbone dai boschi all’estrazione di tipo industriale, si rese senz’altro necessaria, ma la familiarità con il carbone appare la base per l’inserimento di questa comunità nella produzione industriale su scala europea. Il fatto poi che la richiesta di manodopera salti i canali ufficiali – Ministère du Travail e CGE – e giunga direttamente al sindaco, unita alla presenza pregressa di pitegliesi nel comune di Fenain, avvalla l’ipotesi che la richiesta di reclutamento sia stata mossa dai compaesani già stabiliti.
Le ragioni essenzialmente economiche alla base di questa migrazione si intrecciano e si sovrappongono a casi in cui è possibile evidenziare anche ragioni politiche, ovvero a militanti, nella gran parte dei casi socialisti, che preferirono trasferirsi per fuggire al montare dello squadrismo in Italia: la prefettura di Pistoia riferiva nel 1930 che tal Ardelio Cecchini fu «in passato un ardente comunista propagandista […] col sorgere del fascismo, per tema di rappresaglie, emigrò all’estero»; Federico Coppi «durante il periodo bolscevico fu accanito comunista e segretario della sezione del partito a Mammiano»; Egidio Seghi «prima del suo espatrio, malgrado la giovine età, professò apertamente sentimenti comunisti dimostrando palesemente la sua ostilità al regime».
Insomma, nella migrazione da Piteglio al Nord della Francia dei primi anni Venti, vi sono percorsi individuali per cui le ragioni puramente economiche sono completate dal pesante clima che si respirava nella penisola: l’inflazione, la crisi occupazionale, ma anche l’instabilità degli ultimi governi liberali, le agitazioni sociali e il vorticoso sviluppo del movimento fascista.
Una rapida analisi della migrazione da Piteglio all’indomani della prima guerra mondiale ha dunque offerto Spunti di riflessione in tre direzioni: il trasmutarsi dei mestieri e delle rotte migratorie risalenti all’età moderna in movimenti inquadrati nell’ambito degli Stati nazionali e del sistema di produzione industriale; la presenza di reti comunitarie, indispensabili al concepimento della mobilità, che negoziano con la normativa vigente per permettere gli espatri e i ricongiungimenti familiari; infine, il fatto che le rotte della migrazione economica siano servite anche per l’espatrio di militanti comuni che si sentivano minacciati dal fascismo, tematica di grande interesse che meriterebbe una maggiore attenzione storiografica

RIFERIMENTI ARCHIVISTICI

Biblioteca Forteguerriana, La scuola in mostra, quad. 106 Piteglio
Archivio storico comunale di Piteglio, Corrispondenza 1921, titolo XIII Esteri
Archives Departementales du Nord, Carte d’identités étrangers, 321 W 115579
Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, b. 1221, 1463, 4732




Lavoratori di tutto il mondo unitevi

Nella notte fra il 3 e il 4 marzo 2022 il mondo è rimasto con il fiato sospeso alla notizia del bombardamento russo della centrale nucleare di Zaporizhzhia, in Ucraina, una fra le più grandi d’Europa. Un evento che ha suscitato sdegno, timori, ansie e paure apocalittiche, anche sulla scorta della memoria del disastro di Cernobyl del 1986, sempre in Ucraina. Ma una notizia che in Toscana, per la precisione a Pistoia, ha anche risvegliato molti ricordi e senso di vicinanza e solidarietà alla popolazione colpita dalla guerra, che si sono concretizzati in una serie di telefonate e messaggi al segretario provinciale della Camera del lavoro CGIL. Con il corso della storia cambiano gli stati, i confini, i sistemi di traslitterazione dall’alfabeto cirillico a quello latino, ma non erano in pochi a capire subito che si trattava proprio di quella città a lungo gemellata con il sindacato pistoiese e al tempo dell’Unione sovietica nota in Italia con il nome di Zaporojie (o con sue varianti quali Zaparojie, Zaporojki…). Chi si faceva vivo intendeva segnalare le proprie emozioni nel sentire il nome di quel luogo carico di ricordi associato all’immane tragedia della guerra, ricercando al tempo stesso tracce di quella storia e di quella memoria. Tracce che fortunatamente sono ben custodite nell’archivio storico della Camera del lavoro di Pistoia gestito dalla Fondazione Valore Lavoro, dove è conservata un’intera busta titolata proprio Zaporoje URSS, che conserva tutti i documenti del gemellaggio
Si tratta di una vicenda di cui fu promotrice proprio la CGIL locale nel 1969. Era la vigilia dell’Autunno caldo e in Italia già si respirava l’aria delle mobilitazioni degli anni Settanta, mentre nel mondo continuava il processo di decolonizzazione. L’internazionalismo, l’amicizia fra i popoli, l’unità dei lavoratori erano temi molto sentiti. L’occasione fu data da un incontro fortuito fra il Segretario della CGIL di Pistoia Giuliano Lucarelli e la delegazione dei sindacati sovietici, fra cui il Segretario generale Nicolai Romanov, al congresso nazionale della Confederazione a Livorno nel giugno di quell’anno. A seguito di uno scambio reciproco informale di disponibilità ad ospitare delegazioni sindacali, il 19 giugno e il 2 agosto Lucarelli scrisse a Mosca a Romanov per finalizzare l’accordo, allegando una scheda descrittiva sulla provincia di Pistoia con specificati i settori industriali presenti e lasciando la scelta della città da gemellare ai sovietici, dichiarando al contempo la volontà dei pistoiesi di ospitare per primi la delegazione in visita. Lucarelli aggiungeva anche che di recente un sindacalista pistoiese, Angiolo Mungai, si era recato in visita in URSS ospite dei sindacati delle istituzioni di Stato, tornando entusiasta dell’esperienza vissuta[1]. Il 12 agosto da Mosca veniva comunicato che il Consiglio dei sindacati di Zaporoje aveva risposto favorevolmente alla richiesta dei pistoiesi[2]. Ne nasceva uno scambio epistolare tra l’organizzazione di Pistoia e quella di Zaporojie, con il francese usato come lingua franca, che si prolungava per alcuni mesi, con alcuni ritardi nelle risposte dovuti anche, come apprendiamo da una lettera di Lucarelli del 14 aprile 1970, «à l’intense développement des luttes ouvriéres en Italie ces derniers mois».
Alla fine la prima delegazione sovietica da Zaporojie arrivò il 2 luglio 1970. Nel dare notizia della visita a enti locali, associazioni ed aziende del territorio la CGIL fornì anche una descrizione della città gemellata attraverso l’opera sindacale: «La regione di Zaporojié che si estende su un territorio di 27mila kmq con una popolazione di 1 milione e 700mila abitanti, è un importante centro industriale nel Sud dell’Ucraina ai confini con la Crimea. La città omonima, che conta 650mila abitanti, oltre che grande centro industriale è un importante centro culturale e di istruzione altamente qualificato. L’acciaieria di Zaporojié produce 4 milioni e mezzo di tonnellate di acciaio all’anno e oltre 3milioni di tonnellate di laminati e profilati destinati alle industrie ferroviarie, trattoristiche, automobilistiche. Occupa 17mila operai (di cui 6.000 donne) 1.400 ingegneri e tecnici, 500 impiegati. Un altro colosso è la “Zaporojski Transpormaber Zavod”, che produce attrezzature elettriche e soprattutto trasformatori per 50 milioni di Kilovolts-ampere all’anno. La sua manodopera, in larga parte formata da giovani e ragazze, è costituita da 12.000 operai e 2.300 tecnici e impiegati. Anche l’agricoltura è altamente sviluppata. Zaporojié è un importante centro culturale con 135 scuole generali dell’obbligo con 10 anni di frequenza, 10 Istituti Tecnici e Facoltà di Ingegneria, di Medicina, di Pedagogia, di Ricerca scientifica ecc. Nella città vi sono 128 Biblioteche, 30 cinema, studio televisivo, il Palazzo della Cultura ecc.» [3].
Il programma della visita, che si prolungò fino all’11 luglio, non trascurava niente e portava i sovietici a stretto contatto con il territorio. Furono invitati ad incontrare la delegazione gli altri sindacati, CISL e UIL, i partiti PCI, PSI e PSIUP, l’ARCI[4], furono richiesti materiali per organizzare visite alle bellezze artistiche della città all’Ente provinciale per il turismo, si chiese a Renato Risaliti, storico dell’URSS e dell’Europa orientale ed al tempo impegnato anche nella politica locale, di fornire la sua opera di conoscenza linguistica[5] , furono organizzati gli incontri con i comuni e la Provincia e con le aziende del territorio ed anche ì colazioni con le diverse case del popolo, fra cui quella del Teso sulla montagna[6]. Di numerose aziende disponiamo della risposta positiva ad accogliere la delegazione: Arco di Montecatini (confezioni); Unione cooperativa della Valdinievole; Fratelli Capecchi piante[7]. Dal programma sappiamo anche che la delegazione visito la Supercoop di Montecatini, le municipalizzate ad Agliana, la centrale del latte, il centro riconversione rifiuti solidi, lo zoo, l’azienda Franchi, la cooperativa Di Vittorio, l’oleificio cooperativo di Lamporecchio. La SMI rispose freddamente comunicando di aver trasmesso l’invito alla propria Direzione generale[8], poi se ne perdono le tracce. La Breda invece si rifiutò di accogliere la delegazione nel proprio stabilimento, provocando la reazione ferma della CGIL che scrisse all’Intersind accusando la Direzione aziendale di addurre motivi fittizi[9]. Nel saluto alla delegazione, ricevuta in Camera del lavoro, Lucarelli rivendicava le lotte dell’autunno del ’69 che avevano coinvolto numerose categorie anche localmente e rilanciava l’unità internazionale dei lavoratori per la pace e contro il capitalismo e l’imperialismo: «È con questa visione internazionalista e di unità del movimento operaio internazionale , che abbiamo voluto allacciare rapporti fraterni con i rappresentanti dei sindacati di Zaparojié per conoscersi più a fondo, nell’intento di contribuire tutti assieme alla battaglia generale che i lavoratori di tutto il mondo conducono per la pace, contro l’imperialismo, contro le forze totalitarie e fasciste, per l’emancipazione dei lavoratori, la libertà dallo sfruttamento capitalistico»[10].
Nel 1972 fu la volta della visita dei pistoiesi a Zaporoije. Inizialmente doveva svolgersi nel 1971 ma un’improvvisa e grave malattia di Lucarelli – che in seguitò venne a mancare – fece saltare il viaggio. Nonostante la grave perdita del promotore del gemellaggio l’iniziativa andò avanti e la delegazione che si recò in URSS nel 1972 fu composta anche da un rappresentante della CISL, Sauro Gori, su esplicita richiesta dei sovietici di includere gli altri sindacati italiani[11], e fu guidata da Silvano Cotti, nuovo segretario della Camera del lavoro. Il gruppo, composto anche da Duilio Puccianti del consiglio di fabbrica della SMI e da Paolo Innocenti della FILLEA di Montecatini, arrivò in URSS il 30 agosto. La stampa sovietica diede risalto alla visita dei sindacalisti italiani. Oltre ai consueti incontri nelle sedi sindacali, la delegazione fu portata a visitare la diga sul Dnepr, i servizi sociali, la palestra sul ghiaccio, l’acciaieria, le case di riposo, i centri culturali, i gruppi di pionieri, i servizi sanitari, incontrò il sindaco, si recò sul mare d’Azov dove visitò anche un sovchoz e un asilo. Tra le altre, il gruppo visitò anche un’azienda dove venivano prodotti i materiali oleosi per lo stabilimento FIAT di Togliattigrad. Durante la permanenza uno degli italiani, Puccianti, si ammalò e venne ricoverato in una clinica sovietica, dove rimase in osservazione per diversi giorni essendogli stati diagnosticati problemi renali seri che vennero curati in loco. Di conseguenza il Puccianti rientrò in Italia successivamente al resto del gruppo. In una lettera inviata a Pistoia durante la degenza esprimeva una valutazione che racchiudeva tutte le speranze che ancora buona parte degli operai italiani riponevano nell’URSS a quel tempo: «vi dirò che i medici sono sorpresi che nelle attuali condizioni fisiche si possa ancora essere operai metalmeccanici, anche se valutiamo tutta l’attenzione ed il valore che essi danno della persona e dell’uomo, e non come da noi dopo la macchina»[12].
La soddisfazione della delegazione italiana per la visita fu tale che il 30 settembre il Cotti inviò una lettera al sindaco di Pistoia, il comunista Francesco Toni, per invitarlo a prendere in considerazione un gemellaggio anche istituzionale con Zaporojie, rispetto al quale il sindaco della città ucraina aveva già dimostrato a voce un interesse[13].
Negli anni successivi i rapporti fra i sindacati di Zaporoje e quelli di Pistoia andarono avanti. Lo scambio di auguri in occasione del Primo maggio, del nuovo anno ed anche per le feste della Liberazione divenne abituale e furono organizzati nuovi scambi. Nel 1973 i pistoiesi invitarono nuovamente i sovietici per il 1974, questi ultimi si resero disponibili a tornare nel 1975[14]. La seconda visita avvenne nel mese di settembre per esplicita volontà della Camera del lavoro che voleva far partecipare i sindacalisti sovietici alle celebrazioni della Liberazione di Pistoia l’8 settembre. La visita però, inizialmente prevista dal 4 all’11 del mese, all’ultimo momento slittò al 18-25 settembre. Da un appunto manoscritto sappiamo che Sanguinetti dell’ufficio internazionale della CGIL a Roma aveva indicato per quell’occasione di «avere con sindacati sovietici rapporto più vivace aderente alla nuova realtà internazionale. Cile, Portogallo, cosa facciamo…? Porre esigenza che nei rapporti – a livello internazionale – fra CGIL e sindacati sovietici, si esca dal semplice formalismo degli “evviva” e si istauri rapporto più politico, che affronti problemi “nuovi” che emergono nel mondo»[15]. La delegazione era composta da Petr Pavlov, segretario regionale, Victor Kazatchovsky, presidente comitato sindacale dell’azienda Azovcabel, e da Nicolai Medvedkov. Fu organizzata anche una visita a Collodi al Parco di Pinocchio, circostanza che alcuni mesi dopo diede luogo alla donazione al Parco delle edizioni in lingua russa delle Avventure di Pinocchio, a quanto pare molto diffuse in Unione sovietica[16]. Nonostante il ritardo rispetto alle celebrazioni resistenziali, in quell’occasione fu comunque organizzata una visita nel paese di Agliana al monumento dedicato al partigiano sovietico Ivan Baranovskij, nome di battaglia Paolo, combattente della Brigata Bozzi caduto in quella località, una visita alla Breda – che questa volta non si negò – con un incontro con il Consiglio di fabbrica e un incontro con gli operai della Ital Bed in “assemblea permanente” da diversi mesi[17]
La delegazione pistoiese tornò in URSS nel 1978, questa volta composta da Graziano Battiloni della segreteria CGIL, Floriano Frosetti del consiglio di fabbrica Breda e Marcello Vettori del sindacato enti locali[18]. Nel consueto discorso di saluto, oltre ai temi all’ordine del giorno del programma sindacale che venivano sempre richiamati, Battiloni ricordò Baranovsky ed enfatizzò in più occasioni il successo elettorale delle sinistre, e del PCI in particolare, alle elezioni politiche del 1976[19].
Nonostante l’uscita della CGIL dalla Federazione sindacale mondiale (FSM) legata all’URSS in favore dell’adesione alla Confederazione europea dei sindacati (CES) a fine anni Settanta, nel novembre del 1980 una nuova delegazione sovietica giungeva a Pistoia, composta da Juri Vladimirovc Efrenov e Valentin Vassilievic Podporin. Il discorso di saluto di Battiloni era però molto diverso da quegli degli anni Settanta. L’accento si spostava dalle lotte operaie e dalla vicinanza con il paese della rivoluzione del ’17 ai temi della politica internazionale del tempo, assicurando l’azione di contrasto alla guerra fredda e di sostegno alle politiche di disarmo del sindacato italiano, condannando la politica americana in Iran e l’espansionismo israeliano ma sottolineando anche che «gli avvenimenti della Polonia aprono, nella società polacca, importanti possibilità di sviluppo democratico» e che «il sindacato italiano ha espresso, a suo tempo, la contrarietà e il disaccordo per l’intervento sovietico in Afghanistan. Per questo, facciamo un appello perché, attraverso la vostra delegazione sia accelerato il ritiro delle truppe e sia garantito al popolo afghano il diritto a decidere da sé le proprie scelte». Parole forti, che si tentava poi di stemperare richiamando l’amicizia tra gli italiani e il popolo sovietico e la volontà di non rompere il sodalizio anche a fronte di disaccordi su alcune scelte, perché fra amici era lecito rimproverarsi qualcosa[20].
Quella del 1980 fu l’ultima visita. Da lì in poi gli scambi si interrompono. L’archivio tace sui motivi, che tuttavia è lecito ipotizzare vadano ricercati nei mutati rapporti che le parole di Battiloni del 1980 facevano cogliere, nella nuova collocazione internazionale della CGIL ed anche nella situazione particolarissima che l’URSS attraversò nel corso degli anni Ottanta fino alla sua dissoluzione. Tuttavia, almeno per i pistoiesi, sembrava trattarsi di una pausa più che di un addio. Il gemellaggio doveva essersi radicato fra i sindacalisti italiani. Lo testimonia l’ultimo fascicolo della busta d’archivio, titolato 1990 Zaporozhye. Nel clima post ’89 a Pistoia si pensò subito di riallacciare i rapporti di scambio. Ma evidentemente era troppo tardi, il mondo cambiava inesorabilmente, di lì a poco l’URSS cessava di esistere e dei sindacati di Zaporojie si perdevano le tracce. Il fascicolo era destinato a rimanere vuoto, testimone silenzioso di una volontà mai concretizzatasi.
Da quest’ultimo tentativo sono passati più di 30 anni ed è arrivata una centrale nucleare che prima non c’era. Del gemellaggio il ricordo si era affievolito fin quasi a scomparire. Ma non del tutto. La tragica notizia del bombardamento ha spazzato via la polvere che si era depositata su questa vicenda, ed a Pistoia, come già nel 1990, ci si è ricordati della città sulle rive del Dnepr. La Camera del lavoro ha interrogato i propri archivi prendendo spunto da questa amicizia del passato per lanciare un appello pubblico per la pace. Battiloni, ormai anziano, intervistato dai giornali locali ha ricordato con emozione quel tempo e quei viaggi, ed anche i punti di divergenza con i sovietici che erano progressivamente emersi, vivendo con sofferenza i fatti di guerra del presente[21]. Una piccola storia di amicizia internazionale, che continua a scagliarsi contro la grande storia della guerra fra i popoli.
[1] Archivio storico Camera del lavoro CGIL Pistoia, Busta Zaporoje URSS (d’ora in poi ASCGILPT, B. Zaporoje), Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Lucarelli al Segretario generale dei sindacati sovietici 19 giugno 1969; lettera di Lucarelli a Romanov 2 agosto 1969.

[2] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera del 12 agosto 1969 a firma Sergueev, originale in cirillico copiata in traduzione francese.

[3] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, modello di lettera del 1° giugno 1970.

[4] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettere dl 27 giugno 1970.

[5] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettere del 26 giugno 1970.

[6] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, Programma visita delegazione sovietica Zaparoje’ 30 giugno 1970.

[7] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS.

[8] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera della Società metallurgica italiana del 4 giugno 1970.

[9] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Lucarelli del 26 giugno 1970.

[10] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, Saluto del segretario generale della CCdL di Pistoia alla delegazione dei sindacati di Zaparojié nell’URSS.

[11] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Nedobyvailo a Lucarelli, originale in francese; lettera di Lucarelli alla CISL del 13 aprile 1971; lettera di Lucarelli al Presidente del consiglio dei sindacati di Zaporojie Nedobyvaile del 4 maggio 1971. ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera del 31 luglio 1972.

[12] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, resoconto manoscritto del viaggio; lettera manoscritta di Puccianti del 7 settembre 1972.

[13] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera di Cotti a Toni del 30 settembre 1972.

[14] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera di Silvano Cotti a Pavel Nedonuyailo e la risposta.

[15] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), appunto manoscritto. Le sottolineature sono nell’originale.

[16] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), lettera del 9 gennaio 1976.

[17] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), documento Una delegazione dei sindacati sovietici di Zaporojie ospite della nostra provincia.

[18] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, comunicato stampa del 1° agosto 1978.

[19] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, discorso di saluto manoscritto.

[20] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc.1980 Zaporoje URSS delegazione materiale. Documento Battiloni saluto alla delegazione di Zaporoje 24 novembre 1980.

[21] La nazione, 6 marzo 2022; Il giornale di Pistoia e della Valdinievole, 11 marzo 2022.

 

Stefano Bartolini, direttore della Fondazione Valore Lavoro e della rivista “Farestoria”, responsabile degli archivi CGIL Toscana e coordinatore del gruppo dell’AIPH dedicato alla Public History del lavoro. Fa parte della redazione della rivista Il De Martino. Ha pubblicato articoli di approfondimento sulla Public History sulle riviste “Clionet” e “Officina della storia”




I Comitati di Liberazione Nazionale in Valdinievole

La Valdinievole, come tutta l’Italia intera fra il 1943 e il 1945 subì il passaggio della guerra. I mesi più duri dell’occupazione tedesca; le stragi di civili da parte delle truppe tedesche in ritirata a cui in parte parteciparono vecchi e nuovi fascisti italiani; la nascita e l’ingrossamento del variegato movimento partigiano; il contributo di quest’ultimo alla liberazione della zona insieme alle forze alleate; la nuova occupazione, stavolta anglo-americana, del territorio liberato con l’appoggio dei Comitati di Liberazione Nazionale. Ultimo per ordine di tempo, il tentativo ed i primi passi verso il ritorno ad uno stato di pace e di giustizia che per volontà fu ovviamente diverso dal Ventennio, in alcuni aspetti si fecero invece sentire le continuità con i periodi liberale e fascista ed in altri fu completamente nuovo, frutto della rivoluzionaria Assemblea Costituente. L’elezione di quest’ultima coincise con la fine in tutta l’Italia dell’esperienza ciellenistica. Ma cosa furono in realtà i C.L.N. e come operarono nel delicato periodo della transizione tra guerra (anche civile) e nuova pace man mano che i territori venivano liberati?

La situazione per i civili durante tutto il 1944 in Toscana ed in particolar modo lungo il corso dell’Arno, su cui la linea di battaglia tra Alleati e tedeschi si assesterà per tutta l’estate del 1944, è particolarmente precaria. Le stragi che insanguinano la Toscana in quell’estate testimoniano tanto il tentativo delle forze di occupazione italo-tedesche di eliminare qualsiasi tentativo di resistenza tanto quanto nei fatti colpiscono la popolazione indifesa davanti alla guerra in casa: la Strage del Padule di Fucecchio ne rappresenta l’apice in Valdinievole. É in questo momento delicatissimo che iniziano a lavorare i CLN; spesso già operanti in clandestinità, quindi quando il territorio è ancora sotto occupazione, nel momento della liberazione delle varie località i CLN devono riorganizzare la vita delle comunità partendo dai bisogni primari, come nel caso del Comitato di Alimentazione a Chiesina Uzzanese[1]. Formati ufficialmente da due rappresentanti dei cinque partiti antifascisti riconosciuti, PCI, PSI, Pd’A, DC, PLI, i Comitati in questi difficili mesi avevano il compito di assicurare la distribuzione del cibo ai cittadini che non vi avevano accesso. Nei primi momenti a seguito della liberazione come avviene nel caso di Pescia, attraverso l’uso dei gappisti che non scelsero di seguire la liberazione nelle zone montane, il CLN mantenne il controllo dell’ordine pubblico. Non soltanto, il CLN di Pescia, non appena la città è liberata dai tedeschi, convoca i produttori agricoli della zona per convincerli a completare la trebbiatura e a conferire il grano all’ammasso del popolo perché, causa ruberie, rappresaglie e distruzioni di strade, la popolazione è ormai quasi un mese che non riceve il pane. A Pescia, per ripristinare l’uso dell’acquedotto e della circolazione lungo le strade il CLN sperimenta una pratica innovativa: vengono avviati al lavoro forzato i fascisti repubblicani, i vecchi fascisti e i collaborazionisti dei tedeschi, considerati i maggiori responsabili delle attuali rovine. Di questi, solo i non abbienti furono retribuiti per questo lavoro[2]. Il CLN di Pescia, che insieme a quello di Montecatini rappresentò l’ente guida per tutti gli altri CLN comunali della Valdinievole, convocò per il 21 settembre 1944 una riunione dei sindaci di tutti i comuni valdinievolini. Nell’occasione i CLN dei comuni minori, possono portare alla luce i problemi del loro territorio, trovando intorno ai temi dell’approvvigionamento, della sistemazione dei ponti sui fiumi, la viabilità e le finanze, proposte di soluzioni interessanti. Contemporaneamente il CLN pesciatino nomina una commissione di tecnici incaricata di ripristinare, anche se inizialmente per qualche ora al giorno, la corrente elettrica. L’inverno è alle porte e con la diminuzione delle ore di sole, l’elettricità diventa un bene quasi primario per le abitazioni civili; non soltanto per le abitazioni, l’elettricità è necessaria alla tramvia che collega Pescia con Lucca e fino a poco tempo prima anche con Monsummano. Ormai esautorati di tutti i loro poteri, nel giugno del 1946 i CLN cessano di esistere.

Questa forma di autogoverno nato dalla volontà delle persone di tornare a guidarsi dopo vent’anni di dittatura e due di guerra civile, avrebbe potuto rappresentare un valore aggiunto nella nuova Italia repubblicana? É su questo tema e sull’intera vicenda ciellenistica, intesa come fattiva collaborazione tra ideologie contrastanti, basti pensare al PCI e alla DC, che può ancora oggi essere utile interrogarsi.

[1] Della Relazione morale ed economica ne troviamo copie originali all’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), all’ Archivio di Stato di Pistoia (ASPt), Comitati di liberazione nazionale della provincia di Pistoia, b. 7, fasc. 9 e alla Sezione di Pescia dell’Archivio di Stato di Pistoia (SASPe), Comune di Pescia postunitario, n. 482, anno 1945, cat. XV, cl. 1, fasc. 6

[2] Verbale dell’adunanza del 12/9/1944 in ASPt, Comitati di liberazione nazionale della provincia di Pistoia, n. 9 , fasc. Verbali delle riunioni del CLN di Pescia

Simone Fanucci ha conseguito la laurea in storia contemporanea presso l’Università degli studi di Pisa, ed è attualmente docente in un istituto secondario di secondo grado della provincia di Pistoia.