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Il “soccorso nero” in una provincia rossa. Il Movimento italiano femminile a Siena.

Il Movimento italiano femminile “Fede e famiglia”.

Il Movimento italiano femmine, comunemente riassunto nell’acronimo MIF, fu tra le prime organizzazione neofasciste formatesi nell’Italia postbellica, con l’obiettivo di assistere gli ex fascisti in carcere o in clandestinità. Fondato ufficialmente il 28 ottobre 1946, una sorta di mito fondativo ne avrebbe ricondotto in realtà la paternità a Mussolini in persona, che nell’aprile 1944 avrebbe incaricato la principessa Maria Elia Pignatelli di riunire le donne fasciste e orientarne l’attività in senso assistenziale e propagandistico. Già distintasi, assieme al marito Valerio, nell’organizzazione delle reti fasciste clandestine nell’Italia liberata, la principessa Pignatelli avrebbe dato vita a un’organizzazione strutturata a livello nazionale, con sedi in quasi ogni provincia e un’estesa rete di collaboratrici, comprendente figure di rilievo nel mondo dell’industria, della politica e, soprattutto, all’interno della Santa Sede. Scopo principale del MIF fu quello di fornire assistenza materiale e legale ai cosiddetti prigionieri politici fascisti, favorendo al contempo l’espatrio dei latitanti. Tuttavia, l’azione del movimento si sarebbe progressivamente allargata, portandolo a stringere rapporti con altre organizzazioni neofasciste europee, come pure a svolgere propaganda in favore del Movimento sociale italiano. Anche per tale attivismo, nonché per la sua funzione aggregatrice, il MIF avrebbe rappresentato uno degli attori più importanti del panorama neofascista italiano dell’immediato dopoguerra.

L’archivio del MIF e l’iniziativa dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

Le carte del Movimento italiano femminile sono oggi conservate presso l’Archivio di Stato di Cosenza. Disposizioni per il versamento, avvenuto nel 1969, furono impartite dalla stessa Maria Pignatelli poco prima della sua scomparsa nel marzo 1968, a causa di un incidente stradale. Il fondo, riordinato e inventariato, conta oggi 88 buste, relative all’attività svolta dal MIF dalla sua costituzione fino alla prima metà degli anni Cinquanta. La suddivisione interna presenta serie dedicate all’organizzazione del movimento; all’amministrazione; ai rapporti con organi dello Stato, enti, associazioni, partiti politici; alla corrispondenza con assistiti, avvocati, personalità politiche ecc. La serie più voluminosa è però quella relativa all’organizzazione periferica del movimento, comprendente i fascicoli delle sue sezioni provinciali e comunali.

Attraverso la cordiale collaborazione del personale dell’Archivio di Stato di Cosenza, nel 2020 l’Istituto storico della Resistenza senese si è impegnato nella riproduzione della documentazione riguardante la sezione senese del MIF, organizzata in tre ricchi fascicoli. Tali documenti sono adesso conservati in versione digitale presso la sede dell’Istituto di via San Marco 90 a Siena.

Brevi cenni sulla storia del MIF senese.

Un ufficio senese del Movimento italiano femminile fu costituito nell’ottobre 1947, sollecitato dall’inizio dei procedimenti contro i collaborazionisti fascisti presso la sezione speciale della locale Corte d’Assise. Già dal maggio precedente, infatti, si erano intensificati al riguardo i contatti tra la principessa Pignatelli e la lucchese Tita Luporini, responsabile toscana del movimento, e tra la stessa e l’ex capo della provincia di Siena Giorgio Alberto Chiurco. Nella prima metà di ottobre, la Pignatelli decise di recarsi personalmente nella città del Palio, per organizzare un primo nucleo del MIF e prendere contatti con importanti esponenti della nobiltà cittadina, disposti a finanziare le attività del movimento. Una prima lista delle iscritte alla sezione senese, risalente probabilmente a quel periodo, conta una quarantina di nominativi, vagliati dalla signora Chiurco per accertarne l’affidabilità.

Nel contesto dei processi senesi, l’azione del MIF si indirizzò verso il sostegno materiale ai detenuti, fornendo indumenti, sigarette, riviste da leggere; soprattutto, fu l’organizzazione della Pignatelli a sostenere la difesa degli imputati, rintracciando gli avvocati e provvedendo, assieme al concorso di alcuni notabili cittadini, al pagamento delle relative spese legali. Un’attività che non si limitò al solo capoluogo, allargandosi ai detenuti fascisti delle carceri di San Gimignano, tra i quali figurava anche l’ex federale milanese Vincenzo Costa.

Di grande interesse risultano al riguardo le relazioni economiche relative ai bienni 1948-1949 e 1950-1951, dalle quali emergono indicazioni di carattere quantitativo circa l’azione assistenziale del movimento, comprendente l’invio di pacchi natalizi, generi alimentari e medicinali; l’organizzazione di pranzi; l’assistenza alle famiglie dei detenuti.

Merita infine un accenno la corrispondenza intrattenuta con i singoli imputati – particolarmente significativa quella riguardante Chiurco e l’ex comandante della squadra politica fascista Alessandro Rinaldi – dalla quale emergono sia informazioni circa la quotidianità dei prigionieri, il loro stato d’animo e le preoccupazioni del momento; sia indicazioni relative all’organizzazione dei ricorsi dopo le prime condanne emesse dall’assise senese.

Riferimenti bibliografici.

  1. F. Bertagna, Un’organizzazione neofascista nell’Italia postbellica. Il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia» di Maria Pignatelli di Cerchiara, in Rivista Calabrese di Storia del ‘900, 1, 2013, pp. 5-32;
  2. R. Guarasci, La lampada e il fascio. Archivio e storia di un movimento neofascista. Il «Movimento italiano femminile», Laruffa, Reggio Calabria 1987;
  3. K. Massara, Vivere pericolosamente. Neofascisti in Calabria oltre Mussolini, Aracne, Roma 2014;
  4. A. Orlandini, G. Venturini, I giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani, Il caso di Siena, La Pietra, Milano 1983;
  5. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia. 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 55-74;
  6. N. Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Le Monnier, Firenze 2019.



Mostra on line “GROSSETO LIBERATA. Storia di un lungo antifascismo e di una Resistenza breve in Maremma”

Nel giugno 2020, poco dopo la fine del lockdown, l’istituto storico della Resistenza di Grosseto ha pubblicato on line una mostra dal taglio storico-divulgativo sugli eventi che portarono alla liberazione del capoluogo e, in poco più di due settimane, dell’intero territorio provinciale grossetano. La scelta, in linea con un progetto di ricerca i cui esiti sono stati poi pubblicato alla fine del 2021 nel volume “Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma” (a cura di Stefano Campagna e Adolfo Turbanti), fu quella di una prospettiva allargata nei tempi e negli spazi, interpretando singoli episodi della lotta di Liberazione, spesso già conosciuti e studiati, alla luce delle strategie belliche degli eserciti contrapposti, degli effetti della guerra totale sul territorio e sulla popolazione civile, dell’attività delle bande partigiane e del Comitato di Liberazione provinciale. La mostra raccoglie e rielabora materiali originali prodotti dall’Isgrec in quasi 30 anni di attività e offre spunti ulteriori per l’approfondimento del contesto provinciale: documenti, fotografie, testimonianze edite e inedite.  Nel corso degli anni la mostra è stata implementata con nuova documentazione.

Link alla mostra >>https://grossetoliberata.weebly.com/




Tra storia e memoria

Il progetto

Che relazioni sussistono tra storia e memoria? In che modo lo studio della memoria può, se ne è in grado, contribuire allo studio delle questioni storiche? Cercheremo di rispondere a queste domande nella relazione che segue, incentrata su uno dei database prodotti dal PRIN 2017-2020 “School Memories between Social Perception and Collective Rapresentation”. Il PRIN (gestito dalle Università di Macerata, Firenze, Roma Tre, Campobasso e Milano Cattolica) ha prodotto un portale, www.memoriascolastica.it. Quest’ultima raccoglie fonti educative divise in tre sezioni: memoria collettiva, memoria pubblica e memoria individuale. Su quest’ultima, denominata “Memorie educative in video”, ha lavorato l’unità dell’Università di Firenze, raccogliendo le memorie scolastiche di studenti, insegnanti ed educatori. Per ogni memoria è stata stilata una scheda tra le 500 e le 1000 parole.

Riguardo a questo database, è necessario fornire alcuni dati. Ad adesso sono state caricate 250 schede, con altrettante interviste. Le interviste sono state condotte da studenti del corso di Storia dell’educazione, ovvero studenti del secondo anno del corso di Scienze della Formazione primaria, che hanno ricevuto un’istruzione di base su come condurre un’intervista. Contiamo, sulla base degli studenti iscritti al corso in questo anno accademico, di ottenere altre 250 interviste in più. Gli intervistati avevano un range d’età abbastanza vasto: la più anziana, Marcella Dei, è nata nel 1932, il più giovane, Giulia Freni, nel 1996. La maggior parte delle persone intervistate è nata negli anni Cinquanta e Sessanta, come è desumibile dalla disaggregazione delle interviste per decenni coperti: due riguardano gli anni Trenta, ventidue coprono gli anni Quaranta, 56 gli anni Cinquanta, 86 gli anni Sessanta, 118 gli anni Settanta, 81 gli anni Ottanta, trentatré gli anni Novanta, ventuno gli anni Zero, di cui solo due memorie d’infanzia, le altre memorie professionali. Un’intervista può coprire più decenni. Per quanto riguarda la disaggregazione territoriale, l’87% delle interviste affronta memorie di persone che hanno frequentato la scuola in Toscana: questa contingenza ci consente di studiare le memorie scolastiche anche in un’ottica regionale. Altra questione riguarda la divisione per genere, con le interviste concesse da donne nettamente superiori a quelle rilasciate da uomini.

Alcune questioni metodologiche

Molte sono le questioni di metodo sollevate da un tale approccio. Innanzitutto, la potenzialità ermeneutica della memoria nello studio della storia. La memoria, facoltà conoscitiva degna di studio nell’antichità e nella prima età moderna, con la rivoluzione scientifica ha conosciuto un notevole ridimensionamento. Solo con il secolo Ventesimo è stata rivalutata quale facoltà conoscitiva, prima da Bergson e successivamente dalla fenomenologia. La questione è stata riproposta da Demetrio, e più nello specifico, dalla storia orale. Per Giovanni de Luna, lo storico oralista deve maturare una profonda consapevolezza sulla specificità delle fonti con cui lavora: la persona, con la sua soggettività, i suoi dolori, il suo desiderio di focalizzarsi su un argomento piuttosto che su un altro; la sua memoria, che può lasciarsi condizionare o può, se non esercitata, scivolare nell’oblio.

Altre precisazioni di fondo. Bisogna ricordarsi che le interviste sono state condotte, in massima parte, da studenti. Questa strategia può aver portato a prodotti visivi meno impattanti e, talvolta, a domande non centrate. Bisogna tuttavia riconoscere che solo in questo modo è stato possibile, in un lasso di tempo breve, accumulare una notevole quantità di materiale da poter studiare, senza contare l’impatto che l’intervista ha avuto sulle facoltà empatiche e relazionali dello studente.

I percorsi di analisi: alcune proposte. Senza nessuna pretesa di completezza, proveremo a enucleare alcuni percorsi.

La persistenza della riforma Gentile è un assunto condiviso da diversi studiosi, che la scuola degli anni Cinquanta fosse strutturalmente prossima a quella degli anni Trenta. Questa posizione è rivendicata anche da Simonetta Soldani, nell’intervista inclusa nel portale.

Ma come era percepita la scuola in quegli anni? Era una scuola, innanzitutto, che conosce rigide partizioni. Partizioni di genere. Sociali. E territoriali. Spiccava, su tutto, il contrasto tra le pluriclassi di campagna e le scuole di città. Ad accorgersene, chi si trasferiva dall’una all’altra. Accade ad esempio ad Antonella Bruni, nata nel 1962 a San Gimignano, che afferma di non esser stata in grado di padroneggiare l’alfabeto fino alla fine della seconda elementare.

Partizioni sociali. Benché ricorrano figure di maestri che decidano di aiutare i bambini più poveri ad affrontare l’esame di ammissione alle scuole medie, la scuola come validatrice dell’esistente ricorre in diverse testimonianze. Nella maestra di Roberto Cacciatori (n. 1945), pronta a telefonare a casa dell’intervistato per esprimere tutto il suo sdegno davanti alla scelta della famiglia, di condizioni sociali invero piuttosto modeste, di iscrivere il figlio all’esame di ammissione per le scuole medie. Ancora più icastica la maestra di Rosanna Perferi (n. 1949): “Le querce non fanno limoni” afferma infatti l’insegnante per frustrare le ambizioni familiari di far proseguire gli studi alla bambina, nata in un contesto di agricoltori inurbati nell’aretino. E influenzate dalla classe sociale sembrano anche le punizioni corporali, apparentemente inferte soprattutto a chi proveniva da contesti sociali maggiormente disagiati.

Il Sessantotto In questo quadro di validazione dell’esistente e in cui la scuola era percepita nelle vesti di custode di ruoli sociali codificati, il Sessantotto è spesso ricordato come una cesura radicale. Ad essere accentuato è il suo momento ludico, di rottura degli schemi, come nell’intervista a Maria Alessandra Sabbatini. All’interno delle interviste possiamo distinguere quelle due generazioni di cui parla Francesca Socrate: la prima generazione, quella del discorso impersonale, e la seconda, più focalizzata sulla propria individualità, come sottolinea Anna Auzzi (n. 1961). Istituzioni soffocanti, come la scuola nel pre-Sessantotto, e, negli anni Settanta, soprattutto per le donne, la famiglia.

Narrazioni femminili In questo contesto le narrazioni femminili giocano nel nostro discorso un ruolo di estremo interesse. Innanzitutto, è lecito chiedersi perché le donne siano privilegiate dai nostri studenti, questione che potremo approfondire tramite un questionario da somministrare al termine dell’intervista. In secondo luogo, dobbiamo notare una maggiore insoddisfazione delle donne, diversamente dagli uomini, che affermano sempre di esser soddisfatti del proprio percorso di vita. Quali i motivi? Possiamo supporre che le donne riversassero maggiori aspettative nella scuola. Potremo però anche supporre che per le donne sia più facile esternare emozioni negative internalizzate, come la tristezza e il rimorso, rispetto agli uomini: questi ultimi, soprattutto per quanto riguarda le coorti di età più avanzate, spesso non sono stati educati a esternare questo tipo di sentimenti. A prescindere da quale sia la causa, forte rimane il rammarico delle donne per il fatto di non aver potuto continuare a studiare, eventualità spesso limitata ai fratelli maschi. Ed è sulle donne che la trasformazione dell’istituzione scolastica, soprattutto di quella elementare, negli anni Settanta, ha le maggiori ricadute. L’evoluzione della scuola si pone infatti in frizione con strutture familiari che spesso ricalcano quelle dei decenni precedenti, come ricorda Sandra Longi, dal m. 17.10: gli insegnanti più giovani e innovativi «ti facevano anche vedere un’altra prospettiva… un’altra società magari noi ragazzi dell’epoca nati negli anni Sessanta invece a casa magari avevamo un padre di stampo patriarcale che l’uomo va ubbidito che il padre è la figura principale nella famiglia è quello che detta le regole più della mamma perciò insomma io alla fine con questa cosa della maestra che insegnava in un certo modo mi scontravo a casa con il padre».

 

Chiara Martinelli è assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze, dove insegna Storia dell’educazione e dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Ha svolto incarichi presso le Università di Ferrara, Milano Bicocca, Roma La Sapienza e Siena. Membro del Consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, è redattrice nei comitati editoriali di “Rivista di Storia dell’Educazione” e “Farestoria”. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Echi e suggestioni del Sessantotto nella letteratura per l’infanzia” (ETS, 2022) e “Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico-industriali nell’Italia liberale” (Aracne, 2019).




GIUGNO 1940: SIRENE D’ALLARME

La gente era intorno e commentava: tutto era ancora nel raggio delle cose possibili e prevedibili; una casa bombardata, ma non si era ancora dentro la guerra, non si sapeva ancora cosa fosse (Italo Calvino, L’entrata in guerra)

Il 10 giugno 1940, dalle ore 13.55 alle 14.05, a Livorno suonarono sinistramente le sirene dell’allarme aereo e «la città si paralizzò». Le disposizioni prevedevano che il segnale durasse 15 secondi, ad intervalli pure di 15 secondi. In realtà si trattava di un falso allarme, causato da un guasto tecnico, ma «nella popolazione si è manifestata una certa apprensione», anche perché per le ore 18 era atteso l’annuncio di Mussolini per l’entrata in guerra dell’Italia fascista contro Francia e Inghilterra, trasmesso dagli altoparlanti dal Palazzo Littorio in piazza Cavour.
All’entusiasmo bellicista, già nella notte tra l’11 e il 12 giugno, il Bomber Command britannico replicava colpendo Torino e Genova, seppure con incursioni aeree di carattere prevalentemente dimostrativo, nonostante alcune vittime civili. Lo stesso comando aveva individuato anche Livorno tra i primi 17 principali «obiettivi industriali in Italia» con riferimento alle raffinerie, ma fortunatamente la città si trovava, per la distanza dalle basi inglesi, al limite dell’autonomia operativa dei bimotori da bombardamento della RAF, Wellington e Whitley.
Regia Aeronautica e Armee de l'AirFu invece l’Armée de l’Air a colpire Livorno e Rosignano, in segno di reazione per l’aggressione voluta da Mussolini per sedersi, con ambizioni espansionistiche, al tavolo dei vincitori (tedeschi) a pochi giorni dalla resa francese.
Dopo aver sostenuto l’offensiva germanica sul fronte occidentale, l’aviazione francese era appena in grado di impiegare pochi velivoli, sovente inadeguati, per lo più singolarmente o in sezioni ridotte, senza difesa da parte della propria caccia, nel tentativo di danneggiare le strutture industriali, militari e portuali italiane, soprattutto delle zone costiere, isole comprese.
Nonostante tali limiti operativi l’effetto propagandistico ed anche psicologico fu comunque conseguito, mostrando al popolo italiano la vulnerabilità del territorio metropolitano e quanto poco fosse affidabile la protezione dagli attacchi aerei, a dispetto delle vantate capacità e dei mezzi della Regia Aeronautica.
Anche la provincia livornese fu raggiunta più volte – pur senza gravi conseguenze materiali – dall’aviazione francese, in quanto per la vicinanza alla Corsica e alla Costa Azzurra, era facilmente raggiungibile, senza peraltro temere danni da parte dell’evanescente reazione della Milizia Artiglieria Contraerei (13ª Legione DICAT) e dei caccia italiani, anche se presso l’aeroporto di Pontedera, in località Curigliana, vi erano dislocate due squadriglie di Fiat G.50 e una di Fiat CR 32.
Su queste incursioni, irrisorie a confronto di quelle ben più devastanti e luttuose del 1943 – ’44 compiute dai bombardieri anglo-americani (ed anche tedeschi), le informazioni sono scarse, confuse e sovente contraddittorie; stante anche la reticenza dei Bollettini di guerra e la censura che impediva – per motivi militari e politici – la pubblicazione di ogni notizia sui giornali, pur se la cittadinanza labronica ne aveva fatto esperienza diretta, tanto da indurre i primi “sfollamenti”.
Infatti, sia il prefetto Zannelli che il questore Roselli di Livorno avevano inoltrato alla stampa locale la seguente velina del Minculpop del 12 giugno: «Giornali non devono dare assolutamente notizie di allarmi incursioni aeree, bombardamenti che non siano comprese nel Bollettino del Quartier Generale delle Forze. Tali notizie non potranno essere né ampliate né commentate».
Nei diversi saggi pubblicati riguardanti i bombardamenti sull’Italia si trova a malapena appena qualche accenno a quelli compiuti da aerei francesi su Livorno e persino il fondamentale saggio di Henri Azeau sul conflitto italo-francese ignora tali incursioni.
RR Bagni PancaldiControversi e discordanti appaiono i riferimenti a date, obiettivi, bombe, antiaerea, numero e tipo degli aerei impiegati che è possibile trovare nei testi (ma anche riviste e siti web) italiani a disposizione; d’altronde persino la documentazione d’archivio esistente è tutt’altro che univoca.
Informazioni utili per la presente ricostruzione, non conclusiva, sono stati desunti da alcuni documenti militari francesi, raffrontati con i rapporti pervenuti o trasmessi dalla Questura di Livorno, peraltro non esenti da inesattezze. Esistono inoltre ben tre diverse e poco concordanti cronologie degli allarmi e dei bombardamenti: il Registro degli allarmi avuti nella città di Livorno nel periodo bellico 1940 – 1945, redatto nel 1946 dal personale addetto all’impianto delle sirene dislocato presso Villa Maria; l’elenco allegato ad una comunicazione del Prefetto di Livorno alla Procura generale della Corte dei Conti, nel marzo 1965; uno schema similare pubblicato nel 1948 all’interno del libro di Gastone Razzaguta, Livorno nostra.
le-jules-verne-avion-corsaire-1In particolare, vi è molta incertezza attorno al primo presunto raid aereo su Livorno.
Secondo quanto riportato in una pubblicazione del Comune di Livorno del 2013, il 13 giugno un Farman 223-2 dell’Armée de l’Air avrebbe colpito, non gravemente, alcuni caseggiati. Per tale data però non vi è alcun riscontro documentale dell’azione, ma nel citato Registro appare riportato un allarme dalle 3.10 alle 3.55 del 12 giugno, con l’improbabile annotazione «bombe sull’Anic», mentre sul Bollettino di guerra n. 2 allo stesso giorno risulta segnalato un più verosimile sorvolo, forse di ricognizione, da parte di aerei nemici.
Su «Il Telegrafo» non venne ovviamente fornita alcuna notizia in merito, ma il 14 giugno vi furono pubblicate le Norme generali per gli allarmi aerei emanate dal Ministero della Guerra. Nella pagina laterale, invece, era possibile leggere una cronaca dettagliata del bombardamento notturno subito da Torino il 12 giugno con 14 morti e decine di feriti ad opera di velivoli inglesi.
Il 15 giugno, ancora sul quotidiano livornese, comparve un promemoria per la Protezione antiaerea in cui, oltre a confermare la «perfetta attrezzatura antiaerea», si ricordavano i doveri della popolazione civile, concludendo che «Livorno s’è messa perfettamente in linea e nella sua veste guerriera attende, con la tranquillità dei forti, al proprio lavoro».
Nei giorni seguenti, sarebbero seguiti altri articoli in cui si richiamavano i compiti dei militi dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), dei gruppi rionali fascisti e dei «capofabbricato» per l’attuazione puntuale delle misure di oscuramento e prevenzione antincendio.
La prima, accertata, incursione avvenne nelle prime ore del 16 giugno. Il Farman 223-4 “Jules Verne”, decollato da Bordeaux-Mérignac, raggiunse nottetempo Livorno; le sirene d’allarme risuonarono attorno alle ore zero. Dopo aver sorvolato la città per circa un’ora alla ricerca dell’obiettivo, ossia la raffineria Anic a Stagno, sganciò il carico causando solo principi d’incendio nelle vicinanze di una casa colonica, anche se il pilota Henri Yonnet nelle sue memorie vantò un successo completo della missione, descrivendo fuoco e fiamme sul bersaglio.
Facendo rotta verso sud, dall’aereo furono lanciati migliaia di piccoli manifestini, così come era avvenuto su Roma, raccolti in gran numero l’indomani nel quartiere San Jacopo, su cui era possibile leggere:

Il Duce ha voluto la guerra? Eccola! La Francia non ha niente contro di voi. Fermatevi! La Francia si fermerà

Donne d’Italia ! Nessuno ha attaccato l’Italia. I vostri Figli, i vostri Mariti, i vostri Fidanzati
non sono partiti per difendere la Patria. Soffrono, muoiono per soddisfare l’orgoglio d’un uomo. Vittoriosi o vinti, avrete la fame, la miseria, la schiavitù“.

Nel resoconto della Questura non compare alcun cenno alla reazione dell’antiaerea che, invece, alcuni fonti indicano come vivace ad opera delle postazioni al Cantiere navale, nel porto (zona Piloti), a Colline, nonché da un cacciatorpediniere presente nel Cantiere. Analogamente, in alcuni testi il raid viene attribuito a bombardieri medi di diverso tipo (Amiot 143, Leo 451, Martin 167) con danni leggeri arrecati nel quartiere Venezia Nuova, piazza Vittorio Emanuele e piazza Magenta; ma tali riferimenti appaiono incerti e forse riferentesi erroneamente alla successiva incursione del 22 giugno.
Il “Jules Verne”, comandato dal leggendario capitano di marina Henri-Laurent Dailliére, aveva già compiuto sedici rocambolesche missioni, tra cui quelle su Anversa, Berlino (primo bombardamento alleato, 7 giugno 1940), Rostock, Porto Marghera e, la notte precedente, Roma (lancio di migliaia di volantini). Il velivolo, un Farman 223-4, era un imponente quadrimotore (due motori in tandem) dell’Air France nato per voli civili transatlantici, “militarizzato” e incorporato nella Aviation Navale (Escadrille de Bombardement B-5) per dare la caccia alle navi corsare tedesche, assieme ai gemelli “Camille Flamarion” e “Urbain Le Verrier”, ma poi impiegato per azioni offensive a lungo raggio, ultima delle quali fu quella su Livorno.
Cratere bomba alla SolvayLa notte seguente venne il turno di Rosignano: alle ore 3 e 5 minuti del 17 giugno, il Farman 222-2 “Arcturus” n. 16 della Escadrille d’Exploration 10E dell’Aviation Navale (con base algerina ad Oran-La Sénia), colpiva con precisione la fabbrica chimica Solvay in due o tre passaggi, sganciando tredici o quattordici bombe da 100 e 200 kg., così come risultò dalla perizia balistica su una spoletta recuperata. Una di queste abbatté 35 metri di una delle due ciminiere, alta 105 m., mentre altre lesionarono seriamente un’officina meccanica, la palazzina ad uso foresteria per il personale dirigente, condutture elettriche e tubazioni idriche, con danni alle strutture per oltre un milione di lire e la perdita di 168.00 ore lavorative, con conseguente arresto della produzione di soda per 12 giorni e la successiva riduzione ad un terzo, con rilevanti riflessi su quella dell’alluminio e nell’industria tessile.
Oltre alle bombe – per un carico totale di circa 2/2,5 tonnellate – furono lanciati in quantità i soliti volantini di propaganda disfattista su Rosignano e Cecina.
A seguito dell’incursione, alle 3.15 l’allarme suonò anche a Livorno e fu allertata la contraerea, temendo che il bombardiere francese – presumibilmente diretto in Corsica – facesse rotta su Livorno.
propaganda_1940Il 22 giugno, su «Il Telegrafo», veniva pubblicato un articolo sconcertante sulla Psicologia delle masse di fronte ai bombardamenti e, a titolo d’esempio, era riportata l’improbabile testimonianza di una «degna figlia della Roma fascista»: «La prima volta si prova quasi impressione; poi non ci si bada più e quasi ci si piglia gusto…»; ma poche ore prima dell’uscita del giornale nelle edicole, Livorno era stata nuovamente raggiunta da bombe francesi, come riportato dal Bollettino di guerra n. 11 che riferì di «danni rilevanti sulla stazione marittima e abitazioni al centro», pur riferendosi genericamente ad un’incursione nemica.
Su questo bombardamento ci sono abbastanza informazioni, grazie ai rapporti della Questura inerenti i danni riportati, ma è ipotizzabile che le incursioni siano state due, tra le 3.30 e le 4.50. Appare infatti improbabile, considerato il numero delle bombe – esplose e non – che sia stato un solo velivolo a sganciarle, anche perché il carico esplosivo risultava ridotto, per avere una sufficiente riserva di carburante.
Il solito Farman 222-2 “Arcturus”, proveniente da Oran, autore del raid su Rosignano sganciò alcune bombe da 250 Kg. – forse con target l’Accademia navale – sul viale Regina Margherita, diroccando invece l’Albergo Palazzo (già Hotel Palace, prima del fascismo) e i RR. Bagni Demaniali Pancaldi.
La stima dei danni fu di circa Lire 1.200.000 per l’Albergo, 115.000 per i Pancaldi e 25.000 per ripristinare il manto stradale davanti ai Bagni dove era rimasto un cratere di 10 metri nonché la balaustra spazzata via dall’esplosione, mentre nel quartiere erano andati in frantumi i vetri delle finestre di molte abitazioni.
Invece, come indicato dallo storico dell’aviazione Bonacina, alcuni moderni bombardieri francesi LeO 451 provenienti da Istres (Marsiglia), puntarono sulla zona portuale, dove tre bombe colpirono la stazione ferroviaria marittima (allora “Livorno Porto Vecchio”). Gli ordigni produssero crateri di circa 14 metri di diametro e profondi 5, distruggendo una dozzina di scambi e binari, oltre a deragliare tre vagoni (danni stimati per Lire 80.000), mentre altre tre bombe furono rinvenute inesplose.
Danneggiati pure i Macelli comunali presso il Forte S. Giacomo (per 40-50.000 lire) e un serbatoio della società petrolifera “Nafta” (8-10.000 lire), nonchè numerosi edifici delle zone limitrofe.
Una bomba incendiaria colpì il palazzo del Municipio, sul retro, lato scali Finocchietti, rendendo inagibile l’abitazione del segretario generale. Altri edifici colpiti furono segnalati in piazza del Luogo Pio (compreso il Dopolavoro fascista “Dino Rimediotti”), scali Rosciano, viale Caprera, via delle Galere, via della Posta, via Vittorio Emanuele (l’attuale via Grande), via Ernesto Rossi, nonché sugli scali Saffi dove un incendio disastrò il buffet del Teatro Politeama. Una bomba fu rinvenuta inesplosa in piazza Magenta.
Paradossalmente, il radiotelemetro sperimentale RDT3 della Regia Marina, situato presso l’Accademia navale, era stato in grado di rilevare gli aerei nemici in avvicinamento già a 30 km., offrendo in teoria la possibilità di allertare la contraerea e la caccia italiana per intercettarli; ma non vi fu alcun contrasto aereo e soltanto in seguito sarebbe stata piazzata una batteria antiaerea alla Terrazza Mascagni (allora intitolata a Ciano).
Eravamo comunque al baroud d’honneur: nella stessa notte Marsiglia veniva bombardata da velivoli italiani con l’uccisione di almeno 143 civili e due giorni dopo fu firmato l’armistizio tra Italia e Francia, dopo 14 giorni di inutile belligeranza, costata alle truppe italiane 631 morti, 2631 feriti e ben 2151 congelati.
Complessivamente a Livorno, in queste prime incursioni aeree del giugno 1940 risultarono colpiti e danneggiati, oltre alle strutture citate, una settantina di appartamenti privati, con danni stimati attorno a Lire 70-76.000: un preavviso dei bombardamenti che Livorno doveva ancora patire nel corso della guerra fascista, con la distruzione pressoché totale dell’area portuale e del centro storico, nonché di centinaia di vittime, senza che il regime fosse in grado di assicurare adeguate misure di difesa attiva e protezione, dato che pure i rifugi si sarebbero tragicamente rivelati delle tombe collettive.
«La storia apparentemente tecnica della contraerea di Mussolini – come osservato da Nicola Labanca – è in fondo la storia generale di un regime che parla e affretta la guerra senza prepararvisi, anteponendo l’ideologia, la politica e il partito alla razionalità delle esigenze della guerra».




Bagni di Casciana 1922: Gino Bonicoli, morte di un mezzadro

Morire a diciott’anni con una pallottola in testa. Per un fiore rosso portato con orgoglio all’occhiello. O per aver fischiettato Bandiera Rossa passeggiando per le strade del paese.

Piccoli gesti – apparentemente innocui – mossi dagli ideali, che si riveleranno fatali per Gino, perché considerati un affronto da coloro che stanno dalla parte opposta della barricata, resa ogni giorno più forte dall’arroganza che sfocia in violenza, dalla prepotenza che spazza via la ragione, lasciando sul campo una scia infinita di sangue. Date lontane un secolo, luoghi così vicini, scene maledettamente simili. Tanti nomi che oggi rischiano di ridursi a semplici elementi della toponomastica, legati a una via o a una piazza. Persone che hanno pagato con la vita il loro desiderio di libertà, per sé e per gli altri, finendo calpestati dallo squadrismo fascista. Quello di Gino Bonicoli, mezzadro ucciso per la sua fede comunista, non fu soltanto il frutto dell’esaltazione di un gruppetto di ragazzi, che se la presero con un coetaneo. Non fu solo la fredda esecuzione di un giovane che si ribellava alle nuove regole che si facevano strada seminando distruzione e violenza, sopraffazione. Esaltazione accompagnata dal tentativo di annientamento degli avversari politici.

Il libro “Gino Bonicoli. Morte di un mezzadro. Bagni di Casciana, 1° giugno 1922” (Tagete Edizioni, 2015), di Francesco Turchi, giornalista del Tirreno e scrittore per passione, ha l’obiettivo di ripercorrere una vicenda che rischiava di essere cancellata nella Memoria della comunità locale e non solo. L’autore ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti originali del tempo, raccolti negli archivi anche al di fuori dei confini regionali; verbali di consigli e giunte, informative prefettizie, sentenze. Ma anche articoli di giornale dell’epoca.

Quell’omicidio per essere compreso va inserito nel contesto storico nel quale maturò. Con un’Italia in ginocchio per le conseguenze della prima guerra mondiale.  Ed è qui che si inserisce il lavoro di Francesco Biasci, autore di una introduzione che prende il lettore per mano e lo porta indietro nel tempo, in un quadro ben definito sul piano economico, sociale e politico.

L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato, fatto di padroni e di servi che rivendicavano condizioni di vita migliori. In questo contesto, i fascisti, in un crescendo di violenza, prendono possesso dei paesi, fino a dominarli, soffocando qualsiasi opposizione. Minacciando, picchiando. Uccidendo. In tutta la provincia di Pisa come nel resto d’Italia. Con una frequenza terribile. Marzo 1921: a Barca di Noce viene ucciso Enrico Ciampi, fondatore della prima sezione comunista del Pisano. Il 13 aprile la stessa sorte tocca al maestro Carlo Cammeo, direttore del giornale socialista “L’Ora Nostra”, freddato nel cortile della scuola dove insegna a Pisa. Il 17 agosto viene ucciso Silvio Rossi, segretario comunale della giunta di sinistra a Palaia; un mese dopo vengono assassinati a Cascina i socialisti pontederesi Paris Profeti e Guido Bellucci. E ancora, nella primavera successiva, Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, socialista, assessore, viene ammazzato a Casteldelbosco mentre sta andando a Marti a una riunione sindacale. Il fuoco riduce in cenere sedi di partito e sindacati, i manganelli fanno il resto. E quando non bastano, entrano in scena le armi da fuoco.

Succede anche la sera del 1° giugno 1922 a Bagni di Casciana. Cinque mesi prima della marcia su Roma, Gino è vittima di un agguato mentre sta tornando a casa, nella campagna di Fichino. Non gli sono bastati avvertimenti e ultimatum. Continua a portare quel garofano rosso all’occhiello, ignorando le minacce. L’ha fatto anche la mattina stessa e poi la sera, “sorpreso” in un caffè quando invece gli era stato ordinato di starsene a casa. Nello Menicacagli, mugnaio di 21 anni e i due braccianti di poco più giovani, Alfredo Falchetti e Pietro Fabbri lo affrontano con una pistola. Menicagli spara, Gino muore. E morirà una seconda volta, poco tempo dopo, in un’aula di tribunale, quando al termine di un processo-farsa, gli imputati difesi dall’avvocato Guido Buffarini Guidi (sindaco di Pisa e poi podestà tra il 1923 e il 1933, futuro ministro della Repubblica sociale di Mussolini), ottengono l’assoluzione: «Hanno agito per legittima difesa», minacciati da Bonicoli. Che in realtà non ha mai avuto una pistola in vita sua, tanto meno quella sera maledetta. Ucciso due volte, umiliato una terza. Perché i suoi genitori fecero scrivere sulla lapide “vilmente assassinato mentre rincasava“. Nessun riferimento esplicito a mandanti (la cui esistenza non può essere esclusa ma non è mai stata provata) o esecutori. Ma tanto bastò per “invitare” i familiari a rimuoverla. Mamma Anna Maria, non obbedì, ma ordinò al marmista di girare la lapide. Per capovolgerla di nuovo e iniziare a riscrivere la verità, serviranno ventitré anni.

il cippo in memoria di G. BonicoliDopo la Liberazione e la fine dell’occupazione tedesca, i cascianesi rendono omaggio a Gino e poco dopo la Corte di Cassazione cancella il processo del 1922. Dodici mesi più tardi, il 19 giugno 1946 la Corte d’Assise di Pisa ristabilisce la verità su tutta la vicenda, condannando Alfredo Falchetti, l’unico rimasto in vita dei tre che tesero l’agguato a Bonicoli.

Ricordato, in questi giorni, nel centenario della sua morte,  con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione Comunale di Casciana Terme Lari, dalla sezione “Gino Bonicoli” dell’ANPI Valdera Colline, dal Circolo ARCI di Casciana Terme “Il proletario”, con la speranza che la Memoria non cancelli il suo sacrificio per la libertà.

Sono intervenuti alla commemorazione istituzionale di sabato 28 maggio il Sindaco di Casciana Terme Lari Mirko Terreni, il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo, Ivan Mencacci presidente della sezione Anpi Valdera Colline “Gino Bonicoli”, il responsabile Memoria e Antifascismo Arci Toscana Stefano Carmassi, l’Assessora Regionale alla Cultura della Memoria Alessandra Nardini. Con la partecipazione e i contributi degli alunni della scuola media di Casciana Terme, accompagnati dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Pizza.

Nel programma altre due  iniziative: il concerto del 1° giugno del Gruppo Musicale “La serpe d’oro”, e il 3 giugno una serata di musica e parole a cura di Guascone Teatro con la regia di Andrea Kaemmerle e la partecipazione del prof. Roberto Bianchi dell’Università di Firenze.




1922-2022. L’affaire Comaschi.

Il 19 marzo 1922 Comasco Comaschi, anarchico cascinese e maestro ebanista, viene fermato sul Fosso Vecchio mentre è in calesse di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana e viene ucciso con armi da fuoco in un agguato fascista.

Comasco Comaschi era nato a Cascina il 27 ottobre 1895 da Ippolito e Virginia Bacciardi. Comasco nella sua formazione politico-sociale è influenzato dal contesto cittadino, dove l’economia si basa sulla presenza di piccoli artigiani del legno e l’associazionismo operaio si è rivelato vivace e attivo sin dall’Unità d’Italia, e dal padre, che milita nel movimento anarchico fin dagli anni ottanta dell’800. Comaschi è dunque tra i promotori della locale sezione della Pubblica Assistenza e stimato insegnante alla Scuola d’arte di Cascina. Sotto la sua guida il gruppo anarchico di Cascina è molto attivo e organizza anche un gruppo di Arditi del popolo.

L’assassinio di Comaschi è l’ultimo di una lunga serie di uccisioni politiche perpetrate dai fascisti locali, come quella del comunista Enrico Ciampi, o del giovane Archimede Bartoli, o ancora dei socialisti Paris Profeti e Corrado Bellucci.

 1922. Il processo fascista

La vicenda giudiziaria si apre all’indomani dell’uccisione di Comasco Comaschi, quando vengono immediatamente fermati i presunti responsabili dell’assassinio, ma si chiuderà definitivamente solo nel 1951.

Il giorno successivo all’uccisione di Comaschi infatti i Carabinieri di Cascina iniziano le indagini e arrestano i presunti responsabili dell’omicidio: Pilade Damiani, Giovanni Barontini, Orfeo Gabriellini, Vasco Paoletti, Gaetano Diodati, Antonio e Italiano Casarosa, Francesco Del Seppia e Arturo Masoni. Tutti negano la propria responsabilità nell’omicidio, provvedendo a fornire prove di alibi. Anche alcuni testimoni non hanno il coraggio di denunciarli, per timori di ritorsioni e rappresaglie, così tra il 20 marzo e l’11 luglio tutti gli accusati vengono scarcerati per ins ufficienza di prove. Responsabile del celere insabbiamento del processo anche il comandante dei Carabinieri di Cascina, Frullini, vicino agli ambienti fascisti.

Successivamente anche il procuratore generale di Lucca, nella sua requisitoria del 23 ottobre 1922, chiede che l’istruttoria sia chiusa per insufficienza di prove. Emblematico che questa prima fase della vicenda giudiziaria sull’omicidio Comaschi si chiuda proprio nei giorni a cavallo della marcia su Roma. Se la requisitoria del procuratore generale è infatti del 23 ottobre, l’8 novembre giunge la sentenza. Il giudice conferma infatti non doversi procedere per insufficienza di prove.

1945. La riapertura delle indagini

L’affaire Comaschi sembra essersi concluso, senza giustizia. Passa il ventennio, giunge la guerra, ma il processo è destinato a riaprirsi il 17 marzo 1945.

Cascina è stata liberata il 4 settembre 1944, ma ancora il suolo italiano è diviso e occupato dagli eserciti stranieri. Il 17 marzo Vasco Comaschi denuncia nuovamente ai Carabinieri di Cascina i responsabili dell’assassinio del fratello, elencando tutte le vicende delittuose che dal 1921 al 1944 li hanno visti protagonisti.

Nella stessa giornata quindi i denunciati vengono reperiti, fermati e portati alle carceri di Pisa, anche per salvaguardare la loro incolumità, dato che il lunedì successivo, ricorrendo l’uccisione del Comaschi Comasco, vi sarebbe stato in Cascina un corteo commemorativo e quindi qualche elemento, definito irresponsabile, avrebbe potuto compiere atti di vendetta.

10 maggio 1945. La resa dei conti

Mentre si riaprono le indagini e si svolgono dunque interrogatori e testimonianze, il 10 maggio 1945 rientra dal Nord, dove si era trasferito in seguito all’istituzione della Repubblica di Salò, facendo parte della GNR di Malorno (Brescia), Orfeo Gabriellini, ritenuto il capo della squadra d’azione che aveva ucciso Comaschi.

Il maresciallo Adolfo Mascolo, segnala di essere intervenuto sul Corso Vittorio Emanuele dopo aver notato in lontananza un individuo che perdeva sangue dalla testa ed accompagnato da molta gente che lo offendeva con parole e pugni, conducendo quindi il Gabriellini in caserma, al cui esterno si era radunata una moltitudine di persone che volevano fare giustizia sommaria. Il Gabriellini, dopo aver confessato la propria responsabilità in merito all’uccisione di Comaschi, veniva tradotto nelle carceri di Pisa.

Negli stessi giorni sempre sul corso Vittorio Emanuele era stata tosata anche la direttrice della scuola elementare da un gruppo di donne e uomini di Cascina.

Si riapre quindi il processo, ma le indagini si concludono nel 1946. Il processo del dopoguerra si apre all’insegna della lentezza, dei cavilli trovati per rinviare il processo, mostrando quindi la debolezza della macchina giudiziaria. Nel 1946 infatti siamo oltre la fase dell’epurazione e dei conti col fascismo dell’immediato dopoguerra. C’è già stata la famosa amnistia Togliatti (decreto presidenziale n. 4 del 22 giugno 1946), con la quale il guardasigilli ricorda che c’è ormai una volontà e una necessità di pacificare il paese e di tornare ad una normalizzazione, di lasciarsi indietro i rancori e le divisioni prodotte da vent’anni di fascismo e dalla guerra.

 1946-1947. l’istruttoria e il processo a Pisa

Dopo aver raccolto nuove indagini, il 17 febbraio avrebbe dovuto svolgersi il dibattimento presso la Corte di Pisa.

Gli avvocati difensori, tra cui Mario Gattai, presentano però alcune presunte lettere anonime di minaccia, sostengono che lo svolgimento del processo a Pisa avrebbe potuto provocare gravi disordini, visto che a Pisa, dove il fascismo aveva lasciato impronte indelebili di violenze e delitti, la popolazione è talmente sovraeccitata che basterebbe un nonnulla per far nascere i più impensati e gravi incidenti, specialmente quando vi si celebrasse il processo per l’uccisione di Comasco Comaschi, che fece allora grande scalpore nella zona della piana di Pisa.

Nonostante l’esito delle indagini circa la lettera anonima da parte del brigadiere Luigi Girasoli dei Carabinieri di Cascina del 10/2/1947, ritenga che la minaccia diretta all’avvocato Gattai possa essere un’astuzia adoperata dagli anonimi allo scopo di trasferire il processo dalla parte politica opposta, il processo viene comunque trasferito a Firenze per legittima suspicione dalla Corte suprema di Cassazione con ordinanza del 13 febbraio 1947.

1946-1948. Il processo di Firenze

Dopo una prima udienza del 16 maggio 1947, in cui la Corte di Firenze ritieen la improcedibilità nei rapporti del Gabriellini del Damiani Pilade e del Casarosa, la sentenza presso la Corte di Firenze venne pronunciata il 7 luglio 1948, quando Gabriellini, Damiani e Bertelli vengono ritenuti colpevoli. Gabriellini, che nel mentre si era reso latitante, è condannato a 21 anni, Bertelli a 6 anni e 3 mesi e Damiani a 12 anni e 6 mesi. I condannati beneficiano di larghi sconti di pena grazie all’amnistia Togliati e all’indulto del 1948, e vengono quindi condonati 14 anni al Gabriellini e l’intera pena del Bertelli.

Vengono invece assolti Casarosa Antonio, per non aver commesso il fatto, e Damiani Oreste per insufficienza di prove.

 1949-1950. Rinvio alla corte di Perugia

Dopo un altro ricorso in Cassazione da parte dei condannati, l’8 febbraio del 1949 il processo viene rinviato dalla Cassazione al giudizio della Corte di assise di Perugia.

Il 21 dicembre del 1949 intanto Orfeo Gabriellini veniva reperito e arrestato a Fiesole, presso il convento di San Francesco dove era stato assunto come personale di fatica.

Quindi la Corte di Perugia sostanzialmente conferma le pene comminate precedentemente, quindi a 14 anni di reclusione Gabriellini, 4 anni e 2 mesi di reclusione per il Bertelli, 8 anni e 4 mesi per il Damiani. Anche in questo caso gli imputati beneficiano di ulteriori sconti di pena e il 16 maggio 1950 Damiani e Gabriellini, gli unici ancora in carcere per l’uccisione di Comasco Comaschi vengono scarcerati.

 La memoria di Comasco Comaschi

 Si conclude così dopo 30 anni l’affaire Comaschi, ma la memoria di Comasco invece resta viva nella comunità cascinese.

Già a partire dal giorno del funerale c’erano stati momenti di grande partecipazione pubblica in ricordo di Comaschi,.

Umanità nuova il 26/3/1922, descrive sulle sue pagine la manifestazione di cordoglio a Cascina, quando la cittadina era tutta parata in rosso e nero, il corteo funebre aveva attraversato le vie seguita da enorme folla, commossa e piangente, che gettava fiori sul carro funebre, coperto da oltre 60 corone. Tutti i lavoratori, i contadini, senza nessun ordine, spontaneamente avevano abbandonato il lavoro, tutti i negozi, perfino le farmacie, erano rimasti chiusi.

Il 9 novembre 1945 la giunta deliberò di nominare la circonvallazione del paese all’anarchico cascinese. Molte iniziative di commemorazione si tennero per gli anniversari dell’uccisione tra il 1945 e il 1950.

Il momento culminante della memoria pubblica fu la giornata di scopertura del busto in bronzo realizzata dallo scultore Francesco Morelli domenica 19 marzo 1961, nella piazza della Mostra artigiana, alla presenza di una grande folla. Presero la parola il sindaco, Alfonso Failla e Remo Scappini. Il primo rievocò le gesta criminali degli squadristi; Scappini ricordò anche la lotta dei partigiani per abbattere la dittatura. Entrambi gli oratori esortarono ad agire compatti, per evitare il risorgere del fascismo. Per espresso desiderio di Gusmano Mariani, che insieme a Pilade Caiani levò a Cascina la protesta anarchica l’indomani dell’assassinio di Comaschi, Aristide Galli depose un memore fiore rosso alla base del busto.

Infine alcune iniziative più recenti hanno coinvolto i più giovani e le scuole, come per esempio gli spettacoli teatrali a cura dell’istituto Pesenti e il gruppo TeatroInBiliko, del 2003 e del 2012, La notte di Comasco e Comasco.

Nel 2014 in occasione del 70° anniversario della Liberazione della Toscana e di Cascina, il Comune di Cascina, l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Lucca (ISREC) e l’Istituto di Istruzione Superiore “Antonio Pesenti” di Cascina hanno promosso I Sentieri della Libertà e delle Resistenze, che si snodano attraverso i luoghi in cui vennero uccisi gli antifascisti cascinesi, come Comasco Comaschi, e proseguono attraverso quei siti che testimoniano il passaggio della guerra e la presenza degli eserciti stranieri: quelli in cui i soldati nazisti perpetrarono stragi civili, oppure i luoghi simbolo delle distruzioni provocate dai bombardamenti Alleati e tedeschi.

Ancora oggi a cento anni dalla sua morte dunque la memoria di Comaschi è ancora viva, come ha dimostrato la gremita sala della gipsoteca comunale, che ha testimoniato come il miglior testamento che possiamo raccogliere dall’anarchico cascinese è quello di portare avanti i valori dell’umanità, la solidarietà, la fratellanza tra i popoli, opponendoli alla violenza, alla sopraffazione, alla guerra e diffonderli anche e soprattutto nelle nuove generazioni.




Franco Serantini cinquant’anni di memoria contro l’ingiustizia

Sono passati cinquanta anni da quel maggio del 1972 in cui Franco Serantini perse la vita. Morì due mesi prima dal compimento dei 21 anni. Viveva da semi-recluso nel Collegio Thouar di Piazza San Silvestro a Pisa, orfano ospite di una struttura semi-carceraria: una volta raggiunta la maggiore età avrebbe potuto finalmente lasciare il riformatorio per andare a vivere da solo (poco più tardi, nel 1975, il Parlamento avrebbe abbassato ai 18 la soglia per diventare maggiorenni). Oggi Franco di anni ne avrebbe avuti poco più di 70 e probabilmente si starebbe godendo la pensione, dopo una vita di lavoro. Impiegato per la IBM, questa era la sua idea: aveva imparato a preparare le schede perforate, in un’epoca in cui i personal computer non esistevano e l’automazione informatica si faceva strada attraverso dei biglietti di carta pieni di buchi.
Purtroppo il suo progetto non si realizzò mai, il percorso immaginato verso la libertà e l’autonomia si chiuse per sempre il 5 maggio di cinquanta anni fa. Quel pomeriggio, dopo essere stato alla sede della IBM dove faceva l’apprendistato, Serantini andò in strada per partecipare a una manifestazione, una delle tante di quegli anni finite con scontri, arresti e cariche della polizia. Come migliaia e migliaia di ragazzi e ragazze di quegli anni, sentiva che senza una dimensione collettiva, senza una ricaduta politica, non aveva senso la riuscita individuale. Le ingiustizie che aveva subito fino ad allora non erano state poche: Corrado Stajano avrebbe scritto che la sua era una storia ottocentesca, «ai limiti dell’invenzione settaria, priva di ogni luce, colma soltanto di miseria, di violenza, d’ingiustizia». Sardo “figlio di N.N.”, adottato da una coppia di siciliani, divenne anche orfano dopo la morte della madre adottiva. Riconsegnato alle strutture dello Stato, venne mandato a Pisa, dove maturò una forte sensibilità politica e dove in un’altra struttura dello Stato in cui non era mai stato prima trovò la morte.
Serantini tessera_ridottaIl tardo pomeriggio del 5 maggio 1972 fu picchiato con i manganelli, i calci di fucile, gli scarponi dei poliziotti della celere di Roma, mandati a Pisa per garantire che i comizi della campagna elettorale si svolgessero senza interruzioni. In una carica sul Lungarno Gambacorti, nella sponda meridionale del fiume, a pochi metri da quella che oggi è l’entrata di Palazzo Blu, luogo di esposizioni, Franco Serantini fu massacrato, poi caricato su una camionetta e portato in caserma, quindi al carcere Don Bosco. Qui fu interrogato da un giudice e passò la visita dal medico penitenziario, ma non ricevette le cure che il suo stato di salute avrebbe preteso. La vicenda di queste ultime drammatiche ore si può sovrapporre a quella vissuta decine di anni più tardi da Stefano Cucchi, ragioniere romano ucciso mentre era in stato di fermo di polizia nell’ottobre 2009. Le violenze esercitate dalle forze dell’ordine sui corpi di Franco Serantini e Stefano Cucchi sono diventate invisibili agli occhi dei funzionari statali che erano incaricati della loro custodia: medici e giudici si sono fatti ciechi di fronte agli ematomi e alle disfunzioni fisiologiche. Ma purtroppo le ferite non si riassorbirono da sole e i corpi delle vittime dei pestaggi cessarono di funzionare. Serantini morì all’alba del 7 maggio 1972, dopo un giorno e mezzo di agonia.

Cinquanta anni più tardi la vicenda processuale di Stefano Cucchi è arrivata alla giustizia: due carabinieri sono stati riconosciuti colpevoli in via definitiva lo scorso 4 aprile. Lo Stato è riuscito a processare se stesso in nome della trasparenza e della rettitudine. Per Serantini invece la vicenda si concluse con un nulla di fatto. Una battaglia civile determinata e intelligente riuscì a riconoscere le cause della morte, la realtà del linciaggio venne acclarata dai 55 rilievi eseguiti sul cadavere, ma non venne istituito nessun processo. Le indagini si chiusero con un non luogo a procedere per impossibilità di individuare i colpevoli, protetti dall’omertà dei corpi di polizia.

La memoria invece, al contrario delle indagini, non si è mai smarrita né fermata. Le modalità con cui le strutture carcerarie avevano tentato di occultare le ragioni del decesso avevano portato la città farsi carico della tutela post mortem di Serantini. Un funzionario del Comune di Pisa impedì il tentativo di seppellire il corpo senza un’autopsia. Esponenti antifascisti locali riuscirono a costituirsi parte civile per scoprire la verità. Il funerale di Serantini vide una intera città abbracciare quell’orfano che aveva perso la vita prima di trovarla pienamente. La memoria di quella morte aveva quindi da subito superato l’ambito personale di chi aveva conosciuto direttamente Serantini, e quello politico di chi militava nelle formazioni politiche a cui Serantini aveva aderito, in primo luogo il movimento anarchico, ma anche la formazione extraparlamentare di Lotta Continua a cui in precedenza aveva militato.
La memoria civile superò i confini locali e divenne un patrimonio diffuso nel paese grazie a un libro. Fu proprio lo sdegno suscitato dall’esito della vicenda giudiziaria nel 1975, a spingere Corrado Stajano – allora giornalista 45enne con alle spalle un libro e alcuni documentari con Ermanno Olmi – a dedicare un’inchiesta sulla figura di Franco Serantini. Il libro che ne risultò, Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini edito da Einaudi, divenne un best seller, arrivando a vendere diverse decine di migliaia di copie. A Torino una scuola media venne intitolata a suo nome, a Pisa una biblioteca, oggi diventata istituto per la storia della resistenza all’interno della Rete Parri, e una casa editrice.
Queste memorie continuano a essere attive oggi, a cinquanta anni dai fatti. Ma ancora vivono le memorie di chi per ultimo incontrò Serantini in salute, dei celerini suoi coetanei che in quel maggio 1972 «gli cercarono l’anima a forza di botte», come recitava una canzone di Fabrizio De André uscita pochi mesi prima, alla fine del 1971. Memorie mute, che non hanno mai parlato né rivelato ciò che successe sul Lungarno Gambacorti, protette dall’omertà dei corpi dello Stato.
Negli scorsi giorni, intanto, è stata resa pubblica una lettera aperta con la richiesta di una parziale giustizia, di dare il nome di Serantini alla piazza dove aveva trascorso gli ultimi anni di vita. In Piazza San Silvestro gli amici e i compagni di Franco, insieme a gran parte della città, lo avevano voluto ricordare con una targa sull’edificio dell’ex collegio Pietro Thouar posta nel 1972 e con un monumento di marmo inaugurato nel 1982. Da allora per la città di Pisa, quella è Piazza Serantini. La lettera è firmata da personalità autorevoli come Gian Mario Cazzaniga, Maria Valeria Della Mea, Ezio Menzione, Ilaria Pavan, Adriano Prosperi e Corrado Stajano, e chiede che anche le istituzioni riconoscano alla piazza il nome di Serantini. Intanto la città ricorderà la sua storia la prima settimana di maggio, grazie a tre iniziative organizzate dalla Biblioteca Franco Serantini. Il 3 maggio verrà proiettato il documentario di Giacomo Verde S’era tutti sovversivi; il 5 maggio sarà presentato il libro Cinquant’anni di memoria contro l’ingiustizia, il 7 maggio si terrà un presidio mobile da Piazza Venti Settembre per celebrare in strada la memoria di Serantini. Nella convinzione che la sua storia meriti di rimanere evidente nel corpo della città, attraverso un atto di giustizia simbolica, in mancanza di quella giudiziaria.




«Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini»

«[…] Bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi. Siamo quello che siamo […]» [1]

Le parole che il partigiano giellista ebreo Emanuele Artom consegna alle pagine del suo diario nel novembre 1943, poco prima di essere catturato dai fascisti, torturato dai tedeschi e brutalmente assassinato, colgono i dubbi e le inquietudini, comuni a tanti altri protagonisti di quell’esperienza di lotta, su come quelle vicende sarebbero state raccontate negli anni a venire.

Ricostruire quei fatti nella giusta prospettiva, per evitare sterili agiografie, come temeva Artom o, come è divenuto costume in anni più recenti, vili dannazioni di memoria, non è esercizio vuoto o consunto, ma una operazione oggi quanto mai necessaria[2]: sul piano memoriale e identitario, per tamponare i sempre più insistenti rigurgiti fascisti; in termini storiografici e di ricerca, dal momento che la prosecuzione degli studi reca con sé ulteriori scoperte e approfondimenti; per colmare lacune ancora presenti in specifici contesti territoriali.

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Lanciotto Ballerini, partigiano di Campi Bisenzio, caduto eroicamente a Valibona il 5 gennaio 1944 e insignito della medaglia d’oro al valor militare. Al suo nome venne intitolata la 22° Brigata Garibaldi (nella foto, Lanciotto sotto le armi sul fronte etiope, esperienza che rafforzò in lui un sentimento di ripudio per la cultura militarista e aggressiva del fascismo. Fonte: ANPI Campi Bisenzio)

Il recente volume di Francesco Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (Viella, 2021), promosso dall’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Firenze, riesce con perizia a fare tutto questo: depurare dalle distorsioni apportate dal tempo e dalla memoria, ricucire dagli sfilacciamenti che l’appropriazione politica di quegli eventi ha prodotto, ristabilendo equilibrio e riportando all’interno di una seria e rigorosa ricerca storica le vicende della Resistenza fiorentina.

Molto è stato scritto in merito a questa importante esperienza di lotta in grado di anticipare i fenomeni di opposizione politica e militare più avanzati che presero avvio a Nord: note sono la maturità politica dimostrata dal fronte cittadino e l’autonomia rivendicata dal Comitato Toscano di Liberazione (Ctln) rispetto agli Alleati, aspetti fondamentali nel rendere possibile quello che fu il primo esperimento di autogoverno della Resistenza.

Sebbene determinante, la dimensione urbana e cittadina della stessa ha finito per oscurare le altre esperienze di lotta armata nate e sviluppatesi in provincia, spesso ricordate solo in relazione alla liberazione di Firenze. Eppure la presenza di bande e gruppi partigiani “fuori dalle mura”, prima dell’11 agosto 1944, non fu affatto marginale: ce lo ricorda bene il volume di Francesco Fusi che – ne dà nota il sottotitolo – ricostruisce la genesi di uno dei principali gruppi garibaldini fiorentini, la 22 Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini. Una scelta d’indagine non casuale, che tiene conto del maggior peso e dalla più solida dimensione armata che nella guerra in montagna ebbe l’organizzazione garibaldina, dal momento che quella azionista si radicò maggiormente nel contesto cittadino esprimendo la sua leadership politica all’interno del Ctln[3].

Così come altrove, anche nel contesto fiorentino, in particolare nelle zone di Monte Morello, di Monte Giovi, del Mugello si costituirono, subito dopo l’8 settembre, i primi raggruppamenti partigiani, tra questi anche i primitivi nuclei delle quattro brigate Checcucci, Fabbroni, Lanciotto e Romanelli che tra cambi interni, avvicendamenti, trasferimenti, aggregazioni e scissioni, nei mesi a seguire, il 24 maggio 1944, confluirono nella 22a Brigata Garibaldi Lanciotto agli ordini della Delegazione Toscana del Comando Generale delle Brigate Garibaldi, sotto la guida di Aligi Barducci “Potente” e intitolata a Lanciotto Ballerini, comandante partigiano caduto il 3 gennaio 1944 a Valibona in uno scontro con i fascisti.

L’attenzione dell’autore va, fin dalle prime battute, all’analisi delle motivazioni morali ed esistenziali della scelta partigiana di quanti animarono le formazioni originarie: l’obbiettivo è puntato sugli individui, le loro scelte. Proprio il confronto con i percorsi personali e biografici degli “uomini in banda”, che animano le pagine del primo capitolo, permette di mettere in luce il carattere spontaneo del movimento, ridimensionando il ruolo giocato nelle prime fasi dal personale politico e dalle avanguardie organizzate. La scelta partigiana viene così a configurarsi come «[…] un caleidoscopio di fattori, tra loro distinti, che tuttavia sovente si intrecciano, finanche a sovrapporsi l’un l’altro. Motivazioni soggettive e condizioni oggettive, scelte consapevoli mosse da idealità e slanci ribellistici o, di contro, costrizioni imposte dagli eventi alle quali ci si vuol sottrarre […]» [4].

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Giulio Bruschi “Berto”. Antifascista di Sesto Fiorentino, perseguitato politico e tra i primi organizzatori dopo l’8 settembre 1943 del movimento partigiano su Monte Morello. Divenne in seguito Commissario politico della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (foto: ACS, Casellario Politico Centrale)

Sono i percorsi di vita, le specifiche condizioni sociali, l’educazione e l’ambiente familiare, le esperienze e le conoscenze pregresse a spingere alla lotta; si tratta di una scelta individuale che riesce a raggiungere una reale maturazione quando l’orizzonte politico lontano e sbiadito dell’antifascismo delle origini trova nella banda armata[5], che si organizza e diviene comunità, i suoi contorni più definiti. Nella parabola della scelta partigiana, dunque, l’antifascismo politico e l’appartenenza partitica assumono i contorni vivi di un approdo, anziché configurarsi come un punto di partenza[6].

Ripulendo la narrazione da sterili eroismi, il volume mette in luce i limiti delle prime bande che si costituiscono subito dopo l’armistizio e a cui prendono parte soldati italiani sbandati ed ex prigionieri evasi (inglesi, americani, russi e slavi), ai quali si aggiungono in modo sparso i civili: dissidenti e detenuti politici da poco scarcerati, giovani e studenti mossi da una generica esigenza di riscatto. Sono i personalismi, l’impreparazione mista a un’ingenua e talvolta pericolosa impulsività nell’armarsi a dominare. L’attività svolta è all’inizio embrionale e circoscritta, fatta di azioni che mirano a consolidare la propria presenza sul territorio, “disturbando” il nemico. «Ognuno sta nella vita partigiana con il suo abito d’origine […]» [7] ha scritto Roberto Battaglia, ce lo conferma anche il ritratto schietto, quasi dissacrante di Lanciotto Ballerini, ricostruito nel testo attraverso le testimonianze di altri resistenti: un partigiano in “carne e ossa”, una figura umanissima, con le sue grandezze e i suoi limiti, caratteri dissonanti che non ne limitano il successo, anzi, concorrono ancora oggi a farcelo vicino sentire.

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Aligi Barducci “Potente”. Primo comandante della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini, poi comandante della Divisione Garibaldina Arno protagonista della liberazione di Firenze. Ferito mortalmente l’8 agosto 1944 in Piazza S. Spirito, sarà insignito della medaglia d’oro al valor militare (Foto: Wikipedia)

Evidenzia l’autore come, tra le bande nate nel settembre del 1943, quelle che sopravvissero all’inverno furono proprio le formazioni che avevano tratto origine da contesti e situazioni entro cui operavano le reti e le strutture dell’antifascismo organizzato. Fu così per le due principali formazioni che a partire dall’8 settembre scelsero come propria sede il Monte Morello: il gruppo di Giulio Bruschi e quello, appunto, di Lanciotto Ballerini. Su entrambi avevano diretto i loro sforzi sia le reti dell’antifascismo locale sia l’organizzazione clandestina fiorentina, con particolare riguardo a quella comunista, nel caso del gruppo di Sesto Fiorentino di Bruschi, mentre per la formazione di Campi Bisenzio, legata a Ballerini, fu attivo un insieme composito di forze che, oltre al Pci, annoverava anche azionisti e libertari: «un’eterogeneità che in seguito aprirà una disputa su chi dovesse rivendicare l’organizzazione del gruppo partigiano Lanciotto e di conseguenza l’identità politica di quest’ultimo»[8]. La questione dei contrasti, delle tensioni e delle conflittualità politiche e militari, esterne e interne, che connota l’esperienza resistenziale delle principali forze dell’antifascismo fiorentino, è uno dei nodi centrali dell’intera narrazione e consente, ancora una volta, di depurare il campo da una acritica visione della guerra di liberazione come processo unitario e lineare.

La progressiva maturazione umana, organizzativa e politica degli uomini e delle bande di afferenza, ricostruita attraverso le pagine del volume, si lega all’evoluzione della lotta in corso e agli eventi che si succedono nei mesi a seguire. Tra gennaio e marzo 1944 molteplici furono i momenti di crisi che portarono allo stallo delle operazioni, dai drammatici fatti di Valibona, al progressivo abbandono dell’ormai pericolosa zona di Monte Morello verso il Mugello, dove si avvicendarono, tra contrasti e discussioni, i comandi interni. Inquietudini e tensioni endogene furono inoltre generate dal problema della sicurezza delle formazioni: i numerosi arresti da parte della polizia fascista, sia di membri del partito comunista che di quello d’azione, in città e tra le bande, furono il segno tangibile che l’opera di raccolta di informazioni del nemico, attraverso il significativo apporto di spie e delatori, stava funzionando a pieno ritmo.

Iniezioni di fiducia furono invece rappresentate dai rifornimenti che iniziarono ad arrivare con i primi aviolanci alleati, e che, pur generando tra le formazioni comuniste e azioniste screzi e polemiche per ripartizioni giudicate poco equilibrate, così come accuse reciproche di furti, costituirono un passo in avanti sul piano delle potenzialità offensive. Lo dimostra bene l’operazione che, il 6 marzo 1944, i partigiani condussero con esito positivo presso Vicchio: un attacco in pianura interamente pianificato e coordinato dalle bande di montagna su un obiettivo stabilmente presidiato dal nemico. I fatti, ricostruiti in dettaglio nel volume, ebbero ampia risonanza e un importante significato politico-militare per le stesse formazioni che avevano promosso con successo l’iniziativa. Nessuno in realtà considerò i rischi, in particolare quelli di rappresaglia sulla popolazione.

Proprio il ciclo repressivo lanciato di lì a poco dai comandi tedeschi su tutto l’arco appenninico contribuì ad avviare, per i gruppi partigiani, una nuova fase carica di difficoltà e pericoli, ma pure foriera di nuove e necessarie scelte.

La decisione di costituire una formazione unitaria con un ruolo strategico nella zona di Pratomagno riconosciuta dal comando militare del Ctln, politicamente diretta dal Pci fiorentino e in cui potessero confluire le diverse bande garibaldine attestatesi su Monte Giovi, tra il Mugello e la Valdisieve, dopo i rastrellamenti nazifascisti e la dispersione subita in aprile sul Falterona , segnò un definitivo passo in avanti nell’organizzazione e nella maturazione politica dei diversi gruppi che a essa furono aggregati. Dell’operazione che portò alla nascita della 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini l’autore sottolinea le problematicità logistiche legate alla scarsità di vettovagliamento e di armi in una zona già satura di sfollati e in cui si accalcavano nuove reclute sfuggite alla chiamata di leva; non di minore importanza le difficoltà psicologiche ed emotive: il persuadere degli uomini abituati a una loro autonomia a sottostare a una nuova disciplina non si dimostrò cosa facile e portò talvolta ad accuse di prevaricazione ai danni di tutti quei gruppi che avevano mostrato la loro contrarietà nel farsi assorbire.

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La prima pagina del ruolino degli effettivi della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (ISRT, Fondo resistenza armata)

Il volume rivela come la disorganizzazione e l’approssimazione con cui i primi resistenti erano scesi in campo vennero superate all’interno del nuovo gruppo grazie alla maggiore esperienza e alla coesa organizzazione interna, affiancata anche da una pedagogica attività di educazione politica (spesso di avvicinamento al partito) portata avanti per orientare e consapevolizzare i combattenti, in molti casi connotati da atteggiamenti politici confusi e ingenui.

Nonostante la cronica mancanza di armi, la Lanciotto fu in grado di sostenere sul Pratomagno un’attività di guerriglia senza precedenti, anche se la stessa non si rivelò immune da errori, superficialità, eccessivi azzardi, che in molte occasioni posero il gruppo in conflitto con la popolazione del luogo. Ricorda l’autore come «la condotta dei partigiani di Potente su Pratomagno ancora oggi è al centro di ricostruzioni piene di livore che li dipingono nel migliore dei modi come irresponsabili o peggio dei fanatici ideologizzati colpevoli d’aver condotto una guerra sporca insensibile alla sorte delle comunità locali sulle quali avrebbero attirato una serie di atroci rappresaglie»[9]. Il gruppo viene dunque percepito come un attore esogeno che interviene a turbare gli equilibri locali.

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Romeo Fibbi “Romeo”. Appartenente a una famiglia di antifascisti di Compiobbi (Fiesole) emigrata in Francia per sfuggire alle persecuzioni del Fascismo. Volontario militare in Spagna assieme al padre Enrico con le Brigate internazionali, quindi recluso nei campi di prigionia francesi. Rientrato in Italia, dopo l’8 settembre Romeo si pone in collegamento con l’organizzazione comunista fiorentina, assumendo poi il comando di un gruppo di partigiani nel Mugello. Rileverà il comando militare della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini dopo che Aligi Barducci “Potente” passerà alla guida della Divisione Arno (Foto: ACS, Casellario Politico Centrale)

Il tema chiave del rapporto tra partigiani e popolazione locale, che trova ampio spazio all’interno della narrazione, offre l’opportunità di mettere in luce la «natura instabile» e problematica della reciproca e forzata convivenza, una relazione mutevole nel tempo che fu necessario via via rinegoziare, lo dimostrano bene i fatti di Montemignaio e Cetica, a cui l’autore dedica ampia trattazione.

Si tratta di una questione che si lega a un problema cruciale, quello della violenza -pre e post liberazione – rispetto a cui il libro fornisce valide interpretazioni e molteplici spunti di riflessione. Quanto e perché la violenza partigiana agita e procurata poté considerarsi più legittima e giustificabile? In che modo i resistenti provarono a disciplinarla e a renderla moralmente più accettabile? Vi riuscirono davvero?

Il prezzo pagato dai partigiani nella battaglia per la liberazione di Firenze fu alto (205 caduti, 400 feriti, 18 dispersi tra squadre cittadine e partigiani)[10], anche a causa delle numerose difficoltà, ripercorse nel testo, che le forze resistenti si trovarono inaspettatamente ad affrontare. La Divisione Arno, la formazione unitaria in cui, il 6 luglio, era confluita la stessa Brigata Lanciotto, assieme alla Caiani, la 22a Bis Sinigaglia e la Fanciullacci, registrò la perdita totale di oltre 50 uomini, con la morte del suo stesso comandante “Potente”.

Ci ricorda l’autore, senza voler in alcun modo sminuire questo importante contributo di sangue, come la liberazione della città non sarebbe stata possibile senza la schiacciante superiorità strategico-militare degli Alleati, sottolineando, tuttavia, come il contributo dell’azione partigiana rispose invece a una importante finalità politica: «se le forze resistenziali volevano avere una chance di condizionare i futuri assetti politici e sociali del paese in senso democratico, esse dovevano per forza presentarsi agli alleati come militarmente in grado di contribuire alla liberazione, a prescindere dai costi»[11].

La storia che si apre a seguire, ripercorsa dell’ultime pagine del volume, è quella di ritorno all’ “ordinario”, segnata dai bisogni, dalle difficoltà materiali e umane che caratterizzarono l’immediato dopoguerra. Il disarmo dei partigiani fiorentini a opera degli Alleati creò in molti sentimenti di delusione e rabbia, anche a fronte di istanze di cambiamento e rinnovamento parzialmente tradite; in alcuni il sentimento di frustrazione si trasformò invece in spinta per continuare a combattere fino alla completa liberazione del paese. Per molti altri ancora tener viva la fiamma della Resistenza significò continuare a operare attivamente nell’ambito delle nascenti istituzioni repubblicane, all’interno della politica dei partiti democratici e delle organizzazioni sindacali.

«[…] Gli uomini sono uomini, bisogna cercare di renderli migliori e a questo scopo per prima cosa giudicarli con spregiudicato e indulgente pessimismo»[12], scriveva ancora Emanule Artom.

Al libro di Francesco Fusi il merito di non aver giudicato, ma di aver ricostruito attraverso una solida documentazione quelle vicende: storie di uomini che nella loro normalità, ciascuno con le proprie risorse e capacità, scelsero di non tirarsi indietro.

 

 

 

[1] Emanuele Artom, Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940-febbraio 1944, a cura di G. Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 609-616, in Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, Laterza, Roma-Bari, 2021, p. 37.

[2] Riprendo tali considerazioni da Francesco Filippi, Un libro di storia smonta tutte le “fake news” sui partigiani, in «Micromega», 10 marzo 2021 Url: <https://www.micromega.net/anche-i-partigiani-pero/>.

[3] Francesco Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini, Viella, Roma, 2021, p. 13.

[4] Ivi, p. 65.

[5] Cfr., ivi, pp. 65-66.

[6] Alberto De Bernardi, Un contributo per discutere e scrivere la storia della Resistenza e della Repubblica, in «Italia Contemporanea», 276 (2004), p. 520, in F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., p. 67.

[7] Roberto Battaglia, Un uomo un partigiano, Il Mulino, Bologna, 2004 [ed. or. 1945], pp. 147, 151, in F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., p.111.

[8] F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., pp. 87-88.

[9] Ivi, p. 253.

[10] Ivi, p. 347.

[11] Ivi, p. 348.

[12] Si faccia riferimento alla nota 1 di questo testo.