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Immagine e realtà di una provincia rurale: Grosseto e la Maremma alla vigilia della seconda guerra mondiale

Nel 1938 Fortunato Depero fu incaricato di disegnare per il Congresso mondiale del dopolavoro delle tavole raffiguranti le varie province d’Italia. Le immagini erano accompagnate dalle statistiche relative alle strutture dopolavoristiche e, significativamente, da una frase di Mussolini che avrebbe dovuto cogliere il carattere specifico di ogni zona della Penisola rappresentata (1). Nel caso della provincia di Grosseto, l’artista e designer roveretano aveva scelto il grifone, simbolo del capoluogo, un aratro stilizzato, e lo slogan «Provincia rurale: abbiate questo orgoglio e restate rurali» che era tratto dal discorso pronunciato da Mussolini ai maremmani il 10 maggio 1930 dal balcone del Palazzo del Governo (2).

Scavi sul fiume Bruna, 1933-1938. Archivio fotografico del Consorzio Bonifica Grossetana

La ruralità, esaltata dal duce in quell’occasione come tratto caratteristico della Maremma e dei suoi abitanti, fu il tema centrale nella costruzione dell’immagine della provincia di Grosseto promossa dalle élite dirigenti locali nel corso del Ventennio. Nella retorica pubblica, che avrebbe dovuto influenzare il senso comune a livello locale e promuovere una certa rappresentazione del territorio all’esterno, la ruralità si connetteva a una costellazione di elementi simbolici che informavano la composita ideologia fascista. Ruralità significava promozione dei valori e degli equilibri sociali tradizionali in contrapposizione al disordine e alla degenerazione della società di massa, opposizione all’urbanesimo e al macchinismo, ma anche celebrazione della salute, della vitalità e della fecondità della “razza”. Nel caso specifico di Grosseto e della Maremma, il tema della ruralità era infatti strettamente legato a quello della bonifica, intesa sia nei termini della “bonifica integrale”, cioè dell’opera di recupero allo sfruttamento agricolo dei terreni paludosi, ma anche nei termini di un miglioramento fisico, morale e spirituale della popolazione locale chiamata a contribuire a questo sforzo collettivo. La faticosa opera di redenzione delle terre malariche di Maremma, che nell’ottica del produttivismo nazionale mirava ad accrescere la produzione agricola e a promuovere l’insediamento di coloni, era non di rado descritta con un lessico bellicista dai toni epicizzanti, perfettamente sovrapponibile a quello utilizzato per narrare la bonifica dell’Agro Pontino.

In linea con la tipica rappresentazione del contadino-soldato, che grande fortuna ebbe nell’iconografia e nelle strategie discorsive della propaganda fascista, gli abitanti della Maremma furono dipinti come «autentici campioni di ruralità» capaci di «vivere con semplicità nel lavoro per la Patria e per la famiglia», lavoratori instancabili e frugali «pronti ad abbandonare l’aratro e il piccone per abbracciare il fucile e lo zaino» se la madrepatria l’avesse voluto (3). Le donne maremmane, specularmente, erano invece confinate nel ruolo di genere della sposa-madre prolifica dipendente dal marito, un ruolo che trovava perfetta corrispondenza con le politiche del regime miranti a scongiurare la crisi demografica a cui erano destinate le decadenti nazioni “plutocratiche”. In un manuale destinato alle massaie rurali della provincia si leggeva che «la donna non è più soltanto la semplice compagna dell’uomo, ma aiuta questo nel buon andamento della famiglia, cercando in se stessa tutte quelle risorse che crede utili alla sua casa e vantaggiose quindi alla famiglia più grande costituita dalla Nazione» (4).

Felice Andreis, San Donato. Lavorazione della ricotta, 1935

I ruoli di genere delineati si condensavano nel modello della «sana e feconda famiglia rurale», cioè la famiglia colonica o mezzadrile, esaltata nel discorso pubblico fascista come unità basilare della società ed espressione della conciliazione tra classi e del solidarismo tra interessi contrapposti, subordinati al primato dello Stato (5) . Un modello che pur presentato come “tradizionale” era stato, in realtà, introdotto sul territorio solo a partire dall’inizio degli anni Trenta contestualmente all’appoderamento dei terreni risanati nelle grandi pianure costiere (6). In queste zone continuava però a persistere il modello della grande proprietà fondiaria condotta in economia diretta con l’abbondante ricorso a manodopera avventizia, spesso reclutata stagionalmente da altre parti della regione, mentre nell’area amiatina e in altre zone collinari permaneva una miriade di minuscole attività produttive di limitatissima estensione, incapaci di fornire lavoro sufficiente per una famiglia contadina (7).

Portata avanti dai consorzi, nati sul finire degli anni Venti su impulso delle élite dei proprietari terrieri, la bonifica delle zone paludose della pianura Grossetana e del bacino dell’Osa-Albegna mirava a completare l’opera iniziata un secolo prima dal governo granducale e recuperare terreno coltivabile attraverso la faticosa opera dei “terrazzieri” e l’azione delle pompe idrovore. Durante il già citato discorso Al popolo di Grosseto del maggio 1930, Mussolini aveva promesso che entro «cinque o dieci anni» l’intera provincia sarebbe dovuta essere «solcata da strade» e che «centinaia di case» sarebbero sorte «ad ospitare popolazioni di rurali»(8). In realtà, l’immagine di una Maremma da colonizzare, sbocco per l’emigrazione interna rimase confinata sul piano della retorica, se si esclude il programma di trasformazione fondiaria gestito dall’Opera nazionale combattenti nella tenuta di Alberese che si tradusse nell’afflusso di famiglie di coloni provenienti dal Veneto. Secondo il censimento del 1936, l’aumento di popolazione verificatosi nella prima metà degli anni Trenta andava attribuito quasi «esclusivamente all’eccedenza dei nati sui morti» (9)

L’incertezza diffusa nelle forme di reddito, la discontinuità nei rapporti di lavoro e la mancanza di investimenti da parte dei proprietari condannavano larghi strati della popolazione rurale a condizioni di povertà, di sofferenza e di miseria non diversamente da quanto era accaduto nel periodo prefascista (10). Ma tutto ciò non filtrava nel discorso pubblico. Il regime era unicamente interessato a celebrare, in una dimensione palingenetica, la Maremma come terra redenta, liberata dalla piaga della malaria e pronta a essere colonizzata.

Angelo Mazzoni, Palazzo delle Poste di Grosseto: il portale con il gruppo scultoreo  "La Maremma domata" di Napoleone Martinuzzi, 1929-1932. Fotografia Anderson. Rovereto, Mart Archivio del '900

Angelo Mazzoni, Palazzo delle Poste di Grosseto: il portale con il gruppo scultoreo “La Maremma domata” di Napoleone Martinuzzi, 1929-1932. Fotografia Anderson. Rovereto, Mart Archivio del ‘900

In un volume pubblicato per il decennale dalla fondazione del Consorzio bonifica grossetano si affermava che «la Maremma di Grosseto […] non è più terra fosca, paurosa, incolta, desolata, conosciuta attraverso la tradizione stabilizzata da copiosa letteratura», ma si potevano ormai «constatare i segni di rinnovamento di questa regione, della lotta magnifica di redenzione da cui tutta è presa e pervasa nelle opere dure che ne formano l’orgoglio», nella «nuova vitalità» che ha spazzato via «le nubi fosche […] riscattat[o] uomini e cose dalla neghittosità e dall’abbandono» (11).

Alla rinascita delle campagne, che la propaganda descriveva come ormai totalmente disseminate di poderi, strade, opere idrauliche, era andata di pari passo una trasformazione del capoluogo, che delle aree agricole limitrofe sarebbe dovuta divenire il centro aggregatore e propulsivo. Come affermava il prefetto Trotta in occasione dell’insediamento del nuovo podestà di Grosseto Angelo Maestrini, «nuovi e più larghi orizzonti si aprono ogni giorno al capoluogo della Maremma»: sventramenti e demolizioni di edifici ritenuti obsoleti e costruzione di scuole, caserme, chiese, strutture di concezione moderna chiamate ad accogliere i vari enti del regime dovevano proseguire per assecondare «l’aspirazione di questa cara città che, auspice il Fascismo» viveva «in un periodo di profondo rinnovamento», anelando «ad un sempre più rapido progresso ed incremento» (12). Nonostante una notevole crescita demografica, il capoluogo stentava ancora a esercitare un’effettiva forza di attrazione sulle diverse aree economiche e sui centri abitati della costa e dell’entroterra. Con i suoi 28.715 abitanti censiti nel dicembre 1940 Grosseto rimaneva capoluogo di una provincia “policentrica” e poco densamente popolata, che contava appena 194.453 residenti in un’area di poco più di 4.500 chilometri quadrati (13).

Palazzo del Governo

La bassa densità di popolazione si rifletteva sulle caratteristiche dell’economia agricola. Secondo le esigenze del «piano autarchico», che aveva iniziato a concretizzarsi durante il conflitto italo-etiopico, la provincia di Grosseto avrebbe dovuto produrre eccedenze agricole necessarie a garantire l’autosufficienza alimentare della nazione, oltre che a sviluppare l’industria estrattiva localizzata nell’area delle Colline Metallifere e del Monte Amiata (14) . L’aumento della produzione era però ostacolato dalla diffusione del sistema estensivo e della penuria di beni strumentali (concimi chimici, pneumatici per automezzi e biciclette, carburanti e lubrificanti, scarpe da lavoro), che già dalla seconda metà degli anni Trenta affliggeva la zona. Problemi strutturali che il conflitto aggraverà, riducendo la disponibilità di tali beni e l’offerta di manodopera agricola, a causa dei richiami alle armi dei maschi adulti e all’attrazione esercitata nel mercato del lavoro da altre occupazioni più remunerative e stabili. Già nel febbraio 1941, il gruppo dei carabinieri di Grosseto segnalava che «in seguito ai numerosi richiami derivanti dall’attuale stato di belligeranza», in ambito agricolo, «le richieste di maestranze non trovano evasione neppure nelle province limitrofe» (15).

Un altro problema strutturale che influiva sulla circolazione di uomini e merci e dunque sulle performance dell’economia agricola locale, riguardava la rete infrastrutturale. Nonostante la costruzione di decine di tronchi stradali e ponti descritti minuziosamente nelle pubblicazioni propagandistiche della seconda metà degli anni Trenta, allo scoppio della guerra erano presenti 150 chilometri di ferrovia, che servivano pochi comuni, e appena 2.000 chilometri di strade di cui molte in condizioni precarie se non pessime. Inoltre mancava un’adeguata rete di magazzini e silos per lo stoccaggio dei cereali (16). Nel corso del conflitto, tali limiti strutturali, aggravati dalle requisizioni dei mezzi di trasporto e dalla scarsità di carburante, renderanno molto difficoltoso l’approvvigionamento di beni di prima necessità nelle varie zone della provincia. Nella primavera del 1942, il federale Emilio Biaggini, nel corso di un incontro riservato tra i federali della Toscana e Mussolini, definirà la situazione dei trasporti nella provincia di Grosseto come «preoccupante», riconoscendo che «le maggiori difficoltà consistono nel far affluire i predetti generi [alimentari] ai centri minerari» ed evidenziando «sensibili deficienze nella distribuzione di generi contingentati» (17).

Memo Vagaggini, La foce della Bruna (Castiglione della Pescaia, la Casa Rossa), 1932. Grosseto, Collezione privata

Memo Vagaggini, La foce della Bruna (Castiglione della Pescaia, la Casa Rossa), 1932. Grosseto, Collezione privata

L’ultimo ambito in cui si registra uno scollamento tra l’immagine del contesto locale proposta dalla propaganda di regime e quella ricavabile dai documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Grosseto riguarda le politiche abitative: mentre le autorità celebravano «Grosseto fascista nel suo nuovo volto», mancavano alloggi per il ceto medio nel capoluogo e centinaia di famiglie di operai e braccianti, sia nel capoluogo che in altri centri della provincia, erano costrette a vivere in locali insalubri e sovraffollati, talvolta in «baracche costruite con tavolette e lamiere» in cui gli uomini «dormono promiscuamente in un unico letto con mogli, figli, fratelli sorelle» (18). A nulla valsero soluzioni tampone, come la costruzione di due villaggi rurali alle porte del capoluogo: le cosiddette “Casette del duce” sulla via Castiglionese e il “villaggio Ciano”, oggi conosciuto come “villaggio Curiel” sulla via Senese (19). La crisi degli alloggi, infatti, finirà per aggravarsi con il conflitto, per il blocco totale del settore delle costruzioni, privato di materie prime essenziali (20), e per i fenomeni di sfollamento che altereranno gli equilibri delle comunità locali, costrette a trovare sistemazioni d’emergenza per alloggiare coloro che fuggivano dalla violenza della guerra.

La narrazione della palingenesi della Maremma, in cui, come ricorda Geno Pampaloni «le bonifiche [e] gli appoderamenti» erano stati elevati ad «oggetti di fede» (21), occultava insomma le difficili condizioni materiali d’esistenza di una parte consistente della popolazione locale che il regime non era stato in grado di migliorare. Dinamiche che riflettevano tanto fenomeni di lunga durata, legati alla geografia del territorio, quanto mutamenti congiunturali che si erano realizzati sotto la spinta delle interazioni tra l’azione politica del fascismo e le forze economiche e sociali e che, come si è tentato di fare nel volume Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, recentemente pubblicato per la collana Quaderni ISGREC/Effigi, risultano imprescindibili per ricostruire l’impatto della guerra totale e la fenomenologia della Resistenza nel conteso della provincia di Grosseto.

Note:

(1) Fortunato Depero, I dopolavori aziendali in Italia, De Agostini, Novara 1938.

(2) Cfr. Benito Mussolini, Al popolo di Grosseto, in Edoardo e Duilio Sumel (a cura di), Opera Omnia di Benito Mussolini, Vol. XXIV, Dagli accordi del Laterano al dodicesimo anniversario della fondazione dei fasci (12 febbraio 1929 – 23 marzo 1931), La fenice, Firenze 1958, pp. 224-225.

(3) La nostra fede ha avuto il premio più ambito: il sorriso del duce, «La Maremma», 5 marzo 1939.

(4) Raccolta di lezioni teorico-pratiche da svolgere alle Massaie Rurali, a cura del PNF federazione dei fasci femminili di Grosseto, sezione massaie rurali, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1937, p. 5.

(5) Enrico Trotta, Conquiste e realizzazioni dell’anno XVI in Maremma, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1939, p. 26.

(6) Rossano Pazzagli, Agricoltura e fine della mezzadria: tracce per leggere lo sviluppo locale, in Simone Neri Serneri, Luciana Rocchi (a cura di), Società locale e sviluppo locale. Grosseto e il suo territorio, Carocci, Roma 2003, p. 87.

(7) Cfr. L’economia agraria della Toscana, a cura dell’Osservatorio di economia agraria della Toscana, Tipografia operaia romana, Roma 1939.

(8) Benito Mussolini, Al popolo di Grosseto, cit., p. 225.

(9) Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, VIII censimento generale della popolazione, 21 aprile 1936-XIV, Vol. II – Province, fascicolo 46 – Provincia di Grosseto, Faili, Roma 1937, p. VII.

(10) Cfr. Luciana Rocchi, Mutamenti e persistenze nel Novecento grossetano, in Valeria Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), ISGREC/Effigi, Arcidosso 2018, pp. 11-38.

(11) Consorzio Bonifica Grossetana 1928-VII 1938-XVII, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938, p. 3.

(12) Enrico Trotta, Grosseto fascista nel suo nuovo volto, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938, pp. 8-9.

(13) Archivio di Stato di Grosseto (ASG), R. Prefettura, b. 730, f. Schedario dei podestà della provincia, Profilo demografico della Provincia di Grosseto al dicembre 1940, s.d [1940]. Secondo al censimento del 1936, densità demografica dell’intera provincia restava tra le più basse d’Italia con 39,4 abitanti per kmq., contro una media nazionale di 193,6. Cfr. Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, VIII censimento generale della popolazione, 21 aprile 1936-XIV, cit.

(14) Cfr. Enrico Trotta, Maremma agricola e industriale nel piano autarchico, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938, pp. 1-2.

(15) ASGR, R. Prefettura, b. 732, f. Situazione politico-economica della provincia 1941, Relazione mensile del gruppo di Grosseto dei CC.RR. sulla situazione politico-economica, 22 febbraio 1941.

(16) Cfr. L’ammasso granario in Provincia di Grosseto. Regolarità dei servizi e superamento delle difficoltà per la tutela della produzione, “La Maremma”, 8 dicembre 1940.

(17) Relazione riservata del segretario federale di Grosseto Emilio Biaggini al duce, primavera 1942, in Giordano B. Guerri, Rapporto al duce. L’agonia di una nazione nei colloqui tra Mussolini e i federali nel 1942, Mondadori, Milano 2002, p. 256.

(18) ASGR, R. Prefettura, b. 716, Lettera del fiduciario del gruppo rionale “Rino Daus” Bartolini al segretario federale Craighero, 25 settembre 1940.

(19) Cenni in Enrico Trotta, Conquiste e realizzazioni dell’anno XVI in Maremma, cit., p. 9.

(20) ASGR, R. Prefettura, b. 743, f. Situazione politico-economica della provincia 1942, Relazione mensile del prefetto Palmardita sulla situazione politico-economica, 27 giugno 1942

(21) Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Il ritratto morale e sentimentale della generazione passata attraverso il fascismo, Garazanti, Milano 1992, p. 15.

 

 

Bibliografia

Consorzio Bonifica Grossetana 1928-VII 1938-XVII, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938

Edoardo e Duilio Sumel (a cura di), Opera Omnia di Benito Mussolini, Vol. XXIV, Dagli accordi del Laterano al dodicesimo anniversario della fondazione dei fasci (12 febbraio 1929 – 23 marzo 1931), La fenice, Firenze 1958

Enrico Crispolti, Anna Mazzanti, Luca Quattrocchi, Arte in Maremma nella prima metà del Novecento, Silvana, Cinisello Balsamo 2005

Enrico Trotta, Conquiste e realizzazioni dell’anno XVI in Maremma, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1939

Enrico Trotta, Grosseto fascista nel suo nuovo volto, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1938

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Fortunato Depero, I dopolavori aziendali in Italia, De Agostini, Novara 1938

Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Il ritratto morale e sentimentale della generazione passata attraverso il fascismo, Garzanti, Milano 1992

Giordano B. Guerri, Rapporto al duce. L’agonia di una nazione nei colloqui tra Mussolini e i federali nel 1942, Mondadori, Milano 2002

Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, VIII censimento generale della popolazione, 21 aprile 1936-XIV, Faili, Roma 1937

L’economia agraria della Toscana, a cura dell’Osservatorio di economia agraria della Toscana, Tipografia operaia romana, Roma 1939

Raccolta di lezioni teorico-pratiche da svolgere alle Massaie Rurali, a cura del PNF federazione dei fasci femminili di Grosseto, sezione massaie rurali, Tipografia “La Maremma”, Grosseto 1937

Simone Neri Serneri, Luciana Rocchi (a cura di), Società locale e sviluppo locale. Grosseto e il suo territorio, Carocci, Roma 2003

Stefano Campagna, Adolfo Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, ISGREC/Effigi, Arcidosso 2021

Tra fascismo e dopoguerra. Estratti dalle tesi di laurea di Giovanna Salvadori, Andrea Marroni, Riccardo Lucetti, Biblioteca Chelliana/ISGREC, Grosseto 2000

Valeria Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), ISGREC/Effigi, Arcidosso 2018

La Maremma. Foglio d’ordine della federazione dei fasci di combattimento di Grosseto




Oberdan Chiesa. Un uomo, una vittima, un mito.

Una delle frasi più famose della narrativa italiana sulla Resistenza è quella del partigiano Kim, tra i protagonisti de Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, «E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si ritrova dall’altra parte»[1]. Lo stesso Claudio Pavone, nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza utilizzò questo passo letterario per spiegare le ragioni attorno ai diversi schieramenti di campo all’indomani dell’8 settembre 1943, non sempre semplici e spesso legate al caso. Ecco, a me sembra che la frase di Calvino calzi anche per descrivere, almeno in parte, e la scelta antifascista di Oberdan Chiesa – e forse anche del fratello Mazzino, a cui Stefano Gallo ha già dedicato uno studio[2] – anticipata di quasi un ventennio rispetto all’ambientazione originaria della storia, cioè al momento dell’instaurazione del regime fascista. Il «nulla» che colpì i fratelli Chiesa – comunque cresciuti in un ambiente familiare imbevuto di idee repubblicane e socialiste – fu una spedizione squadrista contro il loro quartiere, consumatasi quando entrambi erano degli adolescenti. Ma procediamo con ordine.

La famiglia Chiesa era composta dai genitori, Garibaldo e Ada Cini, e da quattro figli, Corrado-Giovanni, Mazzino, Oberdan e Mazzina. Già i loro nomi tradivano l’orientamento politico che si respirava al numero 54 di via Giuseppe Garibaldi, l’arteria principale del quartiere livornese “Il Pontino” – uno dei centri “sovversivi” della Livorno contemporanea – dove vivevano. Ma dalle memorie dei protagonisti emerge ancora più chiaramente come la spinta alla loro decisa presa di posizione contro il fascismo avvenne nell’ottobre del 1924. Bisogna ricordare come in seguito all’omicidio Matteotti il partito di governo sembrò sbandare, anche sull’onda della costernazione dei circoli conservatori che avevano supportato l’ascesa di Mussolini. La reazione dei fascisti fu contraddistinta da un uso diffuso della violenza squadrista, la stessa del biennio 1921-1922, che si riversò anche su Livorno[3]. Quella sera un gruppo di squadristi invase la fiaschetteria dei fratelli Sirio e Gino Spagnoli, noti repubblicani da poco convertiti al comunismo, per dargli una lezione. I due non si fecero intimidire ed estrassero le armi che tenevano sotto al bancone, ferendo tre degli aggressori e mettendo in fuga gli altri[4]. Come ritorsione un folto gruppo di fascisti si diresse verso il loro appartamento, che era esattamente dal lato opposto a quello dei Chiesa:

Durante la notte mia madre è venuta in camera – chi parla è Mazzino, che ricordava  quell’episodio a mezzo secolo di distanza – terrorizzata, mi ha svegliato dicendomi che i fascisti erano giù e volevano entrare in casa […] Non c’è stato bisogno di andare ad aprire perché avevano già abbattuto la porta ed erano entrati dentro. Sono entrati [sic] in camera dove io dormivo con mio fratello [Oberdan] e tra questi “masnadieri” ho visto uno […] che ha detto “No, no, non sono quelli che stiamo cercando”[…] Quando sono andati via, allora, mi sono alzato [mi sono affacciato alla finestra] e ho assistito ad una scena terrificante: da ogni parte c’era un incendio. Per vendicarsi, siccome i fascisti non avevano potuto trovare quelli che avevano sparato, avevano dato fuoco ai pagliai, perfino a delle pine […] per   fare il fuoco […] e dettero la via ai maiali […]. Come al solito la reazione dei fascisti si riversò nei confronti degli inermi e degli ultimi[5].

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

L’episodio, per quanto risoltosi in maniera fortunata per i due fratelli Chiesa, fu il trauma – lo affermò lo stesso Mazzino nell’intervista audio –  che decise per un loro percorso di vita votato all’antifascismo. Il primo ad impegnarsi nella lotta aperta contro il partito di governo fu Mazzino, il quale aderì formalmente alla federazione giovanile comunistamettendosi a distribuire manifestini in città e ad aiutare nell’organizzazione comizi clandestini[6]. Oberdan decise di rimanere ancora per un po’ nell’ombra, evitando di esporsi pubblicamente e interiorizzando la propria opposizione al fascismo. Di lì a poco anche lui avrebbe fatto sentire la sua voce, costringendo la polizia politica a mettersi sulle sue tracce. Soprattutto all’estero.

Nel settembre del 1933, all’indomani del servizio militare di leva, Oberdan espatriò per Bona, in Algeria, dove fece il suo battesimo politico partecipando, col fratello – allora già da qualche tempo esule ed agente del Pcd’I clandestino –, all’aggressione al direttore della scuola italiana di quella città[7]. Per quell’episodio fu processato ed espulso dalla colonia francese spostandosi prima a Marsiglia, poi ad Ajaccio, dove risiedette dal gennaio all’agosto 1936, ed infine a Grenoble[8]. In quest’ultima città rimase poco tempo perché, lo stesso giorno del suo arrivo, ebbe modo di parlare con altri emigrati che gli parlarono di cosa stesse accadendo in Spagna. Non sapeva veramente nulla riguardo l’ammutinamento del generale Francisco Franco contro la giovane repubblica? Pur nutrendo alcuni dubbi su questa dichiarazione – che fece lui stesso al momento del rimpatrio – non mi è stato possibile scoprirlo, ma è certa la sua partenza per Barcellona dei giorni seguenti. Partecipò alla Guerra Civil prima tra i ranghi della centuria “Gastone Sozzi”, poi nelle Brigate internazionali e, infine, nella Marina da guerra repubblicana. Nel 1939, al momento della sconfitta, fu costretto a lasciare la Spagna finendo recluso nei campi di prigionia francesi per gli ex volontari. L’ultimo campo fu quello di Vernet, dal quale venne liberato nell’estate del 1941 per essere rimpatriato in Italia. Raggiunse Livorno a settembre, rimanendovi per poche settimane. Iscritto al Casellario politico centrale dal 1934, fu condannato al confino, che scontò sull’isola di Ventotene. All’indomani della caduta del regime fascista venne liberato, rientrando nella sua Livorno solo alla fine del mese di agosto. La città che si trovò di fronte non era certo quella lasciata anni prima, avendo già subito i due grandi bombardamenti del 28 maggio e del 28 giugno 1943[9].

La sua permanenza fu tutto sommato breve, dato che dopo la notizia dell’armistizio con gli angloamericani e l’avvio dell’occupazione nazifascista, trascorsero pochi mesi prima del suo arresto. Oberdan venne fermato dalla squadra politica della Questura di Livorno il 22 dicembre 1943, e quello che fece in questo lasso di tempo, ahimè, non è testimoniato da nessuna fonte. Sicuramente ebbe un ruolo nell’organizzazione della Resistenza livornese, ma non certo così centrale come è stato dipinto nel dopoguerra. Questo emerge abbastanza chiaramente sia nella documentazione prodotta durante il processo ai suoi assassini – sebbene gli inquirenti non dedicarono ampia attenzione ad approfondire le modalità del suo arresto – sia nelle memorie di alcuni tra i principali animatori della lotta partigiana nel livornese. Anche la sua scelta come vittima delle rappresaglia che si consumò per ordine della Prefettura di Livorno sulla spiaggia di Rosignano Solvay il 29 gennaio 1944 conferma questa lettura, a cui è importante aggiungere come in occasione del suo arresto venne fermato anche il principale rappresentante della Resistenza comunista livornese in quelle prime settimane di occupazione, vale a dire Vasco Jacoponi[10]. Al di là di queste interpretazioni – che ci tengo a ribadire come siano del tutto personali, sebbene ancorate ad un ampio scavo archivistico e bibliografico – resta il fatto che quella mattina del gennaio 1944, in risposta ad un attentato fallito contro il maresciallo comandante la stazione dei carabinieri di Rosignano Solvay di poche ore prima, Oberdan venne fucilato da un plotone della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) composto da ex militi della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e carabinieri. La sua esecuzione era l’esempio concreto di quella guerra civile che si combatté tra il 1943 e il 1945 in Italia, per cui il ricordo dell’episodio non poteva perdersi tra quelli che costellarono quei mesi. Alla formazione di una solida memoria “popolare” della morte di Oberdan contribuì indubbiamente il processo che venne celebrato nell’estate del 1947 – dopo più di due anni di istruttoria e decine di testimonianze raccolte – contro la catena di comando fascista-repubblicana che aveva ordinato, ed eseguito, la rappresaglia. Sul banco degli imputati finirono: Edoardo Serafino Facdouelle, capo della provincia di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Giampaolo Mannelli, segretario particolare di Facdouelle e dirigente dell’ufficio politico della Prefettura di Livorno; Fernando Gori, federale del Partito fascista repubblicano di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Renato Simoncini, commissario del fascio repubblicano di Quercianella; Giovanni Giampieri, ispettore federale e commissario del fascio di Piombino; Giuseppe Bartolini, tenente colonnello della Gnr e comandante della 88ª legione di Livorno tra gennaio e aprile 1944; Michele Cioffi, capitano dei carabinieri e comandante del gruppo di Livorno tra l’estate 1942 e quella del 1944; Luigi Carocci, squadrista e capitano della Gnr; Luigi Porquieur, capitano della Gnr e comandante dell’ufficio politico dell’88ª Legione; Luigi Cardile, tenente della Gnr; e Eugenio Bartolini, Sirio Lami e Marino Piga, tutti e tre militi della Gnr livornese. Facdouelle e Mannelli, entrambi latitanti, vennero puniti con l’ergastolo; a Gori furono inflitti 26 anni e 8 mesi di reclusione; a Carocci, latitante anche lui, 20 anni e 8 mesi; a Giuseppe ed Eugenio Bartolini, Cardile, Piga e Lami 13 anni, 9 mesi e 10 giorni; mentre a Cioffi 11 anni, 1 mese e 24 giorni. Tutti furono condannati a pagare le spese processuali e a risarcire la madre di Oberdan, costituitasi parte civile e assistita dall’avvocato Augusto Diaz. In virtù dell’amnistia del 22 giugno 1946, nota come “amnistia Togliatti”, vennero immediatamente condonati 8 anni e 10 mesi a Gori, mentre 5 anni ai due Bartolini, Cardile, Piga, Lami e Cioffi[11].

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l'uccisione di Oberdan.

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l’uccisione di Oberdan.

Ho definito la memoria scaturita dal processo come “popolare” non per caso, in modo da far emergere la differenza con quella “istituzionale” che rese il 29 gennaio una data topica del calendario laico dei livornesi. Perché accadde ciò? A partire dal 1945 la neonata federazione labronica dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia pose una stele commemorativa sul luogo dell’esecuzione di Oberdan quale punto di riferimento soprattutto per gli abitanti di Rosignano Solvay. Nel capoluogo di provincia, invece, gli venne dedicata una via e intitolata una sezione del Pci. A partire dal 1948, a causa del mutato clima internazionale, le cose iniziarono a cambiare e le celebrazioni annuali in sua memoria assunsero un chiaro orientamento politico. A ciò si aggiunse l’offensiva giudiziaria antipartigiana che si aprì nel dicembre 1947 e che investì anche la figura di Oberdan[12]. In questo clima si svolse il processo ad alcuni componenti della banda partigiana “Danesin” – dal nome del suo comandante Sante, e che operò tra i comuni di Rosignano Marittimo, Castellina Marittima e Riparbella – imputati quali autori dell’attentato del 27 gennaio 1944 che portò alla rappresaglia contro Oberdan, ma anche del tentato omicidio del commissario prefettizio di Montecatini Val di Cecina Oreste Giglioli, e degli omicidi dell’ex squadrista di Rosignano Solvay Arturo Gaiozzi, dell’ex podestà di Castellina Marittima Francesco Renzetti, e del maresciallo dei carabinieri di Riparbella Lugi Scordo. Non mi soffermo sulla complessità di questo processo – col primo grado celebrato dalla Corte d’assise di Pisa, il secondo dalla Corte d’appello di Firenze e il terzo dalla Cassazione – ma per comprenderla è sufficiente sapere come solo il dibattimento durò dal 16 febbraio al 30 marzo 1953, e che i principali imputati furono portati in carcere già a partire dal luglio 1951. Il significato del processo, per quanto risoltosi in maniera tutto sommato favorevole a Danesin e ai suoi compagni di lotta, non fu tanto quello di far giustizia di fatti di sangue risalenti a quasi un decennio prima, quanto quello di attaccare ancora una volta l’attività partigiana, cercando di screditarla in un’aula di tribunale. In questo scontro tra le parti finì schiacciata la memoria di Oberdan, che fu completamente riabilitata solo dopo la fine di questa seconda fase di processi. Il 19 luglio 1959, in occasione del 15° anniversario della Liberazione di Livorno, si tenne la consueta orazione del sindaco del capoluogo per commemorare l’evento. Dopo le dimissioni di Furio Diaz, primo cittadino dal 1944 al 1954, le funzioni erano passate a Nicola Badaloni. Nel suo discorso ufficiale, ricordò il nome di Oberdan, ponendolo in continuità con i valori risorgimentali della città e affiancandolo, unico civile, ai numerosi militari livornesi decorati di medaglia d’oro al valore militare[13]. L’inedita attenzione di Badaloni verso la figura di Oberdan non era assolutamente di facciata, ma sintomo di un diverso interesse rispetto a prima per la sua triste vicenda, e il significato pedagogico che avrebbe potuto assumere per tutto il contesto livornese: Oberdan era la figura attorno alla quale coagulare l’antifascismo di una provincia nei suoi vari passaggi dal 1922 al 1945, esaltando l’esperienza del fuoriuscitismo, dell’intervento internazionale in Spagna, del confino fascista e della guerra partigiana. Si spiega così perché in occasione del 18° anniversario della fucilazione di Oberdan, i giornali livornesi pubblicarono, per la prima volta contemporaneamente, il testo di una lettera inviata dall’avvocato Campi a sua madre alcuni anni prima, in cui ricambiava ai ringraziamenti per aver ricordato il figlio nella seduta del consiglio comunale del luglio 1954, tenutasi per decidere sull’apposizione di una targa commemorativa il decimo anniversario della Liberazione nella sala consiliare del municipio[14]. D’altro canto, poi, anche la considerazione del principale esponente della famiglia Chiesa ancora in vita, Mazzino, stava cambiando. Dopo un’iniziale contestazione trasversale a tutte le scelte politiche della federazione comunista, Mazzino “l’anarcoide” era stato escluso dalla vita del Pci. Nel 1957 aveva addirittura rifiutato la tessera perché «nemmeno un gatto della federazione» era intervenuto al funerale della madre. Grazie però ad una lenta mediazione dello stesso sindaco Badaloni si convinse a tornare tra le fila comuniste, avvallando così l’uso pubblico della figura del fratello[15]. A partire dal 1964, in occasione del 20° anniversario della morte Oberdan, la data 29 gennaio si affermò definitivamente nella serie delle celebrazioni annuali della Resistenza in tutta la provincia Livorno.

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino, 1964 (ed. or. 1946), p. 146

[2] Cfr. S. Gallo, Mediterraneo antifascista. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio, in Salvatore Capasso, Gabriella Corona e Walter Palmieri, Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall’Italia, il Mulino, Bologna, 2020, pp. 1-17. La ricerca è stata pubblicata anche su questo portale col titolo Mazzino Chiesa, un uomo in mare. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio https://www.toscananovecento.it/custom_type/mazzino-chiesa-un-uomo-in-mare/ (consultato il 28 febbraio 2022).

[3] Cfr. T. Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno. Lotta politica e sociale (1918-1922). La lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Quaderni della Labronica, Livorno, 1990; M. Rossi, La battaglia di Livorno. Cronache e protagonisti del primo antifascismo (1920-1923), Bfs, Pisa, 2021.

[4] Cfr. Nicola Badaloni e Franca Pieroni-Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno, 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 169 e 201.

[5] Pochi mesi prima di morire Mazzino Chiesa rilasciò una lunga intervista audio a Iolanda Catanorchi, per un progetto di raccolta delle memorie di 7 figure storiche dell’antifascismo livornese. Cfr. Mazzino Chiesa, intervista audio di I. Catanorchi per il progetto dal titolo Livornesi sovversivi nel ventennio fascista, 1974, 1.18.00 (d’ora in poi Intervista a Mazzino Chiesa, 1974).

[6] Nel novembre 1926 Mazzino venne arrestato per la prima volta a Napoli, mentre si trovava su una nave proveniente dal Canada, per il ritrovamento di alcuni materiali del “Soccorso rosso” a casa. A tradirlo era stata una lettera alla madre intercettata dalla polizia, già sulle sue tracce per via degli stretti legami con altri comunisti livornesi. Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A8, b. 1398, fasc. «Mazzino Chiesa», verbale di perquisizione del 18 settembre 1926 e sgg. Per una narrazione più precisa della sua attività in questo periodo della sua vita rimando all’intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 00.05.00.

[7] Oberdan si dichiarò innocente a più riprese – anche nell’interrogatorio del 1941 al suo rientro dall’esperienza spagnola, scagionando pure il fratello – ma contro di lui le autorità francesi poterono far valere l’espatrio clandestino e l’assenza di un qualsiasi documento d’identità. Archivio Centrale dello Stato, Min. Interno, Cpc, b. 1303, fasc. 47130 «Oberdan Chiesa», verbale di interrogatorio ad Oberdan (28 ottobre 1941).

[8] Si trattava di Leo Franci, un comunista di Colle Vall d’Elsa emigrato a Marsiglia da pochi mesi dopo una fuga rocambolesca dall’Italia. Volontario in Spagna dall’ottobre del 1936, divenne commissario politico della 1° compagnia, 2° battaglione del «Garibaldi», e fu ucciso a Villanueva de Pardillo (nei pressi di Madrid) nel luglio 1937. I. Cansella e F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Effegi, Arcidosso, 2012, p. 198.

[9] Cfr. E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ETS, Pisa, 2016.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell'anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell’anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

[10] Jacoponi aveva aderito da subito alla svolta comunista del 1921, divenendo segretario della Federazione giovanile comunista di Pisa e Livorno nel 1924. Fu arrestato due anni più tardi, processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato e assegnato al confino a Lipari. Riuscì a fuggire dall’isola emigrando clandestinamente in Francia e mettendosi al servizio del Pcd’I. Nel 1940 fu rimpatriato dalle autorità francesi, processato una seconda volta e confinato a Ventotene. Nel dopoguerra ricoprì vari incarichi in seno alla Cgil e al sindacato dei portuali di Livorno, risultando eletto alla Camera dei deputati nel 1948, nel 1953 e nel 1958. Cfr. I. Tognarini, Là dove impera il ribellismo. Resistenza e guerra partigiana dalla battaglia di Piombino (10 settembre 1943) alla liberazione di Livorno (19 luglio 1944), Esi, Napoli, 1988, p. 158.

[11] ASLi, Tribunale, Corte d’assise speciale, b. 855, fasc. «1947», sentenza del processo per l’uccisione di Oberdan Chiesa (16 luglio 1947).

[12] Cfr. Guido Neppi Modona, Il problema della continuità dell’amministrazione della giustizia dopo la caduta del fascismo, in Luigi Bernardi (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, Franco Angeli, 1984, pp. 11- 39; Guido Neppi Modona, La giustizia in Italia tra fascismo e democrazia, in Giovanni Miccoli, Guido Neppi Modona, Paolo Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 223-228; Michela Ponzani, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Aracne, Roma, 2008; Simeone del Prete, «Fare di ogni processo una lotta politica». Gli avvocati difensori nei processi ai partigiani del secondo dopoguerra, «Contemporanea», articolo in early access  https://www.rivisteweb.it/doi/10.1409/102810 (consultato il 28 febbraio 2022).

[13] Le biografie di questi personaggi erano state raccolte pochi anni prima e pubblicate unitariamente in «Rivista di Livorno. Rassegna di attività municipale a cura del Comune», ed. “Decennale della Resistenza” (1955), fasc. I-II, pp. 17-22. ASLi, Prefettura, b. 37, copia del verbale del consiglio comunale del 14 luglio 1959.

[14] Ricordo del sacrificio di Oberdan Chiesa, «Il Telegrafo», 26 gennaio 1962. Lo stesso articolo fu pubblicato anche su un altro giornale locale con una presentazione alla lettera leggermente diversa, di cui ho trovato solo il ritaglio effettuato dalla polizia senza alcuna indicazione. ASLi, Questura, A4b (1965-1980), b. 497, ritaglio di articolo di giornale Ricordo di Oberdan Chiesa (26 gennaio 1962).

[15] Intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 03.19.55. In questo passaggio Mazzino spiegò come quella era la prima volta in cui raccontava come si fossero svolti realmente i fatti, spesso ricondotti alla diaspora di molti comunisti dal partito nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss.




2 aprile 1922. L’assassinio di Alvaro Fantozzi, segretario della camera del lavoro di Pontedera

L’omicidio di Alvaro Fantozzi è uno degli episodi chiave della violenza fascista nella provincia pisana, sia per la modalità dell’esecuzione, sia per il ruolo pubblico ricoperto dalla vittima.

Fantozzi dal 1° gennaio 1920 è segretario della Camera del Lavoro di Pontedera ed è un attivo e riconosciuto leader locale del Partito socialista italiano.

L’eliminazione fisica del nemico è la via principale di affermazione del fascismo, lo aveva ben capito «L’Ora nostra», il periodico della federazione socialista pisana, quando appena un anno prima, a seguito dell’omicidio del suo segretario, Carlo Cammeo, aveva scritto: «Mai in tanti anni, dal nostro risorgimento alle lotte operaie odierne, si è ucciso così impunemente»1.

Poco più di un mese prima dell’omicidio di Carlo Cammeo, il 4 marzo del 1921, i fascisti avevano ucciso nel cascinese Enrico Ciampi il segretario della prima sezione comunista della provincia di Pisa, quella di Barca di Noce; pochi giorni prima dell’omicidio di Fantozzi, il 19 marzo 1922, l’anarchico cascinese Comasco Comaschi, maestro ebanista e leader degli Arditi del popolo della zona, mentre è di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana, viene ucciso in un agguato fascista.

Questi episodi, senza dimenticare le altre violente aggressioni in tutta la provincia di cui saranno protagonisti gli squadristi capitanati da Bruno Santini, ci aiutano a comprendere come il fascismo in questi territori si caratterizza appieno come reazione di classe. Tutti gli obiettivi colpiti con una logica tipicamente militare rappresentano le forze politiche che sono state protagoniste, nel bene e nel male, delle lotte sociali e sindacali che hanno attraversato la provincia di Pisa durante il Biennio rosso: Ciampi è il segretario della prima sezione comunista; Cammeo è il segretario provinciale del PSI e direttore de «L’Ora nostra», il giornale che ha smascherato le bugie fasciste sulla morte dello squadrista Tito Menichetti; Comaschi è il leader di un attivo circolo anarchico a cui fanno capo i libertari del piano pisano, ardito del popolo e fondatore della Pubblica assistenza; Fantozzi è un sindacalista, conosciuto e stimato, che organizza in Valdera le lotte operaie e bracciantili.

La Valdera nel biennio rosso è attraversata da aspre lotte di rivendicazioni salariali e contrattuali2, sia operaie che contadine3, «L’Ora nostra», grazie ai propri corrispondenti locali, ne riporta notizie settimanali nella rubrica «Cronaca rossa della Provincia». A Pontedera e in Valdera, tra la classe lavoratrice, si respira una forte influenza socialista, l’attività è quotidiana, il movimento operaio è in fermento e guarda al proprio futuro tanto che, nel gennaio del 1920, si propone la costruzione della Casa del Popolo4.

La Valdera è anche la zona che vede i maggiori progressi delle leghe «bianche» che hanno i loro punti di forza tra i piccoli proprietari e i mezzadri. Un rafforzamento, quello delle leghe cattoliche, che coincide con l’avanzata del Partito popolare e con la costituzione della Confederazione Italiana del Lavoro (CIL) che proprio a Pisa, nel marzo del 1920, tiene il primo congresso nazionale5. L’assise si chiude con una relazione finale tenuta da Giulio Alvi, segretario generale dell’Unione del lavoro di Pisa e del pontederese Giovanni Gronchi all’epoca deputato, attivo organizzatore del Partito popolare a Pontedera e in Valdera che, nell’occasione, diventa il segretario generale nazionale della CIL.

In questo clima, tra le fila del Partito socialista e della direzione della Camera del lavoro confederale, emerge la figura di Alvaro Fantozzi.

Alvaro nasce a Pontedera il 16 novembre 1893, da Filippo e Isola Orsini, di professione pastaio.

I «sovversivi», nelle carte di polizia, come è noto, sono descritti come persone di basso profilo morale. I cenni biografici dedicano particolare attenzione alla descrizione della moralità dell’individuo e spesso si spingono ad esprimere giudizi definitivi e inappellabili. Anche Alvaro Fantozzi non sfugge a questa regola: «uomo esile, trasandato nell’abbigliamento, di colorito pallido e con una folta capigliatura» così viene descritto in un documento della Prefettura di Pisa del 12 gennaio 1922 nel quale si sottolinea che «gode nell’opinione pubblica di mediocre fama che non ha voglia di lavorare e si ingegna a fare il segretario della Camera del lavoro […] da vigilarsi insistentemente perché si approfitta ove vede debolezza da parte dell’Autorità e potrebbe divenire un sovversivo pericolosissimo».

A FIl 1920 è l’anno della sua consacrazione nel panorama politico e sindacale della Valdera, il 1° gennaio diventa segretario della Camera del lavoro di Pontedera e il 17 ottobre viene eletto consigliere comunale nelle file del PSI, contribuendo attivamente alla vittoria grazie anche ai suoi comizi tenuti in città e nelle borgate. La tornata elettorale è segnata da un altissimo tasso di astensione6 e vede una vittoria schiacciante dei socialisti che, ne riporta notizia con tono mesto «Il Ponte di Pisa», «hanno occupato tutti i seggi provinciali del mandamento; ed hanno vinto nel Comune capo-luogo e negli altri»7.

La festa per la conquista del Comune Pontedera è saluta da una folla di diecimila persone e nell’occasione viene issata su Palazzo Stefanelli, sede del Municipio, la bandiera rossa8.

Il ventisettenne Alvaro Fantozzi, nella prima seduta del Consiglio Comunale, che si tiene il 30 ottobre, viene nominato assessore con delega alla cultura e all’assistenza sociale; prima che si sciolga l’adunanza chiede la parola, come riportato nel verbale della stessa seduta, per «rivolgere il pensiero alla Russia dei Soviet dalla quale viene ora la luce». Nello stesso intervento il neo assessore affronta temi di carattere politico e sindacale e «fa rilevare l’impossibilità di prescindere dalla lotta di classe per giungere al crollo della società borghese ed al trionfo della società del popolo»9.

La sua formazione politica è di stampo massimalista, vicina alle posizioni maggioritarie della federazione pisana del PSI, in linea con quella degli altri dirigenti della Camera del lavoro confederale come Amulio Stizzi, Giulio Guelfi, Giuseppe Mingrino, Paris Panicucci, Carlo Cammeo, Paride Pagliai e Giuseppe Ciucci. È infatti questo il blocco di dirigenti che, presente su tutte le vertenze operaie, bracciantili e contadine della provincia pisana nel biennio rosso, orienta la linea politica e l’indirizzo sindacale della Camera del lavoro. Una Camera del lavoro importante, quella della provincia pisana, che al congresso del luglio 1920, registra oltre 33.000 iscritti10.

Fantozzi svolge quotidianamente il proprio impegno di militante socialista, di assessore comunale e di dirigente sindacale ed in questo ruolo, dotato di particolari capacità relazionali e organizzative, riesce a istituire 33 nuove leghe con una straordinaria adesione di iscritti11. La vita politica di Fantozzi, per quanto ricostruibile sulla base della documentazione reperibile, è principalmente dedicata all’organizzazione delle lotte sindacali, ma non manca la sua attenzione alla puntuale denuncia delle violenze fasciste.

Il 13 dicembre 1920 interviene durante una manifestazione di lavoratori, che si raduna in un cinema di Pontedera, per protestare contro il progetto del governo di aumento del costo del pane e contro le provocazioni fasciste che in quei giorni, a Pisa, impediscono l’insediamento del Consiglio provinciale. Durante l’iniziativa l’assemblea approva un ordine del giorno che viene inviato al gruppo parlamentare socialista nel quale si dichiara che, se il governo non ritira il provvedimento sull’aumento del costo pane, «il proletariato è pronto a qualsiasi azione»12.

Un mese prima lo stesso tema e la denuncia contro la violenza fascista sono oggetto di un suo intervento nella seduta del consiglio comunale del 14 novembre13. Denuncia che ripete nella successiva riunione consiliare del 27 gennaio 1921 quando afferma che «non saranno certamente gli incendi, le devastazioni […] che ci faranno astenere dalla lotta contro la classe borghese»14.

Per Fantozzi la resistenza al fascismo passa dalla lotta di classe. L’8 gennaio durante l’assise dell’Consiglio generale delle leghe della succursale pontederese della Camera del lavoro confederale, relaziona sulle agitazioni dei lavoranti del legno, degli operai dei surrogati del caffè, dei barrocciai, degli spazzini e dei pastai di Pontedera e Lari e riporta la notizia della risoluzione positiva dello sciopero dei tessili che ha visto l’adesione di 1800 operai15. Nella stessa occasione interviene sulle vertenze dei coloni, dei fiammiferai e dei cordai, che sta seguendo in quelle stesse giornate, e sullo sciopero dei metallurgici e dei braccianti di Montefoscoli e di Peccioli. Questa relazione, oltre a offrire un’idea del clima e del fermento del movimento operaio locale, ci aiuta a inquadrare anche il ruolo del dirigente sindacale e la sua indiscutibile capacità politica ed organizzativa. Fantozzi è un uomo del popolo e un uomo di azione, non scrive su «L’Ora nostra» e non sembra intervenire nel dibattito in corso tra riformisti, massimalisti e comunisti che proprio in quelle settimane si confrontano a Livorno al 17° congresso nazionale. Probabilmente quello che infastidisce i fascisti e i loro finanziatori è la sua capacità di organizzare i lavoratori e fare di loro un argine popolare all’avanzata fascista.

Così, in una sede di un locale Fascio di combattimento o nel salotto di una bella villa sulle colline della Valdera, si giunge alla decisione fatale: l’eliminazione fisica del segretario della Camera del lavoro sembra la strada più breve per gli squadristi per la capitolazione del movimento operaio della Valdera.

Il 2 aprile 1922 Alvaro Fantozzi è atteso a Marti per la riunione della Lega operaia, il suo intervento è stato annunciato dal numero de «L’Ora nostra» del 31 marzo. La mattina parte da Pontedera su un calesse condotto dal vetturino Francesco Mazzei e, come relaziona il Prefetto al Ministro dell’Interno in una nota del 15 aprile, «ai fascisti locali […] e ancor più che ad essi ai proprietari del luogo […] non poteva essere gradito sapere che il Fantozzi cercava di riorganizzare la lega operaia, tenendo all’uopo una conferenza privata socialista»16. Tre uomini lo attendono sulla strada di Marti, precisamente a Castedelbosco, e lo uccidono con vari colpi di pistola. Il Prefetto Malinvero informa immediatamente il Ministro dell’Interno e nel testo del telegramma la vittima, diversamente da come era stata precedentemente descritta nelle carte di polizia, diventa «persona mite e ben voluta»17.

Secondo il Prefetto i tre aggressori sono gli esecutori materiali di «un atto criminoso precedentemente organizzato e voluto da […] agrari e fascisti che in quella regione sono collegati»; vengono immediatamente arrestati tutti i membri del «direttorio locale fascista» e la marchesa Baldovinetti che lo stesso Prefetto definisce «nota incoraggiatrice e sovvenzionatrice dei fascisti locali»18. Per «Il Ponte di Pisa» invece, che dedica al fatto un anonimo trafiletto nella rubrica «Su e giù per la provincia», «non si conoscono neppure le ragioni del delitto»19.

Il 4 aprile si tengono a Pontedera i solenni funerali di Alvaro Fantozzi e, nonostante l’evidente tensione, il Prefetto Malinverno autorizza un concentramento fascista per la stessa giornata20 premurandosi, dopo poche ore, di chiedere al Ministro che siano inviate 50 guardie a rafforzare l’ordine pubblico. Per manifestare il cordoglio per la morte di Fantozzi l’«Alleanza del lavoro» di Pisa pubblica un manifesto a firma della Camera del lavoro confederale, della Camera sindacale e del Sindacato dei ferrovieri nel quale si denuncia la scientifica programmazione delle violenze contro «i nostri migliori uomini»21.

Il trasporto funebre è guardato a vista dalle squadre fasciste che avevano chiesto al Prefetto che dietro il feretro sfilassero solo i parenti della salma22. Al funerale, che parte dalla sede della Camera del lavoro, sono però presenti oltre seimila persone, con una larga rappresentanza delle associazioni e dei partiti di sinistra e più di cinquanta corone che accompagnano la «salma al cimitero dove non fu pronunciato nessun discorso e il corteo si sciolse silenziosamente»23.

Nei giorni successivi il deputato socialista Giuseppe Mingrino, già segretario della Camera del lavoro confederale di Pisa, presenta un’interrogazione parlamentare e il Pretore di Pontedera riceve una lettera anonima che indica come assassini tre fascisti di Santa Croce sull’Arno: Quirino Vanni, Gaetano Duranti e Dino Berti. I tre, oltre ad essere noti per la loro violenza, sono sospettati di aver preso parte, pochi mesi prima, all’omicidio di Mario Susini e Artibano Gronchi, uccisi mentre partecipano, a Capanne di Montopoli, a una riunione della Lega dei fornaciai. Una lettera simile viene recapitata anche al Sindaco di Pontedera Narsete Citi nella quale si descrivono più precisamente i fatti: i tre sospettati «partirono la sera di sabato verso le nove, aspettarono la vettura al ponte di S/Croce, andarono fino a S/Romano e si incamminarono a piedi fino a Castel del Bosco dove andarono a dormire in casa di Fogli Italo residente in S/Croce e la mattina si alzarono e lasciarono i pastrani nella detta casa e s’incamminarono per la via di MARTI aspettando la preda». La lettera, il cui testo oggi è consultabile in una versione trascritta a macchina, termina con questa raccomandazione: «al momento che avete letto […] prego di stracciare questa lettera perché se venisse scoperta noi sarebbemo altre vittime come il povero FANTOZZI».

Le indagini per timore e per probabili intimidazioni nei confronti dei testimoni non portano a condanne.

La violenza fascista spazzerà via ogni forma di resistenza in Valdera. La città di Pontedera, gli ultimi giorni di luglio del 1922, verrà occupata dalle squadre d’azione di Buffarini Guidi e di Scorza, circa duemila fascisti provenienti da varie parti della Toscana bastonano centinaia di operai, devastano le sedi della Camera del lavoro, del PSI, del PCdI e costringono alle dimissioni la Giunta Citi da Palazzo Stefanelli24. La violenza è ampiamente prevedibile tanto che il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’on. Luigi Facta, pochissimi giorni prima della caduta del suo primo dicastero, in un telegramma del 27 luglio mette in allarme il Ministro della Guerra, Pietro Lanza di Scalea, sui possibili incidenti di Pontedera, e denuncia l’atteggiamento del Comandante della divisione di Livorno che ha rifiutato, l’invio a Pontedera di cento militari: «Prego E.V. provvedere subito perché comandante predetto invii immediatamente truppa richiesta. Faccio osservare che rifiuto opposto fa ricadere sull’Autorità militare completa responsabilità eventuali dolosi fatti»25.

Dopo la Liberazione il ricordo del sacrificio di Alvaro Fantozzi è stato scolpito nel marmo, su una lapide apposta all’ingresso di Palazzo Stefanelli. Il Comune di Pontedera ha dedicato al suo ricordo una strada. A Casteldelbosco, sul luogo dove venne ucciso, un cippo ricorda il fatto e a lui è stata dedicata la piazza centrale del piccolo borgo di Marti. Nel solco della sua opera una Casa del popolo di Pontedera e la sezione ANPI della Camera del lavoro di Pisa portano oggi il suo nome.

1Non ammazzare, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921.
2Per un inquadramento complessivo si v. F. Bertolucci, Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia, https://www.toscananovecento.it/custom_type/alle-radici-della-guerra-civile-a-pisa-e-nella-provincia.
3Sulle agitazioni delle campagne si v. L’Uomo e la Terra. Lotte contadine nelle campagne pisane, Montepulciano, Editori del Grifo, 1992.
4La sezione socialista pontederese con la Camera del lavoro confederale nominano una commissione per iniziare le procedure e seguire i primi lavori, il presidente è Narsete Citi (futuro sindaco di Pontedera), Leopoldo Belli il segretario e Adolfo Massei il cassiere, mentre i membri della commissione sono Guido Malloggi, Fernando Caciagli, Romolo Silvi e Italo Fiorentini. Cronaca rossa della Provincia. Pontedera. Casa del popolo, «L’Ora nostra», 1° gennaio 1920.
5Cfr. «L’Eco del popolo», settimanale del PPI, 21 marzo 1920.
6Il PSI raggiunge 1.436 voti e l’affluenza dell’intero corpo elettorale è inferiore al 50%. Cfr. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 1982 p. 256.
7Elezioni amministrative in Provincia, «Il Ponte di Pisa», 23-24 ottobre 1920.
8Pontedera. Cronaca rossa della Provincia, «L’Ora nostra», 23 ottobre 1920
9La delibera è pubblicata, per volontà e su iniziativa del «Comitato per le manifestazioni di commemorazione di Alvaro Fantozzi», nel volume Alvaro Fantozzi, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1996.
10Il Congresso provinciale della Camera del lavoro confederale, «L’Ora nostra», 31 luglio 1920.
11Intestatari di strade comunali. Biografie, a cura del Comune di Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 2001, p. 40-41.
12Cronaca rossa della provincia. Pontedera. «L’Ora nostra», 24 dicembre 1920.
13Il verbale della seduta in Alvaro Fantozzi, cit.
14Il verbale della seduta in Alvaro Fantozzi, cit.
15Cronaca rossa della provincia. Pontedera. «L’Ora nostra», 14 gennaio 1921.
16Archivio Centrale dello Stato, Affari riservati generali e riservati, Cat. G1, b. 148, fasc. 348.
17Ib.
18Ib.
19Su e giù per la provincia. Da Pontedera, «Il Ponte di Pisa», 9 aprile 1922.
20Alla stazione ferroviaria di Pisa vengono arrestati diversi squadristi livornesi che, con rivoltella in tasca, si stanno dirigendo a Pontedera.
21Il testo del manifesto è riportato nell’articolo Martirologio proletario. Ancora una vittima: Alvaro Fantozzi, «L’Ora nostra», 7 aprile 1922
22M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1920, Roma, Bonacci, 1980, pp. 221-223.
23Martirologio proletario. Ancora una vittima: Alvaro Fantozzi, «L’Ora nostra», cit.
24L’occupazione fascista di Pontedera, «L’Ora nostra», 8 agosto 1922. V., inoltre, Pontedera, industriosa e civile, in un soffio di ribellione, di fede, di amore, ha cancellato per sempre l’onta del bruto dominio bolscevico. 5000 camicie nere spezzano la tirannia bolscevica, «L’Idea Fascista», 6 agosto 1922.
25Archivio Centrale dello Stato, Affari riservati generali e riservati, Cat. G1, b. 148, fasc. 348.




Guerra ai renitenti: le fucilazioni del marzo ’44

Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni, Guido Targetti: erano questi i nomi dei 5 giovani – di età compresa fra i 21 e i 23 anni – fucilati il 22 marzo del 1944 a Firenze allo stadio di Campo di Marte a seguito di una condanna a morte per renitenza alla leva, emanata dal Tribunale militare speciale. All’esecuzione sono fatti assistere tutti i militari del presidio militare di Firenze, come monito. I drammatici momenti di quell’eccidio ci sono restituiti dalla relazione redatta da don Angelo Becherle, il cappellano chiamato a impartire l’estrema unzione ai cinque ragazzi. Nel racconto del sacerdote – subito trasmesso al cardinale di Firenze Elia Dalla Costa – emerge tutta la tragedia delle giovani vite di fronte alla morte: “Quiti cominciò a tremare, voleva alzarsi e scappare: anche il Raddi e il Corona ebbero un momento di terribile esasperazione: riuscii a quietarli  […] avvenne la scarica del plotone. Il Targetti, il Raddi ed il Santoni morirono subito. Non così il Quiti, che ancora vivo, legato alla sedia si dimenava e gridava « Mamma, mamma!». […] Fu il maggiore Carità, il famigerato comandante delle SS, che dopo alcuni istanti intervenne e diede il colpo di grazia”. La gravità del fatto è tale che sconvolge i testimoni e resta ben vivo nella memoria della città che ha poi onorato la memoria dei martiri con il monumento che ancora oggi li ricorda sotto la “Curva Ferrovia” dello stadio di calcio.

Peraltro non si tratta di episodio isolato. In quello stesso mese di marzo fatti simili si erano verificati in tutta la Toscana. Ad esempio il 13 a Siena dove 4 giovani renitenti erano stati condannati dal tribunale militare speciale e fucilati nella caserma “La Marmora”; sono 11 quelli fucilati in quello stesso 22 marzo a Maiano Lavacchio nel grossetano, insieme ad un militare tedesco che aveva disertato;  il 24 tocca a due giovani viareggini presso il cimitero della città e il giorno seguente altri due a Lucca; il 27 marzo due a Pisa e il 31 quattro renitenti sono fucilati a Pistoia sotto le mura della Fortezza di Santa Barbara.

Una vera e propria guerra alla renitenza,  nella quale i giovani che non si presentano alla leva sono di fatto equiparati a nemici, e come tali trattati. Per capire la radicalità e capillarità di questa strategia, frutto non tanto delle scelte dei singoli Tribunali locali, quanto di una compiuta strategia della Repubblica sociale italiana, è necessario considerare l’importanza attribuita dal governo di Salò alla leva militare.

Per il governo collaborazionista fascista la formazione di un esercito nazionale, secondo l’impostazione del generale Graziani, Ministro della Difesa nazionale, è infatti obiettivo prioritario per dimostrare la propria esistenza come Stato agli italiani, ma anche ai potenti quanto ingombranti alleati nazisti. Per questo, oltre al tentativo di “recuperare” i soldati arresisi dopo l’armistizio e condotti nei lager del Reich come internati militari, è fondamentale soprattutto il coinvolgimento dei giovani attraverso l’emanazione dei bandi di leva. Per questo fin dal 16 ottobre del ’43 Graziani preannuncia la chiamata alle armi dei nati nel ’24 e nel ’25, riattivati gli uffici di leva, nella seconda metà di novembre. L’operazione è vista con diffidenza dai nazisti che puntano piuttosto ad usare gli italiani come lavoratori a proprio servizio. Ma soprattutto si scontra con la diffusa stanchezza e la crescente ostilità per il conflitto fra gli italiani. Atteggiamenti certo accentuati dall’odiosa disposizione del generale Gambarra dello Stato maggiore dell’Esercito che intima l’arresto dei padri in caso di mancata presentazione dei figli alla leva. Nonostante un crescente clima di minacce la maggioranza dei ragazzi non si presenta.

Il decreto legislativo del 18 febbraio 1944 che stabilisce la pena di morte per renitenti e disertori è la più efficace dimostrazione del fallimento del bando di novembre. Il ricorso alla pena estrema svela l’inefficacia di ogni altro mezzo, a partire dalla propaganda, e la crescente delusione negli ambienti fascisti. Una consapevolezza rafforzata dalla lettura della stampa fascista che indica sempre più in renitenti e disertori nemici da abbattere più che ragazzi da convincere. Esemplare è quanto si legge sulle testate delle federazioni toscane, come quella lucchese: “la diserzione, quindi, e il macchiai olismo di tanti, di troppi giovani nostri, per non servire la mamma Italia e in un’ora delle più tragiche per Essa, sono spregevoli al massimo grado” (“L’Artiglio”, 21 aprile 1944). Sulla stessa linea il periodico pistoiese “Il Ferruccio” che definisce i renitenti “sabotatori”, mentre quello fiorentino “Repubblica”, già dal dicembre del ’43 aveva esteso la denuncia ai familiari: “vili sono tutti coloro che proibiscono e non incitano i figli perché accorrano a cacciare il nemico” (“Repubblica”, 11 dicembre 1943).

La successiva tattica del “bastone e della carota” – con il decreto 336 che esenta dalla pena coloro che si presentino entro il 9 marzo 1944 – non muta la sostanza dei fatti. Né ottenere risultati significativi. Tanto che il successivo decreto del 24 marzo stabilisce sanzioni economiche per i renitenti e i disertori come la confisca dei beni, propri e familiari, oltre alla cancellazione delle tessere annonarie, così da piegare i giovani, con il ricatto che grava sui parenti. In questo contesto vanno quindi collocati gli episodi che insanguinano anche la Toscana nel marzo del ’44 con le varie fucilazioni di renitenti. Esse non sono solo azioni di repressione, ma tremendi atti dimostrativi tesi a terrorizzare gli altri ragazzi e tutta la popolazione per cercare di piegare con la paura chi non si era riuscito a convincere con ragionamenti ed emozioni retoriche ormai vanificate dal conflitto e dai suoi tremendi effetti. Violenze gravi che, quasi per contrappasso, ottengono l’effetto di favorire un rafforzamento del movimento partigiano, con la fuga alla “macchia” di tanti giovani, e più in generale di favorire un sentimento di ostilità della popolazione contro la Repubblica sociale, contribuendo così a quella crescita della Resistenza, in ogni sua forma, che si dispiegherà nei mesi successivi contribuendo alla liberazione di gran parte del territorio della Toscana.




Heinz Battke: pittore antinazista, ufficiale tedesco, collaboratore dei partigiani fiorentini.

1 – “Post factum”:

Alla metà di aprile del 1944 un grande ciclo di rastrellamenti scatenato dai comandi nazifascisti colpì i principali rilievi del fiorentino, da Monte Morello, al Mugello, da Monte Giovi ai monti del Casentino e dell’Appennino tosco-romagnolo. Negli stessi giorni, alcune delle principali bande partigiane fiorentine, che su quei monti erano nate all’indomani dell’8 settembre 1943, erano impegnate in un complicato trasferimento in direzione del Monte Falterona, al confine delle provincie di Firenze, Arezzo e Forlì, dove, stando agli ordini ricevuti, avrebbero dovuto dare luogo assieme alle formazioni romagnole  a una grande concentrazione partigiana. Ignare di quanto stava accadendo, nel corso del trasferimento queste bande incapparono nel grande rastrellamento nemico e, attaccate, finirono con lo sbandarsi.

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Heinz Battke, rocce sopra Vallombrosa. Stampa a mano, 1941 (GALERIE HANNA BEKKER VOM RATH, Francoforte sul Meno)

Un gruppo eterogeneo di partigiani appartenenti a varie formazioni che il rastrellamento aveva disperso (tra i quali gli uomini di una banda agli ordini del sottotenente Gino Volpi) trovò riparo in un rifugio sul Monte Secchieta al confine tra le province di Firenze e di Arezzo. La mattina del 16 aprile, un battaglione della 92° Legione della GNR di Firenze rimpinguato con altri militi repubblichini e qualche militare tedesco, partendo dal Passo delle Consuma raggiunse il rifugio in Secchieta e, dopo aver eleminate le sentinelle partigiane, ingaggiò un duro scontro col gruppo del Volpi. La sparatoria si protrasse per circa un’ora, fintanto che quest’ultimo, ferito, non ordinò il ripiegamento dei suoi. I partigiani, rotto l’accerchiamento, si diedero così ad una fuga disordinata nei boschi circostanti. Sette di loro restarono a terra senza vita sul luogo dello scontro, mentre alcuni dei fuggitivi vennero catturati e tradotti a Firenze: due di essi, in seguito, vennero fucilati e il resto deportato in Germania da dove solo in tre avrebbero fatto ritorno.

Tra coloro che riuscirono a fuggire dallo scontro vi era anche un partigiano diciottenne nativo di Rignano sull’Arno: Elio Palai detto “Franco”. Ferito gravemente all’addome da un proiettile, Palai riuscì a filtrare comunque attraverso le maglie dell’accerchiamento nemico fino a raggiungere l’abitato di Vallombrosa, nel comune di Reggello. Qui, il giovane chiese prima aiuto alla titolare del locale ufficio postale e poi bussò alla porta del Villino Medici, una pensione-ristorante appartenuta alla vicina Abbazia di Vallombrosa e allora gestita dalla famiglia Cerchiarini. Palai trovò l’ospitalità del padrone di casa e di alcuni inquilini che cercarono di prestargli le prime cure tenendolo nel contempo nascosto ai militi fascisti che, avendo saputo del giovane fuggitivo, lo stavano cercando per tutto il paese. Le condizioni di quest’ultimo erano serie e parve evidente a tutti che l’unica possibilità di salvarlo era quella di condurlo al più presto a Firenze per sottoporlo a un intervento chirurgico d’urgenza. L’impresa, con il rastrellamento che imperversava tutt’intorno, pareva improbabile quanto rischiosa.

Tra coloro che in quella circostanza si fecero avanti, una figura in particolare si distinse per abnegazione e spirito di sacrificio, non fosse altro per via della sua particolare identità. Rientrato da poco al Villino Medici dalla sua camminata mattutina, a prendere l’iniziativa nel tentativo di salvare Palai fu Heinz Battke, un pittore tedesco quarantaquattrenne nonché ufficiale della Wehrmacht congedato nel 1942 per ragioni di salute, il quale in quei mesi si trovava in convalescenza proprio a Vallombrosa. Come è possibile ricostruire dagli atti di un processo giudiziario che nel dopoguerra si tenne presso la Corte d’Assise Straordinaria di Firenze contro i responsabili del rastrellamento in Secchieta, Battke, senza perder tempo, fece chiamare al telefono un autista fidato, tale Angelo Bettini detto “Ciaccherino”, perché si portasse con la sua auto presso il Villino. Dopodiché, caricato il ferito, partì alla volta di Firenze. Lo stesso Battke, sentito il 10 aprile 1946 dal giudice istruttore fiorentino, avrebbe riferito in che modo egli poté pensare allora di eludere il serrato controllo stabilito sulle vie di circolazione da parte delle truppe rastrellanti: «Il Palai venne quindi condotto nella notte a Firenze in una macchina dove io presi posto in divisa di ufficiale tedesco per passare attraverso i vari blocchi stradali»[1]. Anche il proprietario del Villino Medici, Vezio Cerchiarini, nel dopoguerra confermò alle autorità inquirenti come l’autista quella mattina «trasportò il ferito a Firenze assieme al Sig. Backer [sic], ufficiale dell’esercito germanico che da tempo si trovava presso il villino Medici in convalescenza»[2]. L’auto riuscì ad arrivare in città e il Palai fu consegnato d’urgenza a un chirurgo ospedaliero che, tuttavia, in seguito a complicazioni, non riuscì a impedire il decesso del giovane, avvenuto la mattina del 17 aprile.

Nonostante l’esito tragico della vicenda, la figura del Battke e il suo modo di condursi, di certo non in linea con quanto quella sua divisa gli avrebbe imposto, non possono che sollevare una serie di domande e curiosità. La prima, è se quell’atto di generosità sia da intendere come una prova di spontanea umanità, magari isolata e occasionale, mossa dal tentativo di salvare la vita a un moribondo o se invece vada legata a un atteggiamento di alterità politica rispetto alla posizione che la sua nazionalità e il servizio militare ci si aspetta potessero fargli assumere nel contesto della guerra e dell’occupazione tedesca della penisola. Ancora gli incarti del sopracitato processo tenutosi nel dopoguerra ci aiutano a chiarire come nel suo caso quell’atto di generosità possa essere inteso nel senso di una sicura opposizione alla guerra nazifascista e di buona disposizione, se non di aperta solidarietà, nei riguardi del movimento di Resistenza italiano. Con le parole del già citato Cerchiarini: «il sig. Backer [sic] pur essendo suddito ed ufficiale germanico non diede mai prova di simpatia verso il regime ed i metodi tedeschi, e si assunse la responsabilità di portarlo [il Palai] a Firenze». Più esplicita ancora la madre del defunto partigiano che nel gennaio del 1945 ricordò alle autorità istruttorie che il figlio, dopo la fuga dallo scontro in Secchieta, «fu aiutato da un tedesco che era in relazione con i partigiani e che provvide a farlo trasportare a Firenze in casa di un chirurgo»[3]. Dunque, Battke, ci viene presentato qui alla stregua di un «buon tedesco», di probabili sentimenti antinazisti e in rapporti solidali coi partigiani fiorentini. Ma chi era Battke nel dettaglio e cosa ci faceva a Vallombrosa nell’aprile del 1944?

2 – Il personaggio:

Heinz Battke era nato nel 1900 a Berlino in una famiglia di estrazione sociale medio-alta. Avviato agli studi artistici, tra il 1918 e il 1921 aveva frequentato la scuola d’arte di Adolf Propp, studiando in seguito presso l’Accademia delle Arti di Prussia sotto la guida di Karl Hofer (pittore influenzato dagli impressionisti francesi e in seguito dichiarato “degenerato” dal Terzo Reicht) coniugando al contempo anche il lavoro di tipografo e grafico-incisore. Tra la fine degli anni Venti e la metà dei Trenta, Battke aveva compiuto numerosi soggiorni a Parigi e in Francia, nei Paesi Bassi, in Belgio, Danimarca, Austria e Svizzera. Tra il 1929 e il 1930 ebbe la possibilità di studiare anche a Firenze dove poi si sarebbe trasferito stabilmente nel 1935 al seguito della madre Ada. Questa si era infatti risposata in seconde nozze con il compositore e musicologo ebreo-austriaco Rudolf Cahn-Speyer il quale dal 1933 risiedeva nella città toscana dove intratteneva rapporti professionali col locale Conservatorio “Luigi Cherubini”. Oltre che con questa circostanza familiare, il trasferimento a Firenze di Battke va messo sicuramente in relazione con la rottura maturata allora con l’ufficialità culturale del regime nazista.

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Fotoritratto di Heinz Battke (da Joachim Cüppers, “Heinz Battke, Werkkatalog”, Hambug, Dr. Ernst Hauswedell & Co., 1970)

Nello stesso anno gli era stato infatti prospettato un ruolo di insegnante presso un’accademia tedesca che egli però rifiutò, dal momento che l’accettazione avrebbe comportato l’iscrizione al partito nazista. La conseguenza di ciò fu la sua formale espulsione, ufficializzata nel 1936, dalla Reichskulturkammer (la Camera della Cultura del Reich), l’organizzazione professionale degli artisti tedeschi istituita nel 1933 dalla Germania nazista allo scopo di controllare la vita culturale del paese e promuovere nell’arte gli ideali e i canoni estetici del nazismo. I lavori di Battke, a seguito di questo strappo, vennero pertanto dichiarati “degenerati”.

A Firenze, a dispetto del Regime fascista imperante, Battke poté trovare un ambiente favorevole alle proprie sensibilità artistiche e politiche. Come posto in luce tra gli altri dagli studi di Klaus Voigt, tra i molti artisti di area tedesca (diversi di origine ebrea) espulsi dalla Reichskulturkammer o comunque ostili all’ufficialità del regime nazista che decisero di rifugiarsi in Italia, un buon numero trovò una sponda a Firenze nei circoli culturali della Deutschen Künstlerstiftung “Villa Romana”, una fondazione promossa nel 1904 dal pittore tedesco Max Klinger tesa a sostenere i soggiorni artistici dei pittori connazionali in Italia[4]. Direttore di Villa Romana era dal 1935 il pittore Hans Purrmann, dichiarato due anni dopo “artista degenere” dal Reich. Di sentimenti antinazisti (nel maggio 1938, in occasione della visita di Hitler a Firenze, egli fu persino messo sotto custodia a scopo cautelativo presso il carcere delle Murate) Purrmann ebbe non poche difficoltà nel dirigere la fondazione (nel 1939 fu oggetto di un provvedimento di licenziamento, poi revocato) ma ciononostante riuscì a fare di Villa Romana un punto d’incontro di molti artisti e intellettuali tedeschi esuli dalla Germania nazista come lo scrittore Kasimir Edschmid, lo storico dell’arte Curt Glaser o la scrittrice Monica Mann, figlia di Thomas.

Anche Heinz Battke fu tra i frequentatori del circolo di Purrmann, nel cui ambito continuò a portare avanti i propri interessi artistici. Il contesto generale, d’altro canto, non risultava comunque semplice, né per lui né per i colleghi, per quanto Battke, a differenza di alcuni di loro, almeno dal lato economico poté fare affidamento sul sicuro patrimonio finanziario familiare[5]. Sul piano artistico, i lavori del suo periodo fiorentino rivelano un «radicale mutamento interiore» che si concretizza prevalentemente in «paesaggi disegnati a penna, con prati, cespugli, ruscelli e radici» quasi si trattasse di «una fuga dal nuovo ambiente»[6]. A seguito del varo della legislazione razziale italiana e poi con lo scoppio della Seconda guerra mondiale la posizione di questi artisti tedeschi esuli si fece più complicata. Molti di loro cominciarono ad aver difficoltà a sopravvivere coi soli proventi del proprio lavoro, mentre per gli artisti di origine ebrea sorse la minaccia di provvedimenti di cattura e internamento. Su alcuni, peraltro, pendeva anche il rischio di un eventuale arruolamento nelle forze armate tedesche, considerato che per coloro che si trovavano a compiere prolungati soggiorni all’estero per motivi di studio o lavoro poteva giungere tramite il consolato tedesco, cui molti si erano dovuti registrare, la chiamata alle armi. È quanto accadde proprio ad Heinz Battke. Nonostante egli avesse cercato invano di allontanarsi in tempo dall’Italia, nel 1941 fu arruolato nella Luftwaffe e, grazie alla sua conoscenza dell’italiano, aggregato come interprete presso una compagnia dislocata in Sicilia. Senza che se ne conoscano i dettagli, l’esperienza fu però breve, poiché nel 1942 egli fu formalmente congedato per problemi di salute[7]. Tornato a Firenze, Battke decise però di lasciare la propria abitazione posta in viale Milton e di sfollare assieme alla madre a Vallombrosa. Come avrebbe ricordato egli stesso al più tardo processo per i fatti di Secchieta, l’inizio del suo soggiorno nella frazione del comune di Reggello ebbe avvio il 12 dicembre 1942. Meta cara a molti artisti e letterati stranieri, Vallombrosa con la sua magnifica abbazia e le sue foreste circostanti era già stata sicuramente località di villeggiatura non solo per Battke (che del paesaggio attorno ci ha lasciato alcune vedute e disegni) ma molto probabilmente anche per altri artisti esuli del circolo di Villa Romana.

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Heinz Battke, giardino di un casolare al Saltino. Stampa, 1942 (GALERIE HANNA BEKKER VOM RATH, Francoforte sul Meno)

Non è certo un caso perciò che nel maggio del 1943, per sottrarsi ai pericoli della vita in città, proprio a Vallombrosa si rifugiarono tra gli altri lo stesso Purrmann (che poco dopo riparò in Svizzera), il direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze Friedrich Kriegbaum (il quale aveva cercato di opporsi alla penetrazione culturale nazista all’interno del prestigioso istituto tedesco di ricerca storico-artistica fondato in città nel 1897) e anche il pittore ebreo Rudolf Levy[8]. La tragica sorte toccata a quest’ultimo, peraltro, aiuta ulteriormente a mettere in luce l’antinazismo di Battke. Levy, pittore ebreo nativo di Stettino, dopo aver lasciata la Germania, nel 1938 a seguito della promulgazione della legislazione razziale fascista era rimasto bloccato ad Ischia, dove soggiornava ospite di un amico. Impossibilitato a procurarsi un visto per l’estero e sfuggito all’arresto solo perché già anziano (era nato nel 1875) Levy si era trasferito a Roma e poi a Firenze dove legò col gruppo di Purrmann, suo amico, facendo la conoscenza tra gli altri anche di Battke. Il 12 dicembre 1943, Levy fu però arrestato da agenti in incognito della polizia segreta nazista che erano riusciti ad attirarlo a Firenze sotto le mentite spoglie di committenti d’arte interessati al suo lavoro e quindi fu tradotto nel carcere delle Murate. Stando a quanto riportano i suoi profili biografici, Battke cercò disperatamente di liberare l’amico, non riuscendovi. Levy poco dopo fu avviato alla deportazione in Germania, decedendo per quanto si sa durante il trasferimento ad Auschwitz[9].

3 – Tra dissenso e “scelta” partigiana:

In mancanza di altra documentazione, questi precedenti aiutano a mettere meglio a fuoco il gesto coraggioso e disinteressato che Battke compì quella mattina del 16 aprile nel tentativo di salvare il partigiano Palai. Oltre a questo episodio, sulla sua attività di collaborazione col movimento partigiano fiorentino di cui riferiscono le testimonianze citate in precedenza non disponiamo di ulteriori riferimenti documentari, se non di semplici indizi. Va detto in tal senso che nel 1944 l’amministratore dei beni della famiglia Battke a Firenze era certo Piero Aglietti, un patriota fiorentino classe 1920 riconosciuto nel dopoguerra gregario in forza alla 4° Brigata Rosselli, il quale faceva da spola tra la città e Vallombrosa per conto dei Battke. Peraltro, lo stesso Agletti, quel 16 di aprile si trovava con gli altri al Villino Medici e poté dare una mano nell’organizzare il trasporto del ferito a Firenze. Un riconoscimento, seppur posteriore ai fatti, del contributo dato da Battke in quella circostanza lo si può trovare anche in un’intervista rilasciata nel dopoguerra da Paris Boccherini, partigiano della formazione tricolore “Perseo” che operava nella zona di Reggello. Riferendo la sua versione del rastrellamento del Secchieta del 16 aprile, Boccherini ricordò anche la figura del Battke, dando peraltro alcune preziose indicazioni sulle conseguenze a lui toccate in seguito all’episodio e poi a fine guerra:

[…] a Secchieta oltre gli 8 morti, vi fu da parte nostra un ferito, che colpito alla pancia si reggeva l’intestino con la mano, perché gli uscivano fuori. In quelle condizioni arrivò a Vallombrosa e bussò e vennero i tedeschi ad aprire allora riuscì a scappare nuovamente, bussò ad un’altra porta e venne un ufficiale tedesco (che era antinazista) che stava in Via Venezia e dietro un mio rapporto fu soltanto fatto portare al Campo di Concentramento (questo quando venne catturato). Questo ufficiale prese un Taxi e portò il ferito all’Ospedale di via Giusti, dove poi morì. Si chiamava Falai Franco. Il tedesco non era un Ufficiale dell’esercito nazista, ma un tedesco che si trovava in Italia da tempo e che era stato ufficiale. Passò dei guai con i suoi connazionali. Fu per questo che quando i tedeschi si ritirarono lui rimase qui in Italia e stava in una pensione di Via Venezia.[10]

Non è improbabile che, come dice Boccherini, a seguito dei fatti del 16 aprile Battke passasse dei guai con le autorità nazifasciste. Dalla documentazione del già citato processo risulta infatti come queste ultime si fossero presto accorte del ruolo avuto nella vicenda dall’ufficiale tedesco in congedo. Il fiduciario dei Battke, infatti, Piero Aglietti, che aveva partecipato al trasporto del ferito, venne rintracciato e sentito dalle autorità fasciste già il 17 aprile, probabilmente perché a decesso avvenuto del Palai il personale medico a cui si era rivolto avvisò d’ufficio chi di dovere per segnalare il fatto. Aglietti, chiamato a risponderne in Questura, aveva inizialmente cercato di attribuire a se stesso l’iniziativa del trasporto del partigiano ferito, così da «evitare di far avere delle seccature di carattere politico ai Signori Battke»[11]. Se, anche dopo accertata la sua posizione di responsabilità, al Battke non derivarono gravi conseguenze, è cero invece che, come ricorda nella sua testimonianza il partigiano Boccherini, a liberazione avvenuta, la dichiarazione di sua collaborazione con i partigiani che quest’ultimo dice d’avergli procurato  non fu in grado di evitare al Battke l’arresto da parte degli Alleati (nel settembre 1944) e il suo internamento nel campo di prigionia per tedeschi di Padula, a sud di Salerno. Qui, sarebbe rimasto fino al luglio 1945 quando, forse anche in conseguenza del suo cattivo stato di salute, fu rilasciato. Rientrato a Firenze, Battke riprese la propria attività artistica. Nel maggio del 1946 contribuì come membro del comitato organizzatore alla realizzazione presso la Galleria Firenze di una mostra dedicata alla memoria dell’amico Rudolf Levy. Dal 2 al 13 aprile 1949 presso la stessa galleria Battke tenne la sua prima personale del dopoguerra[12]. L’anno successivo, auspice la mecenate e gallerista tedesca Hanna Bekker vom Rath, seguì la prima mostra nella Germania del dopoguerra presso lo Städtisches Museum di Wuppertal. Trasferitosi definitivamente a Francoforte, Battke ottenne nel 1956 la cattedra di disegno presso il Städel Art Institute. La sua carriera artistica, di lì in poi, proseguirà nei decenni seguenti fino alla sua morte avvenuta il 15 gennaio 1966 nella città sul Meno.

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Heinz Battke, ritratto di Piero Aglietti, patriota fiorentino. Stampa, 1955 (GALERIE HANNA BEKKER VOM RATH, Francoforte sul Meno)

Senza disporre di ulteriori informazioni biografiche e documentarie, dell’episodio del 16 aprile 1944, così come della collaborazione del Battke col movimento partigiano fiorentino, rimangono solo le esili tracce che abbiamo qui esposto. In attesa di eventuali indagini ulteriori, la sua resta comunque una vicenda interessante in grado di apportare un piccolo ma significativo contributo alla comprensione del dissenso interno alla Germania nazista e ai suoi riflessi nel contesto dell’occupazione tedesca dell’Europa. Recentemente, anche la storiografia italiana è tornata a indagare con più attenzione il contributo che all’interno della Resistenza italiana giocò un numero considerevole di militari della Wehrmacht, prevalentemente disertori, che scelsero di collaborare a vario titolo coi partigiani italiani, in molti casi prendendo posto a fianco ad essi nella lotta contro l’occupante nazifascista[13]. Battke non fu certo un disertore della Wehrmacht passato ai partigiani, né la sua decisione di assumere un atteggiamento favorevole al locale movimento resistenziale configura forse in senso stretto una scelta partigiana, almeno non nel senso del prendere le armi contro i propri connazionali. Tuttavia, la sua biografia, gli ambienti e le persone con cui egli fu in contatto a Firenze a partire dalla metà degli anni Trenta, non meno che la decisione di esporsi personalmente quel 16 aprile 1944 nel prestare soccorso al partigiano Palai assumono il significato di una non velata opposizione al nazionalsocialismo e di un dissenso nei confronti di una guerra avvertita come ingiusta ed estranea. Di questa sua esperienza fiorentina, che non ha lasciato traccia di sé se non nei pochi incarti del tempo a cui ci siamo rifatti, vale perciò recuperarne la memoria, sperando che possa essere da stimolo per ulteriori ricerche, sia nell’ambito della biografia di questa figura di pittore antinazista che rispetto al contributo versato da altri suoi connazionali che tra il 1943 e il 1944 decisero di disertare dalle truppe di occupazione tedesche unendosi alla Resistenza fiorentina. Una vicenda quest’ultima di cui peraltro ancora non si dispone né di studi né di un primo tentativo, anche approssimativo, di censimento. Lacuna che, si spera, qualcuno possa presto colmare.

[1] Archivio di Stato di Firenze, Corte di Assise Straordinaria (d’ora in poi ASFi, CAS), fasc. 79/1948, Procedimento contro C. Ciaccia ed altri, deposizione di Heinz Battke del 10 aprile 1946, docc. 174-175.

[2] Ivi, interrogatorio di Vezio Cerchiarini, 17 marzo 1945, doc. 41.

[3] Ivi, dichiarazione di Maria Ulivieri nei Palai del 31 gennaio 1944 [ma 1945], doc. 21.

[4] K. Voigt, Zuflucht auf Widerruf, Exil in Italien 1933-1945. Erster Band, Stuttgart, Klett-Cotta, 1989 (traduz. ita: Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993); Id., Zuflucht auf Widerruf, Exil in Italien 1933-1945. Zweiter Band, Stuttgart, Klett-Cotta, 1993 (traduz.  ita.: Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Volume II, Firenze, La Nuova Italia, 1996). Su Villa Romana cfr. P. Kuhn, Zwischen zwei Neuanfängen: Die Villa Romana von 1929 bis 1959 (https://www.villaromana.org/upload/Texte/Archivtext3.pdf).

[5] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 503. Battke disponeva peraltro di una ricca e preziosa collezione di anelli per i quali coltivava interessi storico-antiquari, come attestano alcune sue pubblicazioni sul tema, cfr. Heinz Battke, Die Ringsammlung des Berliner Schlossmuseums: zugleich eine Kunst- und Kulturgeschichte des Ringes, Berlin, Leonhard Preiss Verlag, 1938; Id., Geschichte des Ringes: in Beschreibung und Bildern, Baden-Baden, Woldemar Klein, 1953.

[6] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 496.

[7] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Volume II, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 564-565.

[8] Si veda la scheda biografica di Purrmann nel sito dell’archivio privato del pittore (https://www.purrmann.com/it/leben_florenz.php)

[9] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Volume II, cit., pp. 573-574; M. Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze, razzie, arresti, delazioni in E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzioni, depredazioni, deportazione (1943-1945), Vol. I, Saggi, Roma, Carocci, 2007, p. 157. Per il tentativo di Battke di salvare Levy cfr. la sua scheda biografica ospitata sul sito del Museum Kunst der Verlorenen Generation (https://verlorene-generation.com/en/kuenstler/heinz-battke/)

[10] Archivio dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze, Fondo Sirio Ungherelli, b. 5, fasc. Mascagni Arduino, Bergamino Giuseppe, Boccherini Paris, trascrizione della testimonianza di Mascagni Arduino con precisazioni di Bergamino Giuseppe e di Boccherini Paris resa a Sirio Ungherelli (intervista non datata), p. 17.

[11] ASFi, CAS, fasc. 79/1948, Procedimento contro C. Ciaccia ed altri, interrogatorio di Aglietti Piero del 26 maggio 1944, doc. 17; ivi, interrogatorio di Aglietti Piero presso la Questura di Firenze del 17 aprile 1944.

[12] Mostra personale di Heinz Battke, Firenze, Galleria Firenze, 2-13 aprile 1949, Firenze, L. Del Turco, 1949.

[13] M. Carrattieri e I. Meloni (a cura di), Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana, Calendasco, Le Piccole Pagine, 2021; C. Greppi, Il buon tedesco, Bari-Roma, Laterza, 2021.




Le sigaraie della Manifattura Tabacchi di Lucca

La storia della Manifattura Tabacchi lucchese inizia nel 1809, quando, in conseguenza ad un accordo stipulato tra Napoleone Bonaparte e il cognato Felice Baciocchi venne istituita una Regia Imperiale, alla quale venne affidata la gestione del tabacco. Con la caduta di Napoleone la Regia fu soppressa e la dominazione austriaca, subentrata dopo la caduta, prese importanti provvedimenti riguardanti la lavorazione del tabacco. In particolare il tenente colonnello Werkelein, istituì nel luglio 1815 l’Amministrazione dei Sali e dei Tabacchi facendo trasferire la Manifattura negli edifici della Cittadella, un luogo strategico perché punto di passaggio ma soprattutto zona ben fornita di acqua molto utile all’opificio per la lavorazione del tabacco.
Per ben due secoli la Cittadella rimase la sede della Manifattura. Durante il governo ducale borbonico, la Regalia del sale e del tabacco venne data in appalto per nove anni (dal 1838 al 1847) alla Società Bandini Levi & C. Prima della scadenza la concessione passò nel 1843 alla Società Bandini Piatti & Marianelli che la conservò fino al 1847. In quell’anno il Ducato di Lucca fu annesso al Granducato di Toscana e con un trattato tra i due governi l’azienda lucchese confluì con quella granducale finché gradualmente la lavorazione del tabacco non venne definitivamente spostata a Lucca. Nell’ottobre del 1858 la Regalia fu attribuita per altri nove anni alla Società Fenzi; anche in questo caso la concessione Fenzi cessò in anticipo perché già nel 1860 si stabilì una nuova gestione per mezzo di un accordo tra il regio governo piemontese e il governo toscano. Nel 1861 la Manifattura di Lucca era una delle quattro attive in Toscana con quelle di Firenze, di Massa Carrara e di Capraia (le ultime due cessate nel 1865). Nel 1865 la Regia Azienda della Manifattura dei Tabacchi entrò nella sfera di controllo del Ministero delle Finanze.

Fronte della Manifattura Tabacchi sul piazzale Verdi, Lucca 1924 (Archivio Fotografico Lucchese)

Fronte della Manifattura Tabacchi sul piazzale Verdi, Lucca 1924 (Archivio Fotografico Lucchese)

Il processo produttivo in gran parte manuale richiedeva un notevole impiego di manodopera. Già all’indomani dell’Unità d’Italia l’organico della Manifattura era composto da ben 500 sigaraie cottimanti [1]. Nel contesto economico lucchese di fine Ottocento stavano gradualmente prendendo forma modeste iniziative industriali e imprenditoriali, soprattutto nel settore tessile e cartario [2], ma la fabbrica più importante del comune era senza dubbio la Manifattura Tabacchi che già da tempo era una realtà avviata e in netta espansione. Nel 1878 la massa operaia contava in totale 1490 operai di cui 1380 donne e 110 uomini [3]. Ben presto si rese dunque necessario ampliare gli spazi; nel 1892 infatti l’opificio venne accorpato al vicino convento di San Domenico, acquistato dal Ministero delle Finanze [4]: “all’interno dell’ex monastero furono realizzati gli uffici, il refettorio e i servizi generali e, contestualmente, l’ingresso principale della manifattura fu dislocata da via dei Tabacchi a via Vittorio Emanuele [5].” Con la cessione completa del convento la massa operaia aumentò ulteriormente: “a cavallo del nuovo secolo conterà oltre il 10% degli addetti del settore Tabacchi di tutta Italia. […] Nel 1911, raggiunse le 3.050 unità”[6]. A seguito dell’ultimo ampliamento su Piazzale Verdi avvenuto nel 1924 [7], la Manifattura assunse il suo assetto definitivo.

Quella della Manifattura Tabacchi è anche e soprattutto una storia di donne, infatti il cuore pulsante della forza lavoro era costituito dalle sigaraie. La lavorazione del sigaro era un’abilità tutta manuale; le mani delle donne si prestavano meglio alle due operazioni principali del processo produttivo: la scostolatura e la formazione vera e propria del sigaro. La scostolatura era un’operazione eseguita da sigaraie esperte e che consisteva nel privare la foglia della nervatura centrale distinguendo i lembi integri da usare come fasce esterne del sigaro dai lembi laceri e grossolani da utilizzare come ripieni. Le sigaraie incaricate della formazione del sigaro partivano invece dalla foglia da fascia che rappresentava la parte esterna del sigaro. Bagnavano le dita nella ciotola contenente la colla di mais, stendevano la foglia sulla tavoletta di legno e con il coltello delineavano la forma della fascia del sigaro. Poi prendevano i filamenti di tabacco fermentato (ovvero il ripieno), verificavano che il quantitativo fosse giusto, lo “pettinavano” e lo mettevano sulla tavoletta. A questo punto cominciavano ad arrotolare il sigaro in modo da dargli la giusta forma e consistenza. La grande abilità della sigaraia stava proprio nello scegliere il quantitativo giusto di ripieno e nell’arrotolare il tutto con perfetta precisione. Il sigaro finito veniva spuntato alle estremità e allineato con gli altri su una misurina di controllo, che serviva appunto per conferirgli la giusta misura.

Immagine esemplificativa di sigaraie al banco di lavoro, Lucca 1928

Immagine esemplificativa di sigaraie al banco di lavoro, Lucca 1928

Grazie alle fonti conservate in Archivio di Stato di Lucca e in particolare alle schede matricolari, sono riuscita ad analizzare più approfonditamente la carriera lavorativa delle operaie. Nello specifico ho consultato 1000 schede delle operaie cottimanti e 500 schede delle operaie temporanee. Con i dati ricavati dalle 1000 schede ho creato un database che mi ha permesso di ottenere numerose considerazioni. Ad esempio che nel periodo 1849-1884 l’età media di entrata in Manifattura era pari a 19,2 anni. Ho rilevato che la durata media del rapporto lavorativo era pari a 28,2 anni e l’età media della fine del rapporto lavorativo pari invece a 48 anni. Per quanto riguarda il luogo di nascita la maggioranza delle donne proveniva da Lucca. Abitando in centro erano ovviamente più facilitate a raggiungere in breve tempo il posto di lavoro, sono presenti però anche donne nate nelle frazioni di Lucca, nate in comuni vicini, in altre città toscane o addirittura fuori regione [8]. Può sembrare strana la presenza di donne nate in luoghi così lontani da Lucca, ma il motivo principale è da ritrovare nel trasferimento avvenuto durante la carriera lavorativa. Tra le cause del trasferimento, oltre ai motivi familiari, probabilmente vi erano anche motivazioni legate ad esigenze produttive; quindi laddove era necessario aumentare la produzione e mancava manodopera si trasferivano operaie di altre Manifatture dove se ne aveva più bisogno. Tra i motivi ricorrenti per la fine del rapporto lavorativo troviamo il collocamento a riposo, il decesso, la radiazione, il pensionamento, il passaggio allo stato di valetudinarietà, il trasferimento, il licenziamento e il cancellamento dai ruoli [9].

Per l’indagine sulle schede matricolari delle operaie temporanee ho attuato la stessa strategia del database per raccogliere più informazioni possibili. In totale le schede catalogate sono 500 e ricoprono un periodo compreso tra il 1925 e il 1937. Anche in questo caso ho calcolato l’età media di entrata che era pari 21,9 anni.
Ho analizzato poi la provenienza [10], a quante operaie veniva rinnovato il contratto e per quante volte nel corso della carriera lavorativa. Quando non veniva rinnovato il contratto i motivi potevano essere vari: il cancellamento dai ruoli, il licenziamento, la radiazione, il collocamento a riposo, il trasferimento o il decesso [11]. Con la data di assunzione e la data di fine rapporto riportata sulle schede ho calcolato la durata dei rapporti lavorativi delle operaie e la media che ne è venuta fuori è di 4,21 anni. Una volta ricavata la durata del rapporto lavorativo di ogni operaia l’ho sommata all’età al momento dell’assunzione per ricavarne l’età di uscita dalla Manifattura, la cui media era di 29,7 anni. Un’altra motivazione per il mancato rinnovo del contratto era il passaggio alla categoria delle operaie permanenti. Le operaie passate a tale categoria sono in totale 386 e l’età media al momento del passaggio è di 27,3 anni.

Entrando nel vivo della vita fabbrica è necessario mettere in evidenza gli aspetti negativi del lavoro in Manifattura, ovvero la disciplina, il problema delle malattie e delle condizioni igienico-sanitarie dell’opificio.

L’essere dipendenti dello Stato si traduceva per le sigaraie in una rigida disciplina e controlli particolarmente severi. Ad assicurare questo sistema di regole, vi era all’interno delle Manifatture un complesso sistema di sorveglianza strutturato gerarchicamente. [12] Per esaminare l’aspetto disciplinare mi sono avvalsa principalmente della sezione relativa alle punizioni delle 1000 schede matricolari delle operaie cottimanti. In questa parte venivano riportati i provvedimenti disciplinari a carico dell’operaia, le date, i periodi di sospensione e le motivazioni dei provvedimenti. Per organizzare al meglio il mio lavoro ho inserito tutti i provvedimenti disciplinari di ogni scheda su un database per poi suddividerli in base alle motivazioni e vedere in termini numerici quanti provvedimenti ha avuto ogni operaia nel corso della carriera lavorativa. La sospensione per frazioni di giornate aveva ovviamente come effetto immediato la sospensione della paga. Ho distinto tra motivazioni riguardanti errori commessi sul lavoro e motivazioni legate alla cattiva disciplina delle operaie. Nei primi casi si ritrovano ad esempio le sospensioni per “reperimento di un capello in un sigaro”, per “cattivo lavoro”, per “consegna sigari in meno”, “per presenza di scarti, ritagli e spuntature nel sigaro” “per sigari mal confezionati”, “per aver bagnato la foglia”. Nei secondi casi invece sono comuni le sospensioni per “insubordinazione”, “discussione con una compagna”, “turpiloquio”, “mancanza di rispetto ad un superiore”, “commercio illecito”, aver “lavorato oltre l’orario”, aver “mangiato al proprio posto”, “poca pulizia del posto di lavoro”, “cattiva condotta”, “assenza arbitraria,” “appropriazione illecita di materiale”, aver “introdotto bevande in laboratorio” (spesso infatti si introducevano anche sostanze alcoliche a scopo di lucro).
Riguardo alla questione delle malattie, la vita in fabbrica sia per i ritmi lavorativi sia per l’ambiente malsano aveva sulle operaie gravi conseguenze fisiche. L’esposizione continua per un tempo prolungato alle esalazioni del tabacco causava alterazioni della funzione respiratoria e, come hanno messo in evidenza alcuni studiosi, effetti dannosi sull’apparato genitale femminile, provocando alterazioni del ciclo mestruale, disturbi durante la gravidanza ed anche un alto numero di aborti. Un lavoro dunque non privo di rischi e a preoccupare di più erano sicuramente le condizioni igieniche degli stabilimenti: ambienti chiusi, mal areati e pieni di esalazioni tossiche delle foglie di tabacco. Infatti le foglie dovevano essere mantenute umide, ma fermentando emettevano nicotina che andava direttamente sugli occhi e nei polmoni, producendo così indebolimento alla vista e malattie polmonari di ogni genere. Sul problema della nocività, nel 1904, fu avviata un’inchiesta in tutte le Manifatture di Italia, diretta da Angelo Celli, uno dei più illustri patologi e studiosi di igiene sociale dell’epoca. L’obiettivo dell’indagine statistica era quello di raccogliere più notizie possibili per giudicare la salubrità o meno degli opifici e le condizioni sanitarie del personale operaio. Proprio nella Manifattura Tabacchi di Lucca si registravano le punte più alte di malattie alle vie respiratorie. Nonostante l’inchiesta mettesse in luce moltissime malattie riscontrate nelle lavoratrici, queste non venivano collegate al lavoro stesso, ma riferite ad una serie di fattori esterni come le abitazioni malsane, la scarsa igiene e l’alimentazione insufficiente, arrivando dunque alla conclusione che la lavorazione del tabacco così come veniva svolta nelle Manifatture dello Stato non era dannosa né per le operaie né per la loro prole [13]. La realtà era ben diversa e benché l’inchiesta rimanga la principale fonte di informazioni sulle condizioni di salute delle operaie non è molto oggettiva, visto che si cerca in tutti modi di trovare giustificazioni per mettere lo Stato al sicuro da ogni responsabilità.
Tra gli aspetti positivi del lavoro in Manifattura troviamo invece l’orario di lavoro, i salari elevati e l’introduzione della sala di allattamento.
Il regolamento statale del 1904 stabiliva l’orario di lavoro a 7 ore con ben un’ora di riposo. Nelle industrie private la giornata lavorativa era di 12 ore o più al giorno. Per una manodopera prevalentemente femminile questo era un privilegio, l’orario breve permetteva alle donne di poter dedicare più tempo alla casa e alla famiglia, un’opportunità sconosciuta alle operaie delle industrie private. A questo proposito, grazie ai dati forniti dalla Prefettura di Lucca al Direttore della Manifattura Tabacchi e conservati in Archivio di Stato, ho potuto confrontare gli orari dei più importanti stabilimenti della Provincia e osservare che effettivamente, nonostante l’introduzione dal 1908 di un’ora aggiuntiva straordinaria, l’orario di lavoro delle sigaraie era comunque inferiore rispetto alle operaie tessili della zona [14]. Anche per quanto riguarda la questione delle retribuzioni emerge chiaramente la condizione privilegiata di questa classe operaia, sicuramente favorita rispetto alla manodopera femminile dell’industria privata ma comunque pur sempre sfavorita rispetto al guadagno medio degli operai uomini impiegati negli stessi stabilimenti. Infatti nel periodo 1908-1914 la media di guadagno per le sigaraie era pari a £2,47 mentre per gli operai era pari a £5 [15].
Tenendo presente appunto che il salario di una sigaraia era a cottimo e che per raggiungerlo era necessario produrre dagli 800 ai 1200 sigari al giorno, è facile comprendere come la qualità della foglia del tabacco influenzasse la retribuzione: se la foglia era scadente, il lavoro era rallentato e di conseguenza il salario diminuiva. I cottimi poi si diversificano da manifattura a manifattura, perché il Ministero riteneva che il costo della vita fosse diverso da città a città. Proprio il tema della parificazione dei cottimi sarà alla base dello scoppio dello sciopero nazionale del 1914.
Il guadagno medio delle operaie, per quanto misero ed inferiore al salario maschile, era comunque superiore alla maggior parte delle fabbriche private della provincia. Dalle Riservate del Direttore del 1908 conservate in Archivio di Stato, emergono informazioni circa i salari delle più importanti fabbriche della zona. Furono richieste direttamente dalla Direzione Generale con lo scopo di dimostrare alle operaie della Manifattura che la loro fosse una condizione privilegiata e le rimostranze per l’aumento salariale fossero del tutto illegittime [16].
Nel 1915 venne inaugurata una sala di allattamento, con lo scopo di agevolare le madri che lavoravano in Manifattura. Il personale femminile addetto alla sala era composto da una Sopraintendente, inservienti e custodi che si occupavano dei bambini e avvertivano l’operaia ogni volta che il bambino necessitava di essere allattato. Furono dunque le operaie delle Manifatture Tabacchi che per prime si fecero portavoce dei problemi legati alla maternità. Avevano ottenuto la possibilità di tenere vicini a sé i propri figli in un luogo sicuro mentre erano impegnate al lavoro. Si rispettava il fatto che fossero lavoratrici ma anche madri, dando loro il diritto ad assentarsi dal lavoro per recarsi nelle sale ed allattare i propri bambini senza nessuna diminuzione dello stipendio.
Non mancarono le rimostranze ed episodi di conflittualità. Le giovani operaie della Manifattura Tabacchi di Lucca costituivano il nucleo più combattivo della fabbrica e furono sempre in prima linea nelle lotte contro la Direzione. Grazie alle fonti provenienti dall’Archivio storico comunale ho potuto ripercorrere i primi malcontenti del periodo 1878-1897. Sul finire dell’Ottocento le sigaraie erano ormai una parte importante della classe operaia organizzata, si presentavano dotate di una lunga esperienza e di una crescente capacità nell’affrontare i loro problemi per la soluzione dei quali avrebbero dovuto negli anni successivi affrontare lunghe lotte. I numerosi ritagli di giornali, come il giornale socialista “La Sementa” e il quotidiano di ispirazione cattolica “L’Esare” conservati tra le Riservate del Direttore sono stati utili per ricostruire gli scontri del 1906-1907, lo sciopero del 1909, lo sciopero del 1912 e lo sciopero generale del 1914. Le motivazioni alla base delle lamentele delle operaie si ripresentavano nel corso degli anni senza trovare mai una vera risoluzione; tra queste troviamo la disciplina rigida, la cattiva qualità della foglia, la nocività del lavoro e la richiesta di un aumento salariale. Quello che ne viene fuori è dunque una classe lavoratrice capace di protestare contro la Direzione quando l’esasperazione del ritmo lavorativo diventava inaccettabile e quando le promesse di un miglioramento non venivano mantenute. Ecco perché anche nello sciopero nazionale delle Manifatture Tabacchi del 1914 furono proprio le sigaraie di Lucca ad essere numericamente le più coinvolte (circa 2500) e le ultime ad arrendersi.

Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà intitolata “Vita di fabbrica delle sigaraie lucchesi tra ‘800 e ‘900” discussa nell’a.a 2020/2021 presso l’Università di Pisa




Pietra su pietra. Storie d’inciampo

Ci sono forme di arte che aiutano a fare memoria in maniera discreta e informale. Attivano la memoria quando le incontri, quando le scorgi, quando ci inciampi. Le “pietre d’inciampo” racchiudono, nel termine tedesco “stolpern”, questo doppio significato di “inciampare” e “attivare la memoria”. Sono pietre, “stein”, impiantate ormai sulle vie di molte città europee. Misurano 10x10cm, recano inciso sulla loro superficie di ottone i nomi dei deportati nei campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale. Vengono collocati da Gunter Demnig, l’artista tedesco che li ha ideati, sul marciapiede davanti all’abitazione del deportato o al luogo di deportazione[1].

Un progetto ambizioso e “diffuso”, che parte da Colonia nel 1993 quando durante una cerimonia, organizzata per ricordare la deportazione di cittadini rom e sinti, una signora obiettò che in città non avevano mai abitato rom. Demnig, presente alla cerimonia, in segno di provocazione verso chi negava la deportazione e lo sterminio, decise l’installazione delle pietre, oggi presenti in ben 17 paesi europei. Oltre 73.000 pietre, 73.000 nomi di uomini, donne, bambini deportati, che compongono le tessere di un mosaico, ancora “in costruzione”. Un monumento “in progress”, potremmo definirlo. Un progetto ambizioso che si pone l’obiettivo di rendere visibili i nomi dei 10.000.000 di deportati, ebrei, militari, perseguitati politici, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili in tutta Europa.

Un monumento che “difetta” di monumentalità e di effettiva visibilità, non si erge e non emerge, ma ha il pregio di restituire dignità e identità a quanti, a causa delle persecuzioni nazifasciste, ne sono stati violentemente privati[2].

Dignità e identità che sono racchiusi nel nome. Recita il Talmud che “una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”.

Ogni nome inciso su un sanpietrino, è anticipato dalla scritta “qui abitava”, seguito da nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte nel campo di sterminio, quando nota o in alcuni, rari casi, la scritta “sopravvissuto”[3].

adaIl ritorno simbolico, alla propria dimora, nella propria città, è l’uscita definitiva per i deportati dall’anonimato, dall’oblio cui la follia umana dei campi di sterminio li avrebbe costretti. La pietra restituisce con sé la storia, una storia che costringe a riattivare la memoria, a fermarsi, a riflettere, a conoscere.

Il 26 gennaio a Livorno sono state installate altre due pietre d’inciampo. Sono le ultime di una serie di 18 che dal 2013 sono diventate parte del tessuto urbano cittadino[4].

Le pietre ricordano Ada Attal e Benito Attal. Rispettivamente madre e figlio ebrei. Nel censimento del 1938 risultano registrati e residenti in via San Francesco 32, in pieno centro storico, a pochi passi dall’antico tempio, il più bello e il più grande d’Europa, insieme ad altri componenti della famiglia. Ada, ragazza madre, vive insieme al padre David, venditore ambulante, alla madre, alle sorelle Irma, Renata e Dina[5] e altri componenti della famiglia. Una famiglia numerosa gli Attal, un’altra sorella, sposata con Mario Bueno, proprietario di un negozio in via del Giglio e di un banco di merceria al mercato, sostengono con il loro lavoro anche Ada e il figlio Benito di 10 anni[6].

La loro storia si inserisce nella più ampia cornice della storia della Comunità ebraica livornese. Una comunità importante, anche numericamente. Negli anni Trenta risulta essere la terza in Italia in termini relativi alla popolazione complessiva, comprendente anche quella provinciale[7]. Gli ebrei livornesi risultano essere residenti nel territorio urbano e al loro interno spicca una forte dicotomia sociale che vede nel ceto popolare, più povero, non una minoranza, ma più della metà della Comunità locale, diversamente da quanto è possibile registrare nelle altre comunità italiane.

Ada e Benito Attal, sono tra i pochi livornesi ad essere arrestati e deportati dalla città nell’aprile del 1944[8].

La città di Livorno era stata pesantemente bombardata nel 1943 e sotto la minaccia di ulteriori incursioni, la popolazione era sfollata quasi interamente trovando ospitalità nelle campagne dei comuni e delle province vicine[9]. Molte delle catture di ebrei, sono infatti avvenute nei luoghi di sfollamento, a seguito della recrudescenza delle persecuzioni dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943. La persecuzione delle vite raggiunge gli ebrei dispersi nelle campagne, raggruppati per nuclei familiari, in cerca di salvezza dai bombardamenti, nel tentativo di sopravvivere comunque anche alla fame e alle condizioni eccezionali dovute allo stato di guerra.

Il 13,6% degli ebrei livornesi, 204 in tutto, su un totale di 1500 (tanti risultano registrati al censimento del 1938), viene arrestato e deportato nei campi di sterminio nazisti, per lo più passando attraverso i campi di concentramento di Fossoli e in qualche raro caso di Milano, Bolzano o Trieste[10].

Furono solo sei gli arresti, oltre a quello di Frida Misul, che vennero effettuati in città. Tra questi anche Ada e il figlio Benito.

Senz’altro la povertà e, forse, il pericolo e le necessità sopraggiunte a causa della guerra, avevano spinto Ada ad affidare il figlio all’orfanotrofio Israelitico che aveva sede in Via Paoli 36 a Livorno[11]. Sede che l’orfanotrofio mantenne almeno fino allo sfollamento, probabilmente avvenuto fra gli ultimi giorni del 1942 e il gennaio del 1943, per motivi di sicurezza. Con la direttrice Olga Coen, le inservienti Palmira Finzi e Stefania Molinari, la maestra Liliana Archivolti, i bambini e i ragazzi[12] dell’orfanotrofio soggiornarono presso Villa Biasci (di proprietà del locale segretario fascista signor Biasci) a Sassetta, a sud della provincia di Livorno, sulle colline della Val di Cornia, fino a quando il 5 aprile del 1944 fu comunicato loro l’ordine di lasciare la villa per dirigersi, l’indomani mattina, verso la stazione di Vada. Da qui avrebbero raggiunto, in treno, il campo di concentramento di Fossoli.

Il 6 aprile vennero caricati su un treno, ma dopo aver percorso poche centinaia di metri il convoglio, colpito da cinque caccia inglesi, si arrestò e grazie a don Antonio Vellutini, parroco di Vada, sopraggiunto a seguito dell’attacco per prestare soccorso ai passeggeri, i bambini e i ragazzi, trovarono rifugio in paese presso le famiglie locali. Per procedere all’esecuzione dell’ordine di deportazione, dopo qualche giorno, furono nuovamente raccolti dai carabinieri, e trasferiti su di un camion nelle aule della Scuola “Carducci”, situata ad Ardenza, una frazione a sud della città di Livorno. Qui rimasero per circa una settimana.

benito Alcuni, più grandi, riuscirono comunque a scappare, data la scarsa sorveglianza, altri, circa una decina, nati da matrimoni  misti, come Luciana e Ugo Bassano, furono riconsegnati alle famiglie. Altri bambini, insieme alla direttrice Coen, furono riportati dai carabinieri, su insistenza di don Antonio Vellutini, a Sassetta e qui affidati al parroco don Carlo Bartolozzi che se ne prese cura fino all’arrivo degli Alleati[13].

Solo Benito Attal rimase presso la scuola. Qui la madre si era recata per prelevarlo personalmente rischiando la vita in quanto “ebrea pura”. Forse a causa di una delazione[14], entrambi furono arrestati e trasferiti a Fossoli con il convoglio n. 10 partito il 16 maggio 1944. Da qui proseguirono per Auschwitz dove Benito fu subito selezionato all’arrivo e dove morì il 23 maggio 1944. Anche la madre divise con il figlio la stessa sorte e non fece più ritorno.

Una storia di povertà e di persecuzione, di ebrei su cui pesò la “purezza del sangue”. Benito, ricorda Ugo Bassano, era un bambino taciturno, divenuto incontinente nell’orfanotrofio, il più fragile e il più esposto anche perché figlio di una ragazza madre[15].

Una storia “d’inciampo”, che oggi due pietre in via San Francesco a Livorno, ci ricordano. Inciampo alla nostra coscienza, alla nostra memoria, alla nostra storia.

[1] In alcuni casi tali abitazioni non esistono più, perché abbattute o demolite nell’immediato dopoguerra, o come nel caso di città come Livorno, distrutte dai bombardamenti. Le pietre vengono allora poste presso il numero civico corrispondente al luogo di abitazione precedente la guerra.

[2] Per un inquadramento storico-artistico delle “Stolpersteine”, si veda il saggio di A. Zevi, Monumenti per difetto, dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, ed. Donzelli, 2016, pp. 171-197.

[3] La ricostruzione topografica e toponomastica viene svolta in collaborazione con gli uffici dei municipi coinvolti, su segnalazione di amici, conoscenti e parenti delle persone deportate.

[4] Le pietre sono state installate per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Le prime quattro sono state impiantate nel 2013 e dedicate a due bambine ebree Franca Baruch e Perla Beniacar, un ragazzo, Enrico Menasci, e suo padre Raffaello. Altre due sono state impiantate nel 2014 e dedicate a Isacco Bayona e Frida Misul, testimoni dell’orrore della Shoah per almeno due generazioni di studenti livornesi. Le stolpersteine del 2015 sono state dedicate a Dina e Dino Bueno, quelle del 2017 a Ivo Rabà e Nissim Levi, nel 2018 a Matilde Beniacar, ultima sopravvissuta livornese ai campi di sterminio. Nel 2020 sono state impiantate nelle strade livornesi sei pietre di inciampo, quattro in via Strozzi e due in via del Mare: le prime sono dedicate a Rosa Adut, Abramo Levi e ai loro due figli Mario Mosè e Selma, Nissim il terzo figlio fu ricordato nel 2017; le altre sono dedicate a Piera Galletti e a sua figlia Lia Genazzani. Nel 2021 in via Verdi è stata posta la pietra d’inciampo in ricordo di Gigliola Finzi nata il 19 marzo 1943, uccisa a soli tre mesi all’arrivo ad Auschwitz il 23 maggio del 1943.

[5] Archivio di Stato di Livorno (ASLI), busta Comune di Livorno, Censimento degli ebrei al 22 agosto 1938.

[6] Testimonianza di Edi Bueno rilasciata il 20 gennaio 2022 presso la Comunità di Sant’Egidio. Durante la guerra le famiglie Attal e Bueno sfollano a Marlia in provincia di Lucca. Qui verranno arrestati e poi deportati la madre, il fratello, il nonno Davide gli zii e i cugini di Edi. Solo Edi e il fratello Luciano si salvano: Il padre Mario riesce a salvarli dalla deportazione, nascondendoli dentro una piccola stanza, per poi scappare subito dopo. I tre si rivedranno molto tempo dopo.

[7] P.L. Orsi, La comunità ebraica di Livorno dal censimento del 1938 alla persecuzione, pp. 203-223 in Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938) memoria e identità familiare a cura di M. Luzzati, Belforte editore, 1990

[8] Vedi L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), p. 123.

[9] Si calcola che furono almeno 90.000 su una popolazione di 130.000 a sfollare dalla città. Vedi E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ed. ETS, pp. 69-70.

[10] Tra i 204 si contano 82 donne e 17 bambini. Solo 16 tornarono dai campi. Per questa e altre notizie si rimanda agli studi di C. Sonetti, tra gli altri vedi: La vicenda di Frida Misul nel quadro della deportazione dei livornesi, pp. 42-45 in Per Frida Misul. Donne e uomini ad Auschwitz a cura di F. Franceschini, Livorno Salomone Belforte, 2019

[11] Sulle vicende dei bambini dell’orfanotrofio israelitico vedi: S. Trovato e T. Arrigoni, Dalla casa nel bosco al grande mondo. Storie di bambini ebrei tra la Toscana e Israele, La bancarella Editrice, 2014

[12] Di età compresa tra i 7 e i 16 anni, risultavano essere in numero di 22 nel maggio del 1943, vedi documento n. 10, “Orfanotrofio Israelitico – maggio 1943. Movimento personale e ricoverati” elenco trascritto in L. Bientinesi, Don Antonio Vellutini: un prete con i cattolici nell’Antifascismo e nella resistenza livornese, Benvenuti e Cavaciocchi, 2006, p. 151. Tra questi è compreso anche Benito Attal, insieme a Luciana e Ugo Bassano, sopravvissuti e testimoni ancora della vicenda.

[13] Su don Carlo Bartolozzi vedi L. Bientinesi, Un prete alla macchia: don Ivon Martelli. Il ruolo dl clero e dei cattolici nel livornese, Comune di San Vincenzo, 1995

[14] Luciana Bassano riferisce che fu la delazione di un’insegnante di musica, forse la stessa che denunciò Frida Misul, a segnare la loro fine. S. Trovato e T. Arrigoni, op. cit., p. 50

[15] Ibidem




150 ore

Nel 1973, con l’art. 28 del Ccnl Metalmeccanici venne riconosciuto ai lavoratori il diritto a permessi retribuiti per frequentare, presso istituti pubblici o legalmente riconosciuti, corsi di studio al fine di migliorare la propria cultura. La conquista di questo monte ore retribuito, noto come “150 ore”,  fu utilizzato per ottenere il diploma di terza media, frequentare seminari o insegnamenti monografici nella scuola secondaria superiore e all’Università configurandosi come un vero e proprio laboratorio collettivo di innovazioni didattiche per l’ educazione degli adulti:  la struttura seminariale delle attività invitava infatti gli studenti alla ricerca-apprendimento autonoma e  alla ricerca-azione su tematiche e questioni che concernevano la vita quotidiana e le condizioni di lavoro degli operai. Una scommessa da parte del movimento operaio e sindacale riguardo alla democratizzazione di una scuola ancora selettiva ed elitaria, che traeva vigore dall’influenza del movimento studentesco, dall’esperienza di Don Milani a Barbiana, come da altri fermenti innovatori che si erano delineati ad inizio degli anni ‘60.

Le 150 ore non potevano pertanto rappresentare per i lavoratori un ritorno nella stessa scuola con voti, insegnanti autoritari, compiti a casa, dai contenuti astratti e lontani dalla loro esperienza di vita. Tra gli argomenti specifici possiamo ricordare l’analisi della busta paga e della contingenza, il ruolo della fabbrica, la situazione dell’agricoltura, l’ambiente di lavoro, mentre in merito alla riflessione storica i filoni più diffusi furono la storia dell’industrializzazione, del fascismo, dell’immigrazione.  Tematiche affrontate con metodologie didattiche nuove alternative  al libro di testo (il lavoro di gruppo, l’inchiesta, l’uso della statistica, il teatro) che aprivano orizzonti e percorsi inediti, superando l’atteggiamento passivo nei confronti dello studio e proponendosi di conoscere la realtà per cambiarla ed intervenire anche sulla propria situazione.Orizzonti e percorsi inediti che si concretizzarono soprattutto nell’utilizzo conoscitivo e relazionale del metodo autobiografico in direzione di un apprendimento basato sulla propria quotidianità e con la volontà di proporre una sorta di controcultura operaia antagonista a quella dell’impresa e alla “scienza dei padroni”.

Uno dei temi più ricorrenti che vide impegnati anche in Toscana corsisti, insegnanti e sindacalisti fu quello della nocività e salute nei luoghi di lavoro. L’attenzione a tale problematiche non era casuale dato che si trattava non solo di mantenere certe conquiste sul tema della sicurezza ottenute con le lotte del ‘68-‘74 ma anche di esprimere al meglio le nuove opportunità derivanti dall’ Inquadramento unico[1]: era impensabile migliorare la professionalità e la qualità del lavoro se non miglioravano le condizioni in cui esso veniva esercitato[2]. La monetizzazione del rischio, ossia l’indennizzo per un lavoro nocivo, pericoloso, eccessivamente faticoso, incorporata nel salario, era una strada ormai del tutto impraticabile come ricordano queste emblematiche parole di un operaio empolese: “La salute del lavoratore è più importante delle 5.000 lire di aumento mensile” (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976,  Archivio Cisl fondo Flm, b.13844 fasc.1).Di pari passo con lo sviluppo della Medicina del lavoro in materia di salute e sicurezza, il movimento dei delegati di fabbrica fece proprio il modello sindacale della prevenzione fondato sull’azione diretta dei lavoratori: elaborato già nella metà degli anni ‘60 in alcune esperienze torinesi, lo socializzò fra gli operai, facendolo circolare e sperimentandolo attraverso una capillare attività di formazione nei corsi delle 150 ore [3].

A Firenze, nel 1975-’76, si tennero diversi corsi nella scuola media inferiore sul tema “Ambiente di lavoro e salute in fabbrica”, cui parteciparono i delegati delle più grandi fabbriche dell’area urbana. I filoni principali seguiti nei corsi furono: l’analisi delle officine e dei reparti (inquinamento, incidenti e infortuni, rischi in generale); la prevenzione sanitaria (malattie professionali, regole e standard); la promozione di un sistema sanitario pubblico e la storia dell’ambiente di lavoro industriale[4]. “Per Siena come primo momento per l’utilizzo delle ore di studio pagate per i lavoratori può essere visto come epicentro l’Istituto di Medicina del Lavoro”, recita una proposta di discussione per l’utilizzo delle 150 ore dove si elencano anche le possibili discipline di studio: Medicina sociale, del lavoro, farmacologia, malattie mentali ma anche collegamenti interdisciplinari con economia, lettere e diritto[5].  Ugualmente a Follonica si affrontarono le malattie professionali nelle miniere con preliminari cenni di anatomia[6]. Nel 1974, a Prato, uno dei maggiori distretti industriali tessili italiani, a conclusione di un corso da 120 ore (la quantità di ore contrattuali previste per il diritto allo studio retribuito di questo comparto) venne pubblicato in forma ciclostilata un volume-dispensa, dedicato all’organizzazione del lavoro e all’ambiente nelle piccole e piccolissime imprese, comprese quelle familiari (120 ore, Fondo Flm,  b.13845, fasc. 2).

Nel 1975 ad Empoli presso la Scuola Media Statale Fucini, in un contesto di distretto industriale e di piccole e medie imprese diffuse, si svolse un corso avente per oggetto “il problema della salute in fabbrica e nella società” attraverso lavori di gruppo e “verifiche assembleari”. Il programma, raccolto in un’antologia, si strutturò attorno alle storie di vita dei lavoratori con un particolare accento riservato ai problemi della fabbrica.  Quelli “ di sopra”, “gli altri”, “quelli che comandano” che stabiliscono turni,  ritmi, che tarano le macchine, che decidono  il salario, che assumono o licenziano, che valutano la malattia o l’invalidità,  sono quelli “che hanno studiato”, che sono rimasti dentro la scuola, cosicché la fuga dal ripetitivo e stressante lavoro manuale e la distribuzione ingiusta del sapere si fondono nelle motivazioni a riprendere a studiare: “mi piace soprattutto che a scuola ognuno di noi, operaio, casalinga etc. si esprime come può ed insieme possiamo parlare, discutere di tanti problemi di cui siamo vittime” [7]. Molte le testimonianze riguardo all’ ambiente lavorativo e la sua nocività, ne riportiamo alcune tratte dal Fondo Flm dell’Archivio Cisl (b. 13844 fasc.1):

Ogni lavoratore deve essere tutelato prima che si ammali perché quando l’operaio di fabbrica si ammala può essere solo curato ma non guarito. I nostri datori di lavoro dicono sempre che c’è troppo assenteismo, ma se ogni operaio lavorasse con più sicurezza per la sua salute, con meno nocività in fabbrica, e con più garanzie da parte dello Stato o degli organi competenti, si avrebbe tutti più salute e maggiore benessere.

Sono un operaio metalmeccanico, ed ho sempre lavorato continuamente da circa 12 anni. Cosicché penso di avere acquistato una certa conoscenza di quello che può essere il rapporto di lavoro e la salute nella fabbrica. Io credo che si debbano affrontare in questo corso i problemi che ci aspettano quotidianamente. Il rapporto di lavoro si sta dimostrando col passare del tempo sempre più difficile perché aumentano le difficoltà del lavoratore all’interno della fabbrica. Il ritmo di produzione è sempre più elevato e richiede maggiore logorio fisico, senza contare lo stato d’animo, sospesi come siamo, fra licenziamenti e cassa integrazione. La salute è una cosa indispensabile per tutti, ma soprattutto per noi operai, che tutte le mattine dobbiamo lavorare senza tante attenuanti, perciò l’ambiente deve essere non sano, ma sanissimo.

Altri corsisti sottolineano la pesantezza della linea di montaggio, il difficile adattamento del corpo ai tempi e ai modi di funzionamento delle macchine, la dura disciplina della “fabbrica orologio”:

Lavoro da circa 6 anni, prima ero alla catena con ritmi elevati, durante il giorno non potevo neanche andare in bagno altrimenti rimanevo indietro, ora sono alla mazzetta. Circa 3 anni fa ebbi una colica renale, il mio medico mi disse che dipendeva tutto dallo stare sempre seduta, chiesi se mi potevano cambiare posto. Ma non fu possibile neanche col certificato medico, che poi lo chiedevo soltanto per qualche mese. Così sono andata avanti fino ad oggi.

Spesso con un ammodernamento degli impianti, l’operaio vede arrivare in fabbrica una macchina che fa, magari più velocemente, quello che faceva lui, tale e quale. E vede bene che se lui non può decidere niente, la semplice forza delle sue braccia non vale molto. Lui diventa un semplice accessorio da adattare alla macchina, un ingranaggio e non il più importante. Il padrone ha molta più cura della macchina che di lui. Se si guasta la macchina si ferma tutto, se si guasta un operaio il padrone ce ne mette un altro e non è successo niente di grave. Tutto ciò è umiliante per un uomo.

Io sono una confezionista, lavoro alla Lebole, che comprende 7.000 dipendenti ed è divisa in succursali. Io lavoro alla succursale di Empoli, che impiega circa 500 lavoratori e, come in genere in tutte le fabbriche, i problemi non mancano. Il ritmo molto elevato causa tensione, sensazione di paura, ansietà, fatica, nervosismo, depressione, per questo ogni giorno ci sono delle crisi isteriche e assenze dal posto di lavoro. Il padrone reagisce chiamandoci massa di vagabondi, ma non fa niente per trovare una soluzione a questi problemi. La ripetitività della mansione è un avvilimento continuo. Pensare di avere un cervello e non poterlo utilizzare in quanto l’uomo è al servizio della macchina e non la macchina al servizio dell’uomo.

In molti operai matura così la consapevolezza e l’importanza di trattare la Medicina preventiva, “dopo anni che sono assente dagli studi per motivi economici, mi ritrovo di nuovo in aula non come scolaretto ma per capire qual è il male che nuoce alla salute di noi lavoratori”:

Mi rendo conto di quanto è importante studiare a fondo la medicina preventiva, nelle fabbriche ci sono moltissime cose dannose per la salute; alcune mie colleghe sono ammalate di nervi e questo per tante cose ingiuste, il ritmo di lavoro e tante altre.

Sono contento che questo corso studi il problema della salute. Lavoro in vetreria e quello è senza dubbio uno dei posti dove la salute va curata in tempo perché se si aspetta i sintomi della malattia la maggior parte delle volte è troppo tardi. Sono contento anche di imparare l’italiano e le altre materie, per avere una maggiore cultura che mi serve nella società e anche nell’ambiente di lavoro, dove spero di poter parlare meglio soprattutto con il datore di lavoro che crede di sapere sempre tutto lui.

Per quanto riguarda i rischi che corriamo, si potrebbe parlare di tantissime cose, in quanto la mia fabbrica è un calzaturificio e, come è noto, in questo tipo di lavorazioni i fattori di nocività non si contano. Finalmente è entrato nella nostra fabbrica l’ispettorato della Medicina Preventiva; così abbiamo avuto la possibilità di farci vigilare di più.

Abbiamo lavorato con assoluta mancanza di controlli sanitari periodici, abbandonati quindi dalla scienza medica, ognuno pensava per proprio conto alla salute, se stava attento altrimenti quando si manifestava un malessere questo era già cronico.  Finalmente viene istituito un servizio di Medicina Preventiva.

Come si evince da queste testimonianze, la consapevolezza che “lavorare in fabbrica fa male alla salute”[8] indirizzò gli operai più o meno scolarizzati verso un nuovo atteggiamento nei confronti del lavoro e ad una maggior percezione del rischio. E in questa presa di coscienza operaia, a livello di massa, la socializzazione educativa delle 150 ore giocò un ruolo fondamentale: i lavoratori, analizzando le loro esperienze, anche attraverso le storie di vita, contribuirono infatti in modo del tutto originale ad approfondire alle conoscenze di medici, tecnici e sindacati[9] e la prospettiva finale fu quella di utilizzare le ricerche svolte nei corsi per definire le strategie di azione sindacale e  le piattaforme rivendicative dei Consigli di fabbrica.

Avendo come oggetto di studio e di indagine le condizioni di lavoro e l’organizzazione produttiva, anche sul piano della salute e della sicurezza, le 150 ore rappresentarono per molti aspetti “un vero e proprio caso di auto-educazione di massa attraverso la ricerca-azione” [10] la cui ricostruzione storica consente di riflettere su sfide ancora assolutamente attuali: alcune di esse purtroppo rimandano ad episodi di cronaca ed immagini tragicamente note.

Un suono che si distingue dagli altri numerosi rumori della fabbrica; la sirena dell’ambulanza che a tutta velocità percorre per l’ennesima volta la strada verso l’ospedale. E’ un altro incidente sul lavoro: un altro lavoratore vittima di un macchinario. (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976)

 

Monica Dati è dottoranda presso il corso di “Scienze della Formazione e Psicologia” dell’Università degli studi di Firenze. Collabora con il Comune di Lucca e con la Biblioteca Agorà con cui ha inaugurato il progetto “Madeleine in biblioteca”.

[1]Sistema di classificazione che viene introdotto in seguito alla lotta contrattuale dei Metalmeccanici del 1972-73 che porta al superamento della distinzione tra operai ed impiegati.

[2]P. Causarano, Unire la classe, valorizzare la persona. L’inquadramento unico operai-impiegati e le 150 ore per il diritto allo studio, Italia contemporanea, 278, pp. 224-46, 2015.

[3] Questo modello operaio fu reso noto in migliaia di fabbriche grazie alla dispensa L’ambiente di lavoro, edita prima dalla Fiom nel 1969 e poi dalla Flm nel 1971. Scaturita dall’opera di Ivar Oddone, medico e psicologo del lavoro, fu il frutto di un’elaborazione collettiva pluriennale che raccolse l’esperienza di alcuni lavoratori metalmeccanici della 5a Lega di Mirafiori.

[4]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, Giornale di Storia Contemporanea, 2016, n. 2 p. 70

[5]  Proposta di discussione per l’utilizzo a Siena delle ore di studio pagate per i lavoratori. Materiale per le 150 ore a Siena 1976-1977, a cura della Commissione Sindacale 150 ore di Siena, Archivio storico del movimento operaio e contadino in provincia di Siena (Amoc), Fondo zona sindacale Amiata b. VIII Fasc. 1

[6]  Documenti sui corsi 150 ore. Malattie professionali e ambiente di lavoro in miniera, Fondo CGIL, 1 (b. 85), Archivio della Camera del Lavoro di Grosseto

[7]Antologia del Corso 150 ore, Scuola Media Fucini R., Empoli, 1975 ciclostilato, Archivio Cisl, Fondo Flm, b. 13844 fasc.1

[8]Come titola il famoso libro di medicina del lavoro di Jeanne Stellman e Susan Daum (Feltrinelli, 1975)

[9]Sul rapporto tra formazione e sicurezza sui luoghi di lavoro si veda anche P. Federighi, G. Campanile, C. Grassi (a cura di), Il circolo di studio per la formazione alla sicurezza nei luoghi di lavoro, ETS, Pisa, 2010

[10]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, op. cit., p. 67