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La Fonderia del Pignone nel primo sciopero generale di Firenze

Tra il giugno del 1901 e il settembre del 1902 Firenze fu teatro di una serie di scioperi che culminarono nel primo sciopero generale cittadino deliberato dalla locale Camera del Lavoro il 28 agosto a seguito della votazione della sezione metallurgici del giorno precedente («Fieramosca», 29.8.1902). «Da città gentile fu battezzata dai giornali esteri città turbolenta» – commentava il «Commercio fiorentino» (25.9.1902), preoccupato delle conseguenze sui visitatori stranieri della paralisi dei trasporti, del buio, della sporcizia, della penuria di pane occorse in quel concitato frangente nella «culla della rinascenza italica». Nello stesso periodo si registrò un aumento della sindacalizzazione e della mobilitazione popolare anche in altre parti della Toscana. Furono diverse le categorie di lavoratori e di lavoratrici coinvolte (ferrovieri, metalmeccanici, sigaraie, edili…) e per la prima volta la protesta assunse proporzioni allarmanti anche nelle campagne: nella primavera del 1902 Chiusi, Sarteano e Seano, in provincia di Siena, furono gli epicentri del più grande sciopero mezzadrile della regione.

Ritratto Pietro Benini (1867-1913)

Ritratto Pietro Benini (1867-1913)

Dopo gli scioperi generali di Genova (dicembre 1900) e di Torino (febbraio 1902), il caso di Firenze e, in particolare, il rifiuto di Pietro jr. Benini, direttore della S.A. della Fonderia del Pignone, di riconoscere e trattare con i rappresentanti delle organizzazioni operaie ebbero vasta eco sulla stampa nazionale, segnando l’ingresso della Firenze industriale nel “secolo del Lavoro”. Lo sciopero fiorentino fu visto come un banco di prova delle politiche governative e la “resistenza” di Pietro jr. Benini fu variamente commentata dalla stampa di parte socialista e liberale.

Con la crisi del governo Saracco e il discorso di Giolitti, ministro dell’Interno del governo Zanardelli (1901-1903), a favore di una svolta antiautoritaria nei rapporti tra governo e forze sociali si aprì una nuova stagione nella storia delle relazioni industriali. A caratterizzarla furono lo sviluppo di forme di organizzazione sindacale a livello nazionale – nel 1901 si costituì la Federazione italiana operai metallurgici – e un aumento della conflittualità sociale: nel 1901 si registrarono 1042 scioperi industriali e 629 scioperi agricoli contro i complessivi 388 dell’anno precedente. L’emergere di nuove istanze di rappresentanza da parte dei lavoratori dell’industria non si legava tanto a un peggioramento delle condizioni generali di vita quanto a un cambiamento nella percezione della loro irreversibilità e agli effetti sul lavoro (orari, cottimi, licenziamenti, sanzioni disciplinari) di processi di trasformazione della produzione.

Quello che accadde a Firenze sull’onda delle rivendicazioni degli operai della Pignone, dove era in atto dal 1898 una ristrutturazione dell’assetto finanziario e organizzativo della fabbrica attorno alla nuova produzione di compressori di agenti frigoriferi, rifletteva lo sfaldamento del potere di coesione sociale del fronte moderato – indebolito dall’esito delle elezioni politiche del giugno del 1900 – e il nuovo protagonismo del movimento operaio e sindacale; la crisi del sistema ottocentesco di gestione paternalistica dei rapporti di lavoro e insieme la difficoltà ad affermare su scala locale e nazionale una regolamentazione istituzionalizzata del conflitto che unisse alla piena legittimazione delle organizzazioni sindacali la rinuncia a un uso repressivo della forza pubblica. Anche per questo, il primo sciopero generale nazionale, indetto dalla Camera del lavoro di Milano nel settembre del 1904, prese di mira le contraddizioni del governo giolittiano sempre più discrezionale nell’attuazione della politica della neutralità dello Stato nei conflitti tra capitale e lavoro, denunciando gli eccidi proletari perpetrati tra 1902 e 1904 nelle campagne meridionali e nelle isole.

ProScioperantiGli scioperi del 1901-1902 misero per la prima volta in discussione all’interno della Fonderia e officina meccanica del Pignone, attiva nel panorama industriale fiorentino dagli anni Quaranta dell’Ottocento, la fedeltà e la subordinazione degli operai alla direzione. Il primo sciopero, nato come manifestazione di solidarietà verso i fonditori scioperanti del Cantiere Orlando di Livorno, coinvolse direttamente solo i fonditori del Pignone (68 adulti e 15 ragazzi su un totale di 264 dipendenti). Organizzati in una lega di mestiere, i fonditori erano stati i più colpiti dal calo della produzione e del reddito subito dalla sezione fonderia alla fine del secolo (1898-1901). Rifiutandosi di eseguire i modelli commissionati alla Fonderia del Pignone dal Cantiere Orlando, la loro solidarietà di categoria si estese a un fronte più ampio di richieste che andava dal riconoscimento delle Leghe alla modifica dei sistemi di retribuzione; tanto che su quella base nell’aprile del 1902 una commissione composta da operai e da rappresentanti sindacali sottopose al C.d.A. della Pignone una piattaforma di richieste articolata in 6 punti. La vertenza si protrasse per 56 giorni (dal 21 dicembre 1901 al 16 febbraio 1902) e si concluse grazie alla mediazione dei sindaci sollecitati a intervenire, a Firenze come a Livorno, dalle organizzazioni operaie. Il lodo arbitrale del pro-sindaco di Firenze cav. Antonio Artimini seguì di pochi giorni quello del sindaco radicale livornese Cesare Pacchiani. Entrambi sancirono la sconfitta sindacale dei fonditori, ma il lodo Artimini fu considerato più aperto nella misura in cui riconosceva «il valore morale dell’atto di solidarietà operaia» e sottolineava la neutralità dell’autorità comunale nel conflitto, attirandosi le critiche della stampa conservatrice («Il Fanfulla», 16.2.1902).

Fonderia_ArticoloIn un clima di crescente tensione, il licenziamento alla fine di luglio del 1902 di 22 operai (di cui 9 fonditori) per «scarsità di lavoro» e il rifiuto della direzione della Pignone di prendere in considerazione proposte di turni e riduzione d’orario sfociarono il 1° agosto nella proclamazione di uno sciopero di solidarietà a base aziendale. Redatto un nuovo regolamento interno, la direzione notificò il licenziamento di tutti gli operai scioperanti e respinse le richieste di mediazione avanzate dalla commissione operaia tramite l’autorità comunale. Questa intransigenza indebolì la posizione dei rappresentanti sindacali, ma accrebbe la solidarietà spontanea di diverse categorie di lavoratori alla vertenza della Pignone, facendola sfociare nel primo sciopero generale cittadino. Dalla mattina del 29 agosto si unirono ai metallurgici, le sigaraie, i lavoranti del legno e del marmo, i vetrai e gli operai delle industrie chimiche. Due giorni dopo, quasi la metà delle sezioni della Camera del lavoro di Firenze, che contava circa 12 mila iscritti, aderì allo sciopero («La Tribuna», 30.8.1902; «Corriere della Sera», 31.8.1902). A questo stato di agitazione che minacciava di contagiare i comuni limitrofi si reagì con un rafforzamento delle misure preventive e repressive concertate tra il prefetto e il ministro dell’Interno che rese sempre più critica la posizione degli scioperanti: l’ex convento del Carmine, dove avevano avuto luogo le prime riunioni dei 12-18.000 scioperanti, dal 1° settembre fu adibito a caserma degli squadroni di cavalleria giunti da fuori a presidiare la città, e fu circondato da 300 guardie armate («Giornale d’Italia», 1.9.1902). Rotte le trattative e deliberata la cessazione dello sciopero generale dall’assemblea dei metallurgici e poi dalla Camera del Lavoro, furono riammessi alla Fonderia del Pignone solo 70 degli operai licenziati e alle condizioni del nuovo regolamento di fabbrica, in vigore dall’agosto 1902.

Le conseguenze del fallimento dello sciopero generale furono pesanti fuori e dentro la fabbrica: nel settembre del 1904 gli operai della Pignone non aderirono allo sciopero generale nazionale, mentre nel novembre dello stesso anno Pietro Benini salutò la sconfitta di Giuseppe Pescetti alle elezioni politiche come un successo personale. Per oltre un decennio la fabbrica non fu più al centro di azioni rivendicative; solo la mobilitazione industriale del periodo bellico avrebbe provocato nuove laceranti fratture.

 




Il treno per Vallombrosa

La stazione di Sant’Ellero, in un edificio di uno stile che, per la nostra zona, risulta così originalmente alpino, fu costruita nel 1893, lungo il percorso verso Roma, come interscambio della linea per Vallombrosa. Adesso questa linea non esiste più; è stata chiusa nel 1924 e smantellata definitivamente nel 1937. Oggi ne sono rimaste pochissime tracce. Eppure quella ferrovia restò in esercizio per oltre trent’anni alimentando una realtà turistica di grande importanza per il periodo.

Per la medicina ottocentesca sembrava non esistesse malattia che un cambiamento d’aria non potesse guarire o lenire. Così, soprattutto se i pazienti erano facoltosi, un soggiorno in una località di villeggiatura poteva essere il rimedio per ogni male, dalla semplice spossatezza a malattie ben più gravi. Si iniziò con le località termali, poi marinare, infine acquistò credito anche la villeggiatura in montagna. Nacquero così le “stazioni climatiche” o “estive” come si diceva allora. E alberghi e strutture apposite sorsero ovunque sulle montagne svizzere e austriache.

Doveva essere per prendersi un periodo di riposo che Giuseppe Telfener decise di soggiornare nell’estate del 1890 a Vallombrosa. La località gli era stata consigliata come “amena, saluberrima e fresca”. Inoltre era perfetta perché gli consentiva di non allontanarsi troppo dai suoi impegni di lavoro a Roma.
Telfener era infatti un imprenditore, aveva un gran senso degli affari e nella sua vita ne aveva dato ampia prova. Era nato a Foggia nel 1843 da una famiglia abbiente. Emigrato in Argentina nei primi anni ’70  fonda un’impresa di costruzioni ferroviarie e nel 1874 riesce a vincere l’appalto per la costruzione di quella che diventerà la più lunga linea ferroviaria dell’America meridionale, La Córdoba-Tucumán. L’Argentina attraversa un periodo di profonda crisi finanziaria e il governo si vede costretto a rifiutare i finanziamenti promessi per le opere pubbliche. Eppure Telfener manda avanti lo stesso la sua opera. Contatta numerose banche e riesce ad ottenere i finanziamenti per concludere i lavori nel 1876. Per questa linea ferroviaria, fonte di lustro per tutta l’ingegneria italiana, Telfener riceve il titolo di conte dal re d’Italia Vittorio Emanuele II. Ma non finisce qui. Dopo aver sposato la figlia di un ricco finanziere americano, Telfener si lancia nella sua seconda impresa ferroviaria. È il 1881 ed inizia la costruzione di una linea di 560 km fra Richmond e Brownsville nel Texas. La costruzione che durerà 5 anni ha anche un tratto bizzarro. Non sappiamo bene perché ma Telfener oltre alla manodopera locale fa arrivare 1200 operai dall’Italia. I giornali locali ribattezzano la linea ferroviaria Macaroni line.

Quando Telfener soggiorna a Vallombrosa nel 1890 è rientrato da poco in Italia, precisamente a Roma. Ha passato gli ultimi tempi ad occuparsi delle sue proprietà e di altre attività finanziarie e forse, possiamo solo immaginare, a congetturare su quale potesse essere la sua prossima impresa. Vallombrosa folgora Telfener. Rimane colpito dalle “ignorate bellezze del luogo […] era un vero peccato anzi delitto non utilizzare nella più larga e più utile misura quella inesauribile miniera di ricchezze della provvida natura”. Quando Telfener scriveva queste parole Vallombrosa infatti aveva iniziato a rivevere visitatori solo negli ultimi anni. Erano stati costruiti due piccoli alberghi ed era stata aperta una strada rotabile fino a Tosi che permetteva di raggiungere in carrozza Firenze in 4 ore e mezzo. Ma Vallombrosa restava ancora una meta ricercata con pochi turisti a disturbare la quiete secolare della famosa abbazia e del più recente Regio Istituto Forestale. Telfener si fa venire in mente un’idea: costruire una ferrovia per raggiungere Vallombrosa e costruirvi un grande albergo adatto ad ospitare un flusso di turisti come quello delle stazioni climatiche alpine.
Ma questa volta non è come in passato: devono essere reperiti tutti i finanziamenti, e va trovato l’avallo governativo per il progetto. Non è semplice ma Telfener ci riesce, illustra il suo progetto al ministro dell’agricoltura Bruno Chimirri e trova in lui un convinto sostenitore. Arriva la promessa di finanziamenti: dal comune di Firenze, da quello di Reggello e poi dal Governo. Telfener si dà da fare, illustra i benefici economici per la zona e per l’Italia, acquista dei terreni e vi fa edificare chalet importati dalla Norvegia. Presenta un progetto che prevede una nuova stazione di interscambio in località S.Ellero sulla linea Firenze-Roma e una stazione di arrivo in località Saltino per non disturbare troppo la quiete di Vallombrosa. Davanti alla stazione del Saltino ci sarà anche un nuovo moderno albergo dotato di 100 camere, l’Hotel Stazione, oggi Grand Hotel Vallombrosa. Il progetto viene approvato definitivamente a livello governativo il 21 maggio 1892. Può iniziare la costruzione.

I lavori vengono completati nel tempo record di quattro mesi, a fine settembre 1892. La linea ha una lunghezza di 8 km e in 57 minuti porta i passeggeri al Saltino coprendo un dislivello di 854 metri. Ci sono due fermate intermedie lungo il tragitto: Donnini e Filiberti e oltre alla salita dei passeggeri permettono il rifornimento di acqua e carbone. Non è ancora pronta la stazione passeggeri a S.Ellero. Verrà costruita l’anno successivo. Al viaggio inaugurale la stampa rimane colpita dalle locomotive a vapore dalla forma inclinata che spingono le carrozze passeggeri. Ancora di più impressionavano le pendenze, fino al 27%, che si riuscivano a superare grazie alla ferrovia a cremagliera. All’hotel viene offerto un grandioso pranzo di benvenuto a cui vengono invitate le autorità da tutta Italia. Parte una grande campagna pubblicitaria che parla di Vallombrosa come della “Svizzera italiana [a] 1000 metri sul mare, [con] secolari foreste di abeti, clima balsamico [e] splendido panorama”. La risposta di pubblico è entusiasta. L’albergo stenta a soddisfare la richiesta turistica. Negli anni successivi Vallombrosa avrà ospiti illustri fra i quali Milton che a Vallombrosa dedicò alcuni versi del suo Paradise Lost, oppure Gabriele D’Annunzio che nel 1898 descriveva il paesaggio ammirandolo da un balcone panoramico al Saltino: “Tutta la valle ondulata nella sua corona di monti cerulei ha un’apparenza magica, ha il carattere d’una visione mistica. Un vapore tenue vi si diffonde e le ombre delle nubi vi divengono indicibilmente molli. Le case bianche, le città lontane, le strade tortuose formano una specie di sogno luminoso. Il ciglio del poggio più vicino è reale, esistente, nettamente disegnato; ma tutto il resto, a contrasto, è irreale, inesistente, magico”.

I problemi però sono dietro l’angolo. La costruzione della ferrovia ha avuto costi molto superiori al previsto. La società fondata da Telfener è costretta a ricorrere a continui prestiti e si indebita fortemente con le banche. E per quanto l’afflusso turistico sia molto buono è limitato ai soli mesi estivi. I debiti rischiano di strozzare la società e si fa fatica a pagare gli stipendi. Ci sono più agitazioni e scioperi fra il personale. In questo periodo così difficile Telfener viene meno nel 1897. La società viene rilevata da Francesco Benedetto Rognetta. La situazione sembra inizi a migliorare e il passivo finanziario a dileguarsi. Ma è in agguato un nuovo colpo per le finanze e l’immagine della società ferroviaria: il Grand Hotel Vallombrosa viene quasi completamente distrutto da un incendio nel 1902. Comunque grazie ai rimborsi delle assicurazioni l’albergo viene velocemente ricostruito. Gli anni della Belle epòque sono i più floridi e la società ritorna in attivo fino a quando nel 1914 non esplode la prima guerra mondiale e nel 1915 l’Italia scende in campo accanto alle truppe dell’Intesa.

Con la Grande Guerra il flusso di turisti è destinato a calare vertiginosamente e il prezzo del carbone a raggiungere vette proibitive. Si prova con la lignite estratta a S. Barbara, ma non ha la stessa resa e inoltre la combustione provoca continue scintille che rischiano di raggiungere le carrozze passeggeri. Le corse del treno per Vallombrosa vengono fermate e potranno riprendere solo nel 1919.
Ma questo punto quello che non avevano potuto la sfortuna prima e gli eventi bellici poi riuscirà all’evoluzione dei costumi, della società e soprattutto della tecnologia. La neocostituita SITA, Società Italiana Trasporti Automobilistici già prima della guerra aveva inaugurato dei trasporti di prova per Vallombrosa con partenza da Firenze e più tappe intermedie. Il servizio viene ora potenziato e si dimostra velocemente più rapido e più economico di quello ferroviario. La società ferroviaria tenta tutti i mezzi per sopravvivere, compreso un servizio di pullman alternativo a quello della SITA. Ma tutto invano. L’unica speranza potrebbe venire dall’elettrificazione della linea, ma non ci sono le disponibilità finanziarie per farlo. Le corse del treno vennero definitivamente fermate nel 1924. La linea venne smantellata nel 1937 e il ferro dei binari riciclato da una società milanese.

Ad oggi rimane pochissimo: la stazione di Sant’Ellero con i suoi tetti spioventi e le panchine in ghisa con inciso R.A, Rete Adriatica, la stazione di Filiberti che adesso è un rudere in stato di completo abbandono, un sentiero CAI lungo il tratto dove erano posati i binari, la stazione di Saltino adesso abitazione privata denominata Villa Rognetta e il vecchio Grand Hotel Vallombrosa, ancora oggi attivo durante la stagione estiva.




“Fu una mattinata tremendissima”

Gli anni del dopoguerra sono tra i più duri per la popolazione pistoiese. Il numero dei disoccupati, dopo la fine del conflitto, sale vertiginosamente dalle seimila alle dodicimila unità, di cui almeno 2.500/3.000 nella zona montana. Si aggiunge una grave carenza dei generi di prima necessità. Pane e lavoro sono le parole d’ordine di numerose mobilitazioni sociali, che cominciano fin dal 16 ottobre 1944 con la prima manifestazione delle donne con in braccio i loro figli, e si protraggono fino alla fine degli anni ’40.
Ad una situazione economica ristagnante, con numerose aziende appena riavviate costrette a chiudere per mancanza di energia elettrica, di materie prime, di ordinazioni, con i lavori di ricostruzione – in particolare dei ponti e della ferrovia Porrettana – che tardano a partire almeno sino alla fine del 1946 e mal finanziati, quella sociale diviene l’emergenza prioritaria segnalata ogni mese a Roma dai prefetti che si succedono.

cdl anni 40Ancora nel marzo 1946 una serie di manifestazioni di donne reclama alimenti e tenta, a Pistoia ed a Pescia, di assaltare i magazzini del consorzio agrario per impossessarsi di generi alimentari da consegnare poi alle cooperative del popolo per la distribuzione. L’attivismo e il protagonismo di masse ingenti di cittadini e cittadine ereditato dall’esperienza resistenziale si esprime, oltre che nella politica di partito, in un’elevata disponibilità all’azione per migliorare le proprie condizioni di vita e cercare di dare impulso a scelte di trasformazione. Le relazioni economiche tra le parti sociali rischiano spesso di tramutarsi in conflitti diffusi. Gli attori in campo, i prefetti, i sindaci, le organizzazioni dei datoriali (Confindustria, Confagricoltura ecc…), la Camera del lavoro della CGIL unitaria, i grandi partiti come la DC, il PSI e il PCI ed il CLN fino al 1946, si trovano costantemente impegnati un un’opera di mediazione che cerca di contenere la carica esplosiva della disperazione, trovando accordi, mediazioni, persuadendo le folle di disoccupati a forme di azione responsabili e sollecitando i governi. Come scrive il prefetto Mazzolani nel luglio del ’46 i problemi «possono essere risolti solo se gli organi centrali responsabili verranno nell’ordine di idee di attuare una politica economica, finanziaria e sociale, se non rivoluzionaria, almeno coraggiosa ed aderente allo stato di necessità, in cui versa attualmente il popolo italiano, senza aver paura di toccare le posizioni privilegiate di questo o quel gruppo più o meno ristretto».

contadini piazza san francescoLa situazione più critica è in montagna, dove le uniche attività in grado di garantire l’occupazione sono le cartiere della Lima, i traballanti lavori di ricostruzione ma soprattutto la SMI. Ed è proprio in conseguenza di un duro braccio di ferro alla SMI che il 28 giugno 1947 si giunge al primo grande sciopero generale della provincia, che si risolverà in un fallimento parziale e lascerà duri strascichi di divisioni interne alla CGIL tra la componente comunista e quella democristiana.

Progressivamente le trasformazioni dello scenario politico italiano, con la rottura dell’unità antifascista al governo nel maggio 1947, l’incipiente guerra fredda, lo svilupparsi ed acuirsi di uno scontro politico ed ideologico durissimo, hanno ricadute sul contesto locale, dove questi processi si vanno ad unire alla stagnazione ed alla mancanza di risposte efficaci. Se da una parte la conflittualità popolare permane e si esaspera, dall’altra gli apparati dello Stato tra il 1947 ed il 1948 cominciano a chiudere le porte ed a leggere ideologicamente la portata di conflitti fino ad allora rimasti confinati in gran parte all’ambito economico.
La stessa gestione dell’ordine pubblico risente di questo clima da muro contro muro che si va costruendo, slittando nel corso del tempo verso soluzioni sempre più di forza. Il 1947 si chiude con la rottura delle trattative sul contratto dei metallurgici, che provoca l’invasione della sede della Confindustria da parte degli operai della San Giorgio. E pochi giorni dopo il 1948 si apre con una serie di arresti preventivi nel pesciatino che causano un nuovo sciopero generale con numerosi blocchi stradali che sfociano in gravi scontri a Bonelle. Le sinistre tentavano di giocare la carta della mobilitazione, “dare una spallata” in vista delle elezioni del 18 aprile. Il nuovo prefetto, Festa, abbandona il ruolo neutrale del funzionario statale per divenire nei fatti parte della macchina della DC, informando costantemente Scelba dei progressi del suo partito e commentando positivamente i risultati democristiani dopo le elezioni, sostenendo che la sconfitta dei socialcomunisti avrebbe liberato la popolazione da un incubo.

manifestazione schianoIn questo quadro matura uno degli eventi più tragici per la storia di Pistoia nel Novecento. Nell’estate del ’48 la SMI annuncia la sua intenzione inamovibile di procedere al licenziamento di 500 tra operai e operaie. La posizione della CGIL non ammette a sua volta mediazioni al ribasso. Ne segue una vertenza che va avanti per mesi ma che, dopo la scissione della componente cristiana della CGIL ad agosto che si riorganizza nei Sindacati liberi, per Festa diventa l’occasione adatta a scalzare il sindacato delle sinistre e favorire quello vicino al governo appoggiando al tempo stesso la direzione aziendale. Si deve dimostrare ai lavoratori l’incapacità sindacale di socialisti e comunisti. La mattina del 16 ottobre 1948 si svolge l’ennesima manifestazione di famiglie disoccupate o precarie. Dalla montagna la popolazione raggiunge Pistoia, la chiamano “La marcia della fame”. Nel capoluogo le fabbriche scioperano. Le donne guidano il corteo. Per la prima volta la prefettura si rifiuta di ricevere una delegazione dei dimostranti per discuterne l’ordine del giorno e ordina di disperdere i manifestanti. Nei violenti scontri alle cariche seguono i lacrimogeni e alla fine gli spari. Rimangono a terra sette feriti, uno dei quali in modo mortale, il venticinquenne operaio della San Giorgio Ugo Schiano.

La repressione dà un duro colpo alla strategia della Camera del lavoro, che disorientata cede. Festa commenta a Scelba: «si può facilmente desumere che gli organi sindacali si sono dovuti arrendere a discrezione, accettando le condizioni imposte dalla Società, perché si sono resi conto che l’azione sindacale, male impostata e male condotta, li aveva posti in un vicolo cieco dal quale sarebbe stato impossibile uscire senza sottoscrivere l’accordo, qualunque esso fosse. Sta di fatto che, così come è stata conclusa, la vertenza di Campotizzoro, sulla quale si è fatto tanto clamore e non è mancata la più esosa speculazione politica, costituirà un grave colpo per il prestigio della locale Camera Confederale del Lavoro, mentre se ne avvantaggeranno i Sindacati Liberi e lo stesso Partito della Democrazia Cristiana»

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




“Donne e Guerra”: un progetto didattico nelle scuole del Valdarno

Negli anni Novanta la scuola italiana aprì la programmazione di Storia al Novecento e, rinnovando l’interesse per le vicende più recenti e l’importanza della ricerca a partire dai testimoni, scelse di farlo partendo dalla storia famigliare, locale per facilitare la comprensione del contesto globale. A questo periodo risale “Donne e guerra”, lavoro di ricerca che nasce da un progetto del Ministero chiamato appunto “Novencento”.

La scuola secondaria di primo grado di Matassino (Figline Valdarno- Firenze) divenne sede di un “Laboratorio storico-ambientale” coordinato da Gabriele Olmi che aveva come scopo la formazione degli insegnanti e l’avvio di progetti, come il nostro “Donne e guerra” degl’anni scolastici 1997/98 e 1998/99 che fu diretto da Carla Mugnai con la collaborazione di Mario Mantovani. Si tratta di una raccolta di testimonianze che gli alunni hanno recuperato dalle proprie nonne con la metodologia dell’intervista.

Le domande rivolte sono state:

  • Cosa ti ricordi della guerra?
  • Ti ricordi di qualche episodio particolare?
  • Come trascorrevi la giornata?
  • Cosa mangiavi e come te lo procuravi?
  • Facevi mai festa? Dove, quando, racconta …
  • Quali erano i luoghi di ritrovo?
  • Dove vi rifugiavate quando c’erano i bombardamenti?
  • Ti ricordi di un episodio del rifugio?
  • Come avevate le notizie e da chi?
  • Cosa ti ricordi dei tedeschi?
  • E degli americani?
  • Hai mai sentito parlare di episodi di maltrattamenti nei confronti delle donne?
  • Conosci episodi nei quali sono state protagoniste le donne?
  • Hai mai aiutato, dato ospitalità a qualcuno in difficoltà?

I risultati del lavoro furono organizzati secondo la provenienza geografica delle testimoni e pubblicate, assieme a delle foto d’epoca sul portale www.valdarnoscuola.net

Gli alunni interessati dal progetto furono:

  • Scuola Media di Incisa Valdarno: Classe 2°A e 3°C
  • Scuola Media di Matassino (Figline Valdarno): Classe 2°H, 2°I, 3°G, 3°H, 3°I
  • Scuola Elementare di Cascia (Reggello): Classe 5° A
  • Scuola Elementare di Vaggio (Reggello): Classe 5° A

Il lavoro fu organizzato e coordinato dagli insegnanti: Sonia Cirri, Gianna Ermini, Cristina Fontanella,  Monica Giuliani, Leontina Mascagni, Sandra Mazzoni,  Anna Mori, Carla Mugnai, Enrica Mugnai e  Ivana Righi.

“Donne e guerra” confluì nel 2009 nel Centro Documentazione Donna di Figline Valdarno grazie all’attenzione della professoressa Mazzoni e rifluisce ora in ToscanaNovecento per tornare alla sua vocazione originaria: rotella del grande ingranaggio della Storia.




Le donne di Ribolla negli anni Cinquanta

Gli anni Cinquanta si aprirono nel villaggio minerario di Ribolla in un clima di aperta ostilità tra la Società Montecatini, proprietaria della miniera, e gli operai. Una lunga vertenza nel 1951, “lo sciopero dei 5 mesi ”, pur concludendosi con una sconfitta del movimento operaio grossetano ne rappresentò al contempo uno degli episodi più gloriosi, nel quale si inserì sorprendentemente una variabile a lungo trascurata dalla storiografia: il movimento femminile, timido dapprima, imponente poi, tanto da riuscire a tenere il passo di quello sindacale e politico. Molte donne, infatti, già nelle prime fasi dello “sciopero dei 5 mesi ” si erano organizzate – non solo a Ribolla – per sostenere la lotta di padri, fratelli, figli, mariti, fino a costituirsi nell’associazione “Le amiche della miniera”, il 2 giugno 1951. Sul numero delle iscritte si hanno dati precisi solo per il 1951: 328  nel solo comune di Roccastrada, per un totale di 1184 in tutti paesi minerari della provincia.

Comizio di una rappresentante de "Le amiche dei minatori" (anni Cinquanta)

Comizio di una rappresentante de “Le amiche dei minatori” (anni Cinquanta)

Erano “amiche della miniera” anche le operaie, impiegate nei lavori di cernita, carico di lignite sui vagoni, lampisteria e cucina; in genere provenivano da famiglie bisognose, molte erano “orfane” o “vedove” della Montecatini. Chi lavorava in cucina o si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai non partecipava agli scioperi e alle manifestazioni, per non venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia, ma offriva il proprio contributo alla lotta sindacale facendo propaganda sul posto di lavoro.

Sia alle donne che partecipavano agli scioperi al fianco degli uomini, sia alle operaie che rimanevano al loro posto per “doveri di cura”, si potrebbe avere la tentazione di estendere la categoria interpretativa del maternage di massa (A. Bravo, 1991), usata in un primo momento per spiegare la partecipazione della donne alla Resistenza: donne che si fecero “pubblicamente” madri dei giovani in pericolo dopo lo sbandamento dell’8 settembre, prima, e dei partigiani, poi.

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Lo stereotipo della protezione degli uomini determinata da un naturale istinto materno e da una scelta morale più intuita che meditata è stato messo da tempo in discussione (Anna Rossi Doria, 1994), con la messa a fuoco del passaggio «dalla compassione alla solidarietà e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona» nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione. Anche nella scelta delle “amiche della miniera” di lottare a fianco dei propri uomini questo passaggio è evidente, soprattutto se si pone lo sguardo sugli spazi di autonomia che queste donne seppero prendersi all’interno del più ampio movimento sindacale e politico.

Il 4 maggio 1954 uno scoppio di grisou causò la morte di 43 operai della miniera di Ribolla. Appena dopo il disastro e nei giorni seguenti, le donne dell’associazione si mobilitarono per sostenere i familiari delle vittime.

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4 maggio 1954: la notizia del disastro si è diffusa in paese. Le donne accorrono alla miniera

La colpa morale della Montecatini per lo stato di grave mancanza di sicurezza in miniera, denunciato a più riprese nei mesi precedenti, aspettava solo di essere sancita giudizialmente ma le prime incertezze sulla ricostruzione tecnica del disastro e lo spostamento a Firenze dell’istruttoria, permisero alla Montecatini di dispiegare un’ampia opera di persuasione per convincere con lauti risarcimenti le famiglie dei minatori morti a ritirare le procure per la costituzione di parte civile nel processo.

La sentenza di assoluzione dei dirigenti della Montecatini fu dovuta, oltre che alla discordanza tra le varie perizie, anche alla mancata comparizione della parte civile davanti ai giudici, punto decisamente a favore della difesa; anche le ultime 5 famiglie firmatarie delle procure, infatti, non si presentarono al processo di Verona, nell’ottobre 1958.

La vicenda del ritiro delle procure segnò una spaccatura profondissima all’interno della comunità di Ribolla: da una parte, chi dopo anni di lotte voleva inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità; dall’altra, le “vedove”, ree – si diceva – di aver tradito le aspettative di un intero paese lasciandosi “comprare” dalla Società. In realtà, come mostra un recente studio (Adolfo Turbanti, 2005), il ritiro delle ultime procure fu con tutta probabilità avallato dal PCI e dal Sindacato, resisi ormai conto di quale sarebbe stato l’esito del processo e preoccupati che le famiglie ricevessero almeno una giusta riparazione economica.

Il giudizio sulle vedove si è nel corso del tempo attenuato; nella percezione comune oggi esse appaiono come il soggetto che dovette farsi carico della sopravvivenza della famiglia. A rivelarsi, a distanza di anni, sono la debolezza della loro condizione sociale e, a un’analisi più attenta, lo sforzo e l’estrema difficoltà di tenere insieme il nuovo – la scoperta della dimensione politica – e la rilevanza dei compiti di cura e degli affetti. Si è detto di come la categoria del maternage di massa non spieghi fino in fondo la scelta delle donne di lottare al fianco dei minatori; paradossalmente, però, fu proprio la maternità tout court a riportare l’azione di queste donne negli argini del domestico, fuori dall’arena pubblica.

La lenta smobilitazione della miniera, fino alla chiusura definitiva  nel 1959, e l’emigrazione in cerca di lavoro di molte famiglie determinarono la graduale perdita di vigore dell’associazione femminile: in definitiva lo scoppio del grisou ridefinì l’identità politica e sociale del villaggio, distruggendo simbolicamente i riferimenti culturali e il terreno di valori comuni sul quale il movimento femminile si era radicato ed era cresciuto. Nato intorno alla miniera, intorno ad essa si spense.

 

Articolo pubblicato nel maggio 2014.