1

“Scoprire” Auschwitz. Il Treno della Memoria 2019

Sono alle 8:30 di mattina del 22 gennaio quando arriviamo ad Auschwitz, al campo madre, costruito fuori dalla città per cercare di nascondere ciò che vi accadeva. Esso si estende per 7 ettari e contiene 28 blocchi, creato nel giugno del ‘40 nel luogo dove già esisteva una caserma dell’esercito polacco alla confluenza della Vistola. Dopo aver superato i controlli di sicurezza, degni di un aeroporto internazionale che ti danno subito l’idea di quanto questo luogo di memoria sia ancora sotto pericolo, entriamo dal cancello principale, famigerato per la cinica scritta “Arbeit macht Frei”. Infatti  Auschwitz era un campo di lavoro, dove i deportati venivano usati per faticare nelle miniere di carbone circostanti o nei campi. Così inizia la nostra visita. Ovunque silenzio, solo i nostri passi attutiti dalla suola di gomma dei nostri scarponcini. All’ingresso la temperatura è -9, percepita -12, ma sentiamo meno freddo anche perché forse ormai fa parte di noi o forse perché un pallido sole dà l’illusione della vita sul gelo della morte. Ci avviamo, superando il luogo dove si trovava l’orchestra che suonava delle marce allegre all’entrata e all’uscita dei lavoratori schiavi. Ci avviamo fra i vialetti di quello che oggi è un museo. Esso è stato creato già nel 1947, 2 anni soli dopo la liberazione del campo.

Il lager conteneva fra i 1200 e i 1500 prigionieri alloggiati in blocchi di muratura a due piani, sfruttati dalle cantine fino al sottotetto. La nostra prima tappa è il blocco 4 recante all’ingresso la scritta “sterminio”. A destra, una grande mappa con Auschwitz al centro, nel cuore dell’Europa, un grande snodo ferroviario; puntini neri invece segnano i ghetti e i campi di transito da cui sono partiti i treni diretti qui. Dal 1940 al 1945 sono stati deportati qua 1.300.000 persone,  prevalentemente ebrei, ma anche 55.000 prigionieri politici e altrettanti prigionieri di guerra russi (infatti la Russia non aveva firmato la convenzione di Ginevra) e 23.000 “zingari”. In quella stessa stanza si trova una urna con ceneri umane. I primi a fare ingresso nel lager furono 728 membri della intellighenzia polacca seguiti da alcuni ecclesiastici. Nella stanza successiva ci sono delle foto tratte dall’album Auschwitz che rappresentano l’arrivo di deportati dopo la sua sommossa del ghetto di Varsavia e alcune baracche dello Zigeunerlager, cioè la zona destinata agli zingari. La terza stanza prende il nome di strada della morte, infatti alle pareti campeggiano delle foto rappresentanti l’arrivo nel lager alla Judenrampe. Oltre alle SS vediamo raffigurati anche alcuni prigionieri. Essi cercavano di aiutare i nuovi arrivati suggerendo di non dire che facevano lavori da intellighenzia né che avevano meno di 14 anni,  (ciò li avrebbe condannati a una morte sicura ma questo non lo potevano rivelare). Accanto una foto rappresenta la divisione tra uomini da una parte, donne e bambini dall’altra, seguita da un’altra che raffigura le valigie ed altri oggetti ammucchiati sulla rampa mentre il convoglio se ne va, vuoto. Dall’altra parte della stanza c’è una copia dei biglietti ferroviari perché i deportati si devono pure pagare il viaggio! In fondo una grande mappa che rappresenta tutto il complesso concentrazionario di Auschwitz comprendente Birkenau e Monowitz, piccolo sottocampo importante per l’economia tedesca grazie alla presenza della Buna, una fabbrica di plastica, e della IG Farben, una fabbrica di vernici. Saliamo al primo piano, dove ci troviamo di fronte la stanza 4, intitolata “tecniche di sterminio”. Qui alle pareti ci sono le foto scattate di nascosto da membri del sonderkommando che rappresentano, sfocate per la fretta, donne nude che corrono e fosse di cadaveri che ardono. Al centro della stanza un plastico che riproduce una camera a gas e un forno crematorio, mentre in una teca sono contenute latte di zyklon b. Nella stanza 5, intitolata alla spoliazione dei corpi, ci troviamo di fronte ai resti più impressionanti di tutto il campo: 7 tonnellate di capelli umani (qui ne sono esposte due). Nella stanza 6, una immagina rappresenta l’incendio del Kanada durato 4 giorni. Infatti i Tedeschi, man mano che L’ Armata Rossa si avvicinava,  non solo avevano fatto saltare in aria i forni crematori, ma avevano cercato di distruggere altre prove come il Kanada.

Entriamo poi, ordinatamente e sempre silentemente, nel blocco attiguo, il 5, quello contenente gli oggetti, forse il più impressionante. Ci accolgono montagne di occhiali, 80.000 scarpe, anche di bambini, (e persino il lucido da scarpe), scialli degli ebrei ortodossi, oggetti di igiene quotidiana come spazzole e pennelli da barba. L’enormità della quantità e il pensiero che ad ognuno di quei reperti corrisponde una vita umana passata nel vento, lasciano sgomenti, senza fiato né parole. La stanza 3 contiene stoviglie e posate, insomma tutto ciò che avrebbe dovuto servire alla nuova vita che ai prigionieri era stata promessa dell’Europa orientale, come coloni. Saliamo al primo piano: valigie segnate con nome, cognome, data di nascita e indirizzo per poterle poi ritrovare. Passiamo poi nel blocco limitrofo, il 7, che ci parla della vita quotidiana dei prigionieri attraverso i disegni fatti da un sopravvissuto: Wladyslaw Siwek. In fondo alla sala, in una teca sono esposti i vestiti originali del campo, i cosiddetti pigiama a strisce con i numeri (gli stessi che prigionieri portavano tatuaggi sul braccio) e i triangoli di vari colori: rosso per i politici, rosa per gli omosessuali, viola per i testimoni di Geova, nero per gli asociali, verde per i criminali comuni, l’acronimo SU per i prigionieri sovietici e infine la stella di Davide gialla ovviamente per gli ebrei.  Triangoli, stelle, colori si potevano anche sommare perché poteva capitare, come ad esempio a Primo Levi, di essere sia ebreo sia deportato politico. La stanza successiva ci pone di fronte al volto terrorizzato e sgomento di bambini di 2, 10 e 14 anni scattate alla liberazione del campo. Il bambino di 2 anni sembra un neonato, gli altri sono scheletrici così come scheletriche sono le donne: abbiamo le foto di due di loro, una di 35 anni, l’altra di 37 che il giorno della liberazione pesavano rispettivamente 25 e 23 kg. Nei lager, infatti, si moriva letteralmente di fame: al mattino veniva distribuito ai prigionieri solo del latte con un caffè molto allungato, a pranzo pane duro diluito con sabbia e un po’ di margarina o marmellata, la sera una zuppa di erbe. Passiamo alla stanza numero 3 che contiene i disegni del prigioniero Mieczyslaw Kościelniak sulla vita quotidiana nei lager. Nel corridoio ci assalgono su entrambe le pareti i volti, gli occhi e gli sguardi silenziosi dei deportati. Infatti, quando si entrava nel campo, i nazisti facevano una foto con il prigioniero in tre posizioni: davanti, di profilo e di tre quarti. Le foto qui esposte sono tutte di persone uccise rappresentante di fronte e sotto ogni foto ci sono tre date: quella di nascita, quella di deportazione e quella di morte. Ci guardano spettrali, le donne rasate non si distinguono dagli uomini. La stanza 4 è dedicata al destino delle donne e dei bambini. Le prime, private dei loro figli, perdevano la voglia di vivere e morivano più in fretta degli uomini, nell’arco di un paio di mesi; talvolta si suicidavano gettandosi sul filo spinato. Quelle incinte venivano uccise direttamente all’arrivo. I bambini deportati ad Auschwitz furono 332.000 di cui si salvarono solo 650.

La sensazione di orrore continua in climax ascendente quando arriviamo al blocco 11, il cosiddetto blocco della morte, dove venivano incarcerati, torturati, uccisi i deportati. Si veniva condotti qui anche solo per aver rubato una mela da un albero o fatto i propri bisogni senza il permesso del Kapó. Per i reati più gravi vi si riuniva un tribunale fantoccio con due membri della Gestapo. Inutile specificare l’esito del processo. Scendiamo smarriti nel sotterraneo di questo blocco costituito da varie celle che venivano usate per la tortura e per la morte. Qui è stata fatta anche la prima prova di utilizzo dello zyklon b per tre giorni consecutivi ma è stata poi ripetuta perché non era andata a buon fine. In fondo al corridoio sulla destra c’è una stanza che contiene delle microcelle di 90 x 90 cm. per la punizione di 4 prigionieri per volta che devono passare là dentro da 1 a 10 giorni. Entravano da un piccolo pertugio ubicato in basso, strisciando sul proprio ventre e spesso non ne uscivano vivi. Dall’altro lato del corridoio c’è la cella numero 20 che veniva chiamata “cella segreta” perché qui si moriva per soffocamento. Vi venivano infatti rinchiuse 30-40 persone lasciate senza aria. Nel sotterraneo dovunque il senso di soffocamento attanaglia anche noi. Adiacente ad essa c’è la cella 18, in cui prigionieri venivano lasciati morire di fame. Qui è morto anche Padre Kolbe, poi santificato, per aver dato la propria vita in cambio di quella di un padre di famiglia. C’è poi la stanza per i fuggiaschi ma non veniva rinchiusa qui sono questa categoria di persone ma anche, per rappresaglia,  per ogni fuggiasco 15 membri della sua baracca.

Adiacente a questo blocco c’è il cortile con il muro della morte. Qui non si può parlare, per rispetto. In fondo ad esso il muro della morte in cui i prigionieri, nudi, venivano condotti a coppie e poi uccisi con un colpo alla nuca. In questo cortile avvenivano anche le punizioni e le torture: possiamo vedere i pilastri usati per legare i prigionieri con i piedi sollevati da terra, in modo tale da spezzare loro le braccia, renderli dunque inabili al lavoro e quindi da gassare. Altre punizioni avvenivano attraverso frustrate e bastonate che spesso i prigionieri si dovevano infliggere da soli contando in tedesco. Se perdevi il conto,  ricominciavi da capo. Sull’altro lato di questo cortile sorge un edificio con le finestre oscurate. È il blocco 10 e le finestre sono chiuse da nere assi di legno affinché non si vedesse ciò che accadeva all’interno, cioè esperimenti di sterilizzazione delle donne e mutilazioni genitali. È vero, non si vedeva,àa ma si sentivano le urla di dolore. Angosciati, ci dirigiamo verso la piazza dell’appello passando accanto all’edificio ospedaliero che di ospedaliero in realtà aveva solo il nome perché veniva chiamato anticamera della morte. Nel reparto di chirurgia varie ditte, tra cui la Bayer, facevano esperimenti sui prigionieri cavie, ad esempio sul tifo petecchiale. Di fronte, c’è una baracca di legno che era utilizzata come lavanderia delle SS;  ovviamente solo di quest’ultime, perché ai prigionieri non era mai consentito di cambiarsi il pigiama a strisce. Passiamo l’edificio fotografico e quello che latrine e arriviamo alla Appelplatz. Qui, come dice il nome stesso, ogni mattina all’alba e ogni sera dopo il lavoro avveniva l’appello dei prigionieri, ovviamente non nominativo ma urlando in tedesco il numero che aveva sostituito non solo la dignità ma anche l’identità umana. I nazisti erano precisi e i conti dovevano tornare: se mancava qualche prigioniero (anche solo perché deceduto) l’appello veniva prolungato. Il più lungo durò per 19 ore. Qui avvenivano anche appelli punitivi, in cui i prigionieri dovevano rimanete immobili, con le braccia in alto oppure fare inutili esercizi ginnici, insostenibili per uomini così pesantemente provati. Durante l’appello avveniva anche l’uccisione dei fuggitivi precedentemente torturati. Veniva messo al loro collo un cartello con la scritta “urrà, urrà, urrà, di nuovo sono qua”  e poi impiccati. Da Auschwitz vi furono 900 tentativi di fuga, di cui 160 ebbero successo (4 prigionieri addirittura fuggirono travestiti da SS dopo averne rubato l’automobile).

Usciamo dalla zona del campo destinata ai prigionieri ed entriamo in quella dedicata alle SS e ci troviamo di fronte alla forca dove fu impiccato il capo del campo, Rudolf Hoess, dopo il processo a Varsavia. La forca sorge a metà strada fra la casa di Hoess, fatta da lui costruita nel ’43, e il crematorio, usato dal 1941 fino alla fine del 1942, quando entrarono in funzione quelli di Birkenau. Dopo divenne un bunker per le SS, mai utilizzato però, perché il campo non venne mai bombardato. Ad Auschwitz la camera a gas si è conservata. Non è lecito parlare, ma a tutti noi manca il fiato quando vediamo le 4 fessure da cui era introdotto lo Zyklon B e percepiamo odore di cenere di fronte ai forni crematori. Scioccati e ancora in silenzio andiamo al blocco 18, il memoriale degli Ebrei ungheresi, in cui, al piano terra, è proiettato un filmato originale sulla deportazione, mentre al primo piano è collocata una esposizione multimediale (in linea con le nuove direttive per gli allestimenti) di foto. C’è anche una ricostruzione in plexiglass di un vagone ferroviario. E l’allestimento di questo memoriale mi porta a parlare agli studenti dello smantellamento del memoriale italiano, il blocco 21. Inaugurato nel 1980, è costituito in forma di un’ossessiva spirale, ideata da personalità importanti del Novecento, tra cui alcuni ex prigionieri nei lager: da Lodovico Belgiojoso a Primo Levi, da Pupino Samonà a Renato Guttuso. E verosimilmente sono proprio le immagini dipinte da Guttuso che, percorrendo la storia della Resistenza partendo da Marx, Gramsci e rappresentano anche una falce e martello, ad aver dato fastidio al precedente direttore del Campo, che ne ha ordinato lo smantellamento, con la scusa che non era in linea con le tendenze di modernità e multimedialità a cui si dovevano attenere i vari memoriali. Dopo essere stato in magazzino per anni, lo ha “adottato” la Toscana e troverà sistemazione a Gavinana, presso Firenze, in piazza Gino Bartali, il ciclista italiano “giusto tra le nazioni”, dove riprenderà la sua funzione museale. Guido poi il gruppo ad un altro blocco, il 13, anch’esso poco frequentato, perché costituisce il memoriale del Popolo romanés. È questa l’occasione per parlare del porrajmos, che nella loro lingua vuol dire inghiottimento, alludendo allo sterminio di questo popolo. Usando il censimento fatto dal prefetto di Monaco Dillmann nel 1905, il regime nazista inizia a deportare gli zingari in campi di concentramento, perché considerati, inferiori, con il quoziente intellettuale più basso e l’istinto al nomadismo. Segue poi la sterilizzazione forzata ed infine il lager. Gli zingari vengono portati a Birkenau e collocati in un settore speciale del campo, chiamato appunto Zigeunerlager , che viene liquidato la notte tra il primo e il due di agosto 1944. Nel porrajmos trovano la morte 23.000 persone. L’ultima parte del nostro percorso è costituita dal blocco 27, a destra delle forche per le impiccagioni comuni. Esso è intitolato all’olocausto e ripercorre la storia del popolo ebraico attraverso immagini e sottofondo musicale. La canzone, infatti, intona che non c’è posto né luogo in tutta la terra dove non si trova un uomo che prega. Entriamo nel buio di una stanza alle cui pareti vengono proiettate scene di vita di famiglie ebraiche mentre il piano superiore è dedicato al nazifascismo: video proiettano discorsi di Hitler, folle che inneggiano a lui, estratti di Mein Kampf, immagini di roghi di libri. In una stanza delle grandi pareti bianche si trovano piccole riproduzioni a matita di disegni fatti da bambini nel lager. Commoventi. Infine alle ore 12:30 ci riuniamo tutti di fronte al cortile della morte e la delegazione della Regione Toscana, gonfaloni in testa, deposita una corona di fronte al muro della morte. Poi il nostro corteo si snoda, sempre più silenzioso e toccato, per i vialetti di Auschwitz, ed usciamo, pieni di commozione e interrogativi irrisolti, da quello stesso cancello che i prigionieri avrebbero tanto voluto varcare da uomini liberi.




Camminare nel lager. Il Treno della Memoria 2019

Lunedì 21 gennaio. Siamo scesi con l’autobus a Birkenau, il freddo dei sette gradi sotto zero ci entrava nelle vene, la nebbia contribuiva a conferire un senso spettrale all’ambiente, così come i rami congelati degli alberi, o come il nevischio che cadeva su di noi. Giunti dinanzi al cancello della morte, siamo entrati. Il nome “Birkenau” significa “betulla”, all’apparenza rassicurante, vi sorgeva davvero un bosco di betulle, in parte abbattuto, così come le case, i cui abitanti sono stati fatti sgombrare in sole tre ore. La realtà vuole che Auschwitz 2 si estenda per 145 ettari, su un terreno malsano, alla confluenza della Vistola. La costruzione del campo di concentramento iniziò nell’ottobre del ’41 ed esso era diviso in tre parti: B1 (baracche in muratura), B2 (baracche in legno), Mexico (un terzo settore mai finito). Delle baracche tutt’ora conservate, quelle in muratura corrispondevano agli alloggi femminili, comunque senza fondamenta. Successivamente, dal ’45 furono portate dalla Germania delle baracche prefabbricate in legno che servivano come stalla per 42 cavalli, ma che qui contenevano i prigionieri, il cui numero sarebbe dovuto essere di 400 per baracca, ma il sovraffollamento portò a contenerne fino a 700.

Facciamo il nostro ingresso, in silenzio, in una delle 22 in legno rimaste in piedi, la guida ci racconta l’indicibile condizione di vita, mostrandoci le brande a castello su cui i prigionieri dormivano accatastati tra malattie, sporcizia, parassiti, sudore; talvolta chi era stanco non riusciva ad arrampicarsi al proprio tavolaccio, allora dormiva per terra e si svegliava durante la notte a causa dei morsi dei topi. Nottetempo non si poteva uscire dalle baracche, per cui i bisogni fisiologici erano espletati in dei secchi alla fine della stessa baracca. Infatti l’accesso ai bagni era consentito esclusivamente al mattino, prima del lavoro, e la sera, prima di rientrare. Durante la giornata si potevano fare bisogni solamente con il permesso del kapó. E così entriamo nella baracca con le latrine, la cui prima parte conteneva lavabi non conservati e la seconda delle cavità da usare a mo’ di water. La baracca con le latrine fu costruita solo in seguito. In precedenza veniva utilizzato un fosso ubicato fra la zona maschile e quella femminile, nel quale, spesso, per la stanchezza, i prigionieri cadevano. Persino la defecazione veniva controllata, infatti i kapó concedevano massimo 6 secondi per essa. Le latrine erano senza scarico, perciò c’era un kommando addetto a pulirle. Rimaniamo stupiti dalle parole della guida che ci spiega che questo era un lavoro da privilegiati, dato che gli escrementi producono calore, le SS non ti toccavano per il puzzo e talvolta, uscendo a buttare gli escrementi, si potevano consegnare lettere alla resistenza locale.

Ci spostiamo poi alla banchina ferroviaria dalla quale venivano fatti scendere i deportati, costruita nel ’44 nel momento di massima affluenza di prigionieri al campo, in particolare in seguito agli arrivi di convogli dall’Ungheria. Inizialmente, Birkenau era un campo di concentramento per 100.000 prigionieri, ma successivamente fu uno dei principali strumenti di sterminio nel contesto della soluzione finale della questione ebraica, per cui dall’aprile del ’43 vennero effettuate, all’arrivo di ogni convoglio, delle selezioni, fra chi, considerato ad occhio abile al lavoro, si salvava per qualche mese e per chi, invece, era destinato subito al crematorio. Era l’occhiata di uno pseudomedico nazista e un pollice volto a destra o a sinistra a significare la vita o la morte di un deportato e solo tra il 15% il 20% di essi non venivano condotti direttamente alle camere a gas. Vicino alla banchina ferroviaria costruita nel ’44 è ora collocato un vagone originale trovato al confine tra la Germania e l’Olanda e comprato dal figlio di un prigioniero ucciso direttamente sulla Judenrampe per aver disobbedito agli ordini non consegnando gli oggetti religiosi. Ognuno di questi vagoni, nati come vagoni merci o per cavalli e che viaggiavano piombati per giorni e giorni, conteneva circa 80 persone. C’è una foto dell’album Auschwitz (una serie di circa 200 fotografie scattate da un militare SS nel maggio-giugno ’44, oggi conservate allo Yad Vashem di Gerusalemme) che ritrae proprio il momento della selezione. Essa mostra anche un’ambulanza della Croce Rossa, bieco inganno dall’aspetto rassicurante per chi scendeva dal treno, perché, anziché essere usata da personale medico, conteneva le latte con lo Ziklon B, la sostanza nata come insetticida a base di acido cianidrico o acido prussico, utilizzato come agente tossico nelle camere a gas. Infatti Birkenau aveva all’inizio 2 camere a gas provvisorie in 2 edifici collocati nel bosco di betulle, chiamati “la casetta bianca” e “la casetta rossa”, in cui, murate le finestre, veniva introdotto quest’agente letale. I corpi, allora, venivano seppelliti, ma dopo una visita di Himmler, si decise nel ’43 la costruzione di 4 camere a gas con relativi crematori. Tutti fatti saltare in aria dalle SS per tentare di celare le mostruosità che vi avevano luogo. Solo un crematorio, quello numero 4, fu oggetto di un tentativo di distruzione da parte di una rivolta interna del Sonderkommando, cioè, di coloro che erano addetti al lavoro di ripulitura delle camere a gas. La rivolta fallì e 4 donne che vi avevano collaborato furono impiccate proprio la settimana prima della liberazione di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945 ad opera dell’armata rossa.

Dei crematori possiamo solamente intuire la forma: una costruzione a L costituita da uno spogliatoio, di circa 280 metri quadrati, dotato di panchine e attaccapanni per far credere ai deportati che avrebbero ripreso, all’uscita della doccia, i loro vestiti; addirittura venivano dati loro sapone e asciugamano, per far credere di entrare in una vera e propria doccia, che in realtà era una camera a gas ubicata nel sotterraneo di circa 10 metri quadri, dove entravano circa 1500 persone, ingannate dal fatto che dal soffitto pendessero delle docce, dalle quali però, anziché acqua, usciva lo Ziklon B, introdotto da feritoie e comignoli sul tetto. Dopo venti minuti tutto era finito ed entrava il Sonderkommando alla cui vista si apriva un aspetto terrificante: la lotta spaventosa che si scatenava in quelle camere, perché, quando il gas cominciava ad agire, si propagava dal basso verso l’alto, al buio non si vedeva e i più forti volevano salire più in alto schiacciando i più deboli, scatenando una battaglia. È per questo che i bambini, i malati e gli anziani si trovavano sotto gli altri. Talvolta le madri erano così avvinghiate ai loro figli, che non si riuscivano a separarne i corpi. Il lavoro nel Sonderkommando era terribile: gli ebrei con quest’incarico dovevano tagliare i capelli, strappare i denti d’oro e sfilare i gioielli: tutto serviva all’economia del Reich. Venivano cremate circa 1500 persone al giorno ma alcuni dei crematori contenevano tre camere a gas, per una capacità globale che poteva raggiungere le 1800 persone. Ci dirigiamo poi in silenzio verso il bosco di betulle, costeggiando tre cisterne dell’acqua che venivano usate per filtrare acqua ed escrementi, nel tentativo di produrre biogas.

Attraversando delle vasche, adesso ghiacciate, che in realtà contenevano (e probabilmente contengono ancora) le ceneri dei cremati, arriviamo nella zona chiamata “Kanada”, nome dato dai prigionieri stessi, alludendo alla ricchezza di quel paese. Infatti i deportati, ingannati alla partenza, dicendo loro che sarebbero andati ad abitare nella Polonia orientale, o che avrebbero trovato ad accoglierli un nuovo lavoro, potevano portare con sé 25 o 30 kg di bagaglio a testa; ovvio che, preparando una valigia per un cambio radicale di vita, non si prenda solo ciò che è più caro, come fotografie, ma anche oggetti preziosi. In realtà, di tutto venivano spogliati già all’arrivo e le valigie portate al Kanada, dove veniva smistata la roba. Da qui tutto veniva poi spedito in Germania, per contribuire all’economia di guerra. Gli oggetti migliori, venivano distribuiti al popolo tedesco, i capelli o i vestiti più logori servivano invece per l’industria tessile. Anche il lavoro al Kanada era considerato buono, non solo perché avveniva al chiuso, ma perché ci si poteva anche procurare qualcosa, portandolo via di nascosto. Entriamo in quest’edificio, accolti in silenzio da migliaia di fotografie trovate nelle valigie e da un carrello sulla sinistra, che serviva – ci spiega la guida – a portare via le ceneri umane quando i laghetti erano pieni. In quel caso, le ceneri servivano per concimare i campi limitrofi o, d’inverno, per essere sparse nel campo di concentramento stesso, per non scivolare. Quelle in eccesso, buttate nel fiume.

È dal Kanada che si forma il nostro commosso e silenzioso corteo che dà inizio alla cerimonia commemorativa. Seguendo i gonfaloni della Toscana, ci dirigiamo verso la parte centrale del campo, dove vi è un monumento costruito negli anni ’60 da artisti italiani e polacchi vincitori di un concorso, che commemora in maniera allusiva le vittime. Infatti esso rappresenta varie tipologie di tombe, un comignolo e una coppia che si abbraccia prima della morte. Ci sono poi 23 targhe metalliche quadrate di dimensioni uguali, che nelle 22 lingue delle vittime, più in inglese recitano: “Grido di disperazione ed ammonimento all’umanità, sia per sempre questo luogo, dove i nazisti uccisero circa un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente ebrei, da vari paesi d’Europa. Auschwitz-Birkenau 1940-1945”. Apre la cerimonia Ugo Caffaz, l’ideatore del treno della memoria, colui che ha speso tutta la sua vita per combattere l’entropia del razzismo e per cercare di affermare un concetto: l’unicità del genere umano. È stato lui a riportare Primo Levi ad Auschwitz nel 1982 e da allora, come consigliere per le politiche della memoria della regione Toscana, ha organizzato la più grande forma di partecipazione di giovani studenti a regolari e preparati viaggi della memoria nei capi di sterminio nazisti, alternandoli a una grande giornata su questo tema al Mandela Forum di Firenze. Egli inizia il suo breve discorso citando Primo Levi, a cui quest’edizione del treno è dedicata: “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre”. Poi cita una frase che Primo Levi aveva concepito per il memoriale del blocco 21, quello italiano, di Auschwitz: “Fa’ che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento. Fa’ che il frutto orrendo dell’odio, di cui qui hai visto le tracce, non dia nuovo seme né domani né mai”. E Caffaz conclude imperando: “Non voltate mai la faccia di fronte alla discriminazione e all’odio”. Interviene poi Monica Barni, vicepresidente della Regione Toscana e assessore alla cultura. Ella ha sottolineato che ad ogni viaggio cresce la comunità di coloro che portano avanti la memoria nel presente. La commemorazione non deve essere fredda né strumentale, ma monito di tolleranza e accoglienza, soprattutto in un periodo di nuova radicalizzazione dell’odio e della violenza, sia in Italia che all’estero. A tale proposito cita l’uccisione del sindaco di Danzica, Pawel Adamowicz, accoltellato il 14 gennaio di quest’anno da un giovane di 27 anni, durante una manifestazione di beneficenza. L’assassino è sì uno squilibrato, ma fomentato dall’estrema destra, quindi possiamo dire che il primo cittadino di Danzica è stato ucciso dall’odio ultranazionalista, poiché egli era un uomo di solidarietà e di libertà, un europeo. La Barni cita poi Amos Oz, scrittore e giornalista israeliano scomparso il 28 gennaio scorso: “Ritengo che l’essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare, […] piuttosto che lasciarli liberi. Il fanatismo è praticamente dappertutto, nelle sue forme più silenziose e civili, è presente tutt’intorno a noi e forse anche dentro di noi. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita […] il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. E il lager è forse la massima espressione del fanatismo omicida. E di citazione in citazione si arriva a Zygmunt Bauman, che nel suo saggio dal titolo “Modernità e olocausto”, lega la creazione dei campi di sterminio alla modernità attraverso l’economia, la burocrazia e la tecnica. Bauman dice anche che siamo condannati a scegliere e la nostra vicepresidente regionale invita infatti a scegliere, ad uscire dalla zona grigia e a ricordare che ogni tempo ha il suo fascismo. Il senso del nostro viaggio è la conoscenza, quella che ci deve guidare nel presente. La commemorazione si conclude con la lettura di tre preghiere. La prima è cristiana ed è una poesia di David Maria Turoldo, sacerdote antifascista. Uno stralcio di essa recita: “Perciò ti chiediamo che si sollevi da questi lager il coro immenso delle loro voci, soffocate dal pianto prima e ora dall’indifferenza di molti, si sollevi a riempire l’Europa come un vento di primavera. Si sollevino a dire la verità specialmente i giovani, a dire alle nuove generazioni di cosa è stato capace il nostro tempo, cosa è accaduto sotto i nostri occhi, nel cuore di quest’Europa che doveva essere cristiana. A dire che per quelle vie non c’è nessun futuro […] Signore, abbi pietà dell’Europa, di questa costellazione, di ossari, di lager e di cattedrali, che almeno dalle ceneri dei morti, fuse ora in unità più che il cemento delle nostre costruzioni orgogliose, sorga con l’Europa che loro hanno sognato e, nella sofferenza comune, avevano cominciato a realizzare […] affinché sorga un mondo una vita che loro hanno invocato per noi con il loro sacrificio. E così non avvenga mai, mai pi ciò che è avvenuto, ciò che purtroppo è potuto accadere”. Si passa poi alla “preghiera per Auschwitz” in lingua romanés per ricordare i 23.000 sinti e rom, vittime dell’olocausto: “In nome del Signore, Dio di tutti e dei nostri rom e sinti uccisi, sterminati dalla mano del nazifascismo. Dona il riposo alle loro anime, ai loro corpi, ai loro spiriti, a tutti coloro di cui ci ricordiamo e a quelli che non ricordiamo e che hanno lasciato questo mondo giovani, vecchi e piccoli e a quelli ancora che non erano nati dal grembo delle loro madri. Signore, perdona le anime innocenti finite in tutti i lager e dona la consapevolezza a tutta l’umanità che le guerre portano solo ad annientamento e morte. In nome di Dio, il compassionevole, il misericordioso, guidaci sulla retta via”. Poi il rappresentante della comunità rom invita tutti a dire la parola che unisce tutte le religioni: Amen. Il momento più toccante è stato quando Enrico Fink ha cantato con la sua voce commossa la preghiera ebraica Kavanàh “Signore della misericordia”, scritta per ricordare gli stermini avvenuti già dall’anno Mille e susseguitisi per tutto il millennio fino ad Auschwitz. È una preghiera che commemora i morti di morte violenta, la cui vita è stata troncata ingiustamente, prematuramente. Questo canto è diventato, dopo lo sterminio nazista, l’emblema di quella tragica esperienza. A perenne memoria, ricorda i nomi di tre lager tristemente celebri, Auschwitz, Mauthausen e Treblinka. Il corteo poi si scioglie e torniamo taciti e attoniti ai nostri autobus, sapendo che, varcando l’uscita del cancello della morte, non saremmo più state le stesse persone di 4 ore prima.




Spiegare il porrajmos a scuola.

Personalmente, ho iniziato ad occuparmi della questione del popolo romanì sei anni fa, dopo aver ascoltato una lezione alla Summer School della Regione Toscana propedeutica all’edizione del 2013 del Treno della Memoria.

La lezione era tenuta dal giovane ricercatore Luca Bravi, che ha trattato del porrajmos.

Da allora, questo sterminio dimenticato o taciuto è diventato oggetto di grande interesse per me e, attraverso la storia della liquidazione la notte fra l’1 e il 2 agosto dello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau, mi sono appassionata alla storia di sinti, rom, camminanti, non solo leggendo saggi e  articoli su di loro, ma avvicinandomi (indimenticabile l’esperienza delle lezioni sull’integrazione dei rom fatte a Secondigliano, Scampia, Portici) e facendo amicizia con loro, soprattutto con Ernesto Grandini.

Come docente, ho iniziato a spiegare il porrajmos a scuola, soprattutto in occasione del giorno della Memoria o come preparazione per gli alunni che avrei portato al Treno della Memoria (a cui sto partecipando per la terza volta) e ho invitato anche Luca a tenere conferenze ai ragazzi di quarta e quinta, sia sul porrajmos sia sul più cocente e attuale problema dell’integrazione e della discriminazione. A tale proposito ho aderito (e poi ne sono diventata formatrice) al progetto europeo SPRYNG, Spreading Young Non-discrimination Generation in collaborazione con Poiein.lab, il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Muenster, in Germania e con quello corrispettivo di Firenze.

Questo anno, con i miei studenti di quinta Liceo Linguistico (che lo scorso anno avevano partecipato al meeting transnazionale SPRYNG) abbiamo deciso di aderire alla XIX edizione del concorso “i giovani ricordano la Shoah”, indetto dal MIUR. Con i miei allievi abbiamo ideato e montato un filmato attinente alla frase della Senatrice a vita Liliana Segre, oggetto del concorso e, tra l’altro, il nostro elaborato contiene 6 video in cui ogni ragazzo, partendo da storie anche poco note, di chi non è tornato dai campi, racconta la sua vicenda, dando così voce a quella polvere muta; ognuno incarna una categoria: l’ebreo, la lesbica, l’oppositrice politica, la disabile, la zingara. Abbiamo deciso di girare i video in luoghi significativi, ad esempio a Palazzo della Signoria, all’associazione CREA per disabili e… in un campo rom.

Così, grazie alla mia amicizia con Ernesto Grandini, siamo andati a Prato, muniti di videocamera e macchine fotografiche. Il campo si trova ai margini della città, lungo uno stradone, viale Manzoni, dove le macchine corrono e si tuffano poco dopo nel nodo di viadotti che allaccia la zona di capannoni industriali all’autostrada Firenze-Mare. È uno dei quattro campi rom di Prato ed esiste da trent’anni. A Prato, infatti, vivono in totale 108 romanì: ci sono due campi di sinti residenti costituiti rispettivamente da 68 e 34 abitazioni in legno, container, roulotte, camper, e un campo dove vivono 6 bosniaci rom residenti. Ci accoglie l’infaticabile, solare, affabulatore Ernesto, che ci fa entrare in piccola unità abitativa adibita a cucina e salotto. Ernesto è anche Presidente dell’associazione Sinti Italiani di Prato e  membro dell’ U.N.A.R. (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), l’ufficio deputato dallo Stato italiano a garantire il diritto alla parità di trattamento di tutte le persone, indipendentemente dalla origine etnica o razziale, dalla loro età, dal loro credo religioso, dal loro orientamento sessuale, dalla loro identità di genere o dal fatto di essere persone con disabilità.

Ernesto è un pozzo di conoscenza e una specie di divulgatore automatico di cultura sinta. Parla in continuazione come se fossimo a lezione, pone domande di cultura rom a cui i miei alunni non sanno come rispondere un po’ per ignoranza un po’ per imbarazzo.  Allora ci racconta cosa è stato nascere in Italia nel 1955, da padre italiano, eroe partigiano, e mamma sinta, conosciutisi alle giostre di Lucca, ed essere messo nelle scuole speciali, quelle dedicate ai bambini rom, che aprivano negli scantinati quando non era orario di lezione per gli alunni “ordinari”. Come è stato essere guardato sempre con sospetto e paura oppure sentir parlare della sua gente solo come spauracchio nelle campagne elettorali. Lui non ha problemi a dichiarare di essere un italiano di minoranza culturale sinta, perché è uno scafato e un chiacchierone, ma riconosce che per un sinto dire chi sei richiede coraggio, perché può voler significare perdere un lavoro. I miei alunni pendono dalle sue labbra. Poi mostra loro tutte le foto del suo cellulare: foto d’epoca di famiglie sinte, personaggi famosi sinti, incontri sulla storia dei sinti.

Mentre beviamo acqua e mangiamo i cioccolatini che abbiamo portato come dono ospitale, Ernesto (a malincuore, si vede) lascia la parola alle due sue nipoti (che saliranno con lui e con noi sul Treno della Memoria), Nancy, studentessa di 17 anni e Margherita, operaia di 24, affinché i miei alunni pongano loro domande, in una conversazione fra pari. A dire la verità, le mie studentesse son subito colpite dall’abbigliamento del tutto alla moda delle due ragazze, dal loro I-phone, dal loro parlare la lingua in maniera correttissima, insomma, dal fatto che non le distingueresti mai da un “gagé”, termine con il quale i rom definiscono “gli altri”, i “non rom”.

E così iniziano le domande:

CHI SONO l SINTI?

Margherita: Non siete abituati a chiamarci sinti, perché in Italia si usa la parola “zingari”, ma noi non la useremmo mai, perché significa nomade, ladro, asociale; in Italia ci sono soprattutto due gruppi: i rom ed i sinti; i rom con antica provenienza dalle terre dell’est (Nord dell’India e Pakistan) ed i sinti con antica provenienza dalle terre del Nord Europa come la Germania, l’Austria, la Svizzera, ma anche la Francia, il Belgio.

Nancy: infatti i sinti hanno gli stessi caratteri somatici degli europei e sono di pelle chiara, i rom hanno tratti più medio-orientali, ad esempio la carnagione olivastra o i capelli scuri. Io sono una “meticcia”, perché i miei genitori sono uno sinto e una rom, per cui spesso mi scambiano per sud americana o del vicino oriente (e ci mostra i suoi capelli ricci e scuri, che a noi sembrano bellissimi!).

Margherita: le nostre sono origini antiche, perché in Italia ci siamo almeno dal 1400. Qui in Italia siamo circa 170mila rom e sinti, più della metà sono di cittadinanza italiana. Le traiettorie partono intorno all’anno Mille dall’attuale Pakistan e poi si diramano e confondono, dando origine a vari gruppi (rom, sinti, manouches, kale, romanichals) con le loro specificità, ma che si riconoscono in uno stesso popolo, il popolo romaní. Il nomadismo è stato quasi sempre una risposta al fatto di essere perseguitati, scacciati o stigmatizzati.  Altri sono arrivati dopo la guerra, dall’Europa dell’Est. Ci sono due ondate più recenti, che corrispondono grossomodo alla guerra nella Ex-Jugoslavia, con rom di origine balcanica, e all’allargamento dell’Unione Europea, con rom di provenienza soprattutto rumena.

SIETE NOMADI?

Non siamo nomadi, ci siamo sempre dedicati tradizionalmente a lavori ambulanti. Alcuni di noi fanno ancora i giostrai, per esempio questo è stato il lavoro di Ernesto, ma non significa che non abbiamo radici in un luogo o in una nazione o che non vogliamo fermarci in un posto. In Italia i miei antenati sono stati pure partigiani (il padre di Ernesto è medaglia d’oro della Resistenza ed è inumato nel cimitero dei partigiani a Bologna), figuratevi se non ci sentiamo italiani. Il fatto che facessimo lavori ambulanti ci ha fatto guardare con sospetto e quando ci fermavamo o tornavamo nella nostra città natale, la gente si impauriva e ci cacciava. Siamo immaginati da tutti nomadi, ma non lo siamo. Oggi qualcuno fa ancora lavori ambulanti, i ragazzi, invece, seguono le scuole come tutti; io ho frequentato la scuola superiore qui. A Prato ci siamo dagli anni Cinquanta.

Nancy: anche io studio qui, frequento il quarto anno dell’istituto turistico.

COME VI TROVATE / SIETE TROVATE A SCUOLA?

Margherita: Io in seconda superiore ho commesso l’errore di dire che sono sinta. Da allora la mia vita scolastica è cambiata: sono diventata trasparente, mi hanno ghettizzata, in alcuni casi sono stata anche vittima di bullismo. Gli insegnati (beh, alcuni di loro, perché altri si sono rivelati razzisti come i miei compagni e hanno iniziato a guardarmi con occhi strani, alcuni con pietà, altri con disgusto) sono intervenuti. Anche il preside lo ha fatto, sospendendo uno studente. Ma la situazione non è migliorata.

Nancy: io, invece, memore della vicenda di Margherita, non ho detto niente a nessuno. Solo un mio compagno, amico fin dall’infanzia, sa che sono sinta. Però è triste non poter mai invitare gli amici a casa per una festa o semplicemente per fare i compiti insieme.

ALLORA, SE NON SIETE NOMADI, PERCHE‘ VIVETE IN UN CAMPO?

Margherita: Perché anche lo stato italiano ci ha considerati nomadi e tra gli anni Settanta e gli anni Novanta ha pensato che i campi nomadi potessero essere il posto dove farci abitare. Li hanno costruiti e ci hanno detto che dovevamo vivere lì dentro. Erano luoghi di emarginazione già allora e sono peggiorati ancora. Non siamo noi a volerci vivere e sappiamo che viverci significa far crescere il razzismo verso di noi. Alcuni dei sinti vogliono vivere in casa, altri ci vivono già. l rom dell’est, invece, hanno sempre vissuto in casa. Immaginate quando, profughi di guerra, sono arrivati qui e, venendo immaginati nomadi, sono messi nei campi. Alcuni di loro hanno pensato che fossero soluzioni transitorie, ma purtroppo non era così. Noi sinti, invece, facevamo lavori ambulanti ed abbiamo sempre vissuto in famiglia allargata in case mobili o in roulottes. E’ il nostro modo di vivere tradizionale, ma non vuol dire che siamo pericolosi per questo né che non vogliamo lavarci, vestirci bene, andare a scuola, vivere con gli altri. E‘ solo un modo diverso di vivere: non vogliamo vivere in un campo nomadi senza fogne, senza acqua calda, fuori dalle città. Chiediamo di poter acquistare dei campi privati, creare la nostra micro area, poterci allacciare alle fogne, avere dei bagni in muratura. Tutto questo costa meno di quanto si spende per i campi nomadi e noi vogliamo partecipare alla costruzione; non vivere in una casa non significa essere pericolosi.

Ernesto: proprio qui, dall’altro lato della strada, c’è un cascinale abbandonato, che sta diventando un rudere. Abbiamo chiesto un micro credito al comune di Prato per poterlo acquistare. Lo avremmo ristrutturato noi, con le nostre mani, a nostre spese…ma ce lo hanno negato.

SIETE LADRI?

Nancy: Il furto non è una caratteristica né dei rom né dei sinti, come l’essere mafiosi non è caratteristica degli italiani; le statistiche di delinquenza tra rom e sinti sono le stesse del resto della popolazione italiana. Certamente però i campi nomadi sono dei ghetti, ci sono povertà e miseria soprattutto in quei giganteschi campi delle grandi città ed allora in qualsiasi ghetto e più facile che attecchisca la delinquenza e che la criminalità organizzata si infiltri più facilmente. Ci sono rom e sinti che vengono arrestati per furto, ma questo non autorizza nessuno a dire che l’intero gruppo dei rom e dei sinti è fatto di ladri, come se fosse una caratteristica genetica. Una cosa simile l’hanno detta i nazisti quando hanno mandato i miei parenti nei campi di sterminio; spero siano concetti ormai superati.

E IL LAVORO?

Margherita: Io l’ho sempre cercato, come tanti altri ragazzi e ragazze e mi sono adattata a ciò che ho trovato. Ma quando devo andare a firmare il contratto e, dalla carta di identità, vedono dove vivo o trovano una scusa per non assumermi più o, alla scadenza del contratto, non me lo rinnovano. Adesso mi sono adattata a lavorare in una fabbrica. Lì mi hanno assunta perché sono tutti lavoratori stranieri ed io, pur essendo italianissima, sono percepita come una straniera.

Anche chi è nato in Italia e qui è vissuto, continua a convivere in questa forte contrapposizione tra sinto/rom e gagé, poiché, il paese natale (l’Italia) non ci riconosce come propria parte ma  ci identifica come qualche cosa di estraneo, da emarginare e allontanare; ecco allora il gruppo familiare, la comunità locale zingara che diventa la propria patria, il proprio stato. Si nasce in Italia ma si è zingari, si è stranieri.

MA E’ VERO CHE VI SPOSATE E FATE FIGLI MOLTO PRESTO?

Margherita: In passato era così, ma adesso no. Io, ad esempio, ho 24 anni e non ho neppure un fidanzato, quindi non penso assolutamente né a sposarmi né tanto meno ad avere figli! Ma penso che la stessa cosa fosse per voi “gagé”: anche la generazione dei vostri nonni, che non studiava, metteva su famiglia molto presto.

Ernesto: Io sono un’eccezione, perché sono diventato padre a 16 anni. Non perché lo volessi, ma perché ho messo incinta la mia ragazza di allora (sono divorziato) ed ho voluto assumermi le mie responsabilità. Fortunatamente vivevo in una famiglia con molte donne, mamma e tre sorelle, quindi mi hanno aiutato moltissimo a crescere mio figlio.

E COME FUNZIONA DA VOI IL MATRIMONIO?

Ernesto: (sorridendo) dice “siamo noi che abbiamo inventato le coppie di fatto!”.

Nancy: Non esiste una cerimonia ufficiale, in cui è necessario andare in comune e mettere una firma (certo, chi vuole, può farlo) ma il nostro matrimonio consiste essenzialmente in una “fuitina” (e ride), come credo che avvenisse in passato nel sud Italia se eri rimasta incinta e dovevi far accettare al paese il matrimonio.  I due innamorati fuggono e poi ritornano insieme, ottenendo il perdono delle famiglie. È quindi ormai generalizzato il cerimoniale, per così dire più economico, della fuga nuziale, che continua ad essere rispettato anche dai più giovani e nei casi di matrimoni tra appartenenti a famiglie residenti in campi diversi. Negli ultimi anni si sono registrati anche matrimoni tra appartenenti al popolo rom e gagé.

Il matrimonio celebrato con rito rom, non è riconosciuto dallo stato italiano, ma è l’unico che conta per la comunità, infatti, è da questo momento che ha inizio la vita matrimoniale.

Per noi è previsto anche il divorzio. Nel caso di divorzio alla presenza di figli, l’antica regola è che i figli maschi restino con la famiglia del marito. Per le figlie femmine, pur vigendo la stessa regola, ci sono margini di contrattazione.

VOI VIVETE IN FAMIGLIE ALLARGATE?

Ernesto: per noi la famiglia è molto importante. Ma non solo il nucleo familiare ristretto, ma tutta la comunità. Ad esempio ci aiutiamo molto fra di noi. Poco tempo fa un membro della nostra comunità si trovava in difficoltà economiche a causa di un figlio malato e tutti noi abbiamo fato una colletta e gli abbiamo dato i soldi affinché il bambino fosse operato e curato nei migliori centri specialistici. Le nostre comunità sono caratterizzate da una forte solidarietà tra i diversi nuclei familiari, che si manifesta concretamente con la condivisione, in caso di necessità, di guadagni ed eventuali perdite o danni.

Margherita: La tradizione prevede che con il matrimonio la donna transiti nella famiglia del marito.

Ernesto: (intervenendo) nel caso della mia famiglia è stato tutto il contrario. E’ stato, infatti, mio padre, che era una “gagé” a lasciare la sua vita sedentaria e scegliere di vivere nel campo rom di mia madre, a Lucca.

Margherita: Sempre secondo l’antica tradizione, i genitori vivono e sono accuditi dal figlio più piccolo e da sua moglie; questi devono prendersi cura di loro fino alla morte. Nella nostra società c’è un forte rispetto verso le persone più attempate. È l’anziano che con la sua saggezza indica ai figli la ‘strada giusta’. Il rispetto per gli anziani è un valore molto diffuso anche tra i giovani. Un aspetto della vostra cultura che a noi pare non accettabile è l’abbandono degli anziani, ad esempio in una casa di cura, dove sono lasciati a loro stessi.

E RIGUARDO ALLA DONNA? C’E’ SOTTOMISSIONE?

Ernesto: (che come sempre vuol parlare per primo): no, no, c’è un rapporto del tutto paritetico. Io però non cucino!

Notiamo però che è lui a chiedere alle nipoti di offrirci l’acqua e versarla. Lui non si alza a farlo.

Margherita: anche la donna ha una certa rilevanza e valore, soprattutto una volta divenuta anziana. Comunque a me nessuno ha mai detto chi devo frequentare o ha controllato la mia vita privata.

CHE NE PENSI DELLE ZINGARE, CHE VEDI IN GIRO CON LA GONNA LUNGA, A CHIEDERE L’ELEMOSINA?

Nancy: Si tratta non di sinti, ma di rom di recente immigrazione, che sono molto attaccati ancora alle loro tradizioni. Essi vengono, a differenza di noi sinti, dai Balcani. Sotto l’impero Ottomano del XIII-XIV secolo, i Rom furono sfruttati attraverso una gravosa tassazione. Svolgevano attività prevalentemente artigianali, erano sarti, orefici macellai, ma eseguivano anche attività immonde, come quelle di boia. In Valacchia e Moldavia, i Rom furono oggetto di schiavitù e impiegati nei lavori più svariati, dalla coltivazione della terra alla protezione dei padroni. In questo modello il Rom può mantenere la propria cultura poiché è questa diversità culturale che giustifica il suo inserimento in attività degradanti e immonde.

Coloro che noi vediamo a chiedere l’elemosina o a lavare i vetri sono quelli arrivati nel periodo fra le guerre balcaniche e l’ingresso della Romania nella UE. Arrivano e vengono messi in campi sporchi, privi di ogni decenza igienico sanitaria, vengono marginalizzati. Nessuno offre loro un lavoro, a meno che non lo faccia la criminalità organizzata che spesso si serve di queste persone.  Quindi è normale che, se vengono trattati come bestie, finiscano quasi per divenirlo.

Dopo un paio di ore (fosse stato per noi e per loro saremmo rimasti ben di più) salutiamo la popolosa famiglia di Ernesto; infatti alla spicciolata tutti i figli e nipoti passano dal nonno: c’è il figlio che ha avuto un incidente e ne porta ancora le tracce, c’è la figlia di 44 anni che è di ritorno con i suoi due bambini dal campetto di calcio dove avevano un torneo, c’è la sorellina di Nancy di tre anni.

Ci salutiamo invitandoli a venire a scuola, a raccontare anche agli altri alunni qualcosa sulla loro cultura, al fine di decostruire un pregiudizio fin troppo radicato. E verranno di sicuro! E poi ci rivedremo sul Treno della Memoria.




Conoscere, viaggiando: il Treno della Memoria 2019

Rivelando una grande ed organizzazione, che mostra chiaramente il grande dispendio di energie – morali, organizzative ed economiche – dedicate dalla Regione Toscana e dalla Fondazione Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, la mattina del 20 gennaio alle 12:30 circa, dalla stazione di Firenze, ha avuto inizio l’ XI edizione del Treno della Memoria, dedicato questo anno a Primo Levi, di cui ricorre il centenario della nascita (avvenuta il 31 Luglio 1919).

Il treno porta oltre 600 persone a visitare i campi di Auschwitz e di Birkenau (Auschwitz 2), di cui 555 studenti del triennio delle scuole superiori (ogni docente ne accompagna 8) e 3 del Parlamento Regionale che hanno l’occasione unica di fare questo percorso di formazione etica, ancor prima che storica, insieme a studiosi, rappresentanti delle associazioni (Aned, Anei, Anpi, Arcigay, Sinti e Rom) ed ex deportati. Infatti partecipano al viaggio Andra e Tatiana Bucci, deportate ancora bambine (a 4 e 6 anni); Silva Rusich, figlia di Sergio, deportato politico a Flossenbuerg ed esule istriano; a Cracovia ci raggiungerà Vera Vigevani Jarach, testimone di due storie: esule in Argentina per le leggi razziste del fascismo e madre di Franca, una desaparecida durante la dittatura di Videla.

Il lungo viaggio in treno, circa 22 ore, è stato esso stesso un’importante occasione di conoscenza, perché nel vagone ristorante si sono tenuti 5 workshop – organizzati in particolare dal dott. Luca Bravi del Museo della deportazione – con i portavoce delle varie comunità, nei quali i ragazzi hanno avuto occasione di incontrare, dialogare, ascoltare e porre domande alle varie categorie di vittime della Shoah. Stessa dinamica si svolgerà nel corso del viaggio di ritorno.

[In allegato sono riportate le sintesi dei 5 workshop]




Il cavallino di carta pressata. Ricordi della guerra di un bambino di 5 anni e mezzo.

Il 29 dicembre arrivò la notizia che a Poggibonsi alcune persone (dicevano i Livornesi, scappati dalla loro città a causa delle incursioni aeree americane) entrano nelle case e nelle botteghe per rubare.

Via Trento

Via Trento

Il mio babbo decise di tornare a Poggibonsi soprattutto per verificare se la bottega era chiusa bene…. Il mio babbo e la mia mamma stavano per partire, non volevano portarmi con loro, anche se non c’era sentore di bombardamenti. Io insistetti, piangendo a dirotto, perchè  volevo prendere l’unico balocco che avevo: un cavallino di carta-pressata con le ruotine ed anche alcuni aranci e cavallucci attaccati a un alberello secco che rappresentava il mio primo albero di Natale. I miei si incamminarono, lasciandomi nell’aia; senza inizialmente farmi notare, li seguii giù per la discesa, giunto in fondo mi misi a strillare, non so se dalla paura o dalla voglia di seguire i miei genitori, fatto sta che alla fine il babbo preso dalla commozione disse: “Giù, gnamo, si starà a vede’”. Via verso Poggibonsi. Arrivati in paese si andò in Piazza del Comune a verificare la bottega: tutto bene. … Poi si andò andò a casa, in Via Grandi in fondo a Gallurì. Arrivati a casa, ricordo bene, per prima cosa misi nella tasca di una pastrano (cappotto) rigirato e che mi arrivava ai piedi il mio cavallino. Mentre si stava per cominciare a mangiare qualcosa portata da Linari, si sentì il rombo degli aerei, breve conciliabolo del mio babbo con la mia mamma e via verso il sottoscala; io alla svelta presi e misi in tasca qualche mandarino e due o tre cavallucci. Appena arrivati al sottoscala o forse un pochino prima, insieme al sibilo della sirena d’allarme venne giù l’inferno: boati, scoppi, polvere, fumo. grida. Per un tempo che non so quantificare, tutti fermi e stretti, poi il mio babbo uscì, chiamandoci “E’ passata!” La mia mamma aggiunse “Bisogna andare via subito!” Il mio babbo affermò (ripeto, le parole che riporto sono solo parzialmente da me ricordate, ma rammentate nel racconto di mio babbo; i miei ricordi sono lampi di memoria ma anche, per le scene più dure, sensazioni impresse nella mente in maniera emotiva ma indelebile): “Senza furia, tanto almeno per oggi non c’è pericolo, hanno di già bombardato e poi una vol­ta basta che volete chi ci sia d’importante a Poggibonsi!” Il mio babbo esclamò : “Prima di ritornare a Linari sarebbe il caso di andare a vedere se la bottega è ritta e poi c’è Maria (sua sorella) alla Staggia (a lavare)”. Appena fatti pochi metri ci si accorse che Poggibonsi aveva subito un bombardamento immane. Gente che correva, polvere e fumo, la Via Montorsoli, per arrivare il Piazza del Comune dov’era la bottega, era interrotta all’altezza di Piazza del Teatro che bruciava in un mucchio di macerie, con un fumo acre e denso (era dovuto all’incendio degli scenari, della tappezzeria, dei costumi, del­le pellicole cinematografiche); a me misero un fazzoletto davanti alla bocca per ripararmi dalla polvere, ma l’aria faticava ad arrivare ai bronchi ed ai polmoni.

via suali

Via Suali

Si passò da Via Maestra, ingombrata dalle macerie, poi in Piazza del Comune dove tutto era quasi intatto, anche la bottega; passavano persone con feriti portati sopra le porte o gli scuri­ni delle finestre, che fungevano da lettiga.  Chi correva di qua chi di là, apparentemente senza una meta. La mia zia non era rientrata a casa, in fondo a Via della Rocca, allora il mio babbo decise di andarle incontro. Non si poteva passare tra la Chiesa di sotto ed i Fossi, si tornò un po’ più giù verso l’attuale Coop. In un pezzo di muro rimasto in piedi una visione tremenda: una testa di un cavallo con vicino mezza ruota, attaccati a un brandello di muro rimasto ritto (dopo si seppe che era ciò che restava di Riccardo Barucci, del suo calesse e del suo cavallo, colpiti in pieno da una bomba). Appena arrivati in quella che era la Piazza dell’attuale stazione (nei Fossi) ecco che appare (nonostante l’invito di mia mamma a non guardare) una visione ancora più allucinante: tutto distrutto, morti, persone ferite, pezzi di persone grondanti  sangue sparpagliati tra le macerie e in fondo alle buche  provocate dalle bombe, muri e travi scarnificati.

Due particolari che non sono lampi di memoria ma ricordi chiarissimi. Arrivati a un certo punto, in fondo a una buca c’era un uomo che pareva  vivo, con gli occhi spalancati, immobile. Esclama il mio babbo: “Guarda o che è Lucone![1]” poi lo chiamò: “Lucone o Lu­cone!” Nessuna risposta. “Vieni su, t’aiuto!” gli disse tirandolo per un braccio, ma il braccio si staccò dal corpo, senza sangue! Lo spostamento d’aria lo aveva come smembrato. La mamma mi coprì gli occhi, ma ormai tutto era fissato nella mia mente di bambino come in una indelebile pellicola.

Ci si spostò di lato e arrivati in un posto per me irriconoscibile (poi ho saputo che era ciò che restava del Tondino, così era chiamato un particolare agglomerato di case, sempre nei Fossi) un cagnolino bianco si avvicinò abbaiando insistentemente, il mio babbo lo scacciò, il cagnolino non solo insistette ma lo tirò per i pantaloni, allora si decise a seguirlo, si svoltò dietro un muro sbrecciato, ecco attaccati ad una parete per lo spostamento d’aria, un nonno e un bambino, color cioccolata. “Non guardare” urlò mia mamma. Io non riuscii nemmeno a piangere! Ecco che arrivò la mia zia con la paniera dei panni. Poi, forse perchè pieno di alte emozioni, la mia memoria si è persa… Si arrivò a Linari quando era sempre giorno.

Appena arrivato,  nella mia puerile incoscienza, la prima cosa che feci, fu quella di prendere il mio cavallino di cartapressata e nasconderlo nel tronco vuoto di un vecchio olivo, subito lo coprii con della terra, per nasconderlo da viste indiscrete. Pensai “E se lo met­tessi in una buca? Meglio lasciarlo nell’ulivo così non s’ammolla se piove”  Ebbi ragione, alla fine dello sfollamento lo ripresi sano e salvo come ce lo avevo messo.

Cronologia essenziale

Stazione ferroviaria

Stazione ferroviaria

29 dicembre 1943 – Ore 12,30: il tremendo bombardamento che causa decine di morti e la distruzione di un’ampia zona del centro di Poggibonsi. L’azione è compiuta da 36 bimotori B-26 Marauders, sganciano 104 bombe da 500 libre, erano le ore 13,06.

1944 – I bombardamenti si susseguono, le incursioni saranno decine, alla fine della guerra oltre il 70% di Poggibonsi risulta distrutto (abitazioni, fabbriche, infrastrutture, viabilità stradale e ferroviaria). Questo il riepilogo degli attacchi nel territorio di Poggibonsi (da Franco Del Zanna cfr. nota 2) :

Missioni con aerei bombardieri n. 53, Aerei impiegati n.808, Bombe n. 4.351 per un totale di Tonnellate 1.236

14-18 luglio 1944 – Liberazione di Poggibonsi

[1]          Era il soprannome di un suo biscugino, custode del  mattatoio




«…quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire»

Cingolani-Guidi

Angela Guidi Cingolani

Nella primavera del 1946 le italiane hanno votato nella prima tornata di consultazioni amministrative, ma sono le elezioni del 2 giugno del 1946 ad essersi impresse nella memoria collettiva come un evento storico: quasi 13 milioni di donne, ora pienamente cittadine, hanno votato per eleggere l’Assemblea costituente e hanno scelto tra Monarchia e Repubblica. Tredici donne hanno già partecipato a un altro importante organismo, la Consulta Nazionale, composta da 430 esponenti dell’antifascismo nominati dai partiti politici. Tra loro 5 future madri costituenti[1], tra cui Angela Guidi Cingolani, prima donna a parlare in un’Assemblea istituzionale – la Consulta, appunto – e a chiedere ai colleghi uomini di essere considerata

«come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale»

Filomena Delli Castelli

Filomena Delli Castelli

Alle elezioni del 2 giugno sono entrate in lista pochissime donne, poco meno del 7% di tutti i candidati. Sono state elette 21. Poche, quindi, si sono guadagnate l’onore e l’onere di partecipare attivamente al varo della nuova Costituzione. Ma chi sono? Quali esperienze hanno alle spalle? Cosa rappresenta e cosa potrà fare questo 3,7% su un totale di 556 deputati?

Delle 21 madri costituenti, nove sono del Partito Comunista[2], tra cui cinque fondatrici/attiviste dell’UDI; nove appartengono alla Democrazia Cristiana[3], tra cui 5 tra attiviste o dirigenti della FUCI, altre attiviste del CIF o dell’Azione cattolica; due sono socialiste[4]; una soltanto, Ottavia Penna Buscemi, è eletta nella lista ”Uomo Qualunque”. Impressionante il numero di preferenze che le elette hanno avuto, basti pensare che Bianca Bianchi nel collegio di Firenze ha preso il doppio delle preferenze di Sandro Pertini, il partigiano, l’eroe, il perseguitato dal regime, l’incarnazione di tutto ciò che è stata la vittoriosa lotta antifascista.

Bianca Bianchi

Bianca Bianchi

Rita Montagnana Togliatti

Rita Montagnana Togliatti

La più anziana è Lina Merlin, 59 anni; la più giovane è Teresa Mattei, 25 anni; entrambe parteciperanno ai lavori della “Commissione dei 75”, il ristretto gruppo che materialmente scriverà la Costituzione. Sette madri costituenti[5] sono nate tra il 1887 e il 1900; hanno esperienze politiche e sindacali alle spalle: Angela Merlin è stata una delle prime donne iscritte al Partito socialista, collaboratrice di Matteotti; Rita Montagnana, già iscritta al Partito socialista, è stata con Teresa Noce tra le fondatrici del PCI nel 1921; Angela Guidi è stata iscritta al Partito popolare di Don Sturzo. Molte di loro sono state costrette durante il fascismo a scappare all’estero; Montagnana e Noce, mogli rispettivamente di Togliatti e Longo, sono state esuli in tutta Europa, hanno partecipato alla guerra civile spagnola, in seguito hanno fatto parte dei movimenti resistenziali nei paesi di accoglienza, subendo anche il carcere e l’internamento.

Lina Merlin

Lina Merlin

Teresa Mattei

Teresa Mattei

La maggior parte delle donne che fa parte di questo “gruppo anagrafico” ha una cultura suffragista per via dei forti legami dei partiti clandestini con i movimenti europei. Anche le cattoliche, fortemente impegnate nell’associazionismo, sono state perseguitate o “attenzionate” dalla polizia politica; Maria Federici ha avuto un trascorso all’estero, al seguito del marito, militante antifascista; Elisabetta Conci, presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), di Roma, è conosciuta come la “pasionaria bianca” per la tempra con la quale porta avanti le proprie battaglie politiche e religiose.

Altre sette madri costituenti[6] sono nate tra il 1902 e il 1908, hanno quindi compiuto almeno gli studi superiori non universitari nel periodo liberale, trovandosi poi a dover fronteggiare le privazioni di libertà del periodo successivo. Alcune, soprattutto le comuniste, hanno condiviso la sorte dell’esilio: Adele Bei, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi. Le cattoliche Laura Bianchini, Maria De Unterrichter e Angela Gotelli hanno trovato nell’azionismo cattolico e nella FUCI, di cui sono diventate anche dirigenti, il terreno di formazione culturale e politica. Ottavia Penna, eletta con l’Uomo Qualunque ha assistito i siciliani poveri e i fanciulli abbandonati, ribellandosi alle dure regole del regime sull’ammasso di beni alimentari in periodo di guerra e al mercato nero.

Teresa Noce

Teresa Noce

FEDERICI-AGAMBEN-MARIA-300x300

Maria Federici Agamben

Le 7 madri costituenti più giovani[7] sono nate tra il 1913 e il 1921, sono cresciute e hanno compiuto gli studi durante il regime, hanno respirato pienamente l’ideologia fascista. Non hanno avuto esperienza diretta di attività politica e sindacale, pur tuttavia al fascismo si sono ribellate; molte hanno tratto ispirazione dalle tragiche vicende dei familiari perseguitati o vittime del regime e dell’alleato occupante (lo sono, ad esempio, il padre e il fratello – poi morto suicida per non tradire i compagni partigiani – di Teresa Mattei e i fratelli e il marito di Nadia Gallico).

Il loro primo apprendistato politico, quindi, si è compiuto principalmente nell’ambiente privato per poi riversarsi, in maniera spesso dirompente, sulla scena pubblica. Eclatante, ad esempio, il gesto di una appena adolescente Teresa Mattei: la contestazione pubblica delle lezioni in difesa della razza le costa l’espulsione da tutte le scuole del Regno.

Ottavia Penna Buscemi

Ottavia Penna Buscemi

Elisabetta Conci

Elisabetta Conci

Quasi tutte, comuniste, socialiste e cattoliche, giovani e meno giovani, sono state protagoniste del movimento di Liberazione. Lina Merlin, Laura Bianchini e Angela Gotelli sono state membri del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia; Angela Minella ha fatto parte di una Brigata Garibaldi del savonese; Teresa Mattei è stata combattente di una formazione garibaldina a Firenze e organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna nell’alta Toscana, così come Nilde Iotti in Emilia Romagna e Lina Merlin in Lombardia. Filomena Delli Castelli, Maria Nicotra e Angela Gotelli sono state crocerossine, quest’ultima con compiti di grande responsabilità negli scambi tra ostaggi civili e prigionieri tedeschi; Bianca Bianchi ha fatto la staffetta in Toscana; Maria Federici e Angela Guidi hanno appoggiato in vari modi la lotta antifascista a Roma.

Nilde Iotti

Nilde Iotti

Resistenza civile e Resistenza militare: tutto si è intrecciato nella storia di queste donne. Compresa la Resistenza all’estero: quella di Nadia Gallico in Francia; di Elettra Pollastrini, Rita Montagnana e Teresa Noce prima in Spagna nelle Brigate Internazionali, poi durante la guerra nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Hanno subito il carcere e il confino anche Adele Bei (già attiva nel movimento di Liberazione in Belgio) e Maddalena Rossi, così come Angelina Merlin nei primissimi anni della dittatura.

Adele Bei

Adele Bei

Geograficamente le 21 elette rappresentano tutte le zone d’Italia: Trentino (2), Piemonte (3), Lombardia (2), Veneto (1), Liguria (1), Emilia Romagna (2), Toscana (2), Marche (1), Abruzzo (2), Lazio (1), Puglia (1), Sicilia (2). Nadia Gallico è nata a Tunisi ma ha forti legami con la Sardegna, terra d’origine del marito, Velio Spano, antifascista e perseguitato politico, anch’egli costituente.

angiola minella2Ben 14 delle elette hanno una laurea, le più in filosofia, lettere e pedagogia ma non mancano laureate in lingue e letterature straniere e in chimica.

mariamaddalenarossi

Maria Maddalena Rossi

Quattordici hanno lavorato come insegnanti/maestre; Lina Merlin è stata sospesa dall’insegnamento perché si è rifiutata di prestare giuramento al partito fascista, obbligatorio per i dipendenti pubblici; Bianca Bianchi perché insegnava cultura ebraica nelle sue ore di lezione. Le altre sono state operaie o artigiane (4), una ha lavorato come ispettrice del lavoro. Molte in alcuni passaggi della vita sono state redattrici/giornaliste, occupandosi principalmente della stampa e della propaganda rivolta alle donne. Alcune di loro proseguiranno questa attività anche durante o dopo l’attività parlamentare, la maggior parte di loro nella redazione di “Noi donne”, giornale dell’UDI.

Maria Nicotra

Maria Nicotra

Quattordici madri costituenti sono sposate al momento dell’elezione, molte di loro hanno figli. Lina Merlin è vedova da un decennio; Teresa Mattei, accompagnata ad un uomo sposato, rimarrà incinta durante i lavori dell’Assemblea costituente, la prima “ragazza madre” delle Istituzioni repubblicane. 5 le “coppie costituenti”: Teresa Noce e Luigi Longo; Rita Montagnana e Palmiro Togliatti, Nadia Gallico e Velio Spano; Maria de Unterrichter e Angelo Raffaele Jervolino; Angela Maria Guidi e Mario Cingolani.

Nadia Gallico Spano

Nadia Gallico Spano

Per alcune di loro la situazione familiare avrà ripercussioni sulla carriera politica: isolate progressivamente dal Partito dopo le separazioni da Togliatti e Longo, Rita Montagnana (che sarà abbandonata per un’altra costituente, Nilde Iotti) e Teresa Noce (che saprà dai giornali dell’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota richiesto e ottenuto dal marito) usciranno in breve tempo dall’arena politica; Teresa Mattei, la “maledetta anarchica” nella definizione di Togliatti, “scandalosamente” incinta, entrerà in forte dissidio con un Partito moralista e bigotto e deciderà di non ricandidarsi alle elezioni del 1948. Tre comuniste: per loro lo “scandalo”, subìto o provocato, segnerà la fine dell’esperienza politica.

Elettra Pollastrini

Elettra Pollastrini

Ad esclusione di Mattei, che concluderà l’esperienza politica con la Costituente, la maggioranza delle costituenti, ben 8 di loro, si fermerà dopo la prima legislatura (1948-1953); 3 dopo la seconda (1953-1958), 5 dopo la terza (1958-1963), 3 dopo la quarta (1963-1968). Nilde Iotti, che tra i tanti primati[8] potrà vantare anche quello di essere stata la prima Presidente della Camera nel 1979, sarà eletta ininterrottamente fino alla XIII legislatura nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Laura Bianchini

Laura Bianchini

Non tutte le madri costituenti prenderanno parte ai lavori della “Commissione dei 75”, composta da tre sottocommissioni. Della prima, che si occuperà dei diritti e dei doveri dei cittadini, farà parte Nilde Iotti; Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce saranno membri della terza, che si occuperà dei diritti economico-sociali. Nessuna donna farà parte della seconda, dedicata all’ordinamento costituzionale. Ottavia Penna si dimetterà dopo pochissimi giorni dalla Commissione dei 75, lasciando il posto all’on. Gennaro Patricolo. Angela Gotelli entrerà nella prima sottocommissione nel febbraio 1947 in sostituzione dell’on. Carmelo Caristia.

Angela Gotelli

Angela Gotelli

L’attività di queste 5 madri costituenti si concentrerà soprattutto sul ruolo delle donne nel nuovo assetto sociale, lavorativo e familiare, riuscendo a far inserire nella Carta articoli, commi e in alcuni casi poche ma significative parole (si pensi al “senza discriminazioni di sesso” dell’art. 3 Cost., che dobbiamo a Lina Merlin), che saranno alla base del successivo sviluppo della legislazione a garanzia dei diritti delle cittadine. Le altre 16 saranno molto attive in Assemblea generale con interrogazioni su vari argomenti, non solo concentrate su tematiche tradizionalmente femminili. Quello che colpisce, seguendo il filo delle attività che le lega l’una all’altra, è la consapevolezza che la partecipazione alla Costituente e il varo della Costituzione sono solo i primi passi di un più lungo e tormentato percorso che – sperano tutte, cattoliche, comuniste, socialiste – porterà all’uguaglianza sostanziale tra i due sessi. Per usare le parole di Teresa Mattei: «Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo». Parole profetiche in un’epoca come la nostra dove i diritti delle donne – e con essi la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica – sono rimessi costantemente in discussione.

Vittoria Titomanlio

Vittoria Titomanlio

NOTE:
[1] Elettra Pollastrini, Laura Bianchini, Teresa Noce, Adele Bei e Angela Guidi Cingolani.
[2] Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi
[3] Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio
Maria De Unterrichter Jervolino
Maria De Unterrichter Jervolino
[4] Angelina Merlin e Bianca Bianchi
[5] In ordine di anno di nascita: Angelina Merlin, Rita Montagnana, Elisabetta Conci, Angela Guidi Cingolani, Vittoria Titomanlio, Maria Federici, Teresa Noce
[6] Maria De Unterrichter Jervolino, Laura Bianchini, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Angela Gotelli, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini
[7] Maria Nicotra, Bianca Bianchi, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Leonilde Iotti, Teresa Mattei
[8] Nel 1987 è incaricata dal Presidente della Repubblica Cossiga di mandato esplorativo per la soluzione della crisi di governo, sfociata poi nelle elezioni anticipate; un doppio primato: fu la prima donna e la prima comunista a ricevere tale incarico.



La città in guerra. Cittadini e profughi tra il 1915 e il 1918

La mostra La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918, allestita a cura dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e dell’Associazione “Storia e Città” di Pistoia, è nata dall’unione di due distinti progetti per soddisfare molteplici obbiettivi. Sull’onda del “Centenario della Grande Guerra” e della nomina di Pistoia a “Capitale italiana della Cultura 2017”, La città in guerra è stata un tassello cardine di un ciclo divulgativo pluriennale su Pistoia durante il primo conflitto mondiale, inaugurato nell’autunno 2015 dall’Associazione “Storia e Città” con la mostra Pistoia 1914-1915. Dalla neutralità all’intervento e che si concluderà nel 2019, con un allestimento dedicato alla memoria e all’eredità culturale, sociale e politica della Grande Guerra.

L’allestimento ha cercato di fare una divulgazione esteticamente efficace e scientificamente rigorosa, con l’obbiettivo di indurre una riflessione su un momento storico di fondamentale importanza, raccontando il conflitto bellico in tutta la sua complessità, in un continuo dialogo tra il piano generale e locale. In ragione di questo, si è sottolineato come il conflitto abbia causato profonde trasformazioni politiche, economiche, sociali e culturali anche a Pistoia, nonostante la città si trovasse distante dalla zona di guerra. La città e i suoi spazi hanno avuto un ruolo centrale nel percorso espositivo, rimarcando gli snodi dell’esperienza bellica pistoiese: le difficoltà dell’approvvigionamento annonario, l’ospitalità ai profughi, la gestione dell’apparato economico, il ritorno dei feriti dal fronte, l’organizzazione degli spazi culturali e di propaganda, le lettere e i diari dei soldati, l’opera dei comitati di mobilitazione civile, il comportamento del clero e delle forze politiche.

I due enti organizzatori hanno scelto di concentrare l’attenzione su Caporetto e sulla fase successiva, in modo da concedere ampi spazi alla vicenda dei profughi veneti e friulani, provenienti dai territori invasi: un fatto storico di grande interesse. Gli esuli riparati nel fronte interno diventarono un segno concreto di una guerra vicina e incombente. Inoltre, l’accoglienza si rivelò problematica, non soltanto a causa della situazione interna italiana, ma pure per difficoltà d‘integrazione tra le popolazioni ospitate e ospitanti. Tenendo sempre in considerazione le vicende nazionali, il progetto si è focalizzato sui profughi ospitati a Pistoia, provenienti in buona parte da Belluno e Treviso, con le rispettive amministrazioni comunali e vari enti economici delle due città. A riprova di questo legame, le amministrazioni comunali della due città hanno concesso il loro patrocinio e il Comune di Belluno ha presentato i materiali già esposti nella mostra didattica “An de la fan. Belluno invasa, 10 novembre 1917 – 1 novembre 1918”, tenutasi nelle scuole superiori di Belluno nel biennio 2015-2017 e curata dall’Archivio storico del Comune di Belluno. Parlare del caso di Pistoia era importante anche per osservarne alcune peculiarità, poiché – secondo lo storico Giampaolo Perugi – il fenomeno causò meno problemi che altrove, sebbene la complessità del tema e varie lacune nelle fonti non permettano di giungere a un giudizio storico adeguatamente comprovato.

L’incontro tra diverse sensibilità storiche ha poi fatto sì che la mostra avesse un approccio multidisciplinare, affrontando tematiche di storia culturale, storia politico-istituzionale, storia sociale, storia militare e storia dell’esperienza. L’allestimento si dipanava lungo quattro sale tematiche, rispettivamente dedicate al conflitto combattuto al fronte, al rapporto tra Cinema e Grande Guerra, ai profughi e, infine, alle vicende di Pistoia durante il conflitto. La narrazione storica è stata fatta soprattutto attraverso pannelli divulgativi a parete, con testo e immagine o una testimonianza diretta d’accompagnamento. A fianco di questa soluzione, la mostra ospitava vari supporti multimediali, interattivi e non, e sagome di soldati e civili, ricavate da foto dall’Archivio storico del Comune di Belluno e parte della mostra An de la fan. La mostra esponeva anche  documenti e oggetti d’uso comune, sia bellici che civili, provenienti da archivi pubblici e collezioni private, con l’idea di fare un’operazione di “archeologia viva”, ossia far conoscere la storia attraverso il manufatto e l’oggetto.

I molteplici dispositivi divulgativi hanno permesso di raggiungere un vasto pubblico, grazie anche a una campagna promozionale fatta tramite volantinaggio, social network e passaparola. Infatti, sono stati registrati più di 5.000 visitatori. Sono state attratte varie fasce d’età, in particolare persone tra i 40 e i 50 anni, anche se ha sorpreso vedere sparuti gruppi di giovani visitare l’allestimento negli orari extra-scolastici e soffermarsi a lungo sulle vicende raccontate. Visitatori non soltanto pistoiesi, ma anche di altre città italiane ed europee, che sono passati in visita alla mostra richiamati a Pistoia per la sua nomina a Capitale italiana della Cultura.




Dal Serchio al Piva: i lucchesi della “Garibaldi”

Dal settembre 1943 al marzo 1945 nei Balcani migliaia di soldati italiani provenienti dal disciolto Regio esercito combattono contro i tedeschi nelle file di quegli stessi movimenti di resistenza sino ad allora ferocemente cacciati e repressi: brigate partigiane interamente composte da italiani si formano in tutti i paesi precedentemente occupati dalle nostre truppe e soprattutto in Jugoslavia, dove il fenomeno assume una particolare consistenza e si registra la presenza di numerosi combattenti toscani. Come il fiorentino Brunetto Parri, militante comunista e disertore in Croazia al fianco dei partigiani di Tito, nome di battaglia “Spartaco” (in memoria dell’omonimo ferroviere Lavagnini, ucciso dagli squadristi nel 1921); o il carabiniere massese Mazzino Ricci, il “Ridji” protagonista di una canzone popolare montenegrina che ne canta l’abilità con la mitragliatrice Breda.

È proprio in Montenegro che ci imbattiamo in numerosi soldati originari della provincia di Lucca, appartenenti ai reparti della divisione di fanteria da montagna “Venezia”: inviata nel paese nel luglio 1941 allo scopo di reprimere l’insurrezione che minaccia di compromettere il controllo italiano sulla regione, dopo l’otto settembre – con i suoi oltre 12mila effettivi – costituirà assieme ai reparti alpini della “Taurinense” il nucleo principale della divisione italiana partigiana “Garibaldi”, costituita ufficialmente il 2 dicembre 1943. Di alcuni di questi soldati perdiamo ogni traccia prima dell’armistizio: come i massarosesi Attilio Lipparelli di Quiesa (classe 1921) e Idilio Albiani di Pieve a Elici (1912), le cui ultime notizie risalgono rispettivamente al mese di agosto e al 3 settembre 1943 (sebbene per Albiani si parli di una sua presenza non confermata a Belgrado nel 1944). Più fortunati saranno i loro concittadini Francesco Coppedè e Angelo Cosci, rientrati in Italia nel giugno 1945 il primo e in aprile il secondo: quello di Cosci è un caso più unico che raro, essendo egli approdato alla “Garibaldi” dopo aver servito nel LXXXVI battaglione delle camice nere, rimaste alleate dei tedeschi. Restano ignoti i motivi dietro la sua scelta.

Al momento dell’armistizio la “Venezia” presidia l’area orientale del paese ai confini con il Kosovo, dove le truppe tedesche ancora non sono giunte: il comandante della divisione, generale Oxilia, si pronuncia fin da subito per la resistenza, ma è incerto rispetto alla condotta da adottare nei confronti dei partigiani così come dei reparti collaborazionisti cetnici, ferocemente anticomunisti. Mentre l’azione del generale è paralizzata dalla questione delle alleanze, i tedeschi cominciano a muoversi: uno dei primi tentativi di infiltrazione delle linee di difesa italiane è sventato dalla XI compagnia del capitano Paolo Bardini di Seravezza, che fa aprire il fuoco su una colonna di autocarri tedeschi che si erano messi in movimento col favore della notte.

Nel mese di novembre la “Venezia” è ormai convertita alla guerra partigiana, dopo gli accordi di Kolasin fra il capitano Mario Riva e il comandante partigiano Peko Dapcevich stipulati alla fine di settembre (e ratificati in ottobre dai comandi italiani). Non è una facile convivenza per soldati nati e cresciuti sotto il fascismo, nutriti da anni di propaganda anticomunista: come scriverà il reduce Enrico Bedini, di Gombitelli, “la parola comunista mi dava un senso di terrore. Avevo sentito parlare di loro come degli orchi delle fiabe e il mio animo era impressionabile come quello di un fanciulletto”. Numerosi soldati cadono in combattimento in quelle settimane: l’ufficiale Lando Mannucci, allora a capo del I battaglione che difende Kremna dall’assedio di reparti tedeschi e bulgari, ricorda la presenza di tre lucchesi fra i caduti (Guido Mencacci, Bruno Munari e Giovanni Salvietti, decorati alla memoria). Il 30 novembre, pochi giorni prima della fondazione della “Garibaldi”, cade invece durante l’assalto ad un caposaldo tedesco, colpito da una bomba nemica, Ottavio Cavalzani (nato a San Gennaro di Lucca nel 1914).

La neo-costituita divisione vive subito un duro battesimo del fuoco: il 5 dicembre i tedeschi scatenano quella che nella storiografia jugoslava viene ricordata come la “VI offensiva”, giunta tanto più inaspettata in quanto avviata alle soglie di quello che si preannuncia come un inverno particolarmente rigido; è probabilmente nelle primissime fasi di questa operazione che viene fatto prigioniero Luigi Gemignani – classe 1921, di Massarosa – per il quale si apre la dura stagione dell’internamento (dapprima per mano dei tedeschi, che lo deportano forse in Bielorussia, quindi nuovamente quando i sovietici liberano il campo dove era stato internato, reclamando gli italiani come prigionieri di guerra, prima di tornare in Italia nel novembre 1945).

Nelle settimane successive all’attacco tedesco le brigate sono divise, e devono combattere duramente contro il clima, la fame e i ripetuti agguati nemici: a tutto questo si aggiunge, nel gennaio 1944, un’epidemia di tifo. I comandi partigiani, a fronte della situazione sempre più drammatica, decidono in febbraio di inviare parte delle forze italiane in Bosnia, anche alla luce della carestia che ha colpito il Montenegro, la cui popolazione non può più sostentare i combattenti: è probabilmente durante una di queste marce interminabili attraverso il territorio bosniaco – vera e propria epopea del dolore che segna indelebilmente la memoria della “Garibaldi” – che il fante Giovanni Paladini, nato a Mutigliano nel 1921, subisce il congelamento di entrambe le gambe, fortunatamente non grave al punto da richiederne l’amputazione, ma che gli lascerà problemi di circolazione che lo tormenteranno tutta la vita. Sono mesi durissimi, durante i quali, ricorderà ancora Paladini in uno dei rari racconti che farà alla famiglia degli anni di guerra, il cibo scarseggia al punto che i soldati debbono nutrirsi di bucce di patate: la drammaticità di quei frangenti non incrina però l’affetto di Paladini per la popolazione locale, che raramente nega la propria solidarietà e assistenza agli italiani. Nello stesso anno sempre in Bosnia nel mese di maggio cade, dopo una strenua resistenza allo scopo di favorire l’arretramento dei propri uomini su posizioni più facilmente difendibili, Giovanni Giuliani, nato a Barga nel 1921, già caporale di reggimento nella “Venezia”. Solo poche settimane prima la Bosnia è stata il teatro della tragedia del capitano Pietro Marchisio, ucciso dal tifo e dalle marce estenuanti per riportare nel più sicuro Montenegro i propri uomini: è un lucchese, il sergente maggiore Emilio Boy, ad aiutare Marchisio ad attraversare la pericolante e malridotta passerella di assi e corda sul fiume Piva, trasportando il capitano e molti altri soldati ammalati sulle sue spalle.

Spostandoci dalla Bosnia alla Serbia troviamo Amadeo Paolettoni, lucchese, classe 1921, già della “Venezia” e poi attivo nella brigata “Italia” (l’altra grande formazione partigiana interamente italiana attiva in Jugoslavia), caduto a Belgrado nell’ottobre 1944 durante una missione di rifornimento munizioni. Poco più di due mesi dopo, il 1° gennaio 1945, il Montenegro è completamente liberato, e verso la metà di febbraio i reparti garibaldini – reduci dalla battaglia per la liberazione di Mostar in Erzegovina combattuta quello stesso mese – ricevono l’ordine di concentrarsi a Dubrovnik in vista del rimpatrio, che avviene a partire dall’otto marzo: non tutti i soldati però rientrano immediatamente. Numerosi sono i dispersi che per quasi un anno continueranno ad affluire alla base italiana di Dubrovnik, così come non mancano i casi nei quali gli stessi jugoslavi, ancora in guerra, trattengono gli italiani – soprattutto il personale sanitario – presso le proprie brigate: è quello che accade all’ufficiale medico Giuseppe Marchetti, nativo di Pescaglia, rimasto in servizio in qualità di direttore chirurgico dell’ospedale militare della XXIX divisione d’assalto Erzegovina fino al 24 maggio 1945.