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Fare i lavoratori?

Trascurate dalla legge Casati – che non le aveva previste -, introdotte in silenzio nel 1878, con una circolare emanata dal Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio Benedetto Cairoli, ancora all’inizio del XX secolo le scuole industriali e artistico-industriali conservavano la dimensione informe di una disordinata galassia educativa. Designate le prime per i futuri capi-officina e le seconde per gli artigiani, analogamente agli altri tre indirizzi dell’istruzione professionale (agrario, commerciale e professionale femminile) erano state affidate, diversamente dalle altre scuole, alle cure delle amministrazioni locali e private, che fino al 1913 poterono autonomamente definirne fondazione, organizzazione e curricula.

Quando ottennero nel 1907 l’ambito riconoscimento statale con la legge Cocco-Ortu, le scuole industriali e artistico-industriali stavano conoscendo da più di dieci anni un’espansione di tutto rispetto. La Toscana, dal 1900 la quarta regione con più iscritti, pur avendo assistito tra 1891 e 1902 a un buon incremento degli studenti (che aumentarono da 2948 a 3505), nei sei anni successivi era stata protagonista di un’inattesa contrazione, che aveva riportato gli studenti a 2855 proprio quando a livello nazionale aumentavano senza sosta le iscrizioni a questo nuovo tipo di istruzione.

Eppure, proprio in quegli anni la regione aveva assistito alla fondazione di numerosi istituti: la scuola per i piccoli laboratori forestali di Stia (Arezzo), le scuole industriali “Leonardo da Vinci” di Firenze e “Antonio Pacinotti” di Pisa e Pistoia e la riapertura della scuola di disegno di Cascina (Pisa) arricchirono un panorama in cui già operavano le scuole di disegno di Seravezza (Lucca), Lucca, Empoli, Pescia e Sesto Fiorentino, quelle industriali di Siena e Colle Val d’Elsa e la scuola per le arti tessili e tintorie di Prato, foggiata sulle orme del più famoso istituto biellese. Le numerose scuole di disegno fiorentine, ruotanti intorno alla prestigiosa Scuola superiore d’arti applicate all’industria cittadina, completavano il quadro.

La portata del rinnovamento è evidente: il reticolo regionale delle scuole di disegno serali e domenicali, rivolte soprattutto a operai e artigiani semianalfabeti, fu arricchito in pochi anni da quattro scuole industriali diurne, i cui macchinari erano destinati alla formazione di una nuova classe di capi-operai. Anche il curriculum, che oltre al disegno prevedeva le materie tecnico-scientifiche (fisica, tecnologia, meccanica, la nuova e sperimentale elettrotecnica) e la pratica dell’officina, era più ambizioso rispetto a quello delle scuole serali, incentrate sulla pratica del solo disegno. Nelle intenzioni dei fondatori, le nuove scuole erano istituti congeniati per i figli della piccola borghesia e degli operai specializzati, che, secondo la diffusa opinione di politici e docenti, dovevano essere distolti dai ginnasi-licei e dalle scuole tecniche. Furono tuttavia questi gli obiettivi raggiunti?

I dati sul collocamento e sulla provenienza sociale degli allievi per i primi anni del XX secolo sono discordanti. Non vi sono informazioni sulle scuole toscane di disegno; sono disponibili però quelle su Prato e Pistoia, che indicano, tanto nel primo quanto nel secondo caso, una netta prevalenza dei futuri industriali e dirigenti, in consonanza con quanto accadeva nelle altre regioni.

Ancora tutta da scrivere, invece, è la storia degli studenti nelle scuole di disegno serali e domenicali: i dati disponibili per le altre regioni (come quelli di Padova, di Luino, provincia di Como, e di Viggiù, vicino Varese) evidenziano la loro vicinanza ai bisogni e agli obiettivi degli operai e dei piccoli artigiani, effettivamente attratti da un corso di studi che, a differenza dei nuovi e costosi istituti diurni, erano frequentabili anche da chi non poteva posticipare l’ingresso nel mondo del lavoro dopo le prime classi elementari.




Un monument man poco conosciuto

Analizzando i complessi intrecci di eventi e personaggi che ebbero come sfondo la difesa dell’arte in Italia durante la Seconda guerra mondiale, il nome di Giorgio Castelfranco (1896-1978) non è forse tra i più noti. Tuttavia lo storico dell’arte ebreo, allontanato nel 1938 dalla prestigiosa direzione della Galleria di Palazzo Pitti in occasione della visita del Führer e cacciato definitivamente il 1° febbraio 1939 per effetto delle leggi razziali, è tra le figure centrali nella salvaguardia del patrimonio artistico dell’Italia all’alba della Liberazione.

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De Chirico, Ritratto di Giorgio e Matilde Castelfranco, 1924 (Fondo Castelfranco, archivio Bernard Berenson, I Tatti)

Castelfranco nacque nel 1896 da un’agiata famiglia ebrea e, dopo la laurea in Lettere a Firenze, sposò la cugina Matilde Forti, con la quale andò a vivere nel villino di Lungarno Serristori a Firenze, oggi Museo Casa Siviero. Il villino Serristori vide ospiti illustri, come Giorgio De Chirico, di cui Castelfranco divenne il maggior collezionista, e un giovane Rodolfo Siviero, all’epoca agente del SIM e meglio conosciuto oggi come lo “007 dell’arte”.

A seguito delle leggi razziali, Castelfranco fu quindi costretto a lasciare la Soprintendenza e a vendere la sua collezione per poter mettere in salvo i figli in America; nel 1942 salutò definitivamente la sua residenza fiorentina (che divenne il quartier generale di Siviero e della sua “squadra” di partigiani) per nascondersi nelle Marche. Con l’Armistizio (8 settembre 1943) si schiuse la possibilità per Castelfranco di offrire, dopo anni, la sua professionalità a servizio della salvaguardia del patrimonio artistico italiano e di ricominciare a vivere. Dopo esser riuscito a passare il fronte attraverso le montagne abruzzesi il 7 novembre 1943, venne finalmente riassunto a decorrere dal 1° dicembre 1943 dal governo Badoglio.

Dal febbraio all’aprile 1944, Castelfranco fu comandato a Salerno in qualità di Direttore reggente alle Belle Arti: in collaborazione con gli ufficiali alleati della sezione Monuments, Fine Arts, and Archives, riattivò il lavoro delle Soprintendenze del Sud e iniziò la ricostruzione degli edifici danneggiati.
Uomo mite, di grande intelligenza e cultura, con raro attaccamento al dovere e senso di responsabilità, nell’estate del 1944 si spostò a Roma e poi in Toscana, inviato a esaminare i depositi dove la Soprintendenza alle Gallerie di Firenze aveva ricoverato le opere d’arte dei musei. In particolare Montagnana e Montegufoni, nel comune di Montespertoli, dove lo attendevano, tra gli altri capolavori, la Primavera di Botticelli e la Maestà di Giotto.

Dopo la Liberazione di Firenze, Castelfranco si trasferì definitivamente a Roma, dove l’amico Siviero aveva creato un piccolo ufficio per il recupero delle opere d’arte sotto il Ministero della Guerra; successivamente l’Ufficio, subordinato al Ministero della Pubblica Istruzione, fu ufficialmente costituito a Firenze nel 1945 e in seguito istituito con decreto luogotenenziale a Roma nel 1946, sotto la supervisione del Ministero della Pubblica Istruzione, in accordo con i Ministeri della Guerra e degli Esteri. Siviero fu nominato responsabile del nuovo ente e della missione che il governo italiano inviò in Germania, su invito del governo militare alleato, per iniziare le pratiche di restituzione dei beni artistici requisiti dai nazisti.

Una delegazione di 14 membri, di cui entrò a far parte Castelfranco in qualità di rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione, iniziò i lavori nell’autunno 1946, presso il Collecting Point di Monaco, dove si raccoglievano le opere recuperate dai depositi tedeschi.

Nel lavoro di indagine e identificazione delle opere d’arte di provenienza italiana trafugate dai nazisti in Germania, Castelfranco svolse un ruolo chiave: la sua permanenza a Monaco durò circa tre mesi, parte dei quali egli fu il principale incaricato per le questioni artistiche. Il lavoro di Castelfranco si concentrò sulla ricerca e catalogazione di pezzi provenienti dal Museo Archeologico e dalla Pinacoteca di Napoli (futura Galleria di Capodimonte), trafugati durante la guerra dal deposito di Montecassino e recuperate dal deposito di Altaussee presso Salisburgo. Nel novembre 1946 l’imballaggio dei materiali reperiti nell’”immenso deposito” bavarese fu concluso, ma si aprì una complessa procedura relativa al rimpatrio, che si sarebbe conclusa nell’agosto del 1947.

Il risultato della missione fu il ritorno in Italia delle oreficerie e dei bronzi antichi del Museo Archeologico, nonché dipinti famosissimi di Tiziano, Raffaello, Parmigianino, Sebastiano del Piombo provenienti dalla Pinacoteca. A queste si aggiunsero cinque campane provenienti dalla provincia di Lucca rinvenute a Regensburg.

5 mostra 1947 foto 3 Siviero Clay DeNicola DeGasperi Gonella e Danae di Tiziano

Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania alla Villa Farnesina (1947). Da sinistra Rodolfo Siviero, Lucius Clay, Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi e Guido Gonella all’inaugurazione della mostra il 9 novembre 1947, ritratti accanto alla Danae di Tiziano (Biblioteca Casa Siviero)

Le opere furono ufficialmente consegnate alla delegazione italiana il 7 agosto 1947 e fin da subito iniziarono i lavori per organizzare una grande mostra alla Villa Farnesina a Roma. Nelle settimane successive fu lo stesso Castelfranco a curare, nella sua veste di alto funzionario del Ministero, la preparazione, l’allestimento e il catalogo della prima “Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania”, che aprì i battenti il 10 novembre 1947.
L’inaugurazione si tradusse in una cerimonia ufficiale ed ebbe un significativo risalto sulla stampa italiana, che sottolineò diffusamente il valore delle opere esposte e la valenza risarcitoria della restituzione. Alla manifestazione parteciparono De Gasperi, il presidente della Repubblica De Nicola, il ministro della Pubblica Istruzione Gonella e il ministro degli Esteri Sforza, l’ambasciatore James Clement Dunn, il governatore militare della zona di occupazione statunitense in Germania Lucius Clay, Robert Murphy, consigliere politico per gli affari europei del dipartimento di Stato USA e un ampio staff di funzionari statunitensi.

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Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania alla Villa Farnesina (1947): la Sala delle Prospettive con i bronzi antichi del Museo Nazionale di Napoli (Fondo Castelfranco, archivio Bernard Berenson, I Tatti)

Nella prima rassegna di “capolavori recuperati”, presentati in un allestimento volutamente sobrio sullo sfondo degli affreschi rinascimentali della Villa, spiccavano i bronzi romani e la collezione di oreficeria antica del Museo Nazionale di Napoli, nonché i capolavori provenienti dall’attuale Galleria di Capodimonte di Napoli, come la Danae di Tiziano, prediletta da Göring, scelta come immagine simbolo di tutta la mostra.

Aurora Castellani, Francesca Cavarocchi, Alessia Cecconi sono le curatrici della mostra “Giorgio Castelfranco: un monument man poco conosciuto” (Firenze, Museo Casa Siviero, 31 gennaio-31 marzo 2015).




Andrea Devoto

Il lavoro di Andrea Devoto (fiorentino, 1927-1994), psichiatria, psicologo, ma anche storico, attraversa tutta la seconda metˆà del Novecento. Docente in psicologia sociale, fu tra i primi a occuparsi dei lager. Nel 1960 usciva La tirannia psicologica (Sansoni), seguito a un anno di distanza da Il linguaggio dei lager: annotazioni psicologiche (in «Il movimento di Liberazione in Italia», n. 65, 1961), mentre nel 1962 pubblicava Psicologia e psicopatologia del lager nazistan. 9, 1962). Giàˆ nel 1964 dava alle stampe uno strumento di orientamento, la Bibliografia dell’oppressione nazista (Olschki, a cui aggiungevaˆ un secondo volume nel 1983), dove elencava le prime opere di memorialistica, antologie e studi.

In questa prima fase, un’epoca durante la quale gli studi erano ancora pochi, Devoto, lavorava assiduamente alla ricostruzione di quanto avvenuto, ricostruendo i meccanismi di funzionamento dei campi, collezionando immagini, elaborando e confrontando le piante dei lager, delineando le differenze tra KL e VL. Al tempo stesso, iniziava a riflettere, partendo dalla propria disciplina, su quanto avvenuto alle persone, sulla loro esperienza fisica ma anche emotiva-mentale durante il trasporto e poi dentro il lager, discutendo i primi lavori usciti sul tema, come quelli di Betteleheim (giˆà del 1943), Kogon (1946), Frankl (1947) e Cohen (1952). Devoto rifletteva sui processi all’interno dei quali passava la vittima, dallo sradicamento, con la conseguente crisi d’identitàˆ e il portato di stress continuo, fino alla desocializzazione/risocializzazione dell’individuo nel nuovo contesto concentrazionario, che poteva portare a vari esiti, dalla resa completa allo sviluppo di meccanismi di autodifesa fino a forme di resistenza, sia individuali che collettive.

Il suo interesse per le istituzioni totali, seguendo Goffman, lo porta ad analizzare le esperienze della deportazione e del lager alla luce delle categorie analitiche a lui più familiari. L’oppressione nazista può˜ essere scomposta in tre aspetti: persecuzione, deportazione e sterminio, ed il lager, come sistema, un elemento fondante del nazismo, uno strumento di cui nessun regime “assolutista” potràˆ mai più fare a meno nel futuro. Devoto sostiene, anticipando molti, la necessitàˆ di smettere di considerare il nazismo, ed i suoi crimini, come un qualcosa di unico e di irripetibile. Si deve semmai capire come sia possibile giungere, in determinate situazioni, ad estremizzazioni del genere. Ritiene pertanto che si possano mutuare utili strumenti d’indagine facendo collegamenti e paragoni con situazioni, se non normali, almeno accettate, quali i disastri, le istituzioni totali, l’aggressivitàˆ e l’uso della violenza.

Da psicologo, lavorando sui testimoni, sviluppa ricerche prossime ai metodi della storia orale. Non a caso, partendo dai testimoni, arrivaˆ ad interrogarsi e ad analizzare le esperienze dei sopravvissuti dopo la liberazione. Comincia qui la seconda fase del suo lavoro, giunta a piena maturazione negli anni ′80, in collaborazione con l’Aned del Piemonte. Non solo la raccolta delle testimonianze, ma anche le forme e i modi per la loro condivisione paritaria ed empatica, che liberi i sopravvissuti dalla sindrome di diversitàˆ che trattiene ancora il lager dentro di loro.

Per Devoto non solo un’operazione psicologica e didattica, ma una vera e propria proposta di pace da rivolgere al mondo. Su questa scorta lavoraˆ con l’Aned alla raccolta di circa 70 interviste a sopravvissuti toscani tra il 1987 ed il 1989. Sono gli anni in cui, come testimonia il suo archivio recentemente riordinato, Devoto si dedica a un’opera, rimasta incompiuta, per la quale prevedeva vari titoli compresi nella dizione “dall’isolamento alla condivisione del ricordo”, e che solo parzialmente hanno visto la luce in forma stampata nell’ultimo frutto dei suoi lavori, affidato nel 1992 ad Ilda Verri Melo, dal titolo emblematico de La speranza tradita.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel marzo 2014.




Italie di burro e gigli di lampadine

Nel 2011, i negozianti delle vie del centro  Firenze – con un’alta concentrazione soprattutto lungo un percorso che si snodava da Borgo La Croce fino a Palazzo Vecchio – sono stati invitati a allestire delle vetrine “patriottiche” per la sera del 17 marzo. L’idea non era nuova, anzi era una riproposizione, seppure in chiave minore della “Mostra delle Botteghe” che si era svolta nella città nel 1911. Nel passare in rassegna le vetrine colpiva la una netta prevalenza della scelta di esporre vetrine tricolori e risultava quasi del tutto assente la presenza del giglio fiorentino; ciò che invece era rimasto a distanza di cento anni dalla precedente manifestazione era, ancora una volta, il riferimento alla artigianalità, sia negli allestimenti delle botteghe  – ad esempio una tipografia di via del Corso aveva esposto un torchio dal quale usciva la stampa della notizia della breccia di Porta Pia -, sia nella mostra in Piazza del Duomo, dove per volere del comune, alcuni artigiani erano stati chiamati per dare dimostrazioni delle loro creazioni.

La mostra del 1911, nasceva da una collaborazione con la Camera di Commercio e con la Società degli esercenti e mirava a coinvolgere il ceto medio fiorentino per enfatizzare «il sentimento artistico quale non poteva mancare nella nostra Firenze, culla dell’arte e del bello»[ ACF, FCFE, CF5055], e la tradizione artigianale e commerciale della città. Una parte consistente di essa era infatti formata da botteghe artigiane, piccoli negozi al dettaglio e venditori ambulanti che, ancora ad inizio secolo «costituivano un blocco storico […] che nessun mutamento ambientale, non escluso lo sviluppo dell’industria, era riuscito a demolire» [Spini, Casali, 1986, p. 200]. Secondo gli studi demografici di Ugo Giusti, gli esercizi commerciali in Firenze, nel 1911, erano 5034, la grande maggioranza dei quali impegnavano al massimo 5 lavoranti. Il quadro che ne emerge è quello di una città caratterizzata da piccole imprese artigianali presenti soprattutto nei rioni popolari come Santa Croce e nelle zone d’Oltrarno. Il centro, infatti, ad esclusione del quartiere popolare di Santa Croce, aveva la maggiore presenza di negozi di grandi dimensioni, con il 60% degli esercizi con un numero di addetti tra 10 e 25, e il 50% di quelli con più di 25 lavoratori [Pellegrino, 2004, p. 167].

1La mostra fu strutturata in tre date – il 29 aprile, il 7 e il 14 maggio – ognuna corrispondente ad un rione: Mercato centrale, centro e Oltrarno. La commissione, nell’indire il bando di concorso, si diceva certa che «i commercianti fiorentini, mai secondi nelle manifestazioni patriottiche, risponderanno anche questa volta collo stesso entusiasmo all’appello del comitato, tanto più che ora trattasi di una ricorrenza non solo fiorentina, ma italiana, alla quale devono partecipare quanti hanno sentimento di italianità»; e chiedeva loro di allestire le proprie mostre con «originalità di lavoro e sentimento artistico, quale non poteva mancare nella nostra Firenze, culla dell’arte e del bello»[ ACF, FCFE, CF5055].

 A fronte di un vasto numero di vetrine addobbate senza un tema specifico, molti negozianti presentarono temi più elaborati: la vocazione artigianale fiorentina, la celebrazione della città stessa, il patriottismo nazionale.

La rappresentazione di Firenze fu un filo conduttore puntualmente sottolineato nelle cronache dei giornali cittadini. La città era rappresentata in modi diversi, ricorrendo ai simboli, ai personaggi significativi del passato, a vedute caratteristiche e alla valorizzazione delle antiche radici artigiane fiorentine.
Il simbolo più usato fu sicuramente il giglio bottonato rosso, spesso associato al tricolore, come nella «facciata dell’elegante negozio dell’antiquario Bartolozzi, dove un giglio fiorentino formato da numerose lampadine rosse sormontava l’ingresso principale del magazzino» [«Il Fieramosca», 15 maggio 1911]. Il giglio, oltre che al tricolore, era talvolta anche associato alla Stella d’Italia, come nelle esposizioni della ditta dei «Fratelli Quercentani, proprietaria di un negozio di cibarie e di salumi che aveva fatto una bella mostra dei suoi prodotti. Infatti, con uno squisito gusto artistico erano stati fatti dei bellissimi mosaici di fagioli, riproducenti la Stella d’Italia, il giglio fiorentino e la bandiera nazionale, gli stemmi della città di Roma e di Firenze» [«Il Nuovo Giornale», 15 maggio 1911.]. Il giglio prevaleva nettamente nei quartieri dell’Oltrarno, mentre appariva una sola volta nel rione del centro, e in quello del Mercato centrale [«La Nazione», 30 aprile 1911]. «Il Fieramosca» notava che «i buoni esercenti di là d’Arno sono meno entusiasti di quelli del centro nel comporre addobbi o mostre festive, e infatti, oltre ai negozi che abbiamo menzionato altri erano aperti al pubblico, nell’ordine di tutti i giorni» [«Il Fieramosca», 15 maggio 1911.]: si può pertanto concludere che l’elemento decorativo più presente in questi rioni fosse quello che rappresentava la città. Firenze era celebrata in Oltrarno anche tramite la ricreazione di vedute caratteristiche della città e, ancora una volta, questo avveniva solo in questa zona. In particolare, si poteva ammirare «in piazza Piattellina, nel negozio del signor Montelatici Emilio, una ben riuscita riproduzione del Duomo e del campanile di Giotto, lavoro artisticamente eseguito nel sapone»[«Il Nuovo Giornale», 15 maggio 1911.], e l’esposizione della «Signora Del Lungo che nella vetrina del suo negozio alla base dl Ponte Vecchio, ha un’altra volta esposto una riproduzione di quella parte del ponte ove è situata la sua bottega»[«Il Fieramosca», 15 maggio 1911].

La città, infine, era celebrata in Oltrarno con un tributo a Girolamo Savonarola: «in via dei Serragli, il signor Aiace Cirpiani ha trasformato uno sporto della bottega nella cella di Girolamo Savonarola. Tutto è messo con vero sentimento d’arte a riprodurre la cella autentica del monastero di piazza San Marco […]. Il fiero domenicano sedeva presso la sua piccola scrivania e dalla finestrucola della cella pioveva la pallida luce di una notte lunare. Bellissimo effetto e gran folla dinanzi alla mostra» [«Il Fieramosca», 15 maggio 1911].

L2’orgoglio per la storia cittadina si riscontrava soprattutto nei quartieri del centro e del Mercato centrale, attraverso la raffigurazione degli antichi mestieri. Alcune attività commerciali decisero di ricreare situazioni produttive o di vendita dello stesso esercizio com’era nei secoli passati. Così, «in una delle vetrine della Farmacia Londra era stato ricostruito l’antro di un alchimista con tutti i lambicchi [sic] e gli scongiuri possibili. L’antro in parola era abitato da un vecchio alchimista, vivo e bianco… per antico pelo che pazientemente eseguì la sua parte per lunghe ore in modo davvero encomiabile» [«Il Fieramosca», 8 maggio 1911]. Poco oltre «in piazza dell’Olio, la fabbrica di passamanerie Pieraccini e Bazzoni, aveva trasformato la sua bottega in un antico laboratorio per la lavorazione dei galloni nel ’400. Ad un antico telaio stava tessendo una giovane in carne e ossa»[«La Nazione», 8 maggio 1911]. La riproduzione delle antiche botteghe era anche fonte di intrattenimento per il pubblico fiorentino, soprattutto quando queste erano osterie o fiaschetterie, come la bottega del vinaio Romeo Galatini nel Mercato centrale, trasformata «in una taverna del ’400, dove si potevano ammirare due avventori in costume dell’epoca» [«Il Nuovo Giornale», 30 aprile 1911], e quella del pizzicagnolo Cecchi, convertita «in una osteria dove i garzoni erano intenti a riempire fiaschi di vino per chi ne voleva»[«Il Nuovo Giornale», 15 maggio 1911.].

Con questi allestimenti il ceto commerciante e artigiano della città celebrava il proprio lavoro in un gioco di rimandi simbolici che intrecciava i temi del lavoro, dell’arte e della tradizione; ed esaltava la Firenze dei secoli d’oro – non a caso i riferimenti al passato coprivano un arco che andava dal 1400 al 1600 – quella dei «cittadini artigiani e mercanti che, sulla base dei suoi ordinamenti democratici e della grande tensione etica che animava i suoi schietti e orgogliosi cittadini, aveva costruito una cultura di estrema raffinatezza proprio agli albori della civiltà europea occidentale» [Pellegrino, 2004, p.20]. Significativo a tale proposito la dislocazione di queste mostre, concentrata soprattutto nel rione centrale, dove la tradizione artigiana era più radicata, e nella zona del Mercato centrale, area di piccole botteghe specializzate.

3La diversa localizzazione delle botteghe, la loro densità relativa e soprattutto la differenziazione degli esercizi incise anche per quanto riguarda la rappresentazione della Patria. Nelle zone del centro e del Mercato centrale, in particolare nelle vie tra Santa Maria Novella e piazza del Duomo, «la nota predominante delle diverse e variate mostre è patriottica, i fattori della nostra unità, gli stemmi delle tre città festeggiano più delle altre il cinquantenario della nostra indipendenza, i tre colori fatidici, sono stati largo incentivo all’immaginazione dei nostri commercianti» [«Il Fieramosca», 30 aprile 1911]. Gli allestimenti di questi esercizi rispondevano ai canoni della pedagogia nazionale in chiave sabauda. Pochissimi erano i gigli bottonati e, quando presenti, erano accompagnati dagli stemmi delle altre capitali, per sottolineare la compartecipazione delle tre città al processo risorgimentale, come nella mostra degli elettricisti Magrini e Testi che «sull’impiantito avevano disposto 140.000 isolatorini per impianti elettrici a formare gli stemmi di Firenze, Roma e Torino e la bandiera nazionale» [«Il Nuovo Giornale», 30 aprile 1911]. La maggioranza dei commercianti optò per una mostra che ricordasse i protagonisti, ma, mentre Garibaldi compariva con un ritratto nella pizzicheria di Giuseppe Ducci, Vittorio Emanuele era riprodotto più volte, in allestimenti curati e creati appositamente per l’occasione. Probabilmente ad influenzare la scelta degli esercenti fu anche l’importanza data nei giornali all’imminente inaugurazione del Vittoriano: il fioraio Emilio Gabbrielli «aveva trasformato la sua grande vetrina in un grandioso e imponente giardino, e la parete di un muro prossimo tutto di fiori recava una grande figura di Vittorio Emanuele II, fatta tutta di fiori»[«Il Nuovo Giornale», 30 aprile 1911]; la pasticceria Scudieri «per l’occasione aveva riprodotto con la cioccolata il Castel Sant’Angelo ed il Campidoglio, nel mezzo della vetrina troneggiava un grande quadro, anche esso di cioccolata, dove con candido zucchero era riprodotto con fedeltà il grandioso monumento che dovrà essere inaugurato a Roma al Padre della Patria»[«La Nazione», 8 maggio 1911]. Infine, resta da segnalare come in due vetrine fosse stata scelta la raffigurazione della nazione in veste di Italia turrita, un’immagine relativamente debole nella pedagogia nazionale. La prima vetrina si trovava in via Nazionale, dove la ditta di Luigi Simoncini, «negoziante di frutta che aveva fato una bella e artistica esposizione. Sotto una pioggia di luce troneggiava una grande figura di donna rappresentante l’Italia. Lo scudo che la donna teneva in braccio era composto di radici, patate e susine che componevano i tre colori nazionali. La corona, era tutta di fichi secchi»; la seconda era collocata «nella fiaschetteria del signor Ovidio Cresci in via di Maggio. L’Italia raffigurata in una statua di burro, sovrastava una zampillante vaschetta» [«Il Fieramosca», 30 aprile 1911].

Volendo trarre delle conclusioni si può affermare che la rappresentazione della Patria e della città assumono caratteri diversi a seconda del tipo di esercizio commerciale e, di conseguenza, del tessuto sociale del rione. In particolare nei quartieri dove le botteghe sono più legate al concetto di produzione e di artigianalità l’idea patriottica è più legata al livello locale. In particolare quello che viene più celebrato è la città di Firenze (attraverso i personaggi e la storia dei “secoli d’oro,  o il simbolo della città) oppure la tradizione e l’orgoglio di essere artigiano. Nelle zone a più alta densità di esercizi commerci svincolati dalla dimensione della piccola “bottega artigiana” l’idea di Patria connessa con quella di Nazione e alla pedagogia sabauda, e quindi vediamo comparire raffigurazioni abbastanza complesse come l’Italia turrita. Molto probabilmente ad influire sulle scelte dei commercianti avevano influirono anche le migliori condizioni di istruzione degli esercenti che erano stati in grado di mediare, grazie al ruolo determinante della scuola, la visione locale e nazionale.

 Riferimenti archivistici:

 Archivio Comune di Firenze, (ACF), Fondo Cerimonie, Feste Esposizioni (FCFE), CF5055, La mostra delle botteghe.

Riferimenti foto:

Fotografia 1: Mostra della Cartoleria Del Lungo. Zona Oltrarno. in ACF, Fondo Cerimonie, Festeggiamenti, Esposizioni, CF5055

Fotografia 2: Fiaschetteria del Pianello trasformata in taverna del XVI con avventore in costume. Zona Centro. in ACF Fondo Cerimonie, Festeggiamenti, Esposizioni, CF5055.

Fotografia 3: Italia di Burro. Esposizione della Premiata Pizzicheria Ovidio Cresci. Zona Oltrarno. In ACF Fondo Cerimonie, Festeggiamenti, Esposizioni, CF5055.

L’articolo è una forma abbreviata di un paragrafo all’interno di A. Gori, Tra patria e campanile. Ritualità civili e culture politiche a Firenze in età giolittiana, Milano FrancoAngeli, 2014.




“Voci, suoni e storie della Resistenza”

L’Istituto Ernesto de Martino, grazie a un finanziamento della Regione Toscana, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, realizzerà il progetto “Voci, suoni e storie della Resistenza. Una progetto di ricerca e di valorizzazione delle fonti orali negli archivi toscani” con il compito di censire, restaurare e valorizzare la memoria storica della lotta di Liberazione in Toscana conservata negli “archivi orali” pubblici e privati della regione.

Nel corso degli anni sotto la spinta di diverse e convergenti aspettative (scientifiche, politiche, artistico-espressive, identitarie-locali, generazionali-formative) si è sviluppata una pratica diffusa di ricerca istituzionale e “dal basso” per ricostruire la memoria del periodo della Resistenza; tali materiali sonori sono disseminati in numerosi archivi pubblici e privati, presso enti, associazioni, istituti, biblioteche o singoli ricercatori e appassionati. Molto spesso, purtroppo, sono conservati senza una necessaria cura archivistica e senza l’assistenza tecnica necessaria per la loro fruizione, spesso al limite della stessa possibilità di conservazione, vista la fragilità dei supporti magnetici e l’ingente costo della tecnologia, delle risorse e delle competenze necessarie per il lavoro di digitalizzazione dei nastri a bobina. In tal modo questa ingente mole di documenti e di fonti storiche, che rappresenta un patrimonio culturale di inestimabile valore, resta perlopiù inaccessibile e sconosciuta, anche agli stessi addetti ai lavori, nonostante le potenzialità d’uso e di divulgazione pubblica che le fonti sonori consentono in ambito formativo e artistico e grazie agli strumenti del web.

Per la realizzazione del progetto “Voci, suoni e storie della Resistenza” l’Istituto Ernesto de Martino ha previsto un lavoro articolati in diverse fasi:

  1. Monitoraggio e censimento delle fonti. Una ricerca capillare sulla consistenza e la dislocazione dei documenti attraverso un monitoraggio che possa connettersi al censimento regionale toscano degli “archivi orali” realizzato nel 2007 grazie al volume “I custodi delle voci“ entrando nel merito dei materiali già censiti, per aggiornare e ampliare tale strumento archivistico con una ulteriore messa a punto sul campo, in modo da realizzare un inventario complessivo delle fonti orali sulla Resistenza presenti nella Regione Toscana.
  2. Descrizione, salvataggio, digitalizzazione dei materiali. L’Istituto Ernesto de Martino sulla base dei risultati ottenuti selezionerà il materiale da restaurare e digitalizzare, realizzando presso il laboratorio tecnico dell’Istituto il riversamento in copia digitale dei materiali analogici prescelti. In tal modo sarà possibile convogliare nell’Archivio sonoro dell’Istituto de Martino copia dei materiali digitalizzati, mentre gli originali e una copia digitalizzata torneranno ai soggetti proprietari. In tal modo verrà creato un punto di raccolta regionale delle fonti sonore della ricerca sulla Resistenza da rendere fruibile con un pubblico accesso e una libera consultazione.
  3. Analisi e studio dei materiali. Sulla base dei risultati del lavoro svolto sarà possibile realizzare uno studio dei materiali in grado di fornire un quadro storico della ricerca e dei suoi sviluppi e un inventario archivistico complessivo delle fonti raccolte. L’Istituto de Martino realizzerà un dossier finale che assieme al quadro conoscitivo e documentario appronterà delle ulteriori linee di sviluppo e di valorizzazione del materiale raccolto.
  4. Fruibilità e valorizzazione. L’Istituto de Martino renderà fruibili tali materiali e li renderà consultabili presso la propria sede, previo accordo con i proprietari e i donatori; sarà inoltre possibile la valorizzazione di tale documentazione storica grazie alle attività culturali (formative e scientifiche) e agli eventi pubblici (convegni, feste, concerti, dibattiti) organizzati dal nostro Istituto in collaborazione con le istituzioni pubbliche, le università, gli enti locali e le associazioni culturali della società civile.

 In direzione delle finalità espresse dal progetto vi chiediamo di fornire la vostra preziosa collaborazione mettendovi in contatto con l’Istituto Ernesto de Martino per segnalare i materiali da censire e per effettuare un sopralluogo e una verifica dello stato dei materiali. In allegato trovate una scheda di censimento che vi preghiamo di compilare e di aiutarci a far circolare.




La Fonderia del Pignone nel primo sciopero generale di Firenze

Tra il giugno del 1901 e il settembre del 1902 Firenze fu teatro di una serie di scioperi che culminarono nel primo sciopero generale cittadino deliberato dalla locale Camera del Lavoro il 28 agosto a seguito della votazione della sezione metallurgici del giorno precedente («Fieramosca», 29.8.1902). «Da città gentile fu battezzata dai giornali esteri città turbolenta» – commentava il «Commercio fiorentino» (25.9.1902), preoccupato delle conseguenze sui visitatori stranieri della paralisi dei trasporti, del buio, della sporcizia, della penuria di pane occorse in quel concitato frangente nella «culla della rinascenza italica». Nello stesso periodo si registrò un aumento della sindacalizzazione e della mobilitazione popolare anche in altre parti della Toscana. Furono diverse le categorie di lavoratori e di lavoratrici coinvolte (ferrovieri, metalmeccanici, sigaraie, edili…) e per la prima volta la protesta assunse proporzioni allarmanti anche nelle campagne: nella primavera del 1902 Chiusi, Sarteano e Seano, in provincia di Siena, furono gli epicentri del più grande sciopero mezzadrile della regione.

Ritratto Pietro Benini (1867-1913)

Ritratto Pietro Benini (1867-1913)

Dopo gli scioperi generali di Genova (dicembre 1900) e di Torino (febbraio 1902), il caso di Firenze e, in particolare, il rifiuto di Pietro jr. Benini, direttore della S.A. della Fonderia del Pignone, di riconoscere e trattare con i rappresentanti delle organizzazioni operaie ebbero vasta eco sulla stampa nazionale, segnando l’ingresso della Firenze industriale nel “secolo del Lavoro”. Lo sciopero fiorentino fu visto come un banco di prova delle politiche governative e la “resistenza” di Pietro jr. Benini fu variamente commentata dalla stampa di parte socialista e liberale.

Con la crisi del governo Saracco e il discorso di Giolitti, ministro dell’Interno del governo Zanardelli (1901-1903), a favore di una svolta antiautoritaria nei rapporti tra governo e forze sociali si aprì una nuova stagione nella storia delle relazioni industriali. A caratterizzarla furono lo sviluppo di forme di organizzazione sindacale a livello nazionale – nel 1901 si costituì la Federazione italiana operai metallurgici – e un aumento della conflittualità sociale: nel 1901 si registrarono 1042 scioperi industriali e 629 scioperi agricoli contro i complessivi 388 dell’anno precedente. L’emergere di nuove istanze di rappresentanza da parte dei lavoratori dell’industria non si legava tanto a un peggioramento delle condizioni generali di vita quanto a un cambiamento nella percezione della loro irreversibilità e agli effetti sul lavoro (orari, cottimi, licenziamenti, sanzioni disciplinari) di processi di trasformazione della produzione.

Quello che accadde a Firenze sull’onda delle rivendicazioni degli operai della Pignone, dove era in atto dal 1898 una ristrutturazione dell’assetto finanziario e organizzativo della fabbrica attorno alla nuova produzione di compressori di agenti frigoriferi, rifletteva lo sfaldamento del potere di coesione sociale del fronte moderato – indebolito dall’esito delle elezioni politiche del giugno del 1900 – e il nuovo protagonismo del movimento operaio e sindacale; la crisi del sistema ottocentesco di gestione paternalistica dei rapporti di lavoro e insieme la difficoltà ad affermare su scala locale e nazionale una regolamentazione istituzionalizzata del conflitto che unisse alla piena legittimazione delle organizzazioni sindacali la rinuncia a un uso repressivo della forza pubblica. Anche per questo, il primo sciopero generale nazionale, indetto dalla Camera del lavoro di Milano nel settembre del 1904, prese di mira le contraddizioni del governo giolittiano sempre più discrezionale nell’attuazione della politica della neutralità dello Stato nei conflitti tra capitale e lavoro, denunciando gli eccidi proletari perpetrati tra 1902 e 1904 nelle campagne meridionali e nelle isole.

ProScioperantiGli scioperi del 1901-1902 misero per la prima volta in discussione all’interno della Fonderia e officina meccanica del Pignone, attiva nel panorama industriale fiorentino dagli anni Quaranta dell’Ottocento, la fedeltà e la subordinazione degli operai alla direzione. Il primo sciopero, nato come manifestazione di solidarietà verso i fonditori scioperanti del Cantiere Orlando di Livorno, coinvolse direttamente solo i fonditori del Pignone (68 adulti e 15 ragazzi su un totale di 264 dipendenti). Organizzati in una lega di mestiere, i fonditori erano stati i più colpiti dal calo della produzione e del reddito subito dalla sezione fonderia alla fine del secolo (1898-1901). Rifiutandosi di eseguire i modelli commissionati alla Fonderia del Pignone dal Cantiere Orlando, la loro solidarietà di categoria si estese a un fronte più ampio di richieste che andava dal riconoscimento delle Leghe alla modifica dei sistemi di retribuzione; tanto che su quella base nell’aprile del 1902 una commissione composta da operai e da rappresentanti sindacali sottopose al C.d.A. della Pignone una piattaforma di richieste articolata in 6 punti. La vertenza si protrasse per 56 giorni (dal 21 dicembre 1901 al 16 febbraio 1902) e si concluse grazie alla mediazione dei sindaci sollecitati a intervenire, a Firenze come a Livorno, dalle organizzazioni operaie. Il lodo arbitrale del pro-sindaco di Firenze cav. Antonio Artimini seguì di pochi giorni quello del sindaco radicale livornese Cesare Pacchiani. Entrambi sancirono la sconfitta sindacale dei fonditori, ma il lodo Artimini fu considerato più aperto nella misura in cui riconosceva «il valore morale dell’atto di solidarietà operaia» e sottolineava la neutralità dell’autorità comunale nel conflitto, attirandosi le critiche della stampa conservatrice («Il Fanfulla», 16.2.1902).

Fonderia_ArticoloIn un clima di crescente tensione, il licenziamento alla fine di luglio del 1902 di 22 operai (di cui 9 fonditori) per «scarsità di lavoro» e il rifiuto della direzione della Pignone di prendere in considerazione proposte di turni e riduzione d’orario sfociarono il 1° agosto nella proclamazione di uno sciopero di solidarietà a base aziendale. Redatto un nuovo regolamento interno, la direzione notificò il licenziamento di tutti gli operai scioperanti e respinse le richieste di mediazione avanzate dalla commissione operaia tramite l’autorità comunale. Questa intransigenza indebolì la posizione dei rappresentanti sindacali, ma accrebbe la solidarietà spontanea di diverse categorie di lavoratori alla vertenza della Pignone, facendola sfociare nel primo sciopero generale cittadino. Dalla mattina del 29 agosto si unirono ai metallurgici, le sigaraie, i lavoranti del legno e del marmo, i vetrai e gli operai delle industrie chimiche. Due giorni dopo, quasi la metà delle sezioni della Camera del lavoro di Firenze, che contava circa 12 mila iscritti, aderì allo sciopero («La Tribuna», 30.8.1902; «Corriere della Sera», 31.8.1902). A questo stato di agitazione che minacciava di contagiare i comuni limitrofi si reagì con un rafforzamento delle misure preventive e repressive concertate tra il prefetto e il ministro dell’Interno che rese sempre più critica la posizione degli scioperanti: l’ex convento del Carmine, dove avevano avuto luogo le prime riunioni dei 12-18.000 scioperanti, dal 1° settembre fu adibito a caserma degli squadroni di cavalleria giunti da fuori a presidiare la città, e fu circondato da 300 guardie armate («Giornale d’Italia», 1.9.1902). Rotte le trattative e deliberata la cessazione dello sciopero generale dall’assemblea dei metallurgici e poi dalla Camera del Lavoro, furono riammessi alla Fonderia del Pignone solo 70 degli operai licenziati e alle condizioni del nuovo regolamento di fabbrica, in vigore dall’agosto 1902.

Le conseguenze del fallimento dello sciopero generale furono pesanti fuori e dentro la fabbrica: nel settembre del 1904 gli operai della Pignone non aderirono allo sciopero generale nazionale, mentre nel novembre dello stesso anno Pietro Benini salutò la sconfitta di Giuseppe Pescetti alle elezioni politiche come un successo personale. Per oltre un decennio la fabbrica non fu più al centro di azioni rivendicative; solo la mobilitazione industriale del periodo bellico avrebbe provocato nuove laceranti fratture.

 




Un secolo ed un architetto: Giovanni Michelucci

Il 7 aprile 2014 siamo giunti alla terza presentazione del documentario, sottotitolato in inglese, Giovanni Michelucci. Elementi di vita e di città, regia di Cristiano Coppi, al Cinema Odeon di Firenze realizzato con la Provincia di Pistoia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole con il contributo della Regione Toscana e in quest’occasione con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia in collaborazione con l’Università di Firenze, Dipartimento di Architettura DIDA/Festival Internazionale di Architettura in video MEDIARC.

Le precedenti presentazioni erano state al cinema Globo di Pistoia nel dicembre 2012 e al Museo MAXXI di Roma nel maggio 2012.

Il documentario racconta i cento anni vissuti da Giovanni Michelucci e i momenti che hanno segnato la sua vita di uomo e di architetto. Attraverso filmati dell’epoca, riprese delle sue opere più importanti e interviste, il documentario vuole descrivere la complessità ed il fascino di un personaggio di cui tanto si è scritto ma che ancora oggi conserva molti aspetti da esplorare. Collaboratori, architetti e storici dell’architettura, come Claudia Conforti, Paolo Portoghesi, Corrado Marcetti, Mauro Innocenti, Marco Dezzi Bardeschi, Francesco Dal Co, solo per fare qualche nome, hanno raccontato le molteplici sfumature di uomo che ha attraversato un secolo, il secolo breve cogliendone i mutamenti. La puntuale regia di Cristiano Coppi si è avvalsa di un comitato scientifico composto da Andrea Giraldi, Matilde Montalti e Alice Vannucchi.

Nato il 31 dicembre 1890 a Pistoia in una famiglia proprietaria di un’officina per la lavorazione artigianale e artistica del ferro, si diploma all’istituto Superiore di Architettura dell’Accademia di Belle Arti, nel 1914 ottiene la licenza di professore di disegno architettonico; insegnerà presso l’istituto superiore di architettura di Firenze e sarà eletto Preside della Facoltà di Architettura nel 1944.
Durante la grande guerra Michelucci realizza una cappella sul fronte orientale vicino a Caporetto: più volte sarà costretto a confrontarsi con gli effetti della catastrofe (la ricostruzione del centro di Firenze dopo la seconda guerra mondiale, la risistemazione del quartiere popolare di S. Croce dopo l’alluvione, la chiesa a Longarone dopo la tragedia del Vajont). Dopo la guerra lascia le “Officine Michelucci”. All’ambiente artistico pistoiese, in cui svolge un ruolo importante di riferimento intellettuale, appartiene anche Eloisa Pacini, raffinata pittrice, che sposa nel 1928 conosciuta frequentando politici, intellettuali, pittori e musicisti mondanità di Roma dove vive dal 1925.
La sua adesione al regime fascista e oculate frequentazioni lo portano nel 1933 ad essere coordinatore del gruppo toscano e alla vittoria nel concorso per la Stazione di S. Maria Novella a Firenze con un’opera di valore internazionale per le qualità funzionali e per l’inserimento nel contesto storico e urbano.
3Dopo la guerra, che osserva da lontano isolandosi  nella sua casa alla Cugna, immersa nella natura della montagna pistoiese e che sarà nuova fonte di ispirazione,  crea la rivista “La Nuova Città”, espressione di un nuovo atteggiamento verso la società, dialogante e partecipativo, propone per la ricostruzione della zona attorno a Ponte Vecchio ipotesi innovatrici che s’infrangono di fronte alla tendenza conservatrice della città. Nel 1948 Michelucci lascia la presidenza della Facoltà di Architettura di Firenze passando alla facoltà d’ingegneria di Bologna; continua la ricerca di un nuovo linguaggio dell’architettura: la concezione dello spazio percorribile, la città variabile, un nuovo rapporto antico-moderno che si esprime anche nell’uso congiunto della pietra e del mattone con il cemento armato, l’acciaio e i nuovi materiali, così le idee prendono forma come  per la Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, a Campi Bisenzio, conclusa nel 1964, trait d’union di un paese in pieno miracolo economico, nella quale Michelucci anticipa i temi di una Chiesa in mutamento come sarà sancito dal concilio Vaticano II, o con la Chiesa di Borgo Maggiore, nella Repubblica di S. Marino.

6Nel 1967 progettò con Mauro Innocenti l’ospedale di Sarzana affrontando così il tema della degenza, ma la costruzione, avviata nel 1974 si protrasse per decenni e non poté vederla ultimata.

Nel 1972 nel saggio Brunelleschi mago,pubblicato con l’editore  ed amico pistoiese Tellini, con la postfazione di Mario Aldo Toscano. Bruno Zevi scrive su “L’Espresso” dei colloqui informali e antiaccademici di Michelucci con Brunelleschi. Il titolo è suggerito da un passo di Kafka “Perché mago? Non so, ma è capace di provocare un vivo sentimento di libertà…”. Wanda Lattes in un  intervista a Michelucci presso la sua casa al Roseto a Fiesole descrive il libro come un “volumetto elegante, raffinato senza illustrazioni, spoglio di banali concessioni alla civetteria consumistica” con chiaro intendimento pedagogico e civico, nato non ambizione filologica ma come proseguimento di quelle lezioni impartite per anni in cattedra. Mario Toscano l’ha ascoltato per anni, poi ha iniziato a registrare i suoi discorsi spontanei; uno scritto che nasce quindi come discorso socratico tra un docente e tanti non individuati discenti.

michelucciNel 1974 muore la moglie Eloisa ed inizia un nuovo decennio creativo e progettuale. Nel 1982 Giovanni Michelucci costituisce con la Regione Toscana ed i comuni di Fiesole e Pistoia la “Fondazione Michelucci”, mentre una donazione di disegni al Comune di Pistoia costituisce il “Centro di documentazione Giovanni Michelucci” di Pistoia.

Le pagine de La Nuova Città,  riflettono su temi come Carcere e città, Scuola e periferia, Città e follia, e portano all’ideazione del Giardino degli incontri nel carcere fiorentino di Sollicciano, un progetto sviluppato dal 1986 con i detenuti per creare un luogo di incontro  con i familiari, ultimato nel 2007. Il 31 dicembre 1990 muore a Fiesole.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.




Quando i piatti erano vuoti

La minestra di castagne secche che unisce alle ben note virtù nutritive anche un effetto emolliente delle vie respiratorie; una pasta asciutta condita con ricotta fresca a cui amalgamare l’acciuga e qualche cucchiaino d’acqua calda; le patate in crema rossa senza condimento o il «super brodo di guerra» – tale per l’abbondanza di ortaggi a lungo bolliti e generosamente insaporiti – consigliato per convalescenze e speciali stati di indebolimento grazie al suo straordinario potere nutritivo, tanto da renderlo degno sostituto del suo omologo a base di carne. Sono solo alcune delle ricette che un corposo volumetto, edito a Firenze dalla Salani nel 1942, La cucina del tempo di guerra, invitava a sperimentare. L’autrice, Lunella De Seta, spiegava alle massaie come ingegnarsi per rendere meno mesta e spoglia la tavola; il tutto tenendo fede alla morale patriottica del «nulla vada perduto!».

Del decennio 1940-‘50 nel nostro Paese si ricordano le bombe, la fine del fascismo, la difficile ricostruzione e, soprattutto, la fame. La lunga autarchia imposta dal regime aveva da subito messo alla prova gli Italiani, ma le avvisaglie di una penuria, presto tramutatasi in miseria, erano state evidenti fin dalla vigilia della guerra. L’Italia non era ancora entrata nel conflitto e già, nel 1939, veniva diffuso il primo provvedimento che limitava la somministrazione del caffè, assenza a cui si era cercato di supplire con l’uso di orzo, insaporito da ceci tostati o dalla soia; anche il , di importazione inglese, era stato bandito e i negozi lo avevano sostituito con karkadè, un infuso amarognolo che aveva il merito di giungere direttamente dalle nostre colonie; e ancora, nel settembre dello stesso anno era stato emanato il divieto di vendere carni per due giorni a settimana.

A guerra in corso, poi, le restrizioni e privazioni erano aumentate progressivamente. Alla fine del 1940, il pane iniziava a essere miscelato con farina di granoturco e la pasta erogata per un massimo di due chili al mese a persona (quantità che in Toscana era stata ridotta presto a un solo chilo). A Pasqua era stato fatto divieto di distribuzione di dolci e con l’autunno il pane era finito tra i prodotti “tesserati” e fornito in una quantità di 200 grammi a testa al giorno (divenuti poco dopo 150). Sempre più introvabili carne, burro, olio e zucchero, mentre per il latte era necessario iscriversi al “registro del lattaio”. L’unica alternativa, per supplire alla penuria alimentare, era ben presto diventata quella di acquistare al “mercato nero”, a prezzi spesso insostenibili.

 In fatto di alimentazione la Toscana parve, inizialmente, cavarsela meglio di altre regioni. In particolare, la Provincia di Firenze, autosufficiente in tempi di libertà economica solo rispetto a pochi prodotti come l’olio e il vino, la frutta e la verdura ma, al contrario, importatrice di farina, pasta, carne, latte, formaggi, legumi e zucchero, aveva comunque continuato a ricevere rifornimenti anche dopo l’instaurazione del sistema controllato degli scambi commerciali, fino a quando l’intensificarsi delle incursioni aeree (la costa toscana fu colpita dai bombardamenti fin dalla primavera 1943, mentre su Firenze le bombe caddero per la prima volta contro la stazione di Campo di Marte il 25 settembre dello stesso anno) e l’interruzione di alcuni tratti delle linee ferroviarie avevano rallentato il flusso dei prodotti provenienti dall’Emilia e dalla Lombardia, impedendo la formazione di depositi alimentari.

La situazione aveva iniziato a peggiorare progressivamente con l’avanzata degli Alleati e le pagine dei quotidiani erano presto diventate il mezzo più comune per diffondere avvertimenti e consigli ai cittadini al fine di aiutarli a sopportare le penurie del momento. Così, il 7 luglio 1944, su «La Nazione», comparivano suggerimenti su come conservare il pane affinché durasse più a lungo; qualche giorno più tardi vi si leggevano indicazioni per «trasformare un comune fornello in cucina economica»; e ancora, si invitava la popolazione a tenere provviste di acqua in casa. In quei mesi, poi, l’annona distribuiva in abbondanza piselli secchi, farina vegetale, riso, concentrato di pomodoro, fagioli, tutti prodotti a lunga conservazione. Segno che l’attesa sarebbe stata lunga.

Migliore la condizione alimentare nelle campagne che, soprattutto dopo l’armistizio, avevano accolto sfollati, ebrei, renitenti, disertori e prigionieri alleati, offrendo loro cibo e riparo, talvolta in modo solidale e gratuito, altre scambiando l’ospitalità con beni “urbani” quali denaro e informazioni.

Nonostante la produzione agricola si fosse ridotta notevolmente a causa della scarsa disponibilità di fertilizzanti, macchinari e manodopera maschile (in assenza degli uomini erano le donne e i ragazzi non in età adulta a occuparsi dei campi) e fossero costanti razzie e distruzioni, le periferie rurali avevano di certo beneficiato di quell’antica capacità di saper fare e produrre tutto “in casa”. Tra le pareti domestiche, infatti, si abbrustoliva l’orzo per il caffè, si pigiava l’uva per ricavarne il vino, si spaccavano i semi di ricino per realizzare il sapone, si producevano pane e pasta, si raccoglievano e cucinavano i prodotti dell’orto e del maiale «non si buttava via nulla». Un’autosufficienza che in quegli anni aveva posto il mondo rurale, ambiente tradizionalmente povero ed umile, in una posizione di superiorità rispetto a quello cittadino, ancor più fiaccato e immiserito dagli eventi bellici.

A fine luglio ‘44, come testimoniava una relazione presentata dal Comitato Alimentare al Ctln [Comitato Toscano di Liberazione Nazionale], la situazione alimentare sembrava essere, nella provincia di Firenze, sempre peggiore. Il problema più grave era rappresentato dalla scarsezza delle scorte: totalmente assenti quelle di grano, pane e pasta. Conigli, polli e animali da cortile erano praticamente scomparsi. Se buono si profilava il raccolto del granturco e discreto quello dei fagioli, perduto era quello di patate e piselli. Non vi erano scorte di olio, dal momento che 2.000 quintali erano stati consegnati ai tedeschi. «Un quadro realistico della situazione che si riassumeva in una parola: fame». E non stupisce che, qualche mese più tardi, alla vigilia dell’ennesimo Natale in guerra, l’intervista su «La Nazione del Popolo» a “un macellaio onesto” – tale perché disposto ad ammettere con franchezza di praticare il mercato nero e pronto a spiegarne i meccanismi – aveva ben presto acquisito i toni di una nostalgica chiacchierata a due sui bei tempi andati, quelli in cui era facile e possibile l’acquisto di bestiame, bistecche e altra roba ancora «che, qui, in un Natale magro come questo non è il caso di rievocare».