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Archeologia della Seconda guerra mondiale.

Quando le truppe del Terzo Reich riuscirono a bloccare l’avanzata degli anglo-statunitensi lungo la linea Gustav (dal 4 ottobre 1943 al 18 maggio 1944), l’intero territorio toscano divenne una delle retrovie dei difensori e ciò aumentò notevolmente i rischi di attacchi aerei; per prevenire questi ultimi, come si capì ben presto nel territorio senese, negli anni precedenti era stato fatto troppo poco. Le prime incursioni pesanti si ebbero rispettivamente il 21 novembre, contro Chiusi, e il 29 dicembre contro Poggibonsi; entrambi gli attacchi provocarono numerose perdite tra la popolazione civile, rilevanti distruzioni[1] e una profonda emozione poiché era palese che, se nel capoluogo alcuni rifugi (in molti casi insufficienti e inadeguati) erano stati realizzati, per quanto riguardava gli altri centri abitati della provincia la situazione era ben diversa. A Chiusi ci si era mossi soltanto nel marzo del 1944, quando era stato depositato un progetto per realizzare un ricovero all’interno del cosiddetto “labirinto”[2] ma a tutt’oggi non si è fatta piena luce su quale fosse lo stato d’avanzamento dei lavori al momento della liberazione della cittadina (avvenuta il 26 giugno di quello stesso anno). Ancora oggi non sono note relazioni circa la presenza di rifugi antiaerei per la popolazione civile in nessuna delle altre città del territorio ma è ipotizzabile che tali opere fossero rarissime e, in buona parte dei casi, dovute all’iniziativa personale dei singoli cittadini.
Non diversa appariva la situazione nelle campagne del senese. Nel 1941 il regime aveva capito che l’integrità dei raccolti era strategica e questo elemento era divenuto pressante a partire dal 1942 quando il reperimento di rifornimenti alimentari per la popolazione civile si era fatto difficoltoso. Si provvide pertanto, oltre ad allertare i vigili del fuoco, a diffondere nelle aree rurali millecinquecento volantini, realizzati dal Ministero degli interni, su “Come proteggersi dalle offese nemiche incendiarie”; a questi si affiancarono dei foglietti dedicati a “Come proteggersi dalla nuova offesa aerea nemica: La piastrina incendiaria” pubblicati l’anno precedente.
Nel 1943 il Ministero degli interni aveva dato alle stampe dei nuovi vademecum dedicati alla difesa delle campagne e dei raccolti. Si raccomandava in particolar modo di tenere sempre riserve d’acqua presso campi, stalle, fienili e legnaie inoltre si invitava a tenere puliti i terreni in prossimità dei campi coltivati e di realizzare in questi ultimi, qualora le dimensioni lo permettessero, delle strisce tagliafuoco. I consigli forniti riguardavano anche la disposizione dei covoni che non dovevano essere né eccessivamente grandi né disposti in fila indiana, bensì a scacchiera mentre il raccolto doveva essere conservato in più luoghi al coperto. Data l’indisponibilità dei vigili del fuoco (che in caso di attacco aereo sarebbero stati presumibilmente impegnati nei centri urbani), il primo intervento di soccorso era affidato a squadre di agricoltori, opportunamente istruiti dagli stessi vigili del fuoco, allarmati da avvistatori reclutati tra la Gioventù del littorio[3].
I provvedimenti e le raccomandazioni dovettero essere di scarsa efficacia poiché il capo della provincia di Siena, il 2 giugno del 1944, in una nuova direttiva inviata agli agricoltori dichiarava che i mezzi per la difesa dagli attacchi aerei nelle campagne erano “quelli di cui si dispone in posto” e che sarebbe stato inutile “attendere l’aiuto di quelli esigui delle città[4]”.
Gli abitanti delle campagne erano dunque invitati ad arrangiarsi con i mezzi che avevano, tuttavia, per molti di loro questa raccomandazione era superflua. Forti dell’esperienza della Prima guerra mondiale, alcuni agricoltori, per sottrarsi ai rigori delle requisizioni di generi alimentari, avevano ben presto attivato una serie di escamotages finalizzati all’occultamento di una parte delle derrate prodotte e, in seguito all’intensificazione degli attacchi aerei sul territorio senese, a partire dalla fine dell’inverno del 1944, avevano costruito un certo numero di rifugi; tra questi, particolarmente degni di nota appaiono quelli scavati nelle sabbie plioceniche (comunemente dette “tufo” in dialetto locale), materiale di cui è ricca l’area settentrionale della Val d’Elsa senese[5].
La compattezza delle sabbie in questione, la facilità di scavo e il limitato pericolo di crolli, anche in assenza di armatura delle gallerie, erano state notate già in età etrusca, quando le popolazioni locali avevano sfruttato queste caratteristiche non soltanto per scavare tombe a camera più o meno articolate ma anche magazzini e locali di servizio polifunzionali. L’utilizzo dei terreni pliocenici per la realizzazione di cantine e depositi era continuato nel medioevo e nell’età moderna per giungere fino alla prima metà del Novecento quando questa tecnologia si fuse con le conoscenze belliche che buona parte degli agricoltori del posto aveva acquisito nella Grande guerra. Il risultato fu, con l’approssimarsi della linea del fronte, la costruzione, nelle campagne, di un numero imprecisato di ricoveri che, almeno per la zona Poggibonsi-Barberino Val d’Elsa, possono essere raggruppati in due tipologie: una semplice e l’altra complessa. Nel primo caso si hanno delle cavità poste a pochi metri dalle abitazioni, con una sola entrata abbastanza ampia e profonde soltanto pochi metri; queste avevano il compito di offrire un riparo immediatamente raggiungibile in caso di mitragliamento o spezzonamento, pericolo sempre incombente nelle aree rurali.
La seconda tipologia appare invece molto più articolata. In questo caso ci si trova di fronte a realizzazioni di dimensioni importanti, lontane alcune centinaia di metri dagli edifici e realizzate su costoni boscosi che permettevano il camuffamento dell’entrata. Al rifugio vero e proprio si accedeva mediante corridoi stretti (al cui imbocco, su una parete, veniva spesso graffito il nome del costruttore e la data di ultimazione dei lavori) ma sufficientemente ampi da permettere il passaggio delle persone e il trasporto delle derrate alimentari. All’interno si aprivano delle camere in grado di ospitare una o più famiglie di agricoltori e qualche animale. In questi locali si era addirittura pensato a un minimo di confort realizzando nelle pareti delle nicchie dove sistemare piccole suppellettili o lucerne. Le strutture più grandi presentavano vari livelli a cui si accedeva mediante delle scalinate, anch’esse scavate nella sabbia, o talvolta delle camere segrete, in cui venivano occultati il grano e gli altri viveri, collegate per mezzo di scale a pioli. Questa tipologia di struttura presentava sempre una via di fuga (accessibile anch’essa per mezzo di uno stretto corridoio) ragion per cui, alcuni dei rifugi più piccoli (formati da un corridoio d’entrata, uno d’uscita parallelo al primo e una sola camera) sono detti a “U”.
I rifugi più grandi furono preziosi durante il passaggio della linea del fronte dalla Val d’Elsa in quanto si dimostrarono particolarmente efficaci come protezione in caso di cannoneggiamento e come nascondiglio per prevenire razzie e violenze. Ovviamente i combattimenti e le scorrerie di alcune schegge impazzite facenti parte dei diversi eserciti costrinsero spesso i civili a rimanere più giorni all’interno dei rifugi che erano privi di servizi igienici, energia elettrica e acqua corrente. A questi disagi va aggiunto che il sovraffollamento e la presenza degli animali, faceva sì che i locali venissero infestati dai pidocchi e dalle pulci rendendo particolarmente difficile la vita all’interno[6]. Tuttavia il pericolo più importante era costituito dal fatto che il ricovero venisse individuato da qualche gruppo di soldati in cerca di bottino o di donne. In questi casi gli episodi di violenza più brutali si consumavano davanti agli occhi impotenti degli stessi familiari delle vittime[7].
Con fine del conflitto, queste improvvisate ma efficaci opere di difesa, data la loro posizione in siti impervi, vennero abbandonate e talvolta trasformate in discariche per poi essere quasi completamente dimenticate. Soltanto oggi, a tanti anni dalla loro realizzazione, qualche struttura è stata riscoperta e ripulita per essere proposta come laboratorio didattico[8].

Immagini
Rifugio “complesso” scavato nelle sabbie plioceniche in loc. Barberino Val d’Elsa (Fi).
1. Ingresso.
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2. Corridoio d’accesso alle camere interne.

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3. Corridoio con scalinata per accedere al livello inferiore.

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4. Accesso alla camera interna.

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5. Camera interna.

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6. Locale per magazzino interno.

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7. Seconda uscita.

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Note
[1] Le due incursioni, precedute da uno stillicidio di attacchi minori, causarono la morte di otto civili e il ferimento di quaranta persone a Chiusi (a questo computo mancano le perdite patite delle truppe tedesche presenti in città ma la cifra ci è ignota) nonché numerosi feriti e ben settantadue morti a Poggibonsi. Borri Michelangelo, La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche, Monteriggioni, Il Leccio 2019, pp. 76-77.
[2] Archivio di Stato di Siena, Prefettura 1800-1978, b. 6M, f. 7 Ricovero antiaereo Chiusi.
[3] Borri Michelangelo, La guerra aerea su Siena…, cit., pp. 76-77.
[4] Archivio di Stato di Siena, Prefettura 1800-1978, b. 9M, f. 16, 2 giugno 1944, Lettera del capo della provincia a vari enti.
[5] A tutt’oggi non esiste né una mappa né tantomeno un censimento dei rifugi, scavati nelle sabbie plioceniche, risalenti alla Seconda guerra mondiale. Al momento è stato possibile rintracciarne alcuni nei territori dei seguenti comuni: Poggibonsi, Barberino Val d’Elsa, Gambassi Terme (la fotografia di un rifugio di quest’area è presente sul sito https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g1028659-d1754882-i28657456-Borgo_dei_Cadolingi-Gambassi_Terme_Tuscany.html, visitato il 14 giugno 2021), Empoli (Monterappoli, inaugurata la mostra sul rifugio antiaereo della Seconda Guerra Mondiale in https://2017.gonews.it/2015/01/18/empoli-monterappoli-inaugurata-la-mostra-sul-rifugio-antiaereo-della-seconda-guerra-mondiale/, visitato il 14 giugno 2021), Terricciola (I rifugi di guerra per salvarsi dai bombardamenti. Dalle grotte di campagna ai cunicoli sotterranei in https://www.lanazione.it/pisa/cronaca/i-rifugi-di-guerra-per-salvarsi-dai-bombardamenti-dalle-grotte-di-campagna-ai-cunicoli-sotterranei-1.6252684, visitato il 14 giugno 2021), Cesena (Scavati nel tufo al Rio San Michele: ecco come si viveva nei rifugi ai tempi della Guerra in https://www.cesenatoday.it/eventi/rifugi-seconda-guerra-mondiale-rio-san-michele-30-giugno-2018.html, visitato il 14 giugno 2021), Monte Colombo – Montescudo (Tordi Simone, Monte Colombo. I rifugi antiaerei della Valle del Rio Calamino in https://circolopentapoli.wordpress.com/2015/05/30/monte-colombo-i-rifugi-antiaerei-della-valle-del-rio-calamino/, visitato il 14 giugno 2021).
[6] Cfr. Scavati nel tufo al Rio San Michele: ecco come si viveva nei rifugi ai tempi della Guerra…, cit.
[7] Lucioli Massimo – Sabatini Davide, La ciociara e le altre. Il Corpo di spedizione francese in Italia, Roma, Tusculum 1998, pp. 88-90. Cfr. Bardotti Riccardo, Attenti a dove sparate. La liberazione di Siena raccontata dai fotoreporter dell’esercito francese, Siena, Betti 2018, pp. 43-46.
[8] Si veda a tale riguardo Memoria e trekking per celebrare la liberazione di Poggibonsi, in http://www.sienafree.it/poggibonsi/65569-memoria-e-trekking-per-celebrare-la-liberazione-di-poggibonsi, visitato il 14 giugno 2021.

Articolo pubblicato nel giugno del 2021.




Aspettando la rivoluzione: dai grandi scioperi alla “nascita” del PCdI a Firenze.

L’Italia del 1919-’20: un Paese spaesato, diviso, violento, gravato dal sommarsi di paure diverse e nuove, da consolidata estraneità nei confronti dello Stato, ostilità o indifferenza verso una classe dirigente spesso lontana e impermeabile, da un diffuso antiparlamentarismo, gravato dalla crisi economica, da disagio sociale, segnato dagli effetti di  una pandemia – la Spagnola – e dalle conseguenze del primo conflitto mondiale.

Firenze è parte di questo contesto. Anzi qui semmai le divisioni sono ancora più nette e gravi. La città è dominata da una classe dirigente conservatrice, ostile alla stella politica giolittiana, forte dei domini terrieri, signori dei poderi mezzadrili, detentori del potere politico ed economico. La propria superiorità rispetto ai ceti inferiori è un dato di fatto, una distanza naturale e incolmabile. Per povertà e disagio sociale può esserci solo benevolenza, paternalistiche concessioni, beneficenza. La città è stata interventista, intellettuali e studenti, professionisti si sono mobilitati, del resto proprio Firenze era stata sede della fondazione del movimento nazionalista, dimora di D’Annunzio, frequentata da Marinetti e dai futuristi. Fili ed eredità che si ritrovano nella fioritura di tante associazioni nazionaliste e anticomuniste nel dopoguerra, fra le quali anche un fascio abbastanza debole e precario. Ma è anche città di una crescente classe operaia. Paradossalmente proprio grazie alla guerra.

Firenze non era città di vere grandi fabbriche, se confrontate alla realtà del nord. I maggiori stabilimenti nel primo dopoguerra contano fra i 1000 e 2000 addetti. Ma è città di manifatture, che si radicano nella tradizione artigiana del territorio, pur in assenza di grandi stabilimenti è anche città operaia, frutto di uno sviluppo relativamente recente fra il primo decennio del secolo e gli anni della guerra. Di una classe operaia di tradizione artigiana, fiera del proprio mestiere, del proprio lavoro frutto di arte e conoscenze. Ancora a fine ‘800 la tradizionale dimensione agraria della classe dirigente fiorentina e la volontà di mantenere l’immagine di una Firenze d’arte e cultura avevano limitato lo sviluppo produttivo in una realtà frammentata e dispersa. Solo in età giolittiana ha una prima crescita, ma soprattutto negli anni del primo conflitto mondiale con la mobilitazione bellica degli stabilimenti, ad esempio le Officine Galileo passano dal 1907 al 1917 da circa 200 a circa 2000 addetti.

Una crescita che parallelamente vede l’esplosione di una presenza organizzata del sindacato e del partito socialista.  Nel 1920 il PSI conta oltre 8700 e la Camera del Lavoro oltre 63.000 soci divisi in circa 218 leghe. Una massa arrabbiata per i sacrifici e le scelte della guerra si organizza in una straordinaria rete di associazioni mutualistiche, ricreative, cooperative, accanto a quelle di partito e sindacato, trovando piena espressione nella dirigenza massimalista che ne ha assunto il controllo. Proprio la prospettiva neutralista e l’ostilità verso il conflitto mondiale accrescono i consensi dell’ala più intransigente del Psi fra le masse dei lavoratori già esasperate dalla precarietà e dalla durezza delle proprie condizioni lavorative. Peraltro la componente riformista, nonostante fosse ancora rappresentata da uomini come Giovanni Pieraccini e Giuseppe Pescetti e fosse radicata nelle associazioni economiche, sindacali e cooperative, aveva subito un duro colpo a seguito della svolta intervista di suoi numerosi esponenti, a partire dal direttore del periodico del partito “la Difesa”, Michele Terzaghi, espulso insieme all’on. Carlo Corsi. Tanto che proprio negli anni della prima guerra mondiale Firenze è definita la “capitale dell’intransigentismo”. La città aveva ospitato nel 1917 la Direzione nazionale del Psi che indica il sentimento patriottico come incompatibile con il marxismo e, in novembre, la riunione costitutiva dei gruppi “intransigenti-rivoluzionari” di Lazzari, Serrati, Gramscie Bordiga.

Un ruolo dominante dell’ala massimalista e rivoluzionaria che è ulteriormente rafforzato dal difficile contesto del dopoguerra. Fin dai primi mesi di pace tutte le categorie avanzano rivendicazioni e attuano scioperi. Alla Galileo sono molteplici le rivendicazioni per carovita o obiettivi politici. Centro dei moti per il carovita nel ’19 (con oltre 1400 arresti e oltre 400 persone mandate a processo) ai quali partecipano gli operai che raccolgono il malcontento di una comunità prostrata dal conflitto e dalle scelte governative dell’immediato dopoguerra. Del resto tutta la regione è scossa da tensioni e scontri. Nel 1919-1920 la Toscana è la seconda regione per numero di scioperi agricoli, seconda solo all’Emilia Romagna. I proprietari sono costretti nel corso del ’19 a rivedere le proprie posizioni e a concedere aumenti salariali.

Nel 1920 la situazione precipita. Toscana ed Emilia spiccano per numero di scioperi in un contesto nazionale che vede peraltro il nostro Paese al primo posto a livello europeo nel primo semestre di quell’anno. A gennaio quelli dei postelegrafonici e quindi dei ferrovieri aprono, pure a Firenze, una lunga scia di agitazioni, che vedono emergere sempre più la figura di Spartaco Lavagnini segretario della sezione fiorentina del sindacato ferrovieri. Proseguono le lotte agrarie. Nella primavera scontri prima in Emilia, poi in Toscana provocano vittime fra i lavoratori delle campagne e con scelte dal basso viene proclamato lo sciopero  a Firenze, Piacenza, Bologna e Modena. Dopo mesi di tensioni il 7 agosto 1920 viene firmato il nuovo patto colonico regionale fra agrari e Federterra. Ma la disputa sui patti agrari fra popolari e agrari nell’autunno del ’20 rimette tutto in discussione.

Anche nel mondo dell’industria i fronti contrapposti si muovono, gli industriali si organizzano in proprie associazioni, a maggio nel corso dell’ottavo congresso della FIOM Bruno Buozzi fa approvare un documento che chiede aumenti salariali del 40%, indennità di licenziamento, dodici giorni di ferie pagate all’anno. La CGdL approva i consigli di azienda destinati a tutelare i lavoratori in fabbrica e intervenire nell’organizzazione del lavoro. Per gli industriali è troppo. Contratti, diritti, miglioramenti delle condizioni di lavoro sono pretese inaccettabili in una totale negazione della dignità del lavoratore e del lavoro tanto più offensiva in un territorio come questo segnato da forti tradizioni e culture professionali. Non è solo una questione economica, è ancor prima una questione di rispetto mancato, negato, di riaffermazione di potere, gerarchie, tradizioni. Reazioni consolidate ma che diventano inaccettabili in un momento in cui davvero si vede la rivoluzione scuotere l’Europa. I lavoratori si muovono.

A Firenze il clima è già incandescente. 10 agosto  a Firenze in via Centostelle viene fatta saltare in aria la polveriera di San Gervasio provocando otto morti e molti feriti. 29 agosto comizio socialista a Firenze all’interno della campagna nazionale del partito per chiedere la smobilitazione delle classi di leva ancora sotto le armi, eliminazione della censura sulla stampa, amnistia per i reati di guerra, rapporti politici ed economici con la Russia. Le forze dell’ordine sparano sul corteo dei manifestanti senza adeguato preavviso per fermare una parte del corteo, di giovani, che volevano andare in corso dei Tintori verso la sede della Camera del Lavoro. 4 morti (tre operai e una guardia) e vari feriti. Mentre almeno cinquantamila persone con bandiere rosse seguono il funerale dei tre operai, viene proclamato lo sciopero generale.

L’occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20 ha una partecipazione compatta e disciplinata delle poche grandi fabbriche e di molte delle aziende di modeste dimensioni. Dal 2 al 30 settembre l’occupazione interessa circa una decina di fabbriche e circa 3000 operai organizzate da fitta rete di rappresentanti di fabbrica, , commissioni interne, commissari di reparto, consigli di fabbrica, capaci di autogestire gli impianti che infatti, a differenza di altre regioni, continuarono a garantire ritmi di produzione quasi normali.

Aspetto qualificante delle lotte di fabbriche è l’attenzione prestata al tema della professionalità, al ruolo sociale e produttivo del lavoro. Aspetto che affonda le sue radici nelle caratteristiche di fondo della classe operaia fiorentina e che vede come corollario la lotta contro la concezione della fabbrica come dominio assoluto del padrone. C’è un’attenzione, quasi una cura della fabbrica, delle macchine, dei prodotti che segna la storia della classe operaia fiorentina e che emergerà in un momento drammatico quale la primavera estate del ’44 quando saranno gli operai a salvare le fabbriche dal trasferimento in Germania, voluto dai nazisti in ritirata, smantellandone i pezzi in modi tali da poterle poi, a liberazione avvenuta, ripararle, tutelando cose i beni dei padroni ma anche e soprattutto il proprio futuro e quello del Paese. La Pignone è la fabbrica che meglio rappresenta questa tendenza, non a caso nell’occupazione del 1920 commissione interna e commissari di reparto sono impegnati fortemente a dare prova di capacità e autonomia organizzativa e produttiva, la fabbrica sono anche loro perché senza il loro lavoro, senza la loro cultura del lavoro, la loro professionalità, i loro sacrifici, essa non esisterebbe, la fabbrica quindi non è solo il padrone. La rivendicazione del valore sociale ed economico del lavoro operaio sarà il filo rosso che segnerà tutte le diverse fasi del Novecento.

Contemporaneamente la dirigenza della sezione socialista conosce un processo di ulteriore radicalizzazione che si concretizza nell’esclusione degli esponenti riformisti dalle liste per le elezioni amministrative nell’autunno del 1920, che vedono peraltro la vittoria della lista “nazionale”. Al di là delle aspettative di massimalisti e comunisti, l’aspettativa della rivoluzione, spaventando ceti sociali diversi, consolida le forze conservatrici. A novembre la corrente comunista assume la guida della sezione urbana e di tutta la Federazione. L’adesione della maggioranza dei delegati fiorentini al Partito comunista d’Italia nel congresso di Livorno del gennaio del 1921 non appare quindi una sorpresa, ma il culmine del processo di radicalizzazione articolatesi negli anni e nei mesi precedenti. Infatti 4003 voti andarono ai comunisti, 3309 ai massimalisti e 229 ai riformisti. Come già sottolineava Giovanni Gozzini molti anni fa, tutta la regione vede una significativa adesione al nuovo partito, tanto che la Toscana ne è il secondo punto di forza a livello nazionale dopo il Piemonte. La scissione è maggioritaria nelle province di Firenze, Arezzo e Massa Carrara. Ma proprio a Firenze emerge uno degli elementi di maggiore novità del PCdI rispetto al PSI, pur nella stretta contiguità con valori e miti del massimalismo (che si rispecchiano in parte anche in una contiguità di classe dirigente): l’emergere di una nuova classe dirigente – ben simboleggiata dal segretario provinciale Spartaco Lavagnini – non solo espressione dei ceti operai e non più medio-borghesi, ma soprattutto interprete “di un rapporto diverso con le masse popolari, non più di tipo pedagogico e tribunizio – proprio degli “intellettuali” appartenenti alla tradizione socialista – bensì fondato su un’esperienza diretta di lotta e di organizzazione, molto più vicino alle aspirazioni e ai bisogni del popolo” [cfr. La formazione del partito comunista in Toscana 1919-1923, Quaderni dell’Istituto Gramsci – Sezione Toscana n. 3, Firenze, 1981, p. 208]. In città il nuovo partito riesce a strutturarsi significativamente e rapidamente grazie all’adesione plebiscitaria della Federazione giovanile socialista che porta in dote non solo entusiasmo, ma anche molte sedi, fondamentali per avviare un’organizzazione effettiva sul territorio. Immediato è l’impegno a costituire gruppi nei luoghi del lavoro, a partire dalle fabbriche; significativa la “conquista” della FIOM cittadina. Ma la strada appena imboccata non sarebbe stata agevole. E non solo per le divisioni a sinistra.

Firenze è, infatti, contemporaneamente precoce anche nelle violenze squadriste che intervengono a segnare la vita della città e della provincia, con la forza della violenza, proprio fra il dicembre del 1920 e i primi mesi del ’21, spinte dalle paure dei ceti medi spaventati dalla rivoluzione minacciata e soprattutto dai sostegni di agrari e industriali, la vecchia classe dirigente gravemente turbata dalla perdita del potere locale dopo le sconfitte alle elezioni amministrative tenutesi nell’autunno (con l’eccezione di Firenze città). Dopo il settembre delle bandiere rosse il quadro stava infatti rapidamente mutando e avrebbe colpito in primo luogo proprio la neonata sezione del partito comunista d’Italia con la barbara uccisione del suo segretario Spartaco Lavagnini, il 27 febbraio 1921. Troppo evocata, la rivoluzione aveva saputo suscitare e unire tutti i suoi oppositori proprio mentre i suoi sostenitori si dividevano ed isolavano, rimaneva mito e spettro, senza, del resto, essere mai stata realtà.




Livorno 1921. Ipotesi su una bandiera

Il Telegrafo / La Gazzetta Livornese 1º maggio 1923:

Due bandiere rosse sequestrate dai fascisti.

Dai fascisti dalla Sezione delle Case Popolari sono stati sequestrati nelle case di due ferrovieri due vessilli rossi: uno di seta con frangia nera, appartenente alla Sezione comunista di Livorno e l’altra al gruppo socialista «Spartaco».

Le bandiere sono state consegnate ai dirigenti del Fascio.

  Da questo vecchio articolo potrebbe iniziare una nuova ricerca per ricostruire la vera storia della bandiera della Sezione di Livorno del Partito Comunista d’Italia, attualmente esposta a Livorno presso il Museo della Città, dopo il difficile recupero e restauro compiuto nel 2015, durante cui è andato perduto ciò che restava sui bordi delle frange originarie (nere o dorate).

La sua storia – orale – è abbastanza nota: cucita da compagne livornesi, si sarebbe salvata dalle incursioni fasciste e durante il periodo della clandestinità, dopo essere stata nascosta da Ilio Barontini e da Armando Gigli sino alla Liberazione. Dopo di che sarebbe stata conservata presso le sedi della Federazione del PCI per approdare al Circolo democratico S.Marco-Pontino “Lanciotto Gherardi” con sede in via Garibaldi.

Sempre secondo la memoria tramandata, questa sarebbe stata la prima bandiera della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, risalente alla fondazione nel gennaio 1921 e avrebbe persino sventolato sul Teatro S. Marco.

Telegrafo 1MAGGIO23

Telegrafo 1MAGGIO23

L’articolo del maggio 1923 sembra però contraddire tale datazione. Innanzitutto, va precisato che all’epoca i vessilli delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio erano uniche e quindi è da escludersi l’esistenza di due bandiere per la stessa sezione locale del PCdI, come di qualsiasi altro sodalizio sovversivo.

Infatti, il momento dell’inaugurazione era politicamente e simbolicamente importante, tanto che avveniva in forma solenne in occasione di manifestazioni, come il Primo Maggio, o con feste collettive dedicate proprio a tale presentazione, comprendenti significativi discorsi degli esponenti del partito o della lega.

Soltanto l’usura o la perdita accidentale di tale bandiera poteva motivare la fabbricazione e la comparsa in pubblico di una nuova.

L’articolo in questione non lascia quindi molti dubbi sul fatto che il sequestro si riferisce con ogni probabilità alla prima bandiera della sezione comunista livornese.

La successiva consegna della stessa, come trofeo di guerra, alla sede del Fascio in piazza Cavour era poi una “consuetudine” fascista, così come ricordato da Garibaldo Benifei nelle sue memorie che vi aveva veduto: «una sala in cui stavano in bella mostra, come trofei di caccia, le bandiere conquistate ai “rossi” durante le spedizioni, gli agguati, gli scontri».

Almeno parte di tale raccolta venne trasferita a Roma, assieme ad altri cimeli, nel 1932 per la Mostra della Rivoluzione Fascista, ma soltanto alcune bandiere provenienti da Livorno sono state recuperate e si trovano conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato; per cui, si può affermare che quella comunista è andata perduta, magari nelle contingenze belliche.

Il dettaglio della frangia nera è inoltre comune a numerose bandiere comuniste – ed anche socialiste – dell’epoca.

La bandiera che è arrivata sino a noi potrebbe dunque, pur essendo del tutto autentica, essere quella che sostituì, in un momento successivo, quella sequestrata dai fascisti.

A rafforzare tale sospetto, ci sono due elementi. La scritta nera nella parte inferiore del campo rosso, con la dicitura Sezione di Livorno, appare in caratteri diversi e meno elaborati, rispetto all’iscrizione superiore – Partito Comunista d’Italia – ricamata in un bellissimo stile Liberty.

Anche in fase di restauro, è stato osservato che la scritta inferiore risulta realizzata in un momento successivo, come per adattare e connotare una bandiera pre-esistente, circostanza questa alquanto improbabile se si fosse trattato della prima bandiera del neonato partito.

In secondo luogo, può essere interessante una considerazione iconografica, in base al confronto con tutte le bandiere comuniste note del periodo; talvolta senza simboli (come quella di Pitelli). Il simbolo centrale della stella con inscritta la falce e martello (peraltro posizionati in senso contrario rispetto all’orientamento tradizionale) risulta del tutto inconsueto, per non dire eccezionale, nel 1921. Come si può constatare pure nelle tessere del Partito, la stella, di derivazione sovietica, entrò infatti nella simbologia comunista soltanto anni dopo – anche perché in Italia era legata ad altri movimenti e contesti culturali – e quindi rafforza la convinzione dell’esistenza di un’altra storia, ancora sommersa e tutta da scrivere.

Un’altra bandiera comunista scomparsa nel vortice della guerra civile è quella della Federazione giovanile di Livorno, con sede in via Solferino devastata nel 1922 dai fascisti, ricordata dal militante Ilio Paperi (“I giovani livornesi affrontano i fascisti sulle piazze”): «anche noi giovani comunisti s’aveva una bandiera bellissima più grande di quella della federazione adulta, e che purtroppo non è stata mai ritrovata».

 




Vittorio e gli altr*: storie di guerra, di scelte e di lotta in terra di Siena

Per il comunista Vittorio Bardini, noto al regime fascista fin dalla seconda metà degli anni Venti per la sua attività “sovversiva”, condannato al carcere e al confino, emigrato in Unione sovietica, combattente come volontario a difesa della Repubblica nella guerra civile spagnola, la scelta della Resistenza dopo l’8 settembre del ’43 è una strada segnata, la tappa decisiva di una lunga sfida, che lo sottopone ancora a prove estreme come la detenzione nel lager di Mauthausen, ma che lo porta nel 1946 a Montecitorio, eletto all’Assemblea costituente, “padre” della nuova Italia, anche in nome dei compagni caduti nella lotta, come Aldo Borri che negli anni Trenta aveva rinunciato al lavoro di insegnante piuttosto che iscriversi al partito fascista e che dopo l’8 settembre era diventato membro del Comitato militare clandestino senese, ma che era morto in conseguenza del primo bombardamento alleato sulla città, il 23 gennaio 1944.
Così era stato per gli “antifascisti storici” (p. 77), quelli che avevano fronteggiato il regime negli anni dell’Italia in camicia nera e che, dopo l’armistizio, non indugiano nella scelta della lotta armata, come ad esempio Giovanni Guastalli, commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini. Non solo uomini, è lo stesso per Norma Soldi e Alva Bucci che di quella brigata si definiscono “staffette di vigilanza”, sempre attente a riferire ogni mossa di tedeschi e fascisti. Accanto alle convinzioni ideologiche che guidano i comunisti, vi sono anche altri percorsi.
Per il giovane Vittorio Meoni è l’ambiente dell’Azione cattolico che lo spinge a posizioni sempre più critiche con il fascismo negli anni della guerra, fino all’avvicinamento al comunismo e alla scelta partigiana. Mentre non mancano ufficiali che, fedeli al giuramento al re, organizzano gruppi armati, come il colonnello Adalberto Croci, comandante del Raggruppamento Monte Amiata.
E poi vi sono coloro che, senza impugnare le armi e più per adesione ai valori umani che per consapevolezza politica fronteggiano la guerra e l’occupazione nazi-fascista boicottandone le direttive e proteggendone i “perseguitati”: dai propri figli richiamati alla leva fascista a perfetti sconosciuti, ma riconosciuti sempre come uomini (ebrei, disertori, ex prigionieri di guerra..), fino agli stessi partigiani. Fra questi spiccano figure di sacerdoti e religiosi, come il francescano Quirino Bulletti che aveva fatto nascondere ai partigiani le armi nel cimitero della confraternita della Misericordia di cui era cappellano, subendo poi l’arresto da parte dei fascisti o come i padri del Monastero di Monte Oliveto impegnati a nascondere gli ebrei e quindi a ricercare rifugi più sicuri rispetto alla loro stessa residenza. Ma fra i resistenti vi sono anche gli ufficiali e i soldati, ben 1328, che per essersi rifiutati di combattere con i nazisti e fascisti sono trasferiti nei campi di prigionia nel Reich, privati dello status di prigionieri – con le relative tutele, ridotti a “schiavi” a servizio dell’economia nazista, come Martino Bardotti ufficiale di Poggibonsi, reso fermo nella difficile scelta dalla formazione ricevuta in Azione cattolica.

CopertinaQuesti sono solo alcune delle figure che aprono – o che animano – i capitoli della nuova Storia della Resistenza senese pubblicata dall’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea: un volume importante e “ambizioso”, come ricorda Nicola Labanca nel suo saggio introduttivo non solo perché presenta una sintesi compiuta ed al tempo stesso agile, a molti anni dal precedente volume di Tamara Gasparri (allora, nel 1976, innovativo ed approfondito) e alla luce dei successivi sviluppi della storiografia, ma anche per il metodo adottato.

Il libro è infatti prodotto dal “gruppo di lavoro” dell’Istituto senese, composto non solo da generazioni, ma anche da professionalità diverse. Un lavoro in comune che deve aver comportato un complesso, ma certamente arricchente, processo di scambio e confronto, arricchito dall’apporto di competenze diverse, quali quelle dell’antropologia, visibili in particolare nelle pagine sul mondo mezzadrile, ma ben amalgamate lungo tutto il volume. Le diverse sensibilità infatti, probabilmente per la consuetudine ad un lavoro comune consolidatasi nel tempo, hanno infatti prodotto un testo omogeneo, scorrevole, intenso, dove le singole individualità degli autori possono apparire fra le righe, ma senza disorganicità. Il testo è stato indubbiamente possibile per il vasto impegno svolto fin dalla sua fondazione dall’Istituto per la promozione della conoscenza storica di quegli anni così complessi, alla luce delle nuove domande e sfide poste dalla storiografia dagli anni Novanta, a partire dalle fondamentali questioni poste da Claudio Pavone, fino alle preziose banche dati sulle azioni della Resistenza e sulla nuova classe dirigente post-Liberazione realizzate o in via di elaborazione. Ma nella sua efficace configurazione è certo frutto delle scelte del “gruppo di lavoro”, probabilmente consolidate dalla positiva esperienza vissuta nel 2019 all’interno del progetto “Pillole di Resistenza”, la serie di video-documentari sulla Resistenza Toscana, realizzata dallo Studio RUMI, coordinata dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea, insieme a tutti gli istituti provinciali, grazie al sostegno della Regione Toscana.

Il libro è, infatti, articolato, come rileva Nicola Labanca “per temi, classici in questo tipo di studi, intrecciati ad un certo filo cronologico” (p. 12) che consentono di toccare tutte le questioni principali, a partire da profili biografici “esemplari” che le introducono. Nello scorrere delle pagine, ai volti di uomini e donne, colti nella loro complessa umanità, si succede così la narrazione dei fatti essenziali e l’individuazione dei nodi essenziali della riflessione storica: il rapporto della Resistenza con le precedenti generazioni dell’antifascismo e con la stagione della violenza politica avviata dallo squadrismo fascista nel primo dopoguerra, lo spaesamento delle istituzioni e delle persone nella convulsa estate del 1943, il tema essenziale delle scelte dopo l’8 settembre, del collaborazionismo fascista a servizio dell’occupazione nazista e delle sue dinamiche di sfruttamento del territorio e della popolazione (delineato con cura anche per “decostruire” la falsa narrazione diffusasi nella memoria locale sulla natura “blanda” dell’ultimo fascismo senese), delle forme molteplici della Resistenza a partire dalla dimensione della lotta partigiana cui viene data una dovuta centralità, senza per questo dimenticare le altre forme di Resistenza, cui viene dedicato il capitolo ottavo e dando un giusto rilievo alla presenza e al ruolo delle donne (gravemente segnate dalle violenze di guerra, basti solo pensare ai numerosi stupri ad opera delle truppe marocchine del Corpo di spedizione francese), il ruolo dei Comitati di liberazione nazionale, la complessa stagione stretta fra la liberazione del territorio e l’attesa della conclusione del conflitto in Italia.
Menzione specifica merita il settimo capitolo dedicato al mondo della campagna, travolto dal conflitto totale, per la rilevanza della mezzadria e in generale della dimensione rurale nella realtà sociale della provincia senese, ma anche per la comprensione della mentalità e della cultura della maggioranza della popolazione, così da comprendere meglio l’impatto avuto dal conflitto. L’analisi delle scelte dei contadini nel contesto dell’occupazione e di fronte al movimento partigiano evidenzia, infatti, tutta la complessità della vicenda storica, al di là di facili ed illusori schematismi che hanno animato annosi dibattiti e polemiche e aiuta a cogliere il carattere dirompente che l’impatto del conflitto ha su quella classe sociale, segnandone mentalità, scelte, comportamenti ben oltre l’esaurirsi dell’evento bellico. Ma opportuno e significativo è anche il terzo capitolo che tratteggiando l’impatto della “guerra totale” sul territorio senese e sulla popolazione, a partire dalle conseguenze degli attacchi aerei anche a fronte della sostanziale assenza di “qualsiasi struttura difensiva a tutela della popolazione e del ricco patrimonio storico-artistico” (p. 55), contestualizza bene il vario formarsi delle resistenze nel processo di disgregazione del rapporto fra italiani e regime favorito dal conflitto.

IMG_4134La dimensione del volume (oltre 270 pp.) significativa, ma “ridotta” in relazione alla complessità delle questioni trattate ne evidenzia il carattere “coraggioso” di sintesi che quindi inevitabilmente può scontare l’opportunità di alcune scelte o la minor trattazione di alcuni temi o aspetti (come ad esempio quelli dell’avvio del processo di ricostruzione e della formazione della nuova classe dirigente in un difficile rapporto con i comandi alleati, tratteggiati nell’ultimo capitolo), ma che ha in ciò il suo merito. A fronte di tanti contributi specialistici che indagano nei dettagli singoli aspetti, ciò che spesso manca (anche a livello di sintesi regionale) è un contributo che possa richiamare l’integrità del quadro senza “spaventare” il potenziale lettore per il numero eccessivo di pagine, ma piuttosto stimolandolo a proseguire un cammino di conoscenza grazie ad un apparato di note puntuali, ma non invasivo e pletorico.

Infatti, in conclusione, ritengo che il merito principale del volume sia quello di rivolgersi a tutti. L’assenza di retorica e soprattutto le scelte narrative accattivanti, la capacità di evidenziare i nodi più interessanti per la realtà locale ma anche in una chiave nazionale, lo stile e il linguaggio adottati, lo rendono “piacevolmente” leggibile per un pubblico vasto di interessati e non (solo) di specialisti (oltre che adatto per un sistematico uso didattico) in una stagione che, privata dai testimoni diretti, deve vedere proprio nel ritorno alla conoscenza storica la strada principale per rendere patrimonio comune della cittadinanza questi snodi essenziali della nostra storia comune. Direzione nella quale, con questa pubblicazione, l’Istituto di Siena aiuta tutti a fare un passo importante.




Un’ora di dolore per il proletariato pisano.

«L’Ora nostra», il periodico della Federazione pisana del Partito socialista, nel numero del 15 aprile 1921 con un titolo a tutta pagina, Un’ora di dolore per il proletariato pisano, annuncia la barbara uccisione, per mano fascista, di Carlo Salomone Cammeo, il ventiquattrenne segretario provinciale del partito.

Sulla prima pagina del periodico pisano l’apertura di questo numero è simbolicamente lasciata ad un comunicato congiunto a firma della «Federazione pisana del Partito socialista», del «Gruppo comunista», della «Camera confederale del lavoro» e della «Camera sindacale del lavoro», della «Lega proletaria reduci», dell’«Unione anarchica pisana» e della «Lega arti tessili». Fin dal primo momento non si fa di Cammeo un martire di parte socialista, ma il dolore per la sua morte è il dolore del proletariato pisano, dei lavoratori colpiti dalla violenza fascista, sotto lo sguardo compiaciuto dello stato e della borghesia pisana più reazionaria e conservatrice. Sulla prima pagina della citata edizione de «L’Ora nostra», il richiamo all’unità è di nuovo ribadito in un trafiletto a chiusura del comunicato del fronte antifascista pisano: «Questo numero è compilato da socialisti e comunisti, congiunti nel rendere al Caro Estinto il loro tributo di affetto». Sembrano di colpo allontanarsi, anche se per poche ore, le grida e il clamore delle reciproche accuse scambiate fino al giorno precedente, scontri che hanno visto l’apoteosi poche settimane prima a Livorno al 17° congresso del PSI; contrasti vissuti nelle singole sezioni del partito socialista dove si discuteva animatamente dei tempi della rivoluzione, di soviet e di «fare come in Russia» e reciprocamente si accusavano, con epiteti quali traditore e canaglia, proletari con proletari, lavoratori con lavoratori.

Questi primi mesi del 1921 sono contrassegnati da alcuni episodi regionali e nazionali che turbano l’opinione pubblica e accendono gli animi delle contrapposte forze politiche avviando l’intero paese verso una strisciante guerra civile che causerà lutti e profonde lacerazioni. A Pisa i fascisti con un concentramento di squadre proveniente da tutta la regione hanno impedito l’insediamento del nuovo consiglio provinciale eletto alle ultime elezioni amministrative di novembre. Il nuovo presidente, Ersilio Ambrogi, sindaco di Cecina, socialista rivoluzionario con precedenti libertari passato nelle file comuniste, a fine gennaio viene arrestato dopo un conflitto a fuoco con i fascisti[1]. Il 27 febbraio l’eco della morte del sindacalista e comunista, Spartaco Lavagnini, scatena la reazione delle forze di sinistra che proclamano lo sciopero generale. Nei giorni successivi in tutta la regione, oltre che nel capoluogo, si succedono scontri armati tra fascisti, forze dell’ordine e antifascisti con numerosi morti e feriti. Il primo marzo a Empoli un reparto di marinai scortati da carabinieri di transito nella città è fatto segno di numerosi colpi d’arma da fuoco da parte di militanti delle forze di sinistra e dalla popolazione che temono una nuova incursione dei fascisti. Al termine degli scontri rimarranno sul terreno 9 morti e 18 feriti. Empoli il successivo 19 marzo sarà poi devastata dai fascisti. Il 4 marzo è la volta di Siena dove i fascisti assaltano la Casa del popolo che viene conquistata e incendiata, dopo un duro conflitto armato. Il 23 marzo, infine, giunge la notizia dell’attentato dinamitardo al Teatro Diana a Milano che causa 21 morti e una ottantina di feriti. I responsabili dell’attentato, un gruppo di anarchici individualisti, saranno poi successivamente arrestati. Il fronte antifascista è sconvolto e indebolito dalle divisioni davanti ad una reazione, che si compatta dietro Mussolini e le sue squadre, pronta a legittimare ogni violenza che possa in qualunque modo impedire che l’Italia diventi «bolscevica».

Non sono parole di odio quelle che escono da «L’Ora nostra» in ricordo del proprio segretario, sono parole che invocano giustizia e pace:

Noi, lo ricordino i fascisti, non giuriamo sul corpo esangue di Carlo Cammeo, la vendetta, né la facciamo giurare ai lavoratori[2].

 Carlo Cammeo, maestro elementare, la mattina del 13 aprile viene ucciso nel cortile della scuola dove insegna, davanti agli occhi atterriti dei propri alunni, «sul limitare del tempio che è sacro anche ai delinquenti più comuni […] sul quale sono ancora impressi l’amore per il suo ministero e il sorriso dei suoi bimbi innocenti»[3].

Secondo la testimonianza di alcuni alunni, due donne, Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti, bussano al cancello della scuola chiedendo di poter parlare con il maestro Cammeo. Il custode della scuola le fa entrare e le donne vengono ricevute dal maestro proprio sulla soglia dell’aula dove sta tenendo lezione. Visto che le due fasciste si agitano ed esigono maggiore attenzione, Cammeo risponde che la scuola non è il luogo adatto per queste discussioni e, per evitare che gli alunni ascoltino questa conversazione, chiede loro di rimandare il confronto a lezione finita. Le due donne iniziano ad inveire contro il maestro e lo invitano a uscire nel giardino; una volta fuori una delle due gli consegna un foglio che, secondo la testimonianza di un alunno, Cammeo restituisce loro dicendo «Questo non è per me»[4]. In questo frangente entrano nel cortile della scuola tre uomini e uno di questi, Elio Meucci, studente universitario in Farmacia, ferisce mortalmente il maestro, con due colpi di rivoltella, mentre gli alunni assistono alla scena dalle finestre della classe. Nel fuggire lo stesso Meucci ferisce a una gamba la Lupetti, forse per errore o per simulare una colluttazione[5]; ma la tesi della morte di Cammeo durante uno scontro, inizialmente sostenuta dai fascisti, decade subito con le prime testimonianze[6].

La morte di Cammeo sconvolge la città di Pisa e l’intera provincia. Il «Sindacato Magistrale» scrive:

 Insegnanti di tutti i gradi! Nel Tempio sacro della Scuola è stata perpetrata la più nefanda violazione. Un vostro collega è stato ferocemente assassinato, mentre compiva sereno il proprio dovere di educatore[7].

La città si rende immediatamente conto del significato di questo gesto: la barbara uccisione di Carlo Cammeo, il luogo violato da questo episodio, rappresentano un passaggio irreversibile, sta succedendo qualcosa che non ha niente a che fare con le lotte politiche tra diverse fazioni, fino ad allora conosciute. «L’Ora nostra» non ha dubbi:

 L’episodio brutale e inqualificabile non ha precedenti […] Mai la vita degli uomini è stata in pericolo come ora. Mai in tanti anni, dal nostro risorgimento alle lotte operaie odierne, si è ucciso così impunemente[8].

Qual è la colpa di Carlo Cammeo? Sicuramente quella di essere socialista, di essere il segretario provinciale della federazione e principalmente di essere una brillante firma de «L’Ora nostra». Il motivo della sua condanna a morte è proprio un suo articolo pubblicato sul periodico socialista pisano del 1° aprile, con il quale Cammeo risponde alle minacce fasciste e svela la verità in merito alla morte dello squadrista Tito Menichetti, ucciso a Ponte a Moriano, pochi giorni prima, durante uno scontro tra squadristi e operai. Il 25 marzo infatti una squadraccia di fascisti pisani parte alla volta di Ponte a Moriano nella vicina provincia lucchese, l’obiettivo della spedizione è togliere dalla sede di un circolo ricreativo il simbolo dei Soviet: la falce e il martello[9]. Le camicie nere riescono nell’impresa, ma l’inatteso arrivo degli operai in paese avvisati della presenza dei fascisti scatena la fuga precipitosa di quest’ultimi; rimane inavvertitamente indietro un autocarro con a bordo una squadra che è costretta a scontrarsi con gli operai accorsi. Scoppia una furibonda rissa e rimane a terra, ferito mortalmente, il fascista pisano Menichetti[10].

I fascisti giurano vendetta e nei giorni successivi sui muri di Pisa viene affisso il seguente manifesto: «Tito Menichetti sarà vendicato senza pietà!». Un annuncio di guerra che il giovane segretario socialista, nell’articolo incriminato e che varrà la sua condanna a morte, commenta con queste parole: «Gli onesti, coloro che vedono con orrore il perpetuarsi di questa violenza fratricida, devono sentirsi l’animo pieno di ribrezzo, alla lettura dell’incosciente manifestino»[11].

Ma il fascismo pisano ha bisogno di un’altra verità e il giornale monarchico il «Il Ponte di Pisa», pubblicato in città dal 1893 e diretto da Enrico Mazzarini, si è già piegato al ruolo di bollettino dei nascenti fasci rionali pisani. Così la propaganda fascista, con l’appoggio incondizionato di un periodico già conosciuto e stimato dalla borghesia pisana, crea il proprio martire e identifica nel bolscevico il nemico dell’Italia, del benessere e della quiete pubblica. In un articolo senza firma su «Il Ponte di Pisa», attribuibile al direttore, si individuano nei socialisti i responsabili dei fatti di Ponte a Moriano e si consacra Tito Menichetti[12], a ruolo di «martire» perché «con ardore e valore aveva preso parte, giovane bello e ardito, alla santa guerra di liberazione […] ucciso […] dopo una non sanguinosa dimostrazione fascista, quando egli se ne stava seduto in quiete ad aspettare che l’automobile fosse rimessa sulla strada del ritorno»[13]. I funerali di Menichetti sono una manifestazione fascista cui si associano le principali forze politiche moderate e conservatrici locali, ne riporta minuziosa cronaca «L’Intrepido», il settimanale dei fasci di combattimento di Lucca e Pisa[14]. Una cerimonia che – grazie alla partecipazione ufficiale delle autorità nella figura del Sindaco Francesco Pardi del PLI[15], della Giunta, del senatore liberale David Supino, del Presidente della Cassa di Risparmio Giovanni D’Achiardi poi Podestà di Pisa e delle rappresentanze dell’esercito – accredita ufficialmente il fascismo locale a difensore dell’ordine costituito e Menichetti viene proclamato «martire» della «nuova crociata» contro il «bolscevismo dilagante». La cerimonia religiosa si svolge nella chiesa di San Frediano, mentre il clero assolve la salma, Bruno Santini, ex ardito di guerra e capo del fascismo pisano, incita i camerati alla vendetta[16]. Sul pennone del Ponte di mezzo sventola la bandiera a mezz’asta. Il corteo funebre attraversa il centro di Pisa, percorre i luoghi che hanno visto, negli anni precedenti, sfilare le manifestazione del movimento operaio e dei partiti sovversivi locali. La salma è preceduta da un plotone di Carabinieri e dai militari del Reggimento Artiglieria, al seguito le autorità cittadine e la scorta delle Guardie regie. Un’immagine, un evento che comunica alla città, senza ombra di equivoco, la scelta di campo delle istituzioni locali.

Il fascismo assurge così, anche grazie a questi rituali di massa che si replicano in ogni città, a  argine, in questo momento di crisi economica e politica, alle forze «bolsceviche e antinazional. Va ricordato che sotto questa etichetta venivano all’epoca classificati non solo i comunisti ma anche i socialisti, gli anarchici e i sovversivi in genere. In queste giornate lo squadrismo, col consenso degli apparati statali, fa della violenza armata lo strumento che cambia sostanzialmente il confronto politico e l’elemento che, di conseguenza, scatena la «guerra civile»[17].

Non c’è quindi più tempo, i fascisti lo hanno giurato e la stampa borghese pisana, voce di una classe che finanzia e copre la violenza fascista, è pronta a giustificare, pur armata di perbenismo, qualsiasi gesto.

Così la vendetta fascista, il 13 aprile, si scaglia contro il maestro Carlo Cammeo, segretario federale del partito socialista principale forza politica del movimento operaio pisano[18].

I funerali laici di Carlo Cammeo sono imponenti, assenti le autorità locali, una straordinaria manifestazione popolare attraversa la città e al termine si svolge un grande comizio, in Piazza del Duomo, dove prendono la parola, tra gli altri, il segretario della Camera del lavoro confederale Giuseppe Mingrino[19], poi tra i fondatori degli Arditi del popolo; il socialista Amulio Stizzi[20]; il repubblicano Italo Bargagna[21], poi uno dei punti di riferimento dell’antifascismo pisano e primo sindaco comunista della Pisa liberata e l’anarchico Gusmano Mariani[22] che anni dopo porterà il suo contributo alla lotta antifascista combattendo in Spagna nella formazione guidata da Carlo Rosselli.

«Il Ponte di Pisa» dà notizia dell’uccisione di Carlo Cammeo, in un piccolo trafiletto, con queste poche parole

 scriviamo del doloroso episodio pisano, così vivacemente sanguigno, che ci ricorda il ferimento di una signorina, la figlia del nostro amico colonnello Lupetti, e la morte di un giornalista, maestro delle nostre Scuole elementari[23].

 Il giornale pisano chiude la piccola nota editoriale appellandosi al più ambiguo perbenismo, con l’augurio che «sui livori […] ritornino a prendere il sopravvento l’amore e la pace». Nello stesso numero l’attenzione della redazione del giornale è invece concentrata sull’inaugurazione dei nuovi edifici della Clinica Medica diretta dal professore Giovan Battista Queirolo e la notizia dell’uccisione di Cammeo occupa più o meno le stesse battiture dell’articolo che ricorda la concessione della medaglia d’oro ad un calzaturificio pisano. Sulla medesima edizione, identico spazio viene dedicato a un’altra notizia che infastidisce la borghesia pisana: a Vecchiano, l’assessore comunista Pirro Pardi, falegname di professione, celebra i matrimoni civili senza indossare la fascia tricolore «come se fosse in Russia»[24]. Naturalmente nessun cenno ai funerali di Cammeo e alla manifestazione di protesta che ha coinvolto la città.

«L’Ora nostra», che nel periodo ’20-’21 raggiunge le 5000 copie, termina le sue pubblicazioni con il numero del 22 agosto 1922 – sconfitta dalle numerose violenze contro la sede del giornale, contro i suoi redattori e la tipografia che lo stampa – pur avvertendo i fascisti, nell’ultimo editoriale a firma del Direttore, che «L’Ora nostra non è morta, vigila, attenta alla sua missione elevatrice e purificatrice. La voce potente e gagliarda del proletariato pisano non è soffocata, né affievolita»[25].

«Il Ponte di Pisa» invece chiude le sue edizioni con il numero del 22 novembre 1934, alla morte di Enrico Mazzarini che ne è stato direttore ed anima per tutta la durata delle pubblicazioni, per oltre quarant’anni. L’ultimo numero, che annuncia la scomparsa del direttore, si apre con il telegramma del potente gerarca pisano Buffarini Guidi, all’epoca Sottosegretario agli Interni, indirizzato al suo camerata Alvaro Pinelli, «Morte Enrico Mazzarini mi ha molto rattristato. Porgo condoglianze e pregoti rappresentarmi ai funerali. Buffarini».

 

NOTE:
[1]La rimozione di Ambrogi dovuta all’arresto per i «fatti di Cecina» vedrà ancora per circa un anno un socialista alla guida dell’amministrazione provinciale, Guelfo Guelfi. Eletto nella sessione ordinaria dell’8 agosto 1921 Guelfi fu costretto alle dimissioni insieme a tutti i rappresentanti socialisti nell’agosto successivo a causa delle intimidazioni fisiche che impedirono in più d’un occasione di riunire il consiglio provinciale. Guelfi fu sostituito dal deputato Arnaldo Dello Sbarba e subito dopo da Annibale Tesserini che rimase in carica fino alle elezioni del febbraio 1923 quando venne eletto l’avvocato Filippo Morghen, da pochi mesi segretario federale del Partito fascista e leader di una coalizione che teneva insieme liberali, cattolici e fascisti. Cfr. A. Polsi, Il profilo istituzionale (1865-1944) in La provincia di Pisa (1865-1990), a cura di E. Fasano Guarini, Bologna, Il mulino, 2004, pp. 141-149.
[2]Non ammazzare, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921.
[3]Ibidem.
[4]Di questo particolare si trova traccia nella testimonianza di un alunno riportata nell’articolo Cronaca del fatto doloroso, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921. Nella stampa e nelle pubblicazioni successive relative all’episodio non si ritrova menzione e tanto meno notizie sull’oggetto della comunicazione consegnata dalle donne a Cammeo e da lui rifiutata. Le due donne non sono figure “anonime”: la Lupetti (che, per i suoi meriti, pochi mesi dopo sarà nominata segretaria del fascio femminile) è figlia del comandante del presidio militare; Mary Rosselli-Nissim è una signora già in là con gli anni, erede di una famiglia di sentimenti patriottici, il padre Pellegrino Rossi, mazziniano, e la madre, Janet Nathan, avevano ospitato nella propria casa Giuseppe Mazzini negli ultimi anni della sua vita.
[5]Cfr. G. Ciucci, La nostra inchiesta sull’uccisione di Carlo Cammeo, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921 dove si riporta la testimonianza di un alunno: «Dopo ammazzato il maestro, quello che gli aveva tirato si è avvicinato a una signorina ed ha sparato sulla gamba che questi gli offriva».
[6]Anche il quotidiano cattolico «Il Messaggero Toscano» fa decadere fin dal giorno successivo l’ipotesi dello scontro: «noi riferiamo i fatti serenamente, secondo la sola versione che ci risultava attendibile, perché confortata da una testimonianza diretta e confermata da alcune circostanze indubbiamente rilevanti in Dopo la tragedia di Porta Nuova. Quel che dice il maestro Ciucci», «Il Messaggero Toscano», 14 aprile 1921
[7]L’angoscia del proletariato, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921
[8]Non ammazzare, «L’Ora nostra», 15 aprile 1921.
[9]Sui modus operandi delle squadre fasciste cfr. M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003 e, sulle relative azioni in Toscana, cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano. 1919-1922, Roma, Bonacci, 1980.
[10]Tito Menichetti diventa il primo martire del fascismo pisano, a lui verrà intestato un Fascio rionale, gli sarà riconosciuta nel 1927 la laurea ad honorem ed eretto, a Marina di Pisa, un monumento in suo ricordo. Il suo nome varcherà le soglie della nazione tanto che a lui sarà intestato il fascio di combattimento di Ginevra.
[11]C. Cammeo, Incoscienza, «L’Ora nostra» 1° aprile 1921. L’altro articolo che scatena la violenza fascista contro Cammeo è Le Valkirie, «L’Ora nostra» 8 aprile 1921 a firma «Libicus» nel quale Cammeo ironizza sulla partecipazione di alcune donne ad una manifestazione fascista.
[12]Chi ha provocato? «Il Ponte di Pisa» 1 aprile 1921.
[13]M. Razzi, In memoria del martire, «Il Ponte di Pisa» 1 aprile 1921.
[14]L’edizione de «L’Intrepido» del 3 aprile 1921 titola a tutta pagina: Lucca e Pisa affratellate nel dolore tributano solenni onoranze alla salma del fascista TITO MENICHETTI assassinato a Ponte a Moriano. Nello stesso numero si ritrovano continui richiami al sacrificio dei martiri fascisti caduti nelle varie città toscane, come Ugo Botti a Livorno, e, nella pagina dedicata alla cerimonia pisana, il comunicato del «Fascio Femminile di Pisa» prende inizio con parole evocative: «Italiani, si muore per voi!».
[15]Le elezioni amministrative dell’autunno del 1920 consegnano la città di Pisa al «Fascio liberale democratico» che controlla la maggioranza del consiglio comunale con 48 seggi: 20 liberali, 5 democratici nazionali, 4 pensionati, 7 combattenti e 12 fra radicali, socialriformisti e democratici indipendenti.
[16]Scrive Bruno Santini nell’articolo: «Nella Camera Mortuaria, pubblicato su «L’Intrepido» 3 aprile 1921: Chi sente il cuore non fermo […] esca dalle fila. Chi dubita, chi teme […] esca dalle fila. Coloro che sentiranno di poter restare continueranno il loro cammino […] più forte e più feroci. Si più feroci. E rivolgendosi agli avversari: Guai a loro il giorno che prendessimo la dolorosa decisione di contraccambiarli con la stessa insidia, perché sapremmo sorpassarli anche nella vigliaccheria e nella ferocia».
[17]Cfr. F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al Fascismo, 1918-1921, Torino, Utet libreria, 2009.
[18]In questi anni Carlo Cammeo è anche protagonista di varie vertenze che riguardano il mondo della scuola.
[19]Sulla figura di Giuseppe Mingrino cfr. E. Francescangeli, Arditi del Popolo. Argo secondari e la prima organizzazione antifascista, Roma, Odradek, 2000. V. anche M. Rossi, Arditi, non gendarmi! Dalle trincee alle barricate: arditismo di guerra e arditi del popolo (1917-1922), Pisa, BFS, 20112 e il fascicolo personale in Archivio Centrale della Stato, Casellario Politico Centrale, b. 3301.
[20]Già segretario della Camera confederale del Lavoro prima di Guseppe Mingrino.
[21]Sulla figura di Italo Bargagna cfr. Ricordo di Italo Bargagna e del 50° anniversario della liberazione di Pisa. Pubblicato dal Comune di Pisa nel settembre 1996 e Archivio Centrale della Stato, Casellario Politico Centrale, b. 340.
[22]Cfr. F. Bertolucci, Mariani Gusmano, in Dizionario biografico degli anarchici Italiani, t. 2, Pisa, BFS, Pisa, 2004 pp. 93-94.
[23]Ritorniamo all’amore e alla pace, «Il Ponte di Pisa» 16-17 aprile 1921.
[24]Su e giù per la provincia, «Il Ponte di Pisa» 16-17 aprile 1921.
[25]«L’Ora nostra» dirada le sue pubblicazioni, «L’Ora nostra» 22 agosto 1922.




La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la riuscita stessa della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




“In clandestinità”

Abboccamenti e contatti alla ricerca di nuove adesioni, riunioni in luoghi appartati (una taverna, una bottega, un casolare, il folto di un bosco) per discutere la mutevole linea politica (l’unità d’azione, la bolscevizzazione, le tesi di Bordiga e quelle di Gramsci, il socialfascismo, i fronti popolari) modellate, volta a volta, secondo i dettami della Terza Internazionale. E contemporaneamente le scritte sui muri, il lancio di fogli ciclostilati per le strade di campagna e nei paesi, la diffusione dell’Unità e di altra stampa clandestina, la raccolta di soldi per aiutare i compagni carcerati, le fughe all’estero, gli arresti, gli interrogatori, gli anni di prigione e di confino, le amnistie seguite da nuove incarcerazioni.

In questa sequenza si può riassumere, non diversamente dal resto della Toscana e dell’Italia, la vicenda dei militanti comunisti senesi nel lungo periodo della clandestinità sotto il regime fascista. Una clandestinità iniziata precocemente poiché ben prima della legislazione eccezionale dell’autunno del 1926, l’azione combinata delle squadre fasciste e degli organi di polizia avevano messo di fatto oltre i margini della legge un’organizzazione che contava solo alcune centinaia di iscritti (la scissione di Livorno era stata nel Senese fortemente minoritaria), ma possedeva sul territorio una diffusione capillare che era ulteriormente cresciuta nel 1924, anno dell’adesione al PCd’I dei socialisti terzointernazionalisti di Giacinto Menotti Serrati, capeggiati, a livello locale, da Ricciardo Bonelli segretario della Federterra, il sindacato dei lavoratori agricoli che rappresentavano la grande maggioranza della forza lavoro della provincia. In quell’anno si contavano, infatti, una trentina di sezioni, dalla Val d’Elsa alla Val di Chiana, dal Monte Amiata al Chianti, dalla Val d’Orcia alla Val di Merse, insediate sia in alcuni dei centri maggiori, sia ancor più nelle frazioni rurali come S. Andrea a Montecchio e Rosia, Scorgiano e Gracciano, Ville di Corsano e Bettolle.

Due episodi possono essere portati ad esemplificazione di quanto appena detto. Un candidato nella lista di Unità Proletaria (comunisti e terzointernazionalisti) alle elezioni politiche del 1924 fu proprio il Bonelli. Tradito da un infiltrato, una settimana prima del voto era finito agli arresti perché in casa sua e nell’ufficio del suo negozio (faceva il fruttivendolo) la polizia aveva rinvenuto e sequestrato una grande quantità di opuscoli e giornali sovversivi, ovvero nient’altro che gli strumenti della campagna elettorale. Di sicuro Bonelli non sarebbe stato eletto (Unità Proletaria raccolse il 3,6% dei voti), ma la traduzione in carcere l’aveva comunque tolto di mezzo nell’ultimo scorcio di competizione. Di nuovo arrestato l’anno successivo, fu costretto ad andarsene da Siena insieme a suo fratello Gino che era segretario provinciale. In conseguenza di ciò, come annotava un rapporto interno al partito, l’organizzazione si era ridotta “al lumicino” poiché Gino Bonelli, «ripetendo quanto si è verificato in altre province d’Italia, colpite dalla reazione, non aveva comunicato agli altri compagni del centro federale gli indirizzi ed i nominativi ai quali ci si doveva rivolgere per mantenere i collegamenti» ed aveva costretto il nuovo segretario, Vittorio Bardini, a un complicato lavoro di ricucitura dei rapporti politici e organizzativi fra le diffidenze di quanti, una volta contattati, rispondevano che riconoscevano solo Bonelli e che avrebbero atteso da lui di sapere se altri erano effettivamente autorizzati a parlare a nome della federazione.

L’altro episodio riguarda Fosco Mazzoncini delegato senese al congresso nazionale di Lione del gennaio 1926. Il congresso provinciale, in forma molto ridotta (solo cinque le sezioni rappresentate, Siena, S. Andrea a Montecchio, Coroncina, Murlo, Gracciano, per un totale di 58 delegati) si era svolto in piena segretezza all’interno di una trattoria di Siena. Ma la federazione senese, nonostante le precauzioni adottate, mancò l’appuntamento con la storia del partito che segnò, secondo la storiografia ufficiale comunista, il momento decisivo del completamento del lungo e travagliato processo di formazione del PCd’I, poiché Mazzoncini, munito di passaporto falso, fu individuato ed arrestato alla frontiera di Domodossola.

Agli inizi del 1927, ormai sotto la dittatura conclamata, gli arresti colpirono una trentina di lavoratori, in prevalenza mezzadri, della zona compresa fra Sinalunga, Bettole, Guazzino, Foiano della Chiana, tutti accusati di complotto comunista, anche se probabilmente solo alcuni erano iscritti al partito e gli altri pagavano la colpa di essere stati fra i protagonisti delle vertenze sindacali per la riforma del patto colonico nel periodo 1919-1921.

All’inizio degli anni Trenta, Siena, con solo due sezioni (una in città e l’altra nella frazione di S. Andrea a Montecchio), non fu più in grado di ospitare la federazione che venne spostata a Poggibonsi, dove era già stata nel 1921 e dove i contatti con la Val d’Elsa fiorentina e con Empoli in particolare offrivano l’opportunità di un lavoro politico più intenso.

E proprio in sintonia con i militanti empolesi fu organizzata una delle azioni di propaganda più clamorose. Il 28 aprile 1930 due auto partirono contemporaneamente una da Empoli verso Colle Val d’Elsa e una da Poggibonsi verso Siena, gettando volantini che inneggiavano alla festa del 1° Maggio. I fascisti si lanciarono all’inseguimento di quella che ritenevano essere una sola auto (di colore rosso sostenevano) che appariva in contemporanea in luoghi diversi e distanti. Non riuscirono nel loro intento. In compenso nell’eccitazione e nella confusione della ricerca riuscirono a uccidere un giovane aderente al fascio poggibonsese.

Il partito a Poggibonsi era costituito dal comitato federale, dal comitato di settore a cui era affidato il compito di organizzare i corrieri verso Siena e Empoli, dalle cellule alle quali toccava la propaganda fra i lavoratori, contattandoli se necessario fin dentro il sindacato fascista. Esisteva inoltre la struttura del Soccorso Rosso che raccoglieva fondi talvolta addirittura alla luce del sole, come  nel caso di Azelio Lami che approfittava del suo lavoro stagionale di venditore di caldarroste per farsi dare qualche lira da destinare alle famiglie di chi era in prigione o al confino. Si pensò anche alla pubblicazione di un giornale che in effetti sarebbe uscito con il titolo “La Scintilla”.

Alcuni arresti nel 1932 (che si estesero anche a Siena), se ebbero l’effetto di eliminare dei  militanti e di spingerne altri verso l’emigrazione (dalla metà degli anni ’20 al 1943 i senesi sorvegliati all’estero furono 218, dei quali 113 comunisti, 53 socialisti, 24 anarchici, 28 antifascisti), non distrussero la rete che poté beneficiare di alcuni ritorni in seguito all’amnistia del 1933.

Una vera e propria catastrofe si verificò invece nel 1934, sia per la clamorosa violazione delle norme di sicurezza (due incontri campestri nel 1933, con bevute e canti, in occasione del 1° maggio e dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre), sia per la scarsa resistenza agli interrogatori (e alle percosse) da parte di alcuni degli arrestati. L’organizzazione comunista sembrò cancellata non solo nella Val d’Elsa, ma in tutta la provincia.

Eppure, in modo largamente spontaneo e senza collegamenti, un nuovo gruppo sarebbe nato, fra il 1935 e il 1937, ad Abbadia S. Salvatore. Così ne raccontò la genesi Fortunato Avanzati: «Le adunate oceaniche […] avevano diffuso l’illusione che il fascismo fosse ormai imbattibile […]. Ma vi fu anche chi […] capiva che le cose stavano diversamente […]. Appunto questa riflessione stimolò me ed altri giovani badenghi a muoverci, dapprima ognuno per proprio conto […]. Poiché ognuno di noi era legato ad altri giovani nacquero nuove amicizie e, da qui un’ulteriore circolazione di idee. Ci lambiccavamo il cervello su che fare, commettendo ingenui errori come quello di ostentare il nostro antifascismo […]. Coltivavamo sempre qualche speranza di stabilire qualche contatto con l’organizzazione clandestina del partito comunista che ci avrebbe permesso di raggiungere la Spagna repubblicana».

Anche a Poggibonsi, nel 1941, ormai in piena guerra, sarebbero tornati ad incontrarsi alcuni oppositori del regime per ascoltare Radio Londra e Radio Mosca, scambiarsi informazioni e libri auspicando, secondo quanto riferiva un rapporto di polizia, la vittoria sovietica che avrebbe portato al trionfo della rivoluzione bolscevica in tutto il mondo.

Erano i segni di clandestinità rinascenti in un contesto diverso (quello delle guerre del fascismo) che da lì a due anni sarebbero state una delle molteplici radici della Resistenza.

 

Fonti d’archivio
Asmos, Casellario politico centrale, fascicoli di: Aiazzi Gino, Bonelli Gino, Bonelli Ricciardo, Borghi Pietro, Frilli Gastone, Rocchi Otello.
Archivio di Stato di Siena, Questura di Siena – III versamento, Bardini Vittorio.
Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Fondo dell’Istituto Gramsci, b. 457 e b. 1304.

Bibliografia
Avanzati Fortunato, Fatti e gente dell’Amiata, La Pietra, Milano 1989.
Bardini Vittorio, Vita di un comunista, Guaraldi, Firenze 1977.
Burresi Francesco-Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla Liberazione, Poggibonsi 209.
Detti Tommaso, La frazione terzointernazionalista e la formazione del Pci, in “Movimento operaio e socialista”, n. 4, ottobre-dicembre 1972.
Orlandini Andrea, L’antifascismo a Siena: le schede del Casellario Politico Centrale, in “Maitardi”, n. 3, 2011.




Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.