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Comunicare la Resistenza: sfide e proposte

Una riflessione sulla complessa, contraddittoria immagine della Resistenza nel panorama politico italiano può agevolmente partire da un’immagine recente: il corteo per il 25 aprile organizzato a Milano dal centro-sinistra. Scevra di una preventiva discussione capace di giustificarne i presupposti e di evidenziarne i legami con decenni di celebrazioni resistenziali, la giallo-blu festa della libertà e dell’Unione Europea ha attutito la percezione della festa della Liberazione dal nazi-fascismo. Il problema non è l’infondatezza del collegamento, peraltro ragionevole e giustificabile: le dimensioni transnazionali ed europee della Resistenza e l’elaborazione, proprio in quel drammatico contesto e davanti alle atrocità della seconda guerra mondiale, di un’unione politica che scongiurasse simili eventi, danno ai due processi un sostrato comune. A lasciare dubbiosi sono le modalità con cui temi e problemi nuovi sono stati giustapposti all’esistente come una patina, senza alcun legame con la Resistenza e le sue ricorrenze celebrative; e tutto ciò rende evidente, a mio avviso, quanto ora più che mai sia urgente e necessaria una discussione sul tema.

Da diversi anni l’“oblio della Resistenza” ricorre con insistente puntualità in articoli, pubblicazioni e discorsi accademici. Non è certo un vezzo professorale. Per accorgersene, è sufficiente prestare un po’ d’attenzione e osservare tutte le “memorie di pietra” – dai cippi alle lapidi, dalle targhe ai monumenti – dedicate agli anni ’43-45 da enti locali e associazioni, chi ricordano e in quali anni sono state inaugurate. Non è la rarefazione delle nuove testimonianze a saltare all’occhio, quanto piuttosto un cambiamento dei temi e delle modalità espressive: a essere ricordate – con pietre a inciampo o targhe contenute, scarsamente osservabili dall’occhio distratto del cittadino o del visitatore occasionale – sono soprattutto le vittime del conflitto, che siano per i bombardamenti o per le retate naziste. I monumenti, più costosi e maggiormente suscettibili, con la loro stazza, di cambiare il paesaggio cittadino, sono poco presenti nelle nuove politiche della memoria; ugualmente rare sembrano anche le testimonianze a favore di chi attivamente contribuì alla guerra.

Questa consapevolezza apre la strada a ulteriori considerazioni su come guerra e resistenza siano differentemente commemorate e recepite. Non abbiamo guerre sul nostro suolo da più di settant’anni, è vero. Ma chi non sa cosa sia una guerra? Chi non ha letto o guardato un reportage sulle innumerevoli tragedie belliche che ancora si consumano nei più disparati angoli del pianeta? La guerra, nonostante tutto, fa ancora parte del nostro orizzonte mentale e culturale. E la Resistenza, invece? È questo, indubbiamente, un concetto molto più difficile da assumere e da collocare nei nostri schemi mentali, soprattutto da quando, come ha giustamente notato Ersilia Perona, l’89 e la fine del comunismo hanno rivoluzionato i nostre prospettive. Spesso, per incardinarla nella narrazione politica italiana, la Resistenza è stata accostata al Risorgimento fino a farne un “secondo Risorgimento”, come ricorda Aldo Agosti nel volume Resistenza e autobiografia di una nazione: un paragone che alla Resistenza, soprattutto in questi ultimi anni di contestazione e revisione del processo di costruzione nazionale, non ha certo portato fortuna.

È tuttavia indubbio che un’efficace divulgazione della Resistenza e dei suoi valori debba incardinarsi sulle tematiche dell’oggi. Deve sapersi indirizzare alle inquietudini e alle problematiche contemporanee coinvolgendo, e coinvolgendo emotivamente, visitatori e fruitori, fino a renderli parte viva e attiva del reperimento e della costituzione della mostra. È certamente un processo rischioso e denso di pericoli, come è stato giustamente notato nel corso della conferenza: ma, se diretto e controllato passo per passo da storici ed esperti, può garantire, a mio avviso, un apprendimento più radicato e duraturo. In questa prospettiva si sono mossi in questi anni gli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea in Toscani con progetti che, in particolare a partire dal 70° della Liberazione, hanno conseguito significativi risultati di divulgazione scientifica e partecipazione di pubblico: dall’esposizione “Firenze in guerra” curata dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana al “La Storia in soffitta” dell’Istituto lucchese, dal progetto “Cantieri della memoria” realizzato dall’Istituto grossetano alla mostra diffusa “Cupe vampe” allestita dall’Istituto di Pistoia per ricordare  il bombardamento dell’ottobre 1943 fino a quella sugli “Ebrei in Toscana” curata dall’Istoreco livornese.

Bisogna innanzitutto puntare al significato di scelta che per molti significò la partecipazione alla Resistenza – sia che vi avessero aderito in modo attivo combattendo nelle formazioni partigiane oppure che, con il sostegno dalle retrovie, avessero assicurato ai combattenti vitto, equipaggiamento e materiale. Non un mero tornaconto personale, ma un fine collettivo ne animò l’azione: quello di poter vivere in una società più giusta e democratica. È un significato che dobbiamo recuperare, perché sottende quella cura dell’altro e del bene pubblico che è alla base del moderno concetto di cittadinanza e che, oggi più che mai, latita. Quel che dobbiamo ricordare con le nostre esposizioni e le nostre mostre, e che ha valore tanto oggi quanto settant’anni fa, è che solo quando si ritiene il benessere della collettività la necessaria condizione per far avverare anche il proprio che si realizza una società giusta e democratica.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in storia contemporanea all’Università di Firenze nel 2015. Dal 2013 ricopre la carica di consigliere nel consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, con cui collabora dal 2007. E’ autrice di diverse pubblicazioni sulla storia della scuola, tra cui:  Schools for workers? Industrial and artistic industrial institutes in Italy (1861-1914); in E. Berner and P. Gonon (edd. by), History of Education and Training in Europe: Cases and concepts, Lang, 2016; Branding technical institutes in Italy (1861-1913), in A. Heikkinen and L. Lassnigg (edd. by), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015; Esigenze locali, suggestioni europee: le scuole industriali e d’arte applicata all’industria in Italia (1861-1886), “Passato e presente”, XXXII (2014); Lo sguardo ambivalente sulla tradizione nei quaderni di scuola durante il periodo fascista: Pistoia 1929, “Società e storia”, 137 (2012).

 




La Resistenza in un piccolo comune pistoiese: Lamporecchio

L’inizio dell’attività partigiana e della Resistenza armata in provincia di Pistoia deve essere collocato poco dopo l’inizio dell’occupazione nazista nel settembre 1943, quando le prime squadre sorsero sulle montagne pistoiesi, nelle aree collinari e nella zona valdinievolina. Erano formate da soldati sbandati, renitenti alla leva, uomini di altre nazionalità fuggiti dalla Wehrmacht, donne e antifascisti.

Nell’accezione più ampia del termine, la Resistenza è un fenomeno complesso che coinvolse, a vari livelli, un’ampia maggioranza della nazione e tutti gli strati sociali della popolazione: dal fornire cibo e alloggio a un estraneo, che sia un partigiano o un soldato sbandato, al rivelare informazioni a un “bandito” o agli alleati; dall’ascoltare Radio Londra al non presentarsi alla leva obbligatoria; dal combattere attivamente i tedeschi all’effettuare sabotaggi.

In Toscana il 9 ottobre 1943 fu costituito il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), erede dei comitati interpartiti e dei fronti antifascisti già attivi durante il ventennio fascista. La resistenza pistoiese s’inserisce nel quadro di quella toscana: in parte ebbe origini autoctone e in parte fu promossa, coordinata e supportata dall’esterno e dai partiti. Militarmente fu suddivisa in due zone: undicesima e dodicesima.

A Lamporecchio, l’unica formazione costituita fu la “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), chiamata anche “Lamporecchio”, di ispirazione profondamente comunista. Nel comune operarono sporadicamente anche le formazioni “Comunista n. 1”, “Ribelli del Montalbano” e “Silvano Fedi” di Pistoia.

La S.A.P., guidata dal comunista Giovanni Calugi, aveva sede presso la Cisterna di Montefiori, situata sulle colline, svolse la sua attività sul Montalbano e operò nei comuni di Lamporecchio, Larciano, Vinci, Serravalle Pistoiese. La sua forza raggiungeva e superava la cinquantina di uomini, specialmente quando venivano effettuate azioni e si aggregavano vari patrioti; la squadra sostenne dieci scontri a fuoco e inflisse ai tedeschi 4 morti, 13 feriti e 8 prigionieri. Due partigiani morirono, tre restarono feriti; un russo che si trovava nella formazione da due mesi, chiamato Ivan, rimase ucciso da una raffica di mitra durante uno scontro il 12 agosto 1944 e venne sepolto al cimitero di Larciano; Leonetto Neri, residente in Cerbaia, fu ferito in uno scontro il 2 settembre e morì dopo qualche settimana all’ospedale di Siena; Enzo Verdiani, residente a San Baronto, fu ferito a una gamba da una pallottola di mitra il 28 luglio; Ivo Ancillotti, residente in Cerbaia, fu ferito a una mano da una pallottola di mitra; Osvaldo Desideri, residente a Larciano, rimase ferito in seguito allo scoppio del proprio fucile il 12 agosto.

La formazione lamporecchiana, oltre agli scontri a fuoco, si occupò della raccolta delle armi, del servizio informazioni, dei sabotaggi e di aiuto nei confronti dei fuggiaschi e della popolazione. Fu continuamente in contatto con la brigata “Bozzi” con la quale effettuò alcune azioni sulla montagna pistoiese. Un personaggio di spicco della formazione fu Giovanni Frediani con ruoli di comando, di collegamento con altre formazioni e di rifornimento alimentare.

La squadra “Comunista n. 1” si scontrò il 2 e il 4 agosto con pattuglie tedesche nella zona di Lamporecchio; la “Silvano Fedi” di Pistoia effettuò alcune azioni di sabotaggio presso San Baronto il 15 agosto; i “Ribelli del Montalbano” sostennero combattimenti armati il 4 e il 5 settembre lungo la strada che da San Baronto conduce a Casalguidi e obbligarono i repubblichini a ricostruire le vie e i ponti distrutti.

Lamporecchio venne liberata dall’occupazione nazifascista dopo circa un anno, esattamente il 2 settembre 1944. La liberazione ricalcava in molte zone lo stesso schema. Può essere applicato in maniera appropriata al caso lamporecchiano e a quello di parte della provincia pistoiese: i tedeschi scappavano dal territorio e arretravano verso nord, gli angloamericani prendevano contatto con le formazioni partigiane e avanzavano prudentemente, i partigiani assumevano il possesso della città, infine gli angloamericani arrivavano definitivamente e imponevano il proprio controllo sul paese.

Gli alleati a fine agosto si avvicinarono a Pistoia da sud e gli inglesi presero contatto il 1° settembre con le formazioni partigiane valdinievoline.

La formazione partigiana S.A.P. di Lamporecchio partecipò attivamente alla liberazione insieme alla banda Silvano Fedi di Pistoia, comandata da Enzo Capecchi e Artese Benesperi. Giunta la notizia che gli alleati avevano attraversato il fiume Arno, la squadra si divise in varie pattuglie per “rastrellare la zona”. Il paese fu occupato dopo vari scontri a fuoco: il primo avvenuto in Cerbaia e costato la vita a Leonetto Neri, il secondo nei pressi di Lamporecchio, il terzo nella località Giugnano, il quarto nella frazione Vaccareccia.

Quel giorno vennero catturati alcuni nazisti e consegnati agli inglesi, i primi ad arrivare in paese. Successivamente, il 3 settembre, la formazione partecipò alla liberazione di San Baronto, seguita da quella di Pistoia, occupata l’8 settembre in collaborazione con le altre squadre partigiane della provincia.

I partigiani residenti e riconosciuti in città furono 35; i patrioti, invece, 31.

Fu fondamentale la presenza di numerose donne all’interno della Resistenza, anche lamporecchiane, come possiamo intuire dalla relazione sull’attività svolta dai gruppi di “Difesa della Donna” nella provincia di Pistoia: “Tutte le organizzate hanno prestato la loro opera con fede e costanza, senza avvertire la stanchezza e rifiutando la paura, viaggiando attraverso i posti di blocco tedeschi, soggette a perquisizioni e requisizioni. Hanno continuato la loro lotta contro i nazi-fascisti, adoperandosi a seguirne i movimenti, ad ostacolare le loro opere di rastrellamento, fiduciose che i loro sacrifici sarebbero stati coronati dalla vittoria completa”.

Il giorno dopo la liberazione, il 3 settembre 1944, il CLN si riunì nell’ufficio comunale del paese: i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre, su richiesta angloamericana, fu nominata la giunta comunale che si sarebbe riunita per la prima volta l’11 settembre alle 9.30. La giunta a sua volta nominò Foscolo Maccioni, già presidente del CLN, come primo sindaco di Lamporecchio dopo la liberazione.

Decine di cittadini lamporecchiani continuarono la lotta di liberazione, arruolandosi nei Gruppi di Combattimento (Legnano, Folgore, Cremona, Friuli, Mantova e Piceno.) e affiancando le truppe alleate durante la risalita nel nord Italia. Furono circa 500 i pistoiesi partiti da piazza del Duomo il 16 febbraio 1945: ex militari, ex partigiani, semplici cittadini che desideravano dare il loro contribuito alla liberazione del resto d’Italia, avvenuta ufficialmente nell’aprile 1945.

Matteo Grasso, laureato in storia contemporanea con una tesi sull’occupazione nazifascista di Monsummano terme, è direttore dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. Svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti del Novecento e lavora presso l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. In precedenza ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione culturale di Villa La Quiete a Firenze. Fra le pubblicazioni ricordiamo: “Giovanni Fattori. Lettere di un montalese dal lager nazista” (2017); “Sulle tracce della memoria. Percorsi pistoiesi nei luoghi della guerra” (2015); “Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini” (2014).




Il Conservatorio di San Giovanni Battista

La storia del Conservatorio di San Giovanni Battista si sviluppa dagli inizi del secolo XIV fino ai giorni nostri con una particolare continuità all’interno della vita religiosa, artistica e sociale della città di Pistoia e può essere suddivisa in due distinte fasi.

 La fase della vita religiosa

È costituita dall’aggregazione di tre monasteri femminili.

 Il Monastero di San Giovanni

Costituisce il nucleo iniziale del complesso e viene edificato al di fuori della seconda cerchia di mura cittadina secondo il lascito testamentario del 1287 di Giovanni Ammannati che aveva stabilito che se il figlio Gherardo fosse morto senza successori fosse edificato un convento femminile nell’area di un palazzo di sua proprietà.

Gherardo morì nel 1321 e, assecondando la volontà del testatore, il palazzo fu trasformato in monastero femminile dedicato a San Giovanni Battista.

Venne quindi ampliato tra il 1469 e il 1531 quando fu completata la chiesa ad opera di Ventura Vitoni e nel 1783 inglobò il contiguo monastero di S. Lucia ed ospitò anche le suore di S. Chiara.

 Monastero di S. Lucia

Fu fondato nel 1328 su testamento di Iacopo Bellebuoni nei pressi dell’attuale fortezza di Santa Barbara ma venne demolito nel 1539 per consentire l’ampliamento della fortezza e le monache furono trasferite nell’area dello spedale di S. Gregorio confinante con il monastero di S. Giovanni mentre lo spedale fu trasferito in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il monastero fu soppresso e unificato con quello di San Giovanni.

 Monastero di S. Chiara

Viene fondato nel 1310 da Piccina di Bonaventura in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il Vescovo Ricci soppresse il monastero per realizzarvi il nuovo edificio del Seminario e le monache furono trasferite nel monastero di San Giovanni.

La fase dell’educazione e dell’istruzione.

Nel 1785 all’interno dell’opera riformatrice del Granduca Pietro Leopoldo fu chiesto alle monache di San Giovanni di scegliere tra la vita monastica o la trasformazione del complesso in Conservatorio per l’educazione delle fanciulle.

Le suore optarono per il Conservatorio e iniziò così un periodo completamente nuovo in cui sotto la guida di suore e oblate venivano accolte e istruite le fanciulle pistoiesi.

Dopo l’unità d’Italia con la legge del 1867 i conservatori passarono sotto il controllo del Ministero dell’Istruzione e quello di san Giovanni si aprì progressivamente alla città divenendo una delle principali istituzioni educative pistoiesi. Accoglieva fanciulle tra i 7 e i 12 anni e a partire dal 1872 ospitò la scuola elementare femminile cittadina pubblica e privata.

Nel 1883 ne fu dichiarato lo stato laicale e il Conservatorio divenne un istituto pubblico educativo con amministratori nominati dal Ministero.

Nel 1898 il Conservatorio divenne sede dei corsi della Scuola normale femminile trasferita da Sambuca Pistoiese comprendente il corso complementare, la scuola di tirocinio e l’asilo infantile a sistema froebeliano.

Divenne così il principale polo educativo femminile pistoiese e attraeva alunne a convitto da tutta Italia. Il complesso fu ristrutturato nel 1877 e continuamente ammodernato nel corso del Novecento. Nel 1901 vi operavano la direttrice, tre istitutrici, una guardarobiera, una dispensiera-economa, una cuoca, due aiutanti di cucina, un giardiniere, un portiere, due inservienti, un medico, un ragioniere, un cassiere, il direttore spirituale, un chierico, un agente di campagna e quattro maestre e nel 1910 contava oltre 400 alunne.

Dal 1915 al 1919 una parte dei suoi locali fu destinato a ospedale militare di riserva e dal 1924 accolse la sede dell’Istituto commerciale “F. Pacini” e dell’Istituto magistrale.

Alla fine degli anni trenta si verificò un momento traumatico all’interno della struttura educativa con il licenziamento nel 1939 della direttrice Alba Mantovani perché di “razza ebraica” che venne riassunta solo nel dopoguerra.

Il complesso subì gravi danni con l’incursione aerea alleata del 18 gennaio 1944, quando fu distrutta completamente la chiesa e la maggior parte dei locali dove avevano sede gli istituti superiori.

Le attività vennero sospese e solo nel gennaio 1945, a liberazione di Pistoia avvenuta, si iniziò a rimuovere le macerie e si riaprì l’Istituto magistrale mentre nel 1947 ripresero a funzionare il convitto, l’Istituto tecnico e la scuola materna.

La ricostruzione integrale fu compiuta tra il 1951 e il 1957 con fondi del Ministero dei Lavori pubblici per oltre 205 milioni di lire e la direzione dell’ingegnere Adalberto Del Chicca. A partire dagli anni settanta le alunne ospitate diminuirono progressivamente e nel 1982 il convitto fu chiuso e il complesso ospitò solo le scuole pubbliche mentre nel 1983 il giardino è stato affittato al Comune e aperto al pubblico e la Chiesa è stata allestita a spazio espositivo.

Dal 2006 il Conservatorio è stato trasformato in “Fondazione Conservatorio San Giovanni Battista” e oggi è agenzia formativa accreditata presso la Regione Toscana, inoltre nei suoi spazi ha sede la Fondazione Luigi Tronci con la collezione di strumenti musicali.

Nel 2016 si sono conclusi due importanti operazioni di recupero e salvaguardia del suo patrimonio storico e architettonico. Si è concluso il restauro delle coperture e della facciata della Chiesa di San Giovanni con la direzione dell’architetto Gianluca Giovannelli, e, ad opera dello scrivente, è stato concluso il riordino e l’inventario dell’Archivio storico ed è stata allestita una mostra permanente sulla storia del Conservatorio.

Andrea Ottanelli, docente di lettere, dottore di ricerca in storia contemporanea, compie studi e ricerche sulla storia contemporanea di Pistoia, ha curato mostre e iniziative e pubblicato articoli e volumi sulla storia delle industrie e delle infrastrutture pistoiesi tra cui: La città e la sua fabbrica in La San Giorgio. Gli albori della grande industria a Pistoia, a cura di Piero Roggi, Pistoia, Gli Ori 2015; La Ferrovia Porrettana. Progettazione e costruzione (1845-1864), Pistoia, Settegiorni editore 2014. Economia e società a Pistoia dalle riforme leopoldine alla Restaurazione. Le arti e le manifatture; Gli anni del cambiamento (1878-1914) in Storia di Pistoia IV, a cura di Giorgio Petracchi, Firenze, Le Monnier 2000. Ha curato il riordino e l’Inventario di numerosi archivi storici pistoiesi tra cui quello del Conservatorio di San Giovanni Battista. È direttore della rivista “Storia Locale”.




“Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Figlio unico di un’agiata famiglia cittadina, Carlo Del Bianco nacque a Lucca il 13 gennaio 1913. Studente del prestigioso Liceo classico “Niccolò Machiavelli”, maturò fin da ragazzo forti convinzioni antifasciste, stringendo parallelamente amicizia, fra gli altri, con Nino Russo Perez, Arturo Paoli e Guglielmo Petroni. Iscrittosi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, per alcuni dissapori con il corpo docenti dell’ateneo dovuti al carattere “non allineato” della sua tesi in filosofia della scienza, dovette conseguire la laurea all’Università di Firenze nel 1938. Conclusi gli studi, iniziò ad insegnare come supplente presso vari istituti superiori lucchesi, approdando infine proprio al “Machiavelli”, dove s’impegnò ad educare i suoi alunni all’amore per la giustizia e la libertà. Autore di un volantino contro il regime nel maggio 1942, all’indomani del 25 luglio 1943 Del Bianco organizzò una grossa manifestazione nelle vie di Lucca per festeggiare la caduta del governo Mussolini. Nelle settimane successive all’8 settembre, poi, riuscì a convincere numerosi giovani lucchesi a sottrarsi alla leva della RSI e a radunarsi in Garfagnana, presso il borgo di Campaiana, alle pendici della Pania di Corfino: fu così che Del Bianco dette vita ad una delle prime formazioni partigiane della Provincia di Lucca. Altamente motivato e dotato di grande carisma, in assenza di chiare direttive, si rese conto che non vi erano ancora le condizioni per poter operare in montagna senza far correre eccessivi rischi ai suoi ragazzi: scelse così di smobilitare il gruppo, mentre le forze di sicurezza della GNR raccoglievano informazioni sul suo conto, arrestando e interrogando amici e parenti. Visto che il cerchio attorno al professore si stringeva, il CLN lucchese decise di allontanarlo dalla città per precauzione: accompagnato da Roberto Bartolozzi, operaio della Teti e partigiano comunista, Del Bianco prese dunque il treno per Firenze. Guadagnata la meta, proseguì da solo, intenzionato a raggiungere a Venezia l’amico Nino Russo Perez. Non riuscendo a trovarlo, scelse di prendere il treno in direzione contraria, per tornare indietro: alla stazione di Padova, tuttavia, salirono sul convoglio due SS. Temendo di essere scoperto, Del Bianco si fece coraggio e, all’altezza di Rovigo, decise di lanciarsi dal treno in corsa, rovinando gravemente ferito a fianco ai binari. Prima che giungessero i soccorsi, Carlo riuscì a distruggere alcuni fogli e documenti compromettenti per sé e per i compagni: portato all’ospedale, fu sottoposto all’amputazione di entrambe le gambe e morì poco dopo. Era l’alba del 31 marzo 1944. Oggi, lungo la scalinata che porta al primo piano del Liceo classico “Machiavelli” di Lucca, che vide Del Bianco studente e professore, è presente una lapide, che ricorda a ragazzi e docenti l’opera e il sacrificio di quel maestro generoso e ribelle, «insofferente di ogni servitù», che dette la vita per il riscatto nazionale.

Scansione

La copertina della nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”.

La targa in memoria di Carlo Del Bianco è soltanto uno dei numerosi luoghi della memoria raccolti nella nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”, terzo ed ultimo tassello del grande progetto di valorizzazione del patrimonio storico provinciale 1943-1945 portato avanti dall’ISREC Lucca nel corso degli ultimi due anni e mezzo di lavori. Logico seguito dei volumi dedicati a Versilia e Mediavalle/Garfagnana, il nuovo libro, pubblicato poche settimane fa per Pezzini Editore di Viareggio, è stato scritto da Luciano Luciani, membro del Consiglio direttivo dell’ISREC e responsabile del semestrale dell’Istituto stesso “Documenti e studi”, e da Armando Sestani, Vicepresidente dell’ISREC ed esperto del confine orientale italiano. Realizzata sotto la supervisione di Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e grazie al determinante contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida contiene descrizioni dettagliate di fatti, volti e siti storici relativi all’ultimo scorcio di Seconda Guerra Mondiale nella città di Lucca e negli altri comuni della Piana.

Interessante compromesso fra approfondimento storico e fruibilità turistica, il volume propone al visitatore anzitutto un itinerario urbano, un cammino guidato per le vie dell’antica città murata alla scoperta di una Lucca altra rispetto a quella dei “canonici” percorsi di età medievale e moderna: la Lucca del lungo anno di occupazione nazista compreso fra l’8 settembre 1943 e la Liberazione americana. Una pagina intensa e drammatica della millenaria storia lucchese, che vide il capoluogo provinciale soggetto per tredici mesi ai bisogni militari di una potenza, quella tedesca, intenzionata a resistere ad oltranza all’avanzata angloamericana verso nord, e fermamente decisa a sfruttare fino all’ultimo le risorse umane ed economiche messe a disposizione dalla città e dalla tranquilla campagna circostante, gettando parallelamente le basi per una futura ritirata in sicurezza sulle vicine postazioni della Linea Gotica. Un periodo certo buio, costellato di rastrellamenti, delazioni, cacce all’uomo, uccisioni e stragi sparse, finalizzate a cancellare ogni tentativo di opposizione popolare ai disegni degli invasori, ma pure un capitolo di notevole fermento politico, grandi speranze per l’avvenire e nobili gesti di solidarietà, portati a termine da studenti ed insegnanti “non allineati”, professionisti ed operai di fabbrica, così come da una vasta rete di assistenza ecclesiastica alle varie categorie di perseguitati dal Nuovo Ordine nazionalsocialista (oppositori politici, ebrei, renitenti alla leva, prigionieri di guerra alleati).

Durante l’occupazione nazista di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza di via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Durante l’occupazione nazista della città di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Affianco ai centri di potere e repressione della Repubblica Sociale Italiana, come Palazzo Ducale, al tempo sede della Prefettura, il temuto carcere di via San Giorgio, il convento di Sant’Agostino, all’epoca base del Comando provinciale della GNR, o la Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara, «vero e proprio campo di concentramento in piena città», dai cui locali in tutto l’anno di occupazione transitarono più di 70000 rastrellati civili provenienti da tutta la Provincia e da quelle vicine, destinati al lavoro coatto per l’Organizzazione Todt in Italia o alla deportazione in Germania, nella nuova guida troviamo così anche angoli di città che videro l’aggregazione spontanea di spiriti liberi e ribelli, come il Liceo classico “Machiavelli” di Del Bianco, lo studio del medico repubblicano Frediano Francesconi in piazza dei Cocomeri, o, in piazza San Giovanni, l’abitazione dell’azionista Aldo Muston, professore di latino e storia all’Istituto magistrale “Paladini”: proprio in casa sua, il 4 settembre 1944, il CLN lucchese tenne la decisiva riunione che preparò ed anticipò la Liberazione di Lucca, avvenuta il giorno successivo per mano dei soldati afroamericani della 92° Divisione “Buffalo”.

Lucca, via Santa Croce: la targa in memoria dell’operaio della Teti Roberto Bartolozzi, partigiano comunista caduto il 29 giugno 1944 in un tentativo di sabotaggio ai danni di alcune caserme di Carabinieri Reali.

Oltre alle storie di patrioti caduti in città nel corso di attacchi contro le forze nazifasciste o in operazioni di tutela del patrimonio industriale nel delicatissimo momento della ritirata tedesca, come l’operaio comunista Roberto Bartolozzi (1914-1944), il finanziere Gaetano Lamberti (1907-1944) o il giovanissimo Pietrino Piegaia (1930-1944), nel volume trovano quindi posto biografie di lucchesi che condussero la propria Resistenza attiva lontano dalla città murata, come l’intellettuale Guglielmo Petroni (1911-1993), che, trasferitosi a Roma nei tardi anni Trenta per dirigere alcune riviste antifasciste, dopo l’8 settembre prese le armi e quasi finì giustiziato a Regina Coeli, o come Alfredo Sebastiani (1920-1944), giovane impiegato della Manifattura Tabacchi che, richiamato alle armi nel 1940, dopo l’Armistizio del 1943 partecipò con valore alla lotta per la Liberazione dell’Albania, sacrificando infine la propria vita e ricevendo per questo due alte onorificenze alla memoria dal governo di Tirana.

Lucca, Stazione: la targa in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Lucca, Stazione: la lapide in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Non mancano naturalmente i riferimenti alla “guerra guerreggiata”, com’è il caso della stazione ferroviaria di Lucca, duramente colpita il 6 gennaio 1944 da un bombardamento americano diretto contro alcuni fabbricati industriali del quartiere di San Concordio, che tolse invece la vita a 25 civili del posto, o, appena fuori città in direzione sud, il cippo in località Ponte dei Frati sul canale Ozzeri, a memoria della spedizione partigiana di Guglielmo Bini, Giuseppe Lenzi, Alberto Mencacci ed Alfonso Pardini, che, la sera del 3 settembre 1944, facendosi largo fra le pattuglie naziste di retroguardia, riuscì a raggiungere il colonnello dell’artiglieria alleata J.T. Sherman, schierato con i propri pezzi nei pressi di Guamo, e a scongiurare l’imminente distruzione del capoluogo, avvisandolo che ormai, in città, non vi erano più tedeschi da colpire.

Particolare rilevanza, nella guida, assume la trattazione della rete di assistenza religiosa a poveri, sfollati e perseguitati, che in città trovò negli Oblati del Volto Santo il proprio punto di riferimento e un instancabile operatore di pace. Oltre a gestire una “Mensa del povero” nella loro sede di via del Giardino Botanico, in aiuto a una popolazione stremata da anni di lutti e privazioni, nell’estate 1944 gli Oblati s’incaricarono di portare un minimo di sollievo anche alle migliaia di rastrellati civili della Pia Casa, costretti in terribili condizioni igienico-sanitarie, e ai profughi raccolti nel Real Collegio presso San Frediano, impegnandosi parallelamente a proteggere e fornire documenti falsi ad un gran numero di ebrei, in collaborazione con la rete Delasem del pisano Giorgio Nissim e con quella fiorentina del cardinale Elia Dalla Costa e del rabbino David Cassuto.

Il borgo di Nozzano Castello, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Il borgo di Nozzano Castello nell’Oltreserchio, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Arricchito da mappe di facile lettura per una rapida collocazione “sul campo” dei luoghi della memoria trattati, il volume si sposta poi sui dintorni di Lucca, passando per una curiosa e affascinante tratteggiatura di alcuni volti della squadra calcistica Lucchese, che, nella massima serie del campionato 1936/1937, sotto la guida dell’allenatore ungherese di origini ebraiche Ernö Erbstein (1898-1949), si ritrovò casualmente in formazione diversi talentuosi titolari antifascisti, come il mediano sinistro Bruno Neri, poi partigiano, il centromediano comunista Bruno Scher e il portiere “ribelle” Aldo Olivieri. Proseguendo l’esplorazione storica della Piana Lucchese, ci addentriamo dunque nell’Oltreserchio, a ponente del capoluogo, dove, presso le scuole elementari di Nozzano Castello, il 24 luglio 1944 i soldati della 16° Divisione Waffen-SS del generale Max Simon (1899-1961) posero il carcere e il tribunale militare del reparto, tetro luogo di detenzione e tortura per moltissimi civili considerati politicamente ostili e quindi arrestati per vere o presunte attività antitedesche: fra di essi, un gran numero di religiosi poi giustiziati in stragi sparse dalla Provincia di Pisa a quella di Massa-Carrara, come Angelo Unti (1875-1944) e Giorgio Bigongiari (1912-1944), rispettivamente pievano e cappellano della parrocchia di Lunata di Capannori, Libero Raglianti (1914-1944), parroco di Valdicastello di Pietrasanta, e don Giuseppe Del Fiorentino (1881-1944), parroco di Bargecchia di Camaiore.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento nazista di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Altro luogo della memoria di grande importanza per l’Oltreserchio è la trecentesca Certosa dello Spirito Santo di Farneta, nell’estate del 1944 trasformatasi in un generoso centro di accoglienza per un centinaio di sbandati, sfollati, ex-militari, partigiani ed ebrei: proprio qua, nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944, le SS del sergente Eduard Florin scatenarono un vasto rastrellamento, fermando tutti gli occupanti e razziando le scorte alimentari del convento. Nei giorni successivi, in una dolorosa scia di sangue che seguì la lenta ritirata nazista sulle Alpi Apuane, trovarono la morte 12 monaci e 32 civili catturati alla certosa, fra cui il padre superiore Martino Brinz (1879-1944) e monsignor Salvador Montes De Oca (1895-1944), assassinati il 7 settembre 1944 in località Pioppetti di Camaiore, il procuratore padre Gabriele Maria Costa di Ravenna (1898-1944) ed un altro ospite di rilievo della struttura, il medico lucchese Guglielmo Lippi Francesconi (1898-1944), già direttore dell’Ospedale psichiatrico di Maggiano, uccisi tre giorni dopo nei dintorni di Massa.

Facendo anche affidamento su un vasto apparato fotografico, la guida completa poi la trattazione dei principali luoghi della memoria della Piana lucchese soffermandosi sulla zona dei Monti Pisani, dove nell’estate del 1944 fu attiva la piccola formazione partigiana “Nevilio Casarosa”, quindi su Monte San Quirico, Capannori e le alture delle Pizzorne, teatro di numerosi scontri fra le truppe nazifasciste e i combattenti del Gruppo Patrioti STS (Sant’Andrea in Caprile – Tofori – San Gennaro).

La chiesa di San Pietro Apostolo a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, svolse il proprio servizio don Aldo Mei (in alto a destra).

La chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, assolse generosamente alle proprie funzioni il parroco don Aldo Mei (in alto a destra), poi fucilato a Lucca fuori Porta Elisa.

A chiudere la nuova guida, corredata da una ricca bibliografia di riferimento e dalle sintetiche biografie degli autori, una descrizione essenziale delle vicende e dei siti storici più rilevanti della Val Freddana, a nord-ovest del capoluogo: fra tutti, merita un riferimento particolare la chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fin dal 1935, operò con dedizione il parroco Aldo Mei (1912-1944), probabilmente il profilo più alto della Resistenza ecclesiastica in Lucchesia. Nativo di Ruota di Capannori, fermamente antifascista, aderì agli Oblati di Lucca e negli anni della guerra si prodigò per accogliere ed accudire nella sua parrocchia un gran numero di sfollati, disertori, partigiani feriti ed ebrei. Arrestato il 2 agosto 1944 durante un rastrellamento tedesco nella zona di Loppeglia, venne trasferito alla Pia Casa di Lucca ed infine condannato a morte con un processo farsa: a nulla valsero gli sforzi dell’arcivescovo di Lucca monsignor Antonio Torrini (1878-1973) per ottenerne la liberazione. La sera del 4 agosto, condotto fuori Porta Elisa, costretto a scavarsi la fossa, venne infine fucilato da un plotone della Wehrmacht. Prima di morire, ebbe parole di perdono per i suoi assassini:

Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio, io che non ho voluto vivere che per l’amore! Deus Charitas est e Dio non muore. Non muore l’amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono. Ho già sofferto un poco per loro… È l’ora del grande perdono di Dio! Desidero aver misericordia: per questo abbraccio l’intero mondo rovinato dal peccato, in uno spirituale abbraccio di misericordia. Che il Signore accetti il sacrificio di questa piccola insignificante vita di riparazione di tanti peccati.




Squadrismo toscano in Dalmazia

Se solo negli ultimi anni il mito del “bono ‘taliano” ha iniziato lentamente ad essere scalfito da una storiografia sempre più attenta allo scacchiere balcanico, molto resta ancora da fare per conoscere e comprendere appieno la particolare «guerra ai civili» condotta dalle truppe italiane nei territori orientali, occupati all’indomani dello smembramento della Jugoslavia nel 1941.
Da queste pagine di storia per troppo tempo rimosse emergono anche vicende locali che possono aiutarci a far luce su un’occupazione ben presto contraddistinta da una tenace resistenza armata affrontata con forme repressive sempre più estreme.
L’eruzione di un fenomeno partigiano dalla chiara matrice comunista fu infatti occasione, per le autorità fasciste nazionali e locali, per spingere verso la formazione di veri e propri reparti organici di squadristi, nella convinzione che l’esperienza maturata negli anni delle “squadre” potesse ora rivelarsi preziosa per affrontare il fenomeno comunista riaffacciatosi nei territori annessi al di là dell’Adriatico.

Tra il 1941 e il 1942 vedevano quindi la luce 6 battaglioni squadristi organizzati dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, uno dei quali sorto proprio nella «fascistissima» Toscana; il 20 gennaio 1942 veniva infatti mobilitato il 1° (68°) battaglione squadristi “Toscano”, interamente costituito da volontari accorsi da tutta la regione in numero perfino superiore alle aspettative; allo zoccolo duro dei fascisti della prima ora (stime non verificabili indicavano in circa il 50% i partecipanti alla marcia su Roma), si affiancavano i numerosi reduci delle campagne africane o spagnola, al comando del forlivese, ma fiorentino d’adozione, 1° seniore (tenente colonnello) Pietro Montesi Righetti.
Con un’età media di circa 40 anni, il reparto si componeva di oltre 600 camicie nere, organizzate su 4 compagnie più il comando; accasermata a Montecatini Terme, l’unità completava nei 3 mesi successivi il proprio organico e l’addestramento, lasciando la Toscana il 15 aprile.
Dietro interessamento del Governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini, massima autorità civile nel territorio annesso delle provincie di Zara, Spalato e Cattaro, il “Toscano” raggiungeva il litorale dalmato il 26 aprile, scaglionandosi lungo il settore costiero tra Traù (sede del comando) e Spalato e ponendosi alle dirette dipendenze operative di Bastianini.

"In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943".

“In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943”.

Parallelamente all’ordinaria attività di presidio ed ordine pubblico, si scatenava fin dai primi giorni una vera e propria attività squadrista fatta di bastonature, sevizie e perfino omicidi di sospetti fiancheggiatori dei partigiani, condotta con il supporto dei fascisti locali e l’acquiescenza delle autorità civili.
L’incontrollabile violenza di una truppa di per sé particolarmente indisciplinata (e politicizzata) trovava però il suo apice il 12 giugno 1942, assumendo un virulento carattere antisemita: prendendo a pretesto una presunta provocazione da parte di alcuni ebrei, diverse decine di militi del “Toscano” e fascisti della locale Federazione assaltavano la storica sinagoga di Spalato, malmenando i presenti e devastandone locali ed arredi, mentre altre camicie nere saccheggiavano alcuni vicini negozi di proprietari ebrei. Il pogrom spalatino e successivi episodi di minacce verso militari e carabinieri scatenavano infine la dura reazione delle locali autorità militari, già in cattivi rapporti col Governatore Bastianini, costringendo quest’ultimo a ritirare gli squadristi in servizio a Spalato.
Particolarmente cruenta si sarebbe rivelata anche l’attività “ordinaria” del battaglione, spesso affiancata da elementi del Regio Esercito: oltre a fornire elementi per il plotone di esecuzione del Tribunale Speciale della Dalmazia (nella sola giornata del 22 maggio venivano fucilati 26 condannati a morte), il “Toscano” avrebbe condotto nei mesi a seguire numerosi rastrellamenti dell’immediato entroterra spalatino, sempre più minacciato dalla montante attività partigiana: negli scontri verificatisi nel corso dell’estate e la prima metà dell’autunno trovavano la morte alcune decine di partigiani o presunti tali (in un’azione del 28 giugno ne rimanevano 14 sul terreno), in un crescendo di violenze favorito dall’opacizzarsi della distinzione tra partigiani e popolazione civile.
Nella prima metà di novembre iniziava il trasferimento verso Vodice, nella parte meridionale della limitrofa provincia di Zara, area già sconvolta dalle durissime operazioni di rastrellamenti dei mesi precedenti.
Parallelamente alla continua opera di rastrellamento, nel corso delle prime settimane del 1943 lo stesso centro di Vodice veniva trasformato in una sorta di campo di concentramento a cielo aperto, con l’inasprimento di un coprifuoco duramente imposto: numerosi sarebbero stati i civili, tra cui molte donne, sorpresi fuori dal centro abitato e fucilati sul posto dagli squadristi del “Toscano” impegnati nella sorveglianza della zona.
Il 16 maggio il reparto abbandonava definitivamente la Dalmazia, a stretto giro seguito dagli altri battaglioni squadristi a loro volta schierati lungo il litorale dalmato: seppur ridotti in organico ed efficienza, non è da escludere che il rimpatrio fosse in parte dettato dai concomitanti (eppur infruttuosi) tentativi di puntellamento del regime condotti da parte del partito e, soprattutto, della milizia stessa. Truppa certamente fidata e pur sempre dotata di una certa “massa critica”, i 6 battaglioni squadristi trovavano accantonamento in varie sedi dell’Emilia Romagna, col “Toscano” riunito a Vergato, sull’Appennino bolognese.
La defenestrazione di Mussolini coglieva però impreparati i vertici della milizia e l’opera dello stesso Capo di Stato Maggiore Galbiati facilitava un pressoché indolore passaggio di consegne nelle mani di Armellini, generale fedele a Badoglio. Anche i reparti squadristi non opponevano particolare resistenza al cambiamento di regime, avviandosi, in un’atmosfera di smarrimento e rassegnazione, verso la fine della propria esperienza. Nell’impossibilità di disarmare o comunque ridimensionare la milizia, ancora presente in forze in praticamente tutti i teatri bellici, i vertici militari procedettero però a disinnescarne le maggiori criticità: tra i provvedimenti adottati rientrava anche il definitivo scioglimento dei battaglioni «già squadristi», posto in essere attraverso il congedo o il trasferimento dei militi verso altri reparti. Se a fine agosto il “Toscano” cessava di esistere, molte delle sue camicie nere avrebbero dimostrato la propria “coerenza” continuando, nei mesi a seguire, la guerra sotto le insegne della R.S.I.

Lorenzo Pera, laureato in “Storia e Civiltà” presso l’Università di Pisa, si interessa di storia militare della seconda guerra mondiale, con particolare riguardo vero i crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane.




Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956

È una fredda sera quella del 9 febbraio 1947, quando giunge a Lucca il primo contingente di profughi proveniente dalla città di Pola. Si sono imbarcati nel porto della città istriana sulla motonave “Toscana”, insieme alle poche masserizie che sono riusciti a portarsi dietro. Giunti a Venezia, sono stati fatti salire sul treno che li ha portati nella città toscana. Altri profughi, di Pola, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia lasceranno le loro case nei mesi e negli anni successivi, per essere sistemati negli oltre cento campi di accoglienza che verranno allestiti in tutta Italia.

Profughe italiane in partenza da Pola: sullo sfondo, il piroscafo "Toscana".

Profughe italiane in partenza da Pola: sullo sfondo, il piroscafo “Toscana”.

Quando arrivano a Lucca, mancano poche ore alla firma a Parigi del Trattato di Pace che sancisce il passaggio dell’Istria, di Fiume e di Zara alla Jugoslavia, diventata alla fine della guerra uno stato federale socialista guidato dal maresciallo Tito, capo indiscusso della lotta armata contro gli invasori fascisti e nazisti che occuparono lo stato balcanico nella primavera del 1941. Un’occupazione feroce e sanguinaria, che aveva visto le truppe e le camicie nere responsabili di crimini di guerra, in parte riscattati dai numerosi soldati italiani che, dopo l’8 settembre 1943, si erano messi al fianco della Resistenza jugoslava. Finita la guerra, Tito si trova al vertice di uno stato che annette all’interno dei suoi confini i territori che dopo la Prima Guerra Mondiale l’Italia aveva stappato all’ormai agonizzante Impero austro-ungarico: anche Trieste, insieme a Trento simbolo dell’irredentismo e del nazionalismo italiani, viene occupata dai partigiani jugoslavi. Tuttavia, quest’ultima città deve essere abbandonata dagli occupanti e consegnata alle autorità alleate.

Nei giorni e nelle settimane che seguono la fine della guerra, si segnala anche la sparizione di migliaia di italiani, alcuni compromessi con il passato regime fascista, oppressore degli slavi residenti dentro i confini nazionali, altri ancora oppositori delle politiche annessionistiche messe in atto dalle autorità jugoslave. Molte di queste sparizioni si concludono con la morte degli arrestati, o dentro le cavità carsiche chiamate foibe, o nelle marce forzate e nei campi di lavoro e concentramento allestiti in Jugoslavia. A causa dei nuovi confini tracciati dagli Alleati e ratificati a Parigi, la popolazione di lingua, cultura e sentimenti italiani si trova ad essere inglobata nel nuovo stato jugoslavo. La scelta di andarsene ha molte motivazioni: identitarie, politiche, di sicurezza personale e un futuro, rimanendo nelle proprie città, percepito in termini molto incerti. Nei vari campi di raccolta profughi (CRP) allestiti in Italia, i profughi istriani, fiumani e dalmati saranno costretti a vivere, spesso in condizioni pessime, per molti anni (l’ultimo campo profughi chiuderà infatti nel 1963).

Fra 1947 e 1956, l'ex-Real Collegio di Lucca funse da campo raccolta profughi (CRP) per gli esuli giuliano-dalmati.

Fra 1947 e 1956, i locali dell’ex-Real Collegio nel centro storico di Lucca, proprio dietro la basilica di San Frediano, funsero da campo raccolta profughi (CRP) per gli esuli giuliano-dalmati in fuga dalle truppe titine.

A Lucca i profughi sono alloggiati in due luoghi del centro storico: in via del Crocifisso, in uno stabile adiacente la Manifattura Tabacchi di cui molti di loro sono dipendenti, e presso il CRP allestito presso l’ex-Real Collegio dietro la basilica di S. Frediano. In questo ultimo edificio risiede la maggioranza dei circa 1000 profughi che decidono di stabilirsi definitivamente a Lucca. La vita all’interno di queste strutture è molto precaria e la dignità dei profughi è messa a dura prova, tanto che nell’estate del 1953 la stampa locale è costretta a lanciare un grido di allarme. Tuttavia, con l’assegnazione progressiva dei primi alloggi popolari, il CRP di Lucca comincia a svuotarsi, per chiudere definitivamente nel febbraio del 1956.

Questo e molto altro ancora può essere letto nel libro “Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956”, scritto da Armando Sestani (vicepresidente ISREC Lucca) e recentemente pubblicato dall’editore Maria Pacini Fazzi.

In allegato, fra i “Documenti dalle fonti”, sono visionabili alcuni interessanti documenti familiari dell’autore del presente articolo, istriani di Pola rifugiatisi in Toscana a bordo dell’omonimo piroscafo subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. 




In fuga di paese in paese

La vicenda della persecuzione degli ebrei ha ancora bisogno di moltissimi approfondimenti. Conosciamo infatti le traiettorie dei più illustri, di tutti coloro che hanno consegnato la loro storia al grande pubblico, in alcuni rari casi già a ridosso del ’45, più spesso dopo molti anni da quegli avvenimenti, attraverso diari e memorie nelle quali hanno rievocato la vita in esilio, il riparo in località più appartate, talvolta il viaggio verso la Palestina o l’esperienza tragica dei campi di concentramento. Più difficile è invece entrare in contatto con vicende più nascoste, vicende delle quali i testimoni diretti hanno mantenuto il segreto o perlomeno una forte riservatezza, di persone semplici ma anche di esponenti borghesi che non sono entrati, non hanno voluto far parte della schiera, mai troppo grande dal punto di vista delle generazioni successive, dei testimoni. Per scelta ponderata, per ritrosia, per caso, perché non hanno avuto la percezione chiara dell’importanza della loro vicenda, ed hanno pensato che questa potesse avere interesse solo per la cerchia degli stretti familiari.

Durante la preparazione della Mostra: Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, mi è capitato di divenire la destinataria di molte testimonianze inedite, sia orali che scritte, pressoché sconosciute. Testimonianze che probabilmente senza questa occasione sarebbero andate perse, testimonianze meno eroiche di altre  perché fortunatamente raccontavano una storia a lieto fine. Mi sono parse però capaci di rendere bene quel terribile biennio e il suo clima di paura. Spesso scritte in un tono minore da testimoni coevi che mettendo sulla carta la storia dei tentativi fatti per salvarsi, pensavano di narrare gli eventi solo per dei cari parenti lontani, o credevano che quelle poche pagine di appunti sarebbero potute servire quando, giunta la vecchiaia,  il ricordo si sarebbe annebbiato e tutto quel vissuto avrebbe corso il rischio di scolorire. Nel caso di cui ragionerò qui di seguito, caso abbastanza eccezionale[1], mi sono giunte tra le mani  quattro scritture diverse, elaborate da quattro diversi osservatori che si confermano a vicenda, senza che nessuno di loro fosse a conoscenza, al momento della stesura, del testo dell’altro. Una lettera di una giovane ragazza, Elsa Lattes di Livorno, una memoria di suo padre, Aleardo Lattes, un’intervista trascritta e pubblicata, quella a Gastone Orefice e poche pagine che riassumono i fatti, scritte dal vecchio Ugo Castelli sul “Libro d’oro della famiglia”.

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Rita Castelli (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

In questo intervento però mi riferirò solo alle prime tre. Il primo caso è una vera e propria missiva redatta da Elsa, poco più che ventenne, e inviata dall’Italia alla zia Rita Castelli che vive e risiede ad Asmara, per raccontare le vicende degli scampati pericoli. Al momento della stesura la famiglia è salva a Bolgheri, in casa di amici, e attende di poter tornare a Livorno, città già liberata ma impraticabile a causa delle macerie provocate dai bombardamenti. Questa lunga lettera è arrivata fino a noi grazie alla zia Rita che ha custodito per tutta la vita il carteggio che proveniva dall’Italia, e grazie anche alla successiva cura garantita dalla figlia Lidya dopo la sua scomparsa (si tratta di un epistolario di circa 730 lettere). La lettera in questione risale al 18 dicembre 1944. Tramite questa scrittura privata, poco più di due pagine, noi abbiamo come la fotografia di un nucleo familiare piuttosto ampio, quello della famiglia di Ugo Castelli, farmacista livornese, padre di quattro figlie e di un maschio, il primogenito. Tutti sono sposati e con prole, tutti legatissimi alla stessa scrivente che per alcuni è figlia, per altri nipote o cugina. Così dalla lettera di questa giovane, figlia di Aleardo Lattes e di Ada Castelli e sorella di Mario, noi possiamo ricavare tutte le informazioni che lei riassumeva per tranquillizzare la zia più lontana.

In questo testo si rammentano sei nuclei familiari, dai vecchi nonni fino all’ultimo nato, il figlio della cugina  Elena. In tutto diciannove persone, tutte quelle che rientrano nel reticolo parentale più diretto di Elsa Lattes. Così noi lettori di oggi veniamo a conoscenza che, dopo la fuga da Livorno, (tutta la famiglia era stata discriminata e aveva, fino a che era stato possibile, potuto fare una vita quasi normale, con la farmacia, il lavoro, gli scambi delle visite, le piccole gite e poco altro), era cominciato un lungo e tortuoso pellegrinaggio. Il loro distacco dal lavoro e dalla casa è causato dai bombardamenti, soprattutto da quello tragico del 24 maggio 1943. La paura della persecuzione all’inizio resta sullo sfondo degli avvenimenti. A sfollare dalla città verso la campagna  è un gruppo formato da due coppie, quella dei nonni e quella di Ada e Aleardo Lattes, figlia e genero di Ugo Castelli, il patriarca. Nel primissimo periodo si recano prima a Bolgheri da conoscenti, alla villa La Campana, e poi al Forte di Bibbona e poi da lì, e quello sarà il punto di svolta del loro pellegrinaggio, si recano alla villa “la Clementina” a Marina di Bibbona, villa di proprietà della famiglia ebrea dei cugini Tabet. La villa rimane per un certo periodo un rifugio sicuro ma poi, l’avvicinarsi del fronte, l’incrudelirsi della violenza tedesca e repubblichina, consigliano di cercare altri ripari.

Nel frattempo i componenti più giovani come Elsa, Vittorio, Gastone, tutti cugini, erano stati allontanati dalla costa e spediti a Firenze, Firenze che doveva essere “per i ragazzi” una tappa intermedia verso la Svizzera. Questo passaggio però non risulta dalla lettera di Elsa ma si estrapola dalle memorie che scrive il padre Aleardo. Perché Firenze? Forse perché lì risiedeva un fratello della nonna, perché lì agiva una ramificata organizzazione di aiuto per gli ebrei. Comunque tramite questi contatti o altri che non vengono menzionati, i giovani trovano rifugio presso alcuni conventi, come decine di altri ragazzi e ragazze ebree. All’inizio, per i maschi, escluso Mario, il fratello di Elsa, che si reca a Roma, c’era stata l’accoglienza presso i frati di Villa Imperiale[2]. Le ragazze vanno invece in un convento di suore. Scrive Elsa alla zia Rita:

Nel convento dove io ero, solo la madre (ottima donna che ha fatto di tutto per noi e ci ha aiutato fino all’impossibile) sapeva che ero ebrea, le suore tutte no. Vivevo così in mezzo alle educande come se fossi una di loro e non so davvero come hanno fatto a non accorgersi di nulla, per quanto andassi spesso alla messa o alle funzioni nella cappella del convento. Ma la vita a Firenze per noi, cominciava a diventare impossibile; venivamo a sapere di tanta gente che i tedeschi avevano deportato, e ci eravamo molto impauriti.

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Elsa Lattes a Villa Tabet, 1944 (Archivio privato Famiglia Cabib Lattes)

La paura suggerisce quindi di muoversi. Stare fermi in quei frangenti apparve a tutti come una inattività insopportabile, come un piegarsi al destino senza reagire. La decisione presa da Elsa fu di tornare indietro, andare di nuovo verso la costa, alla villa la “Campana”, a Bolgheri, dove Elsa sa di poter trovare i genitori. In quei giorni la stazione di Firenze era piena di soldati, di repubblichini e di tedeschi ma nessuno fa caso a questa giovane ragazza con uno zaino, che si appresta a prendere un treno per percorrere una distanza breve ma che la guerra trasforma in un’odissea che si protrae per dodici lunghe ore, dalle  diciassette del pomeriggio del 14 dicembre 1943[3] alle cinque del giorno seguente. Ma nessuno l’ha bloccata, né alla stazione, né sul treno. In questo colpo di fortuna entra solo il caso e niente altro. Se Elsa fosse stata fermata avrebbero visto dai suoi documenti l’appartenenza alla razza ebraica e per lei sarebbe stata la fine.

Intanto i giovani cugini, i figli di Giorgio Orefice e Anna Castelli: Vittorio e Gastone, dopo aver abbandonato il rifugio dei frati si sono diretti verso Norcia e noi sappiamo che si diedero alla macchia con un gruppo di partigiani del luogo[4]. Il piccolo gruppo era stato anticipato dai genitori che già si trovavano a Norcia e per loro forse la decisione fu meno sofferta Quello che più risalta comunque su questa scena, dove incontriamo diversi personaggi, è la loro modalità di muoversi e di agire, che appare in gran parte guidata dal caso. Una giovane ragazza che ritorna sui suoi passi e fa un viaggio a ritroso anche perché letteralmente non sa dove andare. E’ l’unica ragazza del gruppo, divisa dai cugini, e non ha con chi consigliarsi. Due ragazzi livornesi che vanno a finire in montagna con una banda di partigiani monarchici.

Riprendiamo però le fila della storia della nostra giovane ragazza che,riunitasi con i genitori e con i vecchi nonni, dopo soli quindici giorni di permanenza con i familiari, si rimette in marcia, di nuovo per prima e da sola, perché la sua età la rende potenzialmente più  facile vittima – anche se non viene mai detto o scritto – di uno stupro. Il padre farà un riferimento più esplicito a questo pericolo nelle sue memorie, perché più maturo e più esperto, e sicuramente anche perché ha meno ritrosia linguistica della figlia. Elsa invece, poiché il pericolo, adesso che racconta, è passato, si  permette anche considerazioni romantiche alla giovane zia lontana.

“..non potrai immaginare quello che ho provato quella giornata; mi sembrava di sognare, oppure di stare leggendo un libro di avventure. Infatti sembravo proprio un’avventuriera. Chiusa in un calessino coperto, con due uomini ai lati (uno era un certo Bianchi, guardia della villa Campana) partii di buon mattina invernale, il 12 dicembre[5], dirigendomi nella campagna di Riparbella da un cugino del Bianchi, il quale mi accolse volentieri in casa sua e mi tenne, ti assicuro, più che come una figlia…. La vita che avrei dovuto fare non mi sgomentava per nulla….Andavo la mattina con le bestie nella macchia insieme a un altro ragazzetto di 15 anni e una bimba di 10, stando fuori il più delle volte anche tutto il pomeriggio fino alla sera…..Dopo non molti giorni che ero là vennero anche babbo, mamma e i nonni, scappati di qui. Avevamo poco da mangiare (erba di campo, che si andava a cogliere anche sotto la neve, cavoli e basta). Essi sono stati lì con me fino al 7 marzo, giorno in cui sono partiti per Castellina.”

L’abitazione che la ospita è quella del cugino di Bianchi, certo Rodesindo, collocata nella macchia più fitta[6], dove la vita può trascorrere con una relativa tranquillità. La ragazza vi si fermerà per un lungo soggiorno, fino a pochi giorni prima dell’arrivo degli Americani a Castellina, quando il padre la va a prendere e la porta con sé per ricongiungerla con la madre e i vecchi nonni Castelli. Quando poi le cannonate si fanno troppo vicine, tutto il nucleo si rifugia in una grotta scavata nella roccia e dove, con il gruppo della famiglia Bianchi, raggiungono le nove persone.

Il 7 luglio finalmente Castellina viene liberata ma resta sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca che cerca di proteggere la propria ritirata. Trascorrono quindi altri sette giorni e poi il 15 luglio, tutti,  possono finalmente ritornare alla villa di Bibbona, la Clementina, la casa dei Tabet. La trovano integra e finalmente tirano un sospiro di sollievo. La nostra testimone, giovane e piena di salute, si dedica ai bagni di mare prima che sia possibile, per lei e gli altri, rientrare a Livorno, ormai liberata. I parenti stretti di cui non si hanno ancora informazioni sono tanti: Carlo Castelli, lo zio più anziano e la sua famiglia, la moglie, la figlia, il genero e il nipote e la cugina Emma Belforte.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

I cinque membri che non si sono mai separati sono tutti vivi e sani; hanno perso moltissimi beni ma sono sopravvissuti. Ma proviamo a guardare questa storia da un’altra memoria, molto più dettagliata e,direi, meno edulcorata, di quella di Elsa. La ragazza doveva e voleva rincuorare la zia lontana, in Eritrea, e poneva l’accento sugli aspetti più leggeri tralasciando, penso di proposito, quelli più pesanti. Ma se confrontiamo quanto scritto dalla nipote di Rita con il testo del padre, emerge un quadro più drammatico e più realistico.  Il riepilogo delle vicende proposto da Aleardo, conservato con amore dai familiari e giunto per questo fino a noi, porta come data iniziale: 29 settembre 1945. Il suo racconto non prende le mosse dalla fuga ma dal bombardamento del 28 maggio 1943 su Livorno, uno dei più tragici subiti dalla città. Ed è a quello e alle distruzioni prodotte che il nostro autore attribuisce l’allontanamento suo e dei nonni di Elsa dalla città labronica, subito dopo aver allontanato i ragazzi, Vittorio e Gastone. Le due coppie di adulti vanno nella campagna vicina, da amici, in una abitazione al Forte di Bibbona ma sia Ugo Castelli, il suocero, che Aleardo continuano a tenere la farmacia aperta fino all’ottobre dello stesso anno. A quel punto sia la precarietà delle vie di comunicazione, che il clima di paura che tutti respiravano, in loro aumentato dal fatto di essere ebrei, li convincono a chiudere l’attività e a mettersi in fuga a tutti gli effetti. Aleardo però cerca, ancora per alcuni giorni, di raggiungere Livorno per imballare il salvabile, mettere via qualche mobile e qualche masserizia, chiudere la porta di accesso del negozio. Purtroppo niente di tutto quello che mise in salvo rimase intatto. Tutto fu distrutto dalle razzie degli sciacalli, portato via dai tedeschi in ritirata, distrutto dalle bombe.

Il riparo trovato non sembra però sufficientemente idoneo, soprattutto per la giovane figlia rientrata da Firenze. Allontanata Elsa in una campagna che pare dimenticata, lui e la moglie Ada durante la giornata si allontanano dalla casa che li ospita, e per non dare nell’occhio, si inoltrano nelle macchie vicine ma il 20 dicembre un amico li avvisa che sono stati cercati dai carabinieri di Bibbona. Anche  il padrone della villa la Campana non è più disponibile a tenerli lì, e li prega di andarsene.  Lo spostamento sarà breve. Si recheranno dai cugini Tabet che possiedono una villa poco lontano, la Clementina, e che li ospitano condividendo tutti la paura di essere arrestati e deportati. Ma questa sarà solo una breve pausa. Anche quel rifugio diviene insicuro e dovranno ripartire. Decidono di  seguire la strada della figlia e si rivolgono pure loro dai cugini del Bianchi, nel podere Torignano, nel comune di Riparbella. Alla Clementina restano solo i vecchi Castelli. Ma per poco. Anche per loro quel nascondiglio comincia a divenire troppo pericoloso e così pure la vecchia coppia raggiunge le macchie di Riparbella e si ritrova con gli altri. La situazione però è delicatissima, stretti in una abitazione molto piccola, senza risorse alimentari sufficienti, senza alcuna comodità. La vita diventa un calvario. Le giornate trascorrono nella ricerca di erbe selvatiche da mangiare ma quello che riescono a trovare è veramente troppo poco. Aleardo decide di andare a piedi ben oltre i confini del podere e dirigersi verso Chianni, nelle proprietà di un certo dottore Ugo Cortesi che conosce grazie alla lunga vita passata in farmacia. E miracolosamente arriva alla abitazione signorile di Cortesi che, dopo averlo ben rifocillato, lo fornirà anche di due quintali di grano, cinque chili di fagioli e un grosso pane. Tutte risorse che consumeranno al podere in poco più di due mesi.

Ma intanto Riparbella a causa dei cannoneggiamenti tedeschi e delle bombe americane si sta svuotando di tutti i suoi abitanti. Un certo numero di parenti di Redesindo arriva dove già sono in troppi. Per il nostro gruppo di ebrei è venuto il momento di partire anche da lì. Si recano in due abitazioni a Castellina, poco lontano da Riparbella, dove si era già rifugiata la famiglia dei Moise di Livorno, e dove trovano due stanze per le due coppie in fuga, quella dei Castelli e quella dei Lattes, mentre Elsa resta temporaneamente ancora al podere di Torignano. Il 15 giugno 1944 Aleardo torna a riprendersi la figlia e la conduce con sé, ma il 29 giugno, tutti loro con i Bianchi, quattordici persone tra i 79 anni e un bambino piccolo di due mesi, si rifugiano dentro una grotta scavata nella roccia vicino a Castellina perché il passaggio del fronte rende la stessa piccola cittadina, un inferno. Gli alleati sono vicinissimi ma i tedeschi continuano a mitragliare e lo scontro sembra non dover più finire. In quel frangente, il vero pericolo è quello della guerra, perché in quel territorio, non sembra esserci quello dell’antisemitismo. Scrive Aleardo:

Il giorno seguente al nostro arrivo una folla di conoscenze di vecchia data vennero a farci visita, e tutte non a mani vuote. Fu una gara di gentilezze e di attenzioni veramente commovente. Per quanto facessimo una vita assai ritirata e guardinga, tutto il paese sapeva chi eravamo, e per quale ragione vi eravamo giunti (persino il Commissario prefettizio ne era informato) ma nessuno ci tradì mai.[7]

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Rita Castelli da giovane signora (Archivio privato famiglia Castelli)

Tanta generosità era sicuramente dettata dalla consapevolezza che il quadro politico da lì a breve sarebbe radicalmente cambiato ma, ai  nostri protagonisti, tutto apparve positivo. Nella grotta, adibita a rifugio, ci stanno per sedici lunghi giorni con i viveri sufficienti solo per cinque ma altri arrivano in loro soccorso.

Non soffrimmo la fame, vera e propria, perché altre famiglie ci aiutarono a sbarcare il lunario fino a che, l’ottavo giorno, avvenne il miracolo tanto atteso: la liberazione dall’incubo tedesco-fascista, la provvidenza per noi tutti[8]

Con la liberazione finisce anche la fame perché gli Americani proseguendo nella loro avanzata verso il nord abbandonarono sul terreno: scatolette, cioccolata, latte in polvere e anche, annota Aleardo, carta igienica.  Come aveva scritto a proposito del dormire su dei veri materassi invece che su pagliericci improvvisati, la nuova dimensione faceva intravedere un vivere più civile. Passata la paura delle deportazione, finita quella dei bombardamenti e delle razzie dei fascisti e dei tedeschi, si poteva ricominciare a pensare al futuro anche se, ancora per otto giorni, dall’interno di una grotta prima che intorno tornasse la calma.

Se ripensiamo a quanto scritto fino a qui e lo facciamo guardando una carta geografica, ci accorgiamo che il raggio delle peregrinazioni che le due famiglie dei coniugi Castelli e Lattes affrontarono, fu anche relativamente piccolo. Essi non avevano avuto la possibilità di organizzare fughe più sicure, magari verso l’estero. Per l’età avanzata dei Castelli, Ugo e Emma De Rossi, per mancanza di mezzi a disposizione. Quello che poterono mettere in atto fu una strategia di scappa e fuggi, di gioco tragico a nascondino. Trovato un riparo, lo si utilizzava fino a quando questo risultava sicuro, o perlomeno sembrava sicuro agli interessati. Quando in questa relativa sicurezza, si aprivano delle crepe, ci si spostava un po’ più in là. In base a cosa? Alle conoscenze pregresse, alla rete di parentele che si possedevano e tramite queste si allargavano ad altre potenziali reti di salvataggio da costruire. Nel nostro caso la salvezza arrivò da persone semplici, poveri contadini toscani. Nessuno di loro mai, fino a qui, era stato nominato in un documento di tipo pubblico. Lo fecero per antifascismo convinto? Forse è chiedere troppo. Lo fecero e basta, a loro rischio e pericolo, ma la loro scelta di non partecipare alla caccia all’ebreo, di non approfittare di una famiglia in fuga, permise la salvezza di cinque persone.

A me questa è sembrata una storia piena di angoscia e di paura, ma anche una storia piena di solidarietà e di dignità e per questo significativa da raccontare.

[1] Su questa vicenda, vista però da un’angolatura molto diversa, molto legata alla religione, era comparso già diversi anni fa un diario, quello di Emma De Rossi Castelli in, Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000. Mi riprometto di tornare sopra tutte queste scritture ma in un’altra sede e con più spazio disponibile.

[2]Gastone Orefice. Un giornalista livornese nel mondo, intervista a cura di Catia Sonetti, Ets, Pisa, 2014, p. 32.

[3] La data la ricavo dalla memoria dattiloscritta e inedita di Aleardo Lattes gentilmente concessami dalla vedova.

[4] Gastone Orefice…, cit., pp. 33-34.

[5] Si tratta del 12 dicembre 1943. Il padre di Elsa nel suo diario posticipa questa partenza al 17, ma potrebbe essere anche un refuso della battitura.

[6] Vd. le Memorie di Aleardo Lattes, p.8.

[7] Memoria dattiloscritta di Aleardo Lattes, p.14. L’originale è in possesso della famiglia e presso l’Istoreco di Livorno ce n’è una copia.

[8] Ibidem, p. 17.




Celebrazione solenne in Consiglio regionale per la Giornata della Memoria 2017

Gentili signore e signori, gentili consiglieri, Rabbino Levi, Presidente della Comunità ebraica Bedarida, rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni sono lieto e soprattutto molto onorato dell’invito a parlare in questa occasione. Per questo saluto e ringrazio vivamente il Presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, e il Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi.

Ne sono onorato perché come Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana non posso che leggere in questo invito un importante riconoscimento del nostro lavoro.
Il lavoro che come rete toscana degli istituti storici della resistenza e dell’età contemporanea, pur tra crescenti difficoltà, svolgiamo quotidianamente con l’impegno volontario di molti uomini e donne e con l’indispensabile sostegno delle istituzioni, per porre il nostro patrimonio documentario e le nostre competenze al servizio degli studiosi, degli insegnanti, dei cittadini di questa città, di questa regione, del nostro paese e per promuovere con rigore scientifico la ricerca, la formazione e la divulgazione della conoscenza storica.

Ne sono onorato anche perché come docente di storia contemporanea in una delle università di questa regione ogni qualvolta scruto i volti dei miei studenti diciannovenni mi sento sollecitato a fargli comprendere il senso del loro studio. Ecco, l’invito di oggi è anche un riconoscimento per quei ragazzi, che nella storia contemporanea cercano uno strumento per comprendere il mondo in cui vivono. E se oggi fossero qui ci chiederebbero di spiegargli a cosa serve celebrare la Giornata della Memoria. E’ una domanda che tutti dobbiamo porci, proprio qui in questa regione che così tanto e da molti anni lavora su questi temi con grandi sforzi e grandi risultati.

Le memorie e la storia

A cosa serve la memoria, uno strumento prezioso e fragilissimo? Come farne una risorsa per la cultura del nostro presente? Quale nesso riusciamo a costruire tra la memoria e la cronaca, oggi drammatica, delle guerre e dei nazionalismi, delle stragi e delle migrazioni più o meno forzate? Una cronaca che ci turba e ci disturba, e poi ci si assuefà a seconda che i corto circuiti o le onde della globalizzazione l’accostino o meno alle nostre case.

La memoria è una risorsa preziosa, ma che si consuma. Non è come la fiaccola del tedoforo che passa di mano in mano, sempre rinnovando la sua fiamma. La memoria non si conserva, né si tramanda. Dobbiamo essere ben consapevoli che la memoria vive solo perché si riproduce, si rielabora, certo nel dialogo tra le generazioni e dunque e anzitutto nel dialogo con il tempo presente.

Perché la memoria è inefficiente, come ha scritto di recente Michael Corballis, uno psicologo neozelandese, parlando di quelle individuale, ma ciò vale anche per quelle collettive che ne discendono. La memoria non è una registrazione fedele del passato, semmai ci fornisce informazioni, talora anche false o incomplete, con cui costruiamo delle storie. Perché, per riprendere le parole di Marie Howe, una poetessa americana, “La memoria è un poeta, non uno storico”.

Ecco, la memoria è poesia e noi abbiamo molto bisogno di quella poesia per poter immaginare il passato, per riflettere sul passato, come ci chiede la legge 211/2000, la legge istitutiva della Giornata della Memoria. Abbiamo bisogno di sentirci raccontare delle storie. Quelle che i testimoni, ormai sempre meno numerosi, ci hanno raccontato con saggezza e talora con dolore, quelle che i viaggi ad Auschwitz ci fanno rievocare, quelli che i nuovi linguaggi ci raccontano in forme talora straordinariamente efficaci, come da ultimo ad esempio nel bel film Shalom Italia di Tamar Tal Anati, recentemente proposto al Festival dei Popoli.

Ma per fare educazione civile, quella poesia deve diventare strumento di conoscenza del presente, e non solo del passato. I testimoni ci emozionano, ma possono essere anche indurre ritualità e ripetitività. Quando li trasformiamo in monumenti, quando li trasformiamo in oracoli della verità esperienziale e nell’incarnazione del bene, quando li schiacciamo nel loro ruolo di vittime, senza riflettere su cosa sia stato storicamente il male cui li contrapponiamo, rischiamo di consolarci in una visione manichea che assolutizza il male, lo destoricizza e lo allontana da noi. Mentre il male era anche fra noi. Non era solo altrove, lontano dalle nostre città, nei luoghi dell’orrore dove pure ci rechiamo in viaggio, ma ai quali dobbiamo accostarci sempre con adeguata conoscenza e consapevolezza storica.

Quando si moltiplicano le vittime, e le loro memorie, che pure e giustamente chiedono ascolto, si deve però porre molta attenzione a non alimentare atteggiamenti autoassolutori e deresponsabilizzanti, all’insegna dell’”eravamo tutti antifascisti” e ovviamente “siamo tutti antirazzisti”. Attitudini che molto spazio hanno avuto nella storia del nostro paese. Soprattutto si rischia di perdere di vista i carnefici, uomini e donne come noi e come le loro vittime, si rischia di perdere di vista le idee e le scelte, le responsabilità e i progetti, i luoghi e le situazioni, qui e ora, che hanno trasformato milioni di uomini e donne in vittime.

Per questo, la poesia della memoria deve necessariamente coniugarsi con la conoscenza storica. Dobbiamo essere consapevoli che oggi più che mai la cultura e la conoscenza storica sono risorse indispensabili per la formazione di una coscienza civile e la costruzione di una società democratica. Anche nel tempo presente, proprio perché apparentemente schiacciato nell’immediatezza e nella novità dell’oggi, la cultura storica è chiamata ancora una volta e più che mai a svolgere per intero la propria funzione educativa, nel senso più alto, nel nostro paese così come, è auspicabile, in Europa e nel mondo.

Non perché si debba demandare ad essa la trasmissione di valori e di ideali, ma perché la cultura storica consente di mettere in prospettiva i problemi e le domande dell’oggi. Perché illuminando il passato, aprendoci alla comprensione di ciò che è stato, di perché è accaduto, essa ci aiuta a elaborare risposte capaci di misurarsi con consapevolezza critica con la complessità delle trasformazioni che investono il nostro presente, e con le sfide, le minacce, le ingiustizie che prendono nuova forma e sostanza.

Ed è chiaro che per cultura storica non intendo solo quella che possiedono gli accademici, ma anzitutto quella che dovremmo possedere tutti noi, insegnanti e studenti, uomini di cultura e politici, ma, allo stesso modo, tuti noi semplici cittadini. Appunto, la storia come risorsa per una cultura civile, nel senso proprio del termine.
È questo, deve essere questo, io credo, il senso profondo delle leggi del cosiddetto calendario civile, quelle che hanno istituito la Giornata della Memoria, il Giorno del Ricordo e le altre giornate memoriali.

La forza delle passioni, la poesia delle memorie dunque non possono non essere calate nel contesto delle condizioni storiche contingenti e specifiche che, nel loro convergere, costruirono il genocidio, nella Shoah, come altrove.

Il nazismo e l’Europa del Novecento

Del genocidio, dei molti genocidi di cui è lastricata la storia dell’umanità e in specie quella dei secoli a noi più vicini, la Shoah è divenuta il paradigma. E è giusto che sia così. Lo è divenuta in ragione della drammatica ferocia che l’ha alimentata e della enormità dei numeri che la distinguono, della sua centralità nel mondo cosiddetto sviluppato, della eccezionale convergenza di nazionalismo e antisemitismo, antislavismo e anticomunismo che ne fu all’origine. Alla condanna morale deve associarsi la conoscenza storica: cosa è accaduto? ma soprattutto perché è accaduto? Rispondere a queste domande, e ancor prima porsele è indispensabile per ricostruire il rapporto tra quegli eventi e la nostra modernità, vale a dire tra quegli eventi e noi stessi.

Il disegno e il realizzarsi dello sterminio nacquero e si collocarono dentro la costruzione di uno stato nazionale di impostazione razzista e coloniale, impegnato a imporre un nuovo ordine europeo, nel quale le gerarchie dei popoli fossero funzionali alla supremazia politica quanto alle esigenze dell’economia della Germania tedesca. Un disegno che coniugava l’efficienza della Wehrmacht e la potenza delle industrie tecnologicamente più avanzate con la rapina delle risorse e il lavoro schiavistico. Un progetto che si rivelò fallimentare, ma che appartiene a pieno titolo alla modernità novecentesca. Non un delirio, ma una risposta alle sfide poste da quella modernità. Una proposta politica che in Germania e in Europa raccolse larghi consensi, se non nei suoi dettagli sterminazionisti, certamente nella prospettiva generale di un ordine politico e sociale fondato sull’autoritarismo gerarchico, razzista e antisemita.

Le sue vittime furono in realtà cittadini cui si negarono diritti, non solo quelli che oggi noi chiamiamo umani – termine che trovo talora riduttivo – ma i diritti di libertà e sovranità politica, il diritto al lavoro, il diritto ad una vita sicura. I diritti di cittadinanza, insomma. Di quel disegno di esclusione da una cittadinanza fondata sulla razza, gli ebrei furono le prime vittime, in quanto considerati una “non razza”, un popolo senza stato. Gli ebrei tedeschi anzitutto, costretti alla fuga, e uccisi in circa centoventimila, e però accanto a loro tutti gli avversari politici del regime. Immediatamente dopo la conquista del potere, avvenuta per via elettorale e costituzionale, ricordiamolo, il nazionalsocialismo si scagliò contro il nemico interno, anzi, i nemici: gli ebrei, i comunisti, gli antifascisti, gli individui ritenuti socialmente dannosi. Nel 1933 furono arrestate trecentomila persone, in parte poi rilasciate, ma nel 1936 i detenuti a Dachau e negli altri campi erano ventimila e cinquantamila nel 1938 (la metà dei quali ebrei) e ancora il loro numero tornò a salire, nonostante le migliaia di espulsioni, a ottantamila all’inizio della guerra.

Dobbiamo ricordare questi numeri, perché nella loro brutalità ci raccontano come già in tempo di pace il nazionalsocialismo costruì i propri nemici, i nemici di una nazione pretesa omogenea, secondo una pretesa e una logica comune a molti altri stati europei novecenteschi, anche se fu certamente il più ferocemente radicale nel perseguire quella omogeneità. E, dunque altri numeri dobbiamo ricordare, ad esempio quelli degli oltre 20 milioni di europei costretti tra il primo e il secondo dopoguerra a lasciare le terre in cui vivevano perché considerati minoranze indesiderate rispetto ai nuovi stati in costruzione, non solo nell’Europa centrale. Storie di ieri, diverse tra loro, ma che condividono denominatori comuni. Storie che oggi si ripresentano, anche se in forme ancora diverse.

La Shoah: le radici e i frutti

E oggi, certo, parliamo un’altra lingua, adoperiamo altri strumenti. L’esperienza della Shoah è profondamente radicata nella nostra memoria e nella nostra coscienza. Ma quanto salde e vigorose sono quelle radici ? Quali frutti danno quelle radici?

Sono interrogativi che salgono alla mente, ad esempio, quando all’indebolimento dello stato nazionale indotto dai processi di globalizzazione si sente da più parti reagire alimentando spinte identitarie e comunitariste, che esaltano l’unilateralità e la fissità di taluni caratteri sociali o culturali. Saremmo in contraddizione con i principi fondanti della nostra professione di storici se intendessimo ricondurre queste proposte all’esperienza del nazionalsocialismo germanico. Ma, al tempo stesso, è la storia del Novecento, ad insegnarci che esaltando la pretesa fissità di taluni caratteri culturali e sociali si nega in radice il carattere necessariamente plurale della figura del cittadino, quale soggetto sovrano previsto dalla nostra Costituzione democratica.
Per questa strada – una scorciatoia sempre più frequentata – in nome di quelle identità si rifiutano, di fatto prima e di norma poi, i diritti di cittadinanza a chi è additato come estraneo alla comunità, immaginata come omogenea. Come se quei diritti discendessero dalla comunità, anziché dallo statuto di cittadinanza: è qui che il nesso tra dignità umana e diritto viene pericolosamente rimesso in questione, a danno di chi è diverso rispetto alla pretesa “comunità” per nascita, religione, orientamento sessuale o financo per condizione lavorativa.

Quelle modalità di costruzione dello stato – tornando alla storia del Novecento – erano state sperimentate nei territori sottoposti al dominio coloniale, esercitandosi in operazioni che oggi noi chiamiamo di “pulizia etnica”. Quelle stesse operazioni che, con registri e impatti pur diversi, abbiamo visto all’opera anche in Europa, prima e dopo il secondo conflitto mondiale e, non dimentichiamocelo, a poche centinaia di chilometri da noi, nei Balcani occidentali, negli anni Novanta.

Era, quella costruzione dello stato che portò alla Shoah, un progetto di marca teutonica? Certo. Non si richiamano le analogie per sminuire le responsabilità, né gettare tutto dentro lo stesso calderone. Ma non dobbiamo dimenticare che anche l’Italia aveva elaborato un diritto coloniale mirato a tutelare la “razza” italiana, prodromico alle leggi razziste persecutorie dei diritti dei cittadini ebraici. E certo anche altri stati europei avevano gravi responsabilità nel governo coloniale e si erano resi protagonisti di feroci operazioni di ‘polizia coloniale’, lo stesso l’eufemismo con cui ancora pochi anni fa, sulle pagine di un giornale di questa città, qualcuno volle definire e difendere la “riconquista” fascista della Libia che provocò direttamente o indirettamente la morte di molte decine di migliaia di libici.

Le responsabilità dell’Europa (e dell’Italia)

Il nazismo fu altro. Certamente. Ma fu altro anzitutto perché, come ci fa notare lo storico Mark Mazower, portò nel cuore dell’Europa quella linea di frattura tra noi e loro che gli europei avevano tracciato nelle colonie. Fu altro perché radicalizzò quegli obiettivi politici fino a concepire – passo dopo passo – lo sterminio come un fine in sé. Per questo la Shoah è divenuta il paradigma sul quale misurare e concepire tutti gli altri genocidi.

Il nazismo portò lo sterminio nel cuore dell’Europa perché aveva un progetto per l’Europa: unificarla, s’intende sotto il proprio dominio. Un dominio all’ombra del quale molti cercarono spazio e protezione, come ci dimostrano non solo i collaborazionismi e gli alleati subalterni che li accolsero e sostennero in quasi tutti i paesi europei, a cominciare dal nostro. Ma anche un progetto condiviso, come mostra la storia del continente tra le due guerre mondiali, segnata dalla guerra civile tra fascismo e antifascismo e dal prevalere dell’opzione autoritaria di paese in paese, di anno in anno, già prima che l’esercito tedesco si mettesse in marcia nel 1939.

Di quell’Europa, la Germania nazista fece strame, con il sostegno o la tolleranza dei suoi alleati. Uccise tra i 5 e i 6 milioni di ebrei, dei quali oltre 160mila risiedevano nel Reich, 100mila nei Paesi Bassi, 200mila in Romania, oltre 70mila in Francia, 14mila in Cecoslovacchia, oltre mezzo milione in Ungheria, oltre 2 milioni in Unione sovietica e circa 2 milioni e 700 mila in Polonia.
Nei campi di concentramento e di sterminio morirono 2 milioni e 700 mila ebrei, mentre gli internati non ebrei – cioè zingari, politici, omosessuali e altri ancora – furono tra i 2 e i 3 milioni, dei quali circa ¼, tra i 5 e i 700mila morirono durante la prigionia. Nel gennaio 1945 esistevano una ventina di campi, ove erano rinchiusi circa 700mila prigionieri.

Pochi numeri, solo per richiamare assieme la portata europea e la dimensione organizzativa della politica che portò allo sterminio. Una politica che intendeva coniugare gli scopi della guerra e gli scopi dell’economia e che, per nostra fortuna, lo fece in modo alla fine fallimentare, affollando e gestendo i campi in nome ora delle logiche produttive, ora della reclusione politica, ora della persecuzione antisemita, ora dell’internamento dei prigionieri di guerra, anzitutto russi.

Memorie e cittadinanza democratica

Ne fu investita tutta l’Europa. Per questo, la Shoah non può non essere un elemento centrale e costitutivo della memoria e dell’identità europea. Ma, come già ha ricordato lo scorso anno, proprio in questa sede e in questa occasione, anche Filippo Focardi, non può essere una memoria delle vittime, magari in competizione con quella di altre vittime. Deve invece essere la memoria dei cittadini europei cui furono negati diritti, una memoria che non è in contrasto, bensì in sintonia con quella di quanti per quei diritti si batterono. Che non è in competizione con altre memorie, quando ricordiamo la privazione dei diritti che altri uomini e donne a loro volta soffrirono ad opera di regimi di diversa od opposta intonazione politica.

Non perché si debba raggiungere un’impossibile memoria condivisa. Ma perché le memorie sono intrinsecamente plurali, perché il riconoscimento della nostra memoria passa per il riconoscimento di quella altrui. Le memorie, infatti, possiedono, anzi possono accrescere il loro senso e valore nel nostro tempo presente soltanto se promuovono il riconoscimento dell’altro, il riconoscimento delle memorie altrui. Come italiani abbiamo ancora molto da fare in questo senso, nei confronti della Libia e dell’Etiopia, della Spagna e della Grecia, dell’Albania e del Montenegro, della Croazia e della Slovenia, anche della Russi e dell’Ucraina.

La storia non è magistra vitae, ma ci aiuta a comprendere che il riconoscimento degli altri come diversi da noi è – oggi più che mai – il presupposto della cittadinanza democratica, in Italia come in Europa. L’Europa come istituzione politica adeguata alla globalizzazione degli anni Duemila non può scaturire dalla sommatoria instabile di interessi presunti nazionali in competizione. Può solo fondarsi su una ridefinizione della cittadinanza che muova da quei valori di libertà, di giustizia, di rispetto della dignità umana che spinsero parte della società europea a contrastare la costruzione di un’Europa dominata da stati attrezzati per guerre di conquista e governati dall’autoritarismo, dal razzismo e dalla sopraffazione sociale.