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Franco Serantini cinquant’anni di memoria contro l’ingiustizia

Sono passati cinquanta anni da quel maggio del 1972 in cui Franco Serantini perse la vita. Morì due mesi prima dal compimento dei 21 anni. Viveva da semi-recluso nel Collegio Thouar di Piazza San Silvestro a Pisa, orfano ospite di una struttura semi-carceraria: una volta raggiunta la maggiore età avrebbe potuto finalmente lasciare il riformatorio per andare a vivere da solo (poco più tardi, nel 1975, il Parlamento avrebbe abbassato ai 18 la soglia per diventare maggiorenni). Oggi Franco di anni ne avrebbe avuti poco più di 70 e probabilmente si starebbe godendo la pensione, dopo una vita di lavoro. Impiegato per la IBM, questa era la sua idea: aveva imparato a preparare le schede perforate, in un’epoca in cui i personal computer non esistevano e l’automazione informatica si faceva strada attraverso dei biglietti di carta pieni di buchi.
Purtroppo il suo progetto non si realizzò mai, il percorso immaginato verso la libertà e l’autonomia si chiuse per sempre il 5 maggio di cinquanta anni fa. Quel pomeriggio, dopo essere stato alla sede della IBM dove faceva l’apprendistato, Serantini andò in strada per partecipare a una manifestazione, una delle tante di quegli anni finite con scontri, arresti e cariche della polizia. Come migliaia e migliaia di ragazzi e ragazze di quegli anni, sentiva che senza una dimensione collettiva, senza una ricaduta politica, non aveva senso la riuscita individuale. Le ingiustizie che aveva subito fino ad allora non erano state poche: Corrado Stajano avrebbe scritto che la sua era una storia ottocentesca, «ai limiti dell’invenzione settaria, priva di ogni luce, colma soltanto di miseria, di violenza, d’ingiustizia». Sardo “figlio di N.N.”, adottato da una coppia di siciliani, divenne anche orfano dopo la morte della madre adottiva. Riconsegnato alle strutture dello Stato, venne mandato a Pisa, dove maturò una forte sensibilità politica e dove in un’altra struttura dello Stato in cui non era mai stato prima trovò la morte.
Serantini tessera_ridottaIl tardo pomeriggio del 5 maggio 1972 fu picchiato con i manganelli, i calci di fucile, gli scarponi dei poliziotti della celere di Roma, mandati a Pisa per garantire che i comizi della campagna elettorale si svolgessero senza interruzioni. In una carica sul Lungarno Gambacorti, nella sponda meridionale del fiume, a pochi metri da quella che oggi è l’entrata di Palazzo Blu, luogo di esposizioni, Franco Serantini fu massacrato, poi caricato su una camionetta e portato in caserma, quindi al carcere Don Bosco. Qui fu interrogato da un giudice e passò la visita dal medico penitenziario, ma non ricevette le cure che il suo stato di salute avrebbe preteso. La vicenda di queste ultime drammatiche ore si può sovrapporre a quella vissuta decine di anni più tardi da Stefano Cucchi, ragioniere romano ucciso mentre era in stato di fermo di polizia nell’ottobre 2009. Le violenze esercitate dalle forze dell’ordine sui corpi di Franco Serantini e Stefano Cucchi sono diventate invisibili agli occhi dei funzionari statali che erano incaricati della loro custodia: medici e giudici si sono fatti ciechi di fronte agli ematomi e alle disfunzioni fisiologiche. Ma purtroppo le ferite non si riassorbirono da sole e i corpi delle vittime dei pestaggi cessarono di funzionare. Serantini morì all’alba del 7 maggio 1972, dopo un giorno e mezzo di agonia.

Cinquanta anni più tardi la vicenda processuale di Stefano Cucchi è arrivata alla giustizia: due carabinieri sono stati riconosciuti colpevoli in via definitiva lo scorso 4 aprile. Lo Stato è riuscito a processare se stesso in nome della trasparenza e della rettitudine. Per Serantini invece la vicenda si concluse con un nulla di fatto. Una battaglia civile determinata e intelligente riuscì a riconoscere le cause della morte, la realtà del linciaggio venne acclarata dai 55 rilievi eseguiti sul cadavere, ma non venne istituito nessun processo. Le indagini si chiusero con un non luogo a procedere per impossibilità di individuare i colpevoli, protetti dall’omertà dei corpi di polizia.

La memoria invece, al contrario delle indagini, non si è mai smarrita né fermata. Le modalità con cui le strutture carcerarie avevano tentato di occultare le ragioni del decesso avevano portato la città farsi carico della tutela post mortem di Serantini. Un funzionario del Comune di Pisa impedì il tentativo di seppellire il corpo senza un’autopsia. Esponenti antifascisti locali riuscirono a costituirsi parte civile per scoprire la verità. Il funerale di Serantini vide una intera città abbracciare quell’orfano che aveva perso la vita prima di trovarla pienamente. La memoria di quella morte aveva quindi da subito superato l’ambito personale di chi aveva conosciuto direttamente Serantini, e quello politico di chi militava nelle formazioni politiche a cui Serantini aveva aderito, in primo luogo il movimento anarchico, ma anche la formazione extraparlamentare di Lotta Continua a cui in precedenza aveva militato.
La memoria civile superò i confini locali e divenne un patrimonio diffuso nel paese grazie a un libro. Fu proprio lo sdegno suscitato dall’esito della vicenda giudiziaria nel 1975, a spingere Corrado Stajano – allora giornalista 45enne con alle spalle un libro e alcuni documentari con Ermanno Olmi – a dedicare un’inchiesta sulla figura di Franco Serantini. Il libro che ne risultò, Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini edito da Einaudi, divenne un best seller, arrivando a vendere diverse decine di migliaia di copie. A Torino una scuola media venne intitolata a suo nome, a Pisa una biblioteca, oggi diventata istituto per la storia della resistenza all’interno della Rete Parri, e una casa editrice.
Queste memorie continuano a essere attive oggi, a cinquanta anni dai fatti. Ma ancora vivono le memorie di chi per ultimo incontrò Serantini in salute, dei celerini suoi coetanei che in quel maggio 1972 «gli cercarono l’anima a forza di botte», come recitava una canzone di Fabrizio De André uscita pochi mesi prima, alla fine del 1971. Memorie mute, che non hanno mai parlato né rivelato ciò che successe sul Lungarno Gambacorti, protette dall’omertà dei corpi dello Stato.
Negli scorsi giorni, intanto, è stata resa pubblica una lettera aperta con la richiesta di una parziale giustizia, di dare il nome di Serantini alla piazza dove aveva trascorso gli ultimi anni di vita. In Piazza San Silvestro gli amici e i compagni di Franco, insieme a gran parte della città, lo avevano voluto ricordare con una targa sull’edificio dell’ex collegio Pietro Thouar posta nel 1972 e con un monumento di marmo inaugurato nel 1982. Da allora per la città di Pisa, quella è Piazza Serantini. La lettera è firmata da personalità autorevoli come Gian Mario Cazzaniga, Maria Valeria Della Mea, Ezio Menzione, Ilaria Pavan, Adriano Prosperi e Corrado Stajano, e chiede che anche le istituzioni riconoscano alla piazza il nome di Serantini. Intanto la città ricorderà la sua storia la prima settimana di maggio, grazie a tre iniziative organizzate dalla Biblioteca Franco Serantini. Il 3 maggio verrà proiettato il documentario di Giacomo Verde S’era tutti sovversivi; il 5 maggio sarà presentato il libro Cinquant’anni di memoria contro l’ingiustizia, il 7 maggio si terrà un presidio mobile da Piazza Venti Settembre per celebrare in strada la memoria di Serantini. Nella convinzione che la sua storia meriti di rimanere evidente nel corpo della città, attraverso un atto di giustizia simbolica, in mancanza di quella giudiziaria.




150 ore

Nel 1973, con l’art. 28 del Ccnl Metalmeccanici venne riconosciuto ai lavoratori il diritto a permessi retribuiti per frequentare, presso istituti pubblici o legalmente riconosciuti, corsi di studio al fine di migliorare la propria cultura. La conquista di questo monte ore retribuito, noto come “150 ore”,  fu utilizzato per ottenere il diploma di terza media, frequentare seminari o insegnamenti monografici nella scuola secondaria superiore e all’Università configurandosi come un vero e proprio laboratorio collettivo di innovazioni didattiche per l’ educazione degli adulti:  la struttura seminariale delle attività invitava infatti gli studenti alla ricerca-apprendimento autonoma e  alla ricerca-azione su tematiche e questioni che concernevano la vita quotidiana e le condizioni di lavoro degli operai. Una scommessa da parte del movimento operaio e sindacale riguardo alla democratizzazione di una scuola ancora selettiva ed elitaria, che traeva vigore dall’influenza del movimento studentesco, dall’esperienza di Don Milani a Barbiana, come da altri fermenti innovatori che si erano delineati ad inizio degli anni ‘60.

Le 150 ore non potevano pertanto rappresentare per i lavoratori un ritorno nella stessa scuola con voti, insegnanti autoritari, compiti a casa, dai contenuti astratti e lontani dalla loro esperienza di vita. Tra gli argomenti specifici possiamo ricordare l’analisi della busta paga e della contingenza, il ruolo della fabbrica, la situazione dell’agricoltura, l’ambiente di lavoro, mentre in merito alla riflessione storica i filoni più diffusi furono la storia dell’industrializzazione, del fascismo, dell’immigrazione.  Tematiche affrontate con metodologie didattiche nuove alternative  al libro di testo (il lavoro di gruppo, l’inchiesta, l’uso della statistica, il teatro) che aprivano orizzonti e percorsi inediti, superando l’atteggiamento passivo nei confronti dello studio e proponendosi di conoscere la realtà per cambiarla ed intervenire anche sulla propria situazione.Orizzonti e percorsi inediti che si concretizzarono soprattutto nell’utilizzo conoscitivo e relazionale del metodo autobiografico in direzione di un apprendimento basato sulla propria quotidianità e con la volontà di proporre una sorta di controcultura operaia antagonista a quella dell’impresa e alla “scienza dei padroni”.

Uno dei temi più ricorrenti che vide impegnati anche in Toscana corsisti, insegnanti e sindacalisti fu quello della nocività e salute nei luoghi di lavoro. L’attenzione a tale problematiche non era casuale dato che si trattava non solo di mantenere certe conquiste sul tema della sicurezza ottenute con le lotte del ‘68-‘74 ma anche di esprimere al meglio le nuove opportunità derivanti dall’ Inquadramento unico[1]: era impensabile migliorare la professionalità e la qualità del lavoro se non miglioravano le condizioni in cui esso veniva esercitato[2]. La monetizzazione del rischio, ossia l’indennizzo per un lavoro nocivo, pericoloso, eccessivamente faticoso, incorporata nel salario, era una strada ormai del tutto impraticabile come ricordano queste emblematiche parole di un operaio empolese: “La salute del lavoratore è più importante delle 5.000 lire di aumento mensile” (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976,  Archivio Cisl fondo Flm, b.13844 fasc.1).Di pari passo con lo sviluppo della Medicina del lavoro in materia di salute e sicurezza, il movimento dei delegati di fabbrica fece proprio il modello sindacale della prevenzione fondato sull’azione diretta dei lavoratori: elaborato già nella metà degli anni ‘60 in alcune esperienze torinesi, lo socializzò fra gli operai, facendolo circolare e sperimentandolo attraverso una capillare attività di formazione nei corsi delle 150 ore [3].

A Firenze, nel 1975-’76, si tennero diversi corsi nella scuola media inferiore sul tema “Ambiente di lavoro e salute in fabbrica”, cui parteciparono i delegati delle più grandi fabbriche dell’area urbana. I filoni principali seguiti nei corsi furono: l’analisi delle officine e dei reparti (inquinamento, incidenti e infortuni, rischi in generale); la prevenzione sanitaria (malattie professionali, regole e standard); la promozione di un sistema sanitario pubblico e la storia dell’ambiente di lavoro industriale[4]. “Per Siena come primo momento per l’utilizzo delle ore di studio pagate per i lavoratori può essere visto come epicentro l’Istituto di Medicina del Lavoro”, recita una proposta di discussione per l’utilizzo delle 150 ore dove si elencano anche le possibili discipline di studio: Medicina sociale, del lavoro, farmacologia, malattie mentali ma anche collegamenti interdisciplinari con economia, lettere e diritto[5].  Ugualmente a Follonica si affrontarono le malattie professionali nelle miniere con preliminari cenni di anatomia[6]. Nel 1974, a Prato, uno dei maggiori distretti industriali tessili italiani, a conclusione di un corso da 120 ore (la quantità di ore contrattuali previste per il diritto allo studio retribuito di questo comparto) venne pubblicato in forma ciclostilata un volume-dispensa, dedicato all’organizzazione del lavoro e all’ambiente nelle piccole e piccolissime imprese, comprese quelle familiari (120 ore, Fondo Flm,  b.13845, fasc. 2).

Nel 1975 ad Empoli presso la Scuola Media Statale Fucini, in un contesto di distretto industriale e di piccole e medie imprese diffuse, si svolse un corso avente per oggetto “il problema della salute in fabbrica e nella società” attraverso lavori di gruppo e “verifiche assembleari”. Il programma, raccolto in un’antologia, si strutturò attorno alle storie di vita dei lavoratori con un particolare accento riservato ai problemi della fabbrica.  Quelli “ di sopra”, “gli altri”, “quelli che comandano” che stabiliscono turni,  ritmi, che tarano le macchine, che decidono  il salario, che assumono o licenziano, che valutano la malattia o l’invalidità,  sono quelli “che hanno studiato”, che sono rimasti dentro la scuola, cosicché la fuga dal ripetitivo e stressante lavoro manuale e la distribuzione ingiusta del sapere si fondono nelle motivazioni a riprendere a studiare: “mi piace soprattutto che a scuola ognuno di noi, operaio, casalinga etc. si esprime come può ed insieme possiamo parlare, discutere di tanti problemi di cui siamo vittime” [7]. Molte le testimonianze riguardo all’ ambiente lavorativo e la sua nocività, ne riportiamo alcune tratte dal Fondo Flm dell’Archivio Cisl (b. 13844 fasc.1):

Ogni lavoratore deve essere tutelato prima che si ammali perché quando l’operaio di fabbrica si ammala può essere solo curato ma non guarito. I nostri datori di lavoro dicono sempre che c’è troppo assenteismo, ma se ogni operaio lavorasse con più sicurezza per la sua salute, con meno nocività in fabbrica, e con più garanzie da parte dello Stato o degli organi competenti, si avrebbe tutti più salute e maggiore benessere.

Sono un operaio metalmeccanico, ed ho sempre lavorato continuamente da circa 12 anni. Cosicché penso di avere acquistato una certa conoscenza di quello che può essere il rapporto di lavoro e la salute nella fabbrica. Io credo che si debbano affrontare in questo corso i problemi che ci aspettano quotidianamente. Il rapporto di lavoro si sta dimostrando col passare del tempo sempre più difficile perché aumentano le difficoltà del lavoratore all’interno della fabbrica. Il ritmo di produzione è sempre più elevato e richiede maggiore logorio fisico, senza contare lo stato d’animo, sospesi come siamo, fra licenziamenti e cassa integrazione. La salute è una cosa indispensabile per tutti, ma soprattutto per noi operai, che tutte le mattine dobbiamo lavorare senza tante attenuanti, perciò l’ambiente deve essere non sano, ma sanissimo.

Altri corsisti sottolineano la pesantezza della linea di montaggio, il difficile adattamento del corpo ai tempi e ai modi di funzionamento delle macchine, la dura disciplina della “fabbrica orologio”:

Lavoro da circa 6 anni, prima ero alla catena con ritmi elevati, durante il giorno non potevo neanche andare in bagno altrimenti rimanevo indietro, ora sono alla mazzetta. Circa 3 anni fa ebbi una colica renale, il mio medico mi disse che dipendeva tutto dallo stare sempre seduta, chiesi se mi potevano cambiare posto. Ma non fu possibile neanche col certificato medico, che poi lo chiedevo soltanto per qualche mese. Così sono andata avanti fino ad oggi.

Spesso con un ammodernamento degli impianti, l’operaio vede arrivare in fabbrica una macchina che fa, magari più velocemente, quello che faceva lui, tale e quale. E vede bene che se lui non può decidere niente, la semplice forza delle sue braccia non vale molto. Lui diventa un semplice accessorio da adattare alla macchina, un ingranaggio e non il più importante. Il padrone ha molta più cura della macchina che di lui. Se si guasta la macchina si ferma tutto, se si guasta un operaio il padrone ce ne mette un altro e non è successo niente di grave. Tutto ciò è umiliante per un uomo.

Io sono una confezionista, lavoro alla Lebole, che comprende 7.000 dipendenti ed è divisa in succursali. Io lavoro alla succursale di Empoli, che impiega circa 500 lavoratori e, come in genere in tutte le fabbriche, i problemi non mancano. Il ritmo molto elevato causa tensione, sensazione di paura, ansietà, fatica, nervosismo, depressione, per questo ogni giorno ci sono delle crisi isteriche e assenze dal posto di lavoro. Il padrone reagisce chiamandoci massa di vagabondi, ma non fa niente per trovare una soluzione a questi problemi. La ripetitività della mansione è un avvilimento continuo. Pensare di avere un cervello e non poterlo utilizzare in quanto l’uomo è al servizio della macchina e non la macchina al servizio dell’uomo.

In molti operai matura così la consapevolezza e l’importanza di trattare la Medicina preventiva, “dopo anni che sono assente dagli studi per motivi economici, mi ritrovo di nuovo in aula non come scolaretto ma per capire qual è il male che nuoce alla salute di noi lavoratori”:

Mi rendo conto di quanto è importante studiare a fondo la medicina preventiva, nelle fabbriche ci sono moltissime cose dannose per la salute; alcune mie colleghe sono ammalate di nervi e questo per tante cose ingiuste, il ritmo di lavoro e tante altre.

Sono contento che questo corso studi il problema della salute. Lavoro in vetreria e quello è senza dubbio uno dei posti dove la salute va curata in tempo perché se si aspetta i sintomi della malattia la maggior parte delle volte è troppo tardi. Sono contento anche di imparare l’italiano e le altre materie, per avere una maggiore cultura che mi serve nella società e anche nell’ambiente di lavoro, dove spero di poter parlare meglio soprattutto con il datore di lavoro che crede di sapere sempre tutto lui.

Per quanto riguarda i rischi che corriamo, si potrebbe parlare di tantissime cose, in quanto la mia fabbrica è un calzaturificio e, come è noto, in questo tipo di lavorazioni i fattori di nocività non si contano. Finalmente è entrato nella nostra fabbrica l’ispettorato della Medicina Preventiva; così abbiamo avuto la possibilità di farci vigilare di più.

Abbiamo lavorato con assoluta mancanza di controlli sanitari periodici, abbandonati quindi dalla scienza medica, ognuno pensava per proprio conto alla salute, se stava attento altrimenti quando si manifestava un malessere questo era già cronico.  Finalmente viene istituito un servizio di Medicina Preventiva.

Come si evince da queste testimonianze, la consapevolezza che “lavorare in fabbrica fa male alla salute”[8] indirizzò gli operai più o meno scolarizzati verso un nuovo atteggiamento nei confronti del lavoro e ad una maggior percezione del rischio. E in questa presa di coscienza operaia, a livello di massa, la socializzazione educativa delle 150 ore giocò un ruolo fondamentale: i lavoratori, analizzando le loro esperienze, anche attraverso le storie di vita, contribuirono infatti in modo del tutto originale ad approfondire alle conoscenze di medici, tecnici e sindacati[9] e la prospettiva finale fu quella di utilizzare le ricerche svolte nei corsi per definire le strategie di azione sindacale e  le piattaforme rivendicative dei Consigli di fabbrica.

Avendo come oggetto di studio e di indagine le condizioni di lavoro e l’organizzazione produttiva, anche sul piano della salute e della sicurezza, le 150 ore rappresentarono per molti aspetti “un vero e proprio caso di auto-educazione di massa attraverso la ricerca-azione” [10] la cui ricostruzione storica consente di riflettere su sfide ancora assolutamente attuali: alcune di esse purtroppo rimandano ad episodi di cronaca ed immagini tragicamente note.

Un suono che si distingue dagli altri numerosi rumori della fabbrica; la sirena dell’ambulanza che a tutta velocità percorre per l’ennesima volta la strada verso l’ospedale. E’ un altro incidente sul lavoro: un altro lavoratore vittima di un macchinario. (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976)

 

Monica Dati è dottoranda presso il corso di “Scienze della Formazione e Psicologia” dell’Università degli studi di Firenze. Collabora con il Comune di Lucca e con la Biblioteca Agorà con cui ha inaugurato il progetto “Madeleine in biblioteca”.

[1]Sistema di classificazione che viene introdotto in seguito alla lotta contrattuale dei Metalmeccanici del 1972-73 che porta al superamento della distinzione tra operai ed impiegati.

[2]P. Causarano, Unire la classe, valorizzare la persona. L’inquadramento unico operai-impiegati e le 150 ore per il diritto allo studio, Italia contemporanea, 278, pp. 224-46, 2015.

[3] Questo modello operaio fu reso noto in migliaia di fabbriche grazie alla dispensa L’ambiente di lavoro, edita prima dalla Fiom nel 1969 e poi dalla Flm nel 1971. Scaturita dall’opera di Ivar Oddone, medico e psicologo del lavoro, fu il frutto di un’elaborazione collettiva pluriennale che raccolse l’esperienza di alcuni lavoratori metalmeccanici della 5a Lega di Mirafiori.

[4]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, Giornale di Storia Contemporanea, 2016, n. 2 p. 70

[5]  Proposta di discussione per l’utilizzo a Siena delle ore di studio pagate per i lavoratori. Materiale per le 150 ore a Siena 1976-1977, a cura della Commissione Sindacale 150 ore di Siena, Archivio storico del movimento operaio e contadino in provincia di Siena (Amoc), Fondo zona sindacale Amiata b. VIII Fasc. 1

[6]  Documenti sui corsi 150 ore. Malattie professionali e ambiente di lavoro in miniera, Fondo CGIL, 1 (b. 85), Archivio della Camera del Lavoro di Grosseto

[7]Antologia del Corso 150 ore, Scuola Media Fucini R., Empoli, 1975 ciclostilato, Archivio Cisl, Fondo Flm, b. 13844 fasc.1

[8]Come titola il famoso libro di medicina del lavoro di Jeanne Stellman e Susan Daum (Feltrinelli, 1975)

[9]Sul rapporto tra formazione e sicurezza sui luoghi di lavoro si veda anche P. Federighi, G. Campanile, C. Grassi (a cura di), Il circolo di studio per la formazione alla sicurezza nei luoghi di lavoro, ETS, Pisa, 2010

[10]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, op. cit., p. 67




«L’esperienza del Pci non è stata ripetibile, si è fermata lì…»

Avvertenza: Nel trascrivere l’intervista si è cercato, ove possibile, di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando al minimo indispensabile  gli interventi correttivi sul testo. L’intervista è stata raccolta il 19 dicembre 2021

 

D- Daniela Lastri, lei nel 1989 era una attivista e dirigente del PCI fiorentino ed ha vissuto perciò le vicende politiche che portarono alla svolta della Bolognina e alla decisione di Occhetto di cambiare il nome al partito. Può dirci qualcosa della sua esperienza politica e istituzionale di allora?

R- In quel periodo, nel 1988-1989, io facevo parte a Firenze della segreteria cittadina del PCI. Ero già stata attiva in precedenza a vari livelli all’interno della Federazione giovanile comunista (FGCI), sia nell’organizzazione provinciale fiorentina che in quella regionale dove ero rimasta fino al 1982. Naturalmente, ancor prima ero stata un’attivista del movimento studentesco, prendendo parte a collettivi studenteschi e partecipando all’attività del movimento femminista del tempo. Nel 1989, come membro della segreteria cittadina del PCI, svolgevo il ruolo di responsabile del partito per la zona a Sud-Ovest della città, in quelli che allora erano i quartieri 4 e 5, una vasta area che dall’Isolotto si spingeva fino a Mantignano, in prossimità di Scandicci. Si trattava di quartieri “rossi”, con forte tradizione operaia e di voto a sinistra. Quella era l’area che io curavo per il partito. Fu una bella esperienza, intensa e ricca di attività. In quel periodo, mi ricordo, all’interno del partito c’era una grande attenzione alle diversità e ai processi sociali in corso. Il PCI di allora era un partito in continua evoluzione benché vi fossero oggettive difficoltà dovute al cambiamento dei gruppi dirigenti che si erano susseguiti dopo la scomparsa prematura nel 1984 del segretario Enrico Berlinguer; ma ciononostante si viveva all’interno di un partito che continuava a dare molta attenzione ai grandi movimenti politici e sociali di massa, soprattutto a quelli animati dai giovani e dalle donne, un partito che costituiva perciò ancora un grande contenitore al cui interno potevano trovare spazio le principali tendenze politiche e sociali del mondo della sinistra. A tal riguardo, ricordo che in quel periodo noi facemmo un’esperienza particolarmente significativa, perché in questa zona Sud-Ovest della città che io seguivo per il PCI costituimmo una segreteria di partito fatta di sole donne. Si trattò di un elemento di novità, legato a un’esperienza molto particolare e interessante sorta poco prima all’interno del PCI che era quella della Carta delle donne, proposta nel 1986, la quale, dopo lo sbandamento dovuto alla morte di Berlinguer due anni prima, era nata per rilanciare la presenza e il ruolo delle donne all’interno del partito, aprendo e dando spazio in particolare alle componenti provenienti dalla realtà del movimento femminista. La Carta delle donne nacque con questo intento: fare in modo che il PCI si rinnovasse parlando ai soggetti che erano «promotori di cambiamento», di novità, a partire appunto dalle donne. Fu una decisione importante per un partito che allora si stava ancora interrogando sulla strada da percorrere dopo la morte di Berlinguer. È stato, quello, un periodo di grande attenzione ai mutamenti e ai cambiamenti.

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Daniela Lastri (fonte: Consiglio Regionale della Toscana)

Contemporaneamente, mentre facevo quest’attività di responsabile del PCI in quella zona cittadina, portavo avanti anche l’attività di consigliera di quartiere. Con le elezioni amministrative del 1985 ero entrata infatti a far parte delle istituzioni cittadine, tanto che poco dopo, tra il 1988-89, diventai vicepresidente del quartiere 11, che allora accorpava la zona di Piazza della Libertà e le Cure. Si trattava peraltro di un quartiere completamente diverso sul piano politico-sociale da quello dell’Isolotto-Mantignano che curavo come responsabile di zona per il PCI. Ma entrambe queste realtà di partito, come pure i miei primi incarichi istituzionali cittadini, si sono poi rivelati particolarmente importanti per la mia formazione e per il proseguimento della mia attività politica successiva. Ricordo perciò questo periodo come un periodo di grande impegno ed esperienza, segnato da queste significative attività e da questa particolare sensibilità e attenzione vissuta all’interno del partito nei riguardi dei «soggetti del cambiamento».

Io mi trovai a far parte della segreteria cittadina del PCI alla vigilia di un cambiamento epocale nel quale una serie di eventi e vicende politiche internazionali misero a dura prova la forza e la presenza delle politiche del PCI. In quel frangente, la questione che caratterizzò la mia militanza, fu naturalmente quella del cambiamento del nome del partito che Occhetto predispose alla Bolognina e che poi si sarebbe concretizzata qualche tempo dopo. Io mi sono trovata a gestire questa fase molto delicata del PCI in una zona cittadina a caratterizzazione storica operaia dove, come ho detto, il partito aveva allora profonde radici nelle quali peraltro io stessa mi riconoscevo personalmente. Anche le mie radici familiari, infatti, erano legate a quel mondo operaio da cui provenivano i miei genitori, anch’essi militanti del PCI, attivi politicamente come segretari di cellula del partito e nel sindacato, in particolare mio padre. Venendo da quest’ambiente io non ho fatto mai fatica a riconoscermi in quella storia, quella del PCI, in cui affondavano le mie radici.

D- Dunque, lei ha vissuto gli effetti di quella svolta “in prima linea”, per così dire. Quali furono le sue reazioni di fronte a quell’annuncio? La colse di sorpresa o era qualcosa che si poteva immaginare?

R- La vicenda della Bolognina e di quello che ne è conseguito da un lato non è che ci avesse preso proprio di sorpresa, perché sulla questione del cambiamento del nome c’era una discussione interna al PCI che era iniziata già da diversi anni, anche nel gruppo dirigente nazionale del partito. Poi, bisogna tener conto che il PCI ormai costituiva da tempo un’esperienza storicamente e politicamente diversa da quella dei paesi del blocco sovietico e quindi dei partiti comunisti dell’Europa dell’Est. Avevamo avuto al centro della nostra azione le questioni dell’eurocomunismo, cioè di un comunismo europeista alternativo a quello del socialismo reale; inoltre la cosiddetta “via italiana al socialismo” costituiva oramai una prerogativa tipica del PCI, quindi gli elementi di diversità, di assoluta differenza con il modello sovietico erano sicuramente molto significativi. Penso ad esempio solo al concetto della “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”, che Berlinguer espresse nel 1981 dopo le vicende politiche polacche in una nota conferenza stampa. La vicenda polacca del 1981 non a caso ha marcato profondamente questa diversità del PCI; naturalmente il partito aveva già intrapreso la propria strada separata dal modello sovietico almeno a partire dal 1968, prendendo una posizione sui fatti di Praga radicalmente diversa rispetto a quella tenuta nel 1956 di fronte alla repressione disposta in Ungheria. Ricordo come mio padre in quell’estate del 1968, di fronte agli avvenimenti cecoslovacchi, ribadisse come noi comunisti italiani fossimo oramai radicalmente lontani da quell’esperienza. E di lì a seguire, infatti, ci saremmo trovati sempre più circondati da vicende internazionali che in qualche modo ci allontanavano sempre più nettamente da quel modello al quale in passato eravamo stati legati. Penso all’invasione dell’Afganistan del 1979, ma anche alla vicenda delle proteste di piazza Tienanmen della primavera-estate del 1989 organizzate da studenti, giovani e operai contro il regime cinese: quello costituì un evento dirompente per quanto riguardava le nostre sensibilità, il nostro modo di interpretare il socialismo rispetto a quei regimi autoritari. Non per nulla, l’esperienza cinese anticipò quanto sarebbe accaduto di lì a poco nel novembre di quell’anno con la caduta del muro di Berlino. Tutte queste vicende internazionali che attraversano quel periodo storico ci vedevano perciò come comunisti italiani molto critici nei riguardi del regime sovietico, per cui la presa di posizione della Bolognina fu una scelta che certamente ci colpì ma in qualche modo si configurò quasi come una necessità, una svolta che era cioè la conseguenza di un quadro internazionale ormai fortemente incrinato e che non aveva più niente a che vedere con i valori ideali del socialismo, della democrazia ma anche della libertà; temi fondamentali e dirompenti che erano stati sempre al centro dell’idea di una “via italiana al socialismo”.

D- Perciò si trattò di una decisione necessaria? In ogni caso come fu gestita secondo lei quella svolta?

R- Personalmente ho sempre sostenuto la necessità di quella svolta, non senza naturalmente riconoscere tutte le sofferenze e le difficoltà che ne conseguirono. Non si deve dimenticare infatti che la discussione che si aprì da lì in poi fu in grado di provocare attriti e lasciare profonde ferite, non solo politiche ma anche umane, incrinando amicizie e rompendo la solidarietà tra persone che fino a poco prima avevano militato fianco a fianco nel partito. Ma l’aspetto più delicato di quella svolta secondo me fu la non preparazione, il non essere stati cioè adeguatamente preparati ad affrontare politicamente quell’evento e soprattutto il non essere stati messi nella condizione di poter maturare attorno a quella decisione un’effettiva condivisione. Questo è stato l’elemento negativo di quella vicenda, il non aver avuto la possibilità di una maggiore discussione preliminare, perché la discussione in realtà ci fu, ma vi fu solo successivamente all’annuncio, mancando invece una più aperta riflessione interna al partito prima di arrivare alla svolta comunicata alla Bolognina. Le cose erano sicuramente mature per fare quel passo, però quello che è stato giustamente criticato è stato il metodo con cui si è arrivati a prendere questa decisione e poi i tempi con la quale essa è stata attuata; elementi che spiegano in parte il disagio e il disorientamento che abbiamo vissuto successivamente nelle varie scissioni che ci sono state e che hanno sicuramente prodotto un indebolimento del PCI. Credo che questi siano stati i principali limiti che abbiamo scontato con difficoltà in quel periodo di trasformazione.

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Nel 1986 fu promossa, diffusa e discussa su iniziativa di Livia Turco membro della segreteria del PCI la “Carta itinerante delle donne”, un documento che si proponeva di aprire la vita politica del partito alle istanze del femminismo e fare in generale della partecipazione attiva delle donne la chiave di volta di una nuova politica di partito. (in foto : “L’Unità”, 18 ottobre 1986)

Credo peraltro che il PCI, il quale già negli anni Settanta e a inizio anni Ottanta aveva più volte pensato all’opportunità della modifica del nome, infondo poteva essere maturo già allora per un passo simile, perché come ho detto noi comunisti italiani costituivamo un’esperienza ben diversa rispetto alle altre realtà della sinistra socialista, non solo rispetto all’esperienza sovietica, ma anche rispetto ai compagni spagnoli, francesi e portoghesi. D’altro canto, anche se già all’epoca era forse maturo per un passo simile, va detto però che il PCI era abituato a fare le scelte con grande gradualismo, proprio perché, essendo un grande partito di massa ed avendo al proprio interno tante esperienze politiche significative, aveva bisogno di gradualità. Per cui, considerato questo contesto precedente, il modo repentino con cui nel 1989 fu annunciata alla Bolognina la decisione del cambio di nome ebbe per altri versi un effetto dirompente, divenendo un elemento di grande disagio che in seguito ha costituito per molti attivisti un ostacolo nel tentativo di comprendere le ragioni per le quali al tempo fu deciso di procedere in quel modo, con quelle modalità. Io naturalmente accettai quest’idea di cambiamento, probabilmente anche perché per formazione provenivo dal movimento giovanile e dalla FGCI, una realtà in cui la necessità che il partito si adeguasse rapidamente ai cambiamenti sociali in corso costituiva una prerogativa. I grandi mutamenti politici e internazionali vissuti in quegli anni ci conferivano probabilmente una maggiore predisposizione al cambiamento. Era un orientamento, cioè, che in quanto nuove generazioni avevamo ben presente.

Ricordo che nel 1979, non ancora ventenne, ebbi la possibilità di visitare la Germania dell’Est. Vi andai per una decina di giorni con una delegazione invitata in viaggio premio a prendere visione di come funzionassero le cose in quel paese. Ciò di cui rimasi allora colpita era la presenza molto significativa dei mezzi dell’esercito sovietico disposti in ogni angolo di strada…impressionante! Come impressionante era anche la scarsa presenza di segni di libera attività associativa. Era tutto molto precostituito. Si avvertiva per la verità l’esistenza di uno Stato sociale efficiente e quindi un’attenzione molto significativa da parte del governo della Germania dell’Est a tutto ciò che riguardava l’istruzione e la cultura, la salute e i servizi all’infanzia, ma d’altro canto eravamo consapevoli che ci facessero vedere solo le cose belle che funzionavano. Il problema era però tutto il resto. A Berlino mi impressionarono ad esempio le urla di protesta che si sentivano provenire dalla parte Ovest della città contro le misure militari prese a difesa del muro nella zona Est, mentre si assisteva anche a lanci di oggetti. Palpavi insomma con mano qual era la difficoltà che si viveva in quei paesi. Noi giovani che tornavamo da quei viaggi ci rendevamo conto come non era assolutamente sostenibile il percorso politico di quei paesi e ancor più capivamo come noi comunisti italiani fossimo diversi, come il PCI italiano fosse profondamente diverso e non avesse ormai più niente a che vedere con quelle esperienze.

Quindi, tornando alla Bolognina, la svolta ci prese sì forse un po’ alla sprovvista, ma le questioni di sostanza erano già aperte all’interno del partito. C’è stata semmai una questione di metodo, la mancanza cioè di una discussione più calma fatta senza precipitarsi; però la crisi dei partiti comunisti in Europa era ormai sotto gli occhi di tutti e l’evento stesso della caduta del muro era un fatto quasi naturale. Gorbačëv stesso era la testimonianza di un cambiamento imminente. Semmai, spiace che l’Europa e gli Stati Uniti non abbiano sostenuto allora quel processo di democratizzazione interna apertosi in Unione Sovietica con Gorbačëv ma abbiano invece concorso a che quel processo si richiudesse e a che si creassero le condizioni per quanto successo poi nel 1991, con il fallito colpo di stato, e poi con la successiva frammentazione dell’Unione Sovietica.

D- Insomma, a mancare nel 1989 è stata un’adeguata discussione interna al PCI? Ma, visti i tempi, ve ne sarebbero state le condizioni?

R- Sul problema della mancata discussione, in realtà non è che il PCI non abbia avuto il tempo di discutere, perché noi abbiamo fatto due congressi dopo la svolta della Bolognina, quello del 1990 e poi l’anno successivo quello che segnò la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra (Pds). Io nel 1990 sono stata eletta per la prima volta nel consiglio comunale di Firenze e noi ci chiamavamo PCI-PDS, per dire. Perciò, il percorso di discussione dalla Bolognina al momento in cui siamo arrivati ai congressi è stato abbastanza lungo… col successivo passaggio dai Democratici di Sinistra (DS) al Partito Democratico (PD) tutto questo per esempio non è successo; lì sì, semmai, che non vi è stata discussione e tutto è stato molto veloce e sbrigativo. Quindi, nel 1989 il problema non è stato tanto quello di non aver discusso, perché la discussione c’è stata, però è stata una discussione che è seguita a una decisione in qualche modo già presa. Allora, la discussione non la si fece nel gruppo dirigente, probabilmente non la si è fatta perché altrimenti sarebbe successo quello che era successo negli anni Settanta, col rischio che si fermasse tutto. Per fare una discussione di quel tipo, nel 1989, probabilmente ci voleva una maggiore autorevolezza dei segretari, un’autorevolezza di un Berlinguer, di un segretario così…ma insomma, col senno di poi è difficile dire. Io trovo che la discussione successivamente c’è stata ed è stata una lunga discussione che ha creato ferite significative, talvolta anche irreparabili. Il cammino intrapreso dall’annuncio della svolta nel 1989 al momento in cui questa svolta si è concretizzata è stato molto pesante, però è avvenuto tramite discussioni interne impegnative ma serie, anche a livello dei circoli e delle sezioni. Ricordo discussioni accese anche nella segretaria fiorentina di cui facevo parte e nei circoli delle zone di Firenze di cui ero allora responsabile per il partito. Anche lì ci sono state inevitabilmente delle rotture, tanto che alcune componenti della mia segreteria hanno fatto scelte diverse alla mia, c’è chi è andato ad esempio con Rifondazione comunista chi, ancora successivamente, nella Sinistra Democratica anziché nel Partito Democratico. Io, ad esempio, nei vai partiti che si sono succeduti al PCI, mi sono trovata sempre in componenti di minoranza; all’interno dei Ds ho appartenuto per esempio alla corrente minoritaria di Giovanni Berlinguer. Ci sono state insomma evoluzioni e percorsi vari e diversi, ma questo è normale. L’aspetto da sottolineare è che in fondo noi siamo stati comunque capaci di fare una discussione, lacerante, però l’abbiamo fatta. Quello che invece è insopportabile, dal mio punto di vista, è quello che è successo successivamente, con la nascita dei partiti che hanno succeduto prima il PCI e poi il Pds. Io ritengo, infatti, che la discussione che c’è stata successivamente, ad esempio al momento della nascita del PD, sia stata pesantemente condizionata da ragioni che avevano a che fare con la crisi dei partiti tradizionali e del sistema politico in generale. Io personalmente sono stata negativamente colpita dal modo in cui è maturato il passaggio tra i DS e il PD: lì non c’è stata discussione, è stato quasi un dato di fatto. Mentre lo scioglimento del PCI era stato, come ho detto, una necessità, nel caso del passaggio tra DS e PD era come se tutto fosse avvenuto per fatti che riguardavano, più che una vita interna di partito, una politica “esterna” che era completamente cambiata a seguito della crisi del sistema dei partiti. Si è manifestato cioè in quell’operazione il senso della contingenza, il fatto che vi fossero più motivi contingenti di lotta politica più che vere manifestazioni di necessità politica. Questo aspetto, credo, ha condizionato moltissimo in senso negativo il passaggio dai DS al PD. Io penso che purtroppo con la nascita del PD, noi abbiam perso quel connotato fondamentale che veniva dal PCI e che era stato mantenuto col PDS e, in qualche modo, almeno fino ai Ds e che era quello di essere ancora entro l’orizzonte del socialismo, del socialismo italiano ovviamente. Il PD ha rotto invece questo orizzonte perché con lui si è interrotta di fatto quella storia.

Naturalmente, gli anni Novanta hanno condizionato moltissimo le scelte che sono state fatte all’interno della politica dei partiti, anche di quelli della sinistra, nei quali ha finito per prevalere sul piano economico l’idea neoliberista e su quello politico la tendenza alla personalizzazione e al leaderismo. Ciò ha rovinato completamente il senso del partito tradizionale: non a caso si è affermata a un certo punto l’idea dei “partiti leggeri”, i partiti dove non importa neppure che ci siano i circoli, le sezioni, i luoghi della formazione. I partiti oggi si sono trasformati così in partiti degli elettori che guardano molto alla personalizzazione, al leaderismo, all’individualismo; il senso del collettivo della comunità si è completamente perso. Questo è un problema che riguarda naturalmente tutto il sistema politico così come si è andato evolvendo dalla metà degli anni Novanta fino all’inizio del Duemila. Ed è un elemento su cui ancora stiamo riflettendo. Questi ultimi vent’anni hanno condizionato molto anche i partiti che venivano dall’esperienza della sinistra, non per nulla la sinistra di oggi continua a interrogarsi circa il problema delle idealità e dell’orizzonte entro cui stare. Simo ancora nel mare aperto. La fermezza, la strutturazione di un partito come era i PCI o anche il PDS oggi non c’è più. Io credo che noi avremmo dovuto fermarci alla creazione del PDS, quello doveva essere il nostro orizzonte.

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Durante il Congresso nazionale della FGCI tenutosi al Palalido di Milano nel maggio 1982, il segretario del PCI Enrico Berlinguer invitò i giovani a organizzare un congresso di “futurologia” che affrontasse varie discipline: dalle scienze fisiche, chimiche e biologiche, alla demografia, all’antropologia, all’informatica. Ciò per stimolare una riflessione politica a partire dalla conoscenza degli studi più recenti su alcuni problemi di pressante attualità, quali il rapporto tra risorse e popolazioni, tra sviluppo e ambiente.

D- Dunque, da quel che dice, l’eredità del PCI sui partiti della sinistra italiana sembra oramai perduta. Pensa che rimanga di quell’esperienza un’eredità politica immateriale al di fuori dei partiti e nella società?

R- L’esperienza del PCI è un’esperienza che non è stata ripetibile, si è fermata lì. Io ritengo che l’esperienza del PCI è stata tutto dentro anche il PDS e anche in parte entro i DS, perché i DS hanno aperto anche all’esperienza dei laburisti, dei cristiano sociali, un’esperienza che stava in un contesto che era ancora inscritto in quell’orizzonte politico a cui accennavo prima. Ma il PCI è un partito irripetibile. Solo forse il PDS in parte ne conservava lo spirito, ma successivamente…il PD col PCI non c’entra nulla, ha rotto la tradizione di quel partito e ha creato una cesura netta con quella tradizione. Il mio giudizio su questo punto è molto tagliente, ma lo è per averlo vissuto…oggi purtroppo non si ritrova quell’esperienza. Dove la si può trovare? Difficile dire…il PCI negli ultimi anni della sua vita stava facendo cose innovative, pensava molto a rappresentare il mondo del lavoro, ai giovani e alle donne, queste erano le realtà a cui teneva particolarmente. Ribadisco: la Carta delle donne di cui dicevo prima è stata una delle intuizioni che meglio attestano questa volontà innovativa del PCI di guardare ai «soggetti del cambiamento», donne e giovani. Sui giovani, ricordo, ci fu un tentativo significativo negli ultimi anni di vita di Berlinguer. Nel 1982, quando io ero ancora nella FGCI, lui ci propose a Milano l’idea di fare un congresso sulla “futurologia” e in questo dava il senso di un leader che guardava lontano, che vedeva nei giovani la vera prospettiva di cambiamento. Quel congresso che ci propose anticipava i tempi… forse, magari esagero, ma in fondo mi fa pensare all’esperienza dei Fridays for Future di oggi, il collegamento cioè con le istanze di innovazione e cambiamento che fermentavano allora nella società… le questioni delle prime tecnologie informatiche allora agli inizi, del rapporto tra sviluppo e scienza, la volontà insomma di misurarci con quello che di particolarmente innovativo stava succedendo allora in quei campi…ad oggi, ripensando a quell’esperienza, forse emerge una certa amarezza e rimpianto di non aver capito in quel momento quanto ci fosse di veramente innovativo in quell’impostazione politica e quindi quanti guai avremmo evitato di passare se avessimo dato uno sviluppo concreto a quell’impostazione. Ma d’altro canto, penso che l’esperienza del PCI costituisca un’esperienza storico-politica che appartiene al suo tempo e che oggi noi non possiamo replicare, salvo forse recuperare almeno alcuni di quegli elementi di novità che la contraddistinguevano…anzitutto la necessità di guardare ai soggetti del cambiamento, alle donne, ai giovani, con un’attenzione particolare alle nuove istanze di mutamento sociale…oggi questo probabilmente lo si ritrova in alcuni movimenti politici e sociali, ma che non sono però riferibili al PCI, non c’entrano nulla, anzi. Però, io credo che, se quel partito fosse andato avanti, se fosse stato in grado di introiettare concretamente le istanze di cambiamento presenti nella società del tempo, forse oggi potremmo essere più avanzati rispetto alle questioni ecologiche, sul problema ambientale, sulle questioni della salute pubblica, avremmo avuto sicuramente un rapporto diverso con la scienza…ed oggi la pandemia ci ha dato la prova di quanto questo rapporto corretto manchi. Ma in ultimo, io penso che un’esperienza politica importante come quella del PCI oggi difficilmente la possiamo ritrovare in altri contesti, in ambito politico e partitico sicuramente no. Possiamo perciò impegnarci a valorizzare quello che nella società di oggi è presente di innovativo…questo è molto utile, anche per la politica, nonostante oggi, purtroppo, non veda con grande evidenza qualcosa che ci dia questa prospettiva. Da questo punto di vista, siamo ancora in cammino




Socialproletari a Prato

In occasione dell’uscita del volume di Alessandro Affortunati intitolato Tra potere e contropotere. Appunti per una storia del PSIUP a Prato, 1964-1972 (Prato, Pentalinea, 2021) abbiamo rivolto alcune domande all’autore. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 Il PSIUP nasce in conseguenza del varo del centrosinistra organico nel 1964 (a livello locale i primi segnali di insofferenza interna al PSI si erano manifestati in occasione delle “giunte difficili”, dopo le amministrative del 1960, a Firenze e, più vicino a noi, a Carmignano). Parlaci della genesi del nuovo partito.

 All’interno del PSI esisteva una componente di sinistra, molto variegata, che aveva accettato con qualche perplessità la svolta di centrosinistra. Quando il PSI passò dall’appoggio esterno alla partecipazione diretta al governo (dicembre 1963), questa componente si oppose nettamente all’operazione, rifiutò di votare la fiducia e diede vita al PSIUP (gennaio 1964). La sinistra riteneva infatti che l’ingresso dei socialisti nel governo avrebbe avuto come unico risultato la rottura a sinistra fra PSI e PCI e l’integrazione del Partito socialista nel sistema politico esistente, senza che fosse possibile ottenere nulla di significativo sul terreno delle riforme di struttura (e, considerati gli sviluppi politici successivi, non si può dire che questa analisi fosse priva di fondamento).

Tu hai intitolato il tuo libro Tra potere e contropotere. Perché?

 Il titolo allude alla contraddizione (rimasta sostanzialmente irrisolta) in cui il PSIUP venne a trovarsi nelle realtà locali dove aveva responsabilità di governo, diviso com’era fra la gestione del quotidiano, che imponeva di misurarsi con problemi concreti (e talora prosaici) e l’aspirazione a dar vita ad una democrazia di base fondata su gruppi che intendevano opporsi al potere costituito (basti pensare alla concezione psiuppina dei consigli di quartiere, di cui si chiedeva l’elezione diretta, oppure all’ambizione di costruire il contropotere operaio nelle fabbriche). L’idea di contropotere (fatta risalire all’esperienza della Comune parigina) è stata, secondo me, l’elemento qualificante della proposta politica del PSIUP.

Quali furono a Prato le reazioni degli altri partiti alla comparsa del nuovo soggetto politico?

 Le reazioni da parte della DC, del PSDI e, naturalmente, del PSI furono negative (all’interno del PSI, in particolare, i lombardiani – che, dopo la scissione, erano rimasti soli a rappresentare la sinistra – temevano uno scivolamento del PSI su posizioni socialdemocratiche). Quanto al PCI, Mauro Giovannini, segretario della Federazione comunista, definì “dannosa” la scissione (c’era il rischio che il PSIUP erodesse in parte il consenso elettorale del PCI, sottraendogli voti a sinistra), ma poco dopo un documento della Federazione stessa corresse il tiro, sostenendo che fra PSIUP e PCI non poteva che nascere un rapporto di solidarietà.

Come si mosse il Psiup verso gli alleati?

 La politica proposta dal PSIUP era basata sul principio dell’unità di classe e quindi metteva al primo posto l’alleanza col Partito comunista ed anche con il PSI, se disponibile. Continua fu comunque la polemica verso quest’ultimo, accusato di avere rotto l’unità delle forze del lavoro e di essere passato nello schieramento avversario. A livello locale il PSIUP governò con socialisti e comunisti (Piero Spagna, suo primo rappresentante in consiglio comunale, fu eletto anche vicesindaco).

Quali erano le istanze del partito e i punti programmatici a livello locale?

 Il PSIUP elaborò nel 1966 un documento in cui si parlava dei problemi concreti della città: va sottolineato che i socialproletari avevano una loro visione dello sviluppo di Prato che non coincideva con quella dei comunisti. I socialproletari chiedevano, fra l’altro, una programmazione pluriennale in campo economico, sul modello di Bologna, per evitare una nuova crisi del tessile e difendere i livelli occupazionali, una rapida realizzazione del piano regolatore, che non doveva avere riguardi nei confronti degli interessi dei tanti centri di potere, un potenziamento dei trasporti urbani ed extraurbani fondato sulla municipalizzazione della CAP, la società più importante nel settore del trasporto pubblico locale. Molto interessante era poi la proposta di dar vita ad un organismo pubblico che si prendesse cura dei ragazzi abbandonati, dato che la città era allora scossa dallo scandalo dei “Celestini”, scoppiato quando era stato scoperto che i bambini così chiamati, ospitati in un istituto di assistenza gestito da religiosi, non solo erano costretti a vivere in condizioni igieniche inimmaginabili, ma erano anche sottoposti a sadiche punizioni.

CopertinaPSIUP_Prato1024_2Nel corso del tempo, nelle tue ricerche, hai “incontrato” spesso Ferdinando Targetti. E anche stavolta lo hai ritrovato. Un personaggio politico che ha attraversato una parte importante del Novecento. Ci puoi dare un tuo parere di storico?

 È un parere nettamente positivo. Targetti, pur appartenendo ad una famiglia di grandi industriali (uno dei suoi fratelli, Raimondo, fu anche presidente della Confindustria), si iscrisse giovanissimo alla sezione pratese del PSI, lasciando la sua quota in azienda ad un altro fratello e vivendo solo dei proventi della professione di avvocato. Fu il primo sindaco socialista di Prato, fra il 1912 ed il 1914, e la giunta da lui presieduta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa. Fermo nei suoi principi di antifascista, scampò per caso alla morte in occasione della famigerata “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3 ottobre 1925). Dovette poi trasferirsi a Milano ed in Svizzera, ma non cessò mai di svolgere attività antifascista. Nel dopoguerra, riflettendo sull’esperienza della dittatura e della guerra, giunse alla conclusione che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai  suoi privilegi, e che quindi la più stretta unità d’azione tra socialisti e comunisti era la condizione imprescindibile per la difesa della democrazia e la realizzazione del socialismo (e si badi che Targetti, in quanto riformista, era stato espulso dal PSI ed era entrato a far parte del PSU, il partito di Matteotti). È così che si spiega la sua adesione al PSIUP, di cui egli stesso chiarì le motivazioni in una lettera indirizzata ai compagni di Prato, che viene pubblicata per la prima volta in questo libro. In sostanza, Targetti non accettò mai nessuna forma edulcorata di socialismo: il socialismo significava per lui superamento del capitalismo, non un’operazione di maquillage per rendere accettabile il capitalismo stesso.

L’invasione della Cecoslovacchia è certamente uno spartiacque nel panorama politico della sinistra e coinvolge anche il PSIUP. Quale fu la sua posizione in merito e quali le conseguenze?

 A differenza del PCI, che condannò con fermezza l’invasione, la direzione del PSIUP non andò oltre un comunicato, alquanto fumoso, nel quale non era dato riscontrare una netta parola di condanna dell’accaduto. Questo comunicato rifletteva la posizione dei vertici del partito, cioè della componente che faceva capo a Tullio Vecchietti ed a Dario Valori, ma non quella di tutto il PSIUP. La base psiuppina, infatti, più che filosovietica poteva definirsi terzomondista (con simpatie filocinesi in alcuni casi molto evidenti): qui a Prato, ad esempio, essa si dissociò dalla direzione, sposando la linea della Federazione di Firenze. Comunque sia, la posizione assunta dai vertici (sulla quale ebbero il loro peso – come è stato esplicitamente ammesso da dirigenti di primo piano del partito, come Silvano Miniati – i finanziamenti che il PSIUP riceveva regolarmente dall’Unione sovietica per mantenere un apparato decisamente sovradimensionato) ebbe conseguenze gravi per il partito, cui alienò le simpatie della parte più movimentista del suo elettorato.

Nella logica del sistema proporzionale i socialproletari hanno raggiunto, in alcuni casi, discreti risultati. Che bilancio si può trarre dall’andamento elettorale a livello locale?

 Il PSIUP partecipò a quattro competizioni elettorali (le amministrative del novembre 1964, le politiche del maggio 1968, le amministrative del giugno 1970 e le politiche anticipate del maggio 1972), ottenendo dei discreti risultati, ma non riuscendo a sfondare a sinistra. A Prato oscillò fra il 4,04% del 1968 e l’1,61% del 1972. Le politiche del 1972 furono una vera e propria Caporetto elettorale per il partito, che, non essendo scattato il quorum in nessun collegio, non poté utilizzare i resti e scomparve da Montecitorio. La fine del PSIUP fu la conseguenza del progressivo disimpegno socialista dal centrosinistra, che restrinse il suo spazio politico, della mancata condanna della repressione della “primavera di Praga” e della contemporanea presenza di tre liste concorrenti (il Manifesto, il Movimento politico dei lavoratori e Servire il popolo).

A un certo punto, tratte le conseguenze del voto del 1972, si pone il problema del quo vadis? Detto con un’altra metafora, si pone il problema della Legge di Newton: i corpicini piccoli subiscono la forza di attrazione verso quelli più grandi. Ma non per tutti andò così…

Subito dopo la disfatta elettorale del 1972 il IV (ed ultimo) congresso del PSIUP decise a maggioranza lo scioglimento del partito e la sua confluenza nel PCI. A livello nazionale fu questa la linea che passò e, col senno di poi, si può forse dire che fu la scelta più giusta. A Prato solo una minoranza passò nelle fila comuniste, mentre la maggioranza degli iscritti decise di proseguire la battaglia dando vita al Nuovo PSIUP (nessuno, a quanto mi risulta rientrò nel PSI): la decisione presa dalla maggior parte dei militanti psiuppini della città laniera stava a significare che, pur con tutti i suoi limiti, quella del PSIUP era stata per molti un’occasione di crescita politica e culturale.




Il comunismo dei contadini. Storie senesi.

Arrivando a Siena nel 1973 dalla Sardegna, dove lasciavo alle spalle 10 anni di impegno politico quasi senza respiro da studente, da insegnante e da militante, pensavo di essere giunto in una terra in cui la tradizione comunista si potesse vedere nei comportamenti sociali collettivi e nello stile di vita. Venendo da un’isola prevalentemente democristiana, e anche da una rete familiare assai conservativa, credevo che avrei trovato qui un popolo all’avanguardia. Rimasi subito deluso. Matrimoni e funerali religiosi e consumisti, alle scuole elementari e medie quasi solo le mie figlie non facevano religione. C’era più circolazione culturale ma sempre limitata ai soliti gruppi. Venendo da una formazione marxista, trovai come interlocutori i meno conformi a quella tradizione: ‘quelli di Lotta Continua’, un gruppo assai vivace e plurale che diede poi vita al movimento ecologista. E sentii vicini i partigiani più critici verso il PCI con i quali si diede vita a varie iniziative legate al Soccorso Rosso. Fui incuriosito dell’esperienza della Resistenza in questo territorio e cominciai a studiarla facendo molte interviste sia nelle zone della Brigata Boscaglia, che in quelle della Spartaco Lavagnini. Mi colpì molto il nesso tra Resistenza e lotte contadine che si svilupparono nel dopoguerra. Fu il tema che decise il mio rapporto di ricerca nella mia nuova vita toscana. In una di quelle interviste un ex partigiano mi disse una frase che è rimasta scolpita nella mia memoria: i mezzadri sò stati la classe operaia del senese. I contadini tanto deprecati già dal Manifesto di Marx ed Engels (“l’idiotismo della vita rustica”), erano stati ‘classe operaia’. Qualcosa di così stravagante da ricordare il finale del film Miracolo a Milano, dove i poveri volano in cielo a cavallo delle scope. Questo filo rosso ha animato varie tesi di laurea che ho seguito. Ho ancora nella memoria i racconti degli scioperi durante la trebbiatura quando la bandiera rossa veniva fissata sullo stollo del pagliaio. Dai racconti mi si palesavano immagini di carabinieri a cavallo nei poderi, tentativi di difesa delle famiglie sfrattate o l’accoglienza dei bambini dei braccianti del Sud impegnati nelle lotte. Totalmente padroni dello spazio poderale, della geografia tra boschi e macchie e coltivato, i contadini mettevano in scacco carabinieri e padroni, come avevano fatto i partigiani alla macchia. Mi fu facile essere dalla parte dei contadini. Ma negli anni ’70 era una storia già conclusa. L’inurbazione di questi strati sociali nuovi alle città era forse anche la spiegazione di una cultura diffusa ritualista e cattolica, non certo innovativa. Ma la città di Siena era da sempre storicamente conservativa. I giovani di sinistra criticavano i ‘borghesi’ che, dopo la messa, tornavano a casa con la confezione delle paste del Nannini. Nel movimento del 1977 vi furono persino critiche al Palio come oppio dei popoli.

La mia scelta è rimasta legata alla ricerca e alla raccolta di memorie. La frase dell’ex partigiano sui contadini come classe operaia, ha trovato poi un senso quasi letterale in una ricerca ad Asciano, e nell’incontro col capolega sindacale Gino Boccini, che in seguito consegnò all’Università il suo quaderno di appunti sulla militanza sindacale contadina. I suoi appunti che partono dal 1947, faticosamente strappati a una scrittura poco abituale, mettono al centro la classe operaia e l’unità di tutte le forze sociali sotto la guida del Partito Comunista. Ma vi è anche testimonianza dei conflitti e delle invidie tra operai e contadini. Operai reali e non teorica ‘classe operaia’, erano quelli che dicevano ‘andiamo a vedere quello che nascondono i contadini e quello che mangiano più di noi’ (cit.) mentre i contadini dal canto loro ‘invidiano la classe operaia’. Boccini è un esempio di militante capace di direzione consapevole. Un quadro contadino a tutto campo, che vive un processo di emancipazione nella scrittura, nella funzione che svolge, nella ideologia e nella strategia che propone, che gli viene da una formazione nuova legata al sindacalismo e alla politica del PCI. Vedere nei suoi appunti il processo di nascita di una nuova coscienza sociale e politica è stato davvero un’esperienza emozionante. Così è successo anche con le memorie scritte da Delia Meiattini una contadina mezzadra che ha lasciato la sua storia di vita in Le barriere invisibili. Cronaca di una vita di una donna dalla terra alla politica. [1] Per me un testo straordinario perché da dentro una infanzia contadina che vive la guerra, il passaggio del fronte, l’alluvione, nasce una coscienza elementare, ingenua prima e poi determinata e anche critica verso il PCI per il quale diventerà in seguito Consigliere regionale. Una sorta di ‘fenomenologia dello spirito’ dentro una singola vita contadina che ne rappresenta certo molte altre. Vite fatte di tanti piccoli episodi, imprese, eventi che sono parti di una storia collettiva di una nuova comunità politica, quella dei mezzadri, vista dal basso. Il libro di Delia è stato studiato da un gruppo di giovani antropologi, studenti dell’Università di Roma e discusso con lei al festival dell’Unità, a Siena in Fortezza, probabilmente nel 1998. Con la sensazione di avere messo la storia contadina al centro di un mondo politico che ormai aveva del tutto dimenticato la stagione epica dei mezzadri. Il suo racconto ci mostra una ragazza proiettata improvvisamente alla scuola quadri femminile di Faggeto Lario, sul lago di Como, dove le corsiste vengono interrogate dalla polizia e scambiate per prostitute, e dove apprende la prima lezione sul Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engles che cominciava con “Uno spettro si aggira per l’Europa…”. Scrive ancora ingenuamente dopo tanti anni di militanza:

Nella cultura contadina lo ‘spettro’ è paura. Io dopo la lettura di quell’opuscoletto non riposai alcune notti. Dalla lettura e dalla discussione del Manifesto non capii granchè . Il corso andava avanti, per alcune di noi, mè compresa, proprio per la difficoltà a capire ciò che si leggeva e discuteva si ebbero delle crisi a ripetizione. Alcune di noi chiesero di tornare a casa.” (pag. 82).

Racconto questo, che ricorda ‘come fu temprato l’acciaio’. [2] Si tratta solo di due casi, ma assai rappresentativi della storia sociale e politica del dopoguerra toscano e confermati da molti racconti simili raccolti su questi temi. Nella sua maturità di funzionaria comunista, Delia, deputata regionale, responsabile della Coop, osa criticare i pettegolezzi, il parlare alle spalle e il perbenismo (allora si diceva ‘piccolo-borghese’) imperante nella Federazione di Siena. Quel perbenismo di cui ho parlato all’inizio di questo scritto e che mi ha procurato una certa delusione.

Certo Siena ha vissuto un difficile processo di trasformazione ed ha accolto (brontolando sottovoce) tanti contadini che per secoli aveva preso in giro con satire sui villani (se ne trovano già nelle novelle del Sermini), che aveva chiamato ‘gazzillori’ se non ‘quelli dell’unghio spaccato’. Insomma, una razza inferiore.

Alle elezioni comunali di Siena il centro storico votava abitualmente DC mentre la periferia, che accerchiava la città, votava PCI. Una ragione di più per fare il tifo per i contadini, spesso impegnati negli orti urbani. Per la ricerca antropologica le principali fonti sono state le donne. Le donne che, secondo una espressione sintetica di Giacomo Becattini, ‘hanno fatto finire la mezzadria’, ma ne sono state anche le principali memorialiste. Progressivamente notavo che nella cultura senese si era di fronte a donne forti, donne protagoniste, donne dirigenti. Anche se avevano faticato ad emergere avendo fatto per lo più, se contadine, solo le elementari.

Nella seconda metà del Novecento il processo di presa di coscienza e di capacità di gestione della modernizzazione da parte dei contadini si è come mescolato nel nuovo groviglio delle identità urbane, finendo per sparire. Diventando infine subalterno al ruolo politico di amministratori di formazione bancaria, impiegatizia, professionistica. Tradizionalmente egemoni, moderati, e anticontadini. Anch’essi idealmente trasformati dai grandi moti sociali ma comunque non disponibili ad accogliere una rilevanza contadina nella gestione della cultura delle città toscane. Del resto, gli ex contadini nemmeno provavano a mettersi in campo. Col risultato che la cultura comunista toscana che poteva essere innovativa nella ricerca universitaria, era invece tradizionalista e continuista sul piano della tradizione artistica, letteraria, elitaria urbana. Nelle condizioni date, la possibilità di creare una nuova cultura moderna, popolare e di massa, secondo le idee guida di Antonio Gramsci, non era certo praticabile. E ben ci stava il parere di Gramsci sul ruolo nazionale della Toscana nel Novecento: “non ha più un ruolo proprio e vive solo della boria dei ricordi passati”.

Negli anni ’70 in un numero di Critica Marxista, Leonardo Paggi e Paolo Cantelli, in quel momento intellettuali di punta del PCI, criticarono e accusarono di provincialismo questo scenario culturale e politico. [3] Ma senza sortire alcun effetto. Eppure, il voto contadino al PCI ha continuato ugualmente per decenni ad essere letteralmente lo zoccolo duro dell’elettorato comunista dell’Italia centrale ex mezzadrile. Probabilmente il voto si fondava su quello che altrove veniva chiamato clientelismo o su alleanze storiche che favorivano il progressivo passaggio da contadini a dipendenti pubblici, e in qualche zona da contadini a imprenditori o, in sintesi, su un rapporto di fedeltà basato su reciproci vantaggi.

Che senso ha parlarne ex post, quando nelle aree compatte del voto ex contadino al PCI compaiono defezioni e vuoti dovuti da un lato alla scomparsa di una generazione, dall’altro all’abbandono dei paesi e delle zone interne da parte dei contadini rimasti e dei figli degli ex contadini? Da un lato questa vicenda fa parte dei grandi paradossi attraverso i quali il PCI si è affermato in Italia come potenzialmente egemonico, dall’altro ci aiuta a capire il rilievo della storia sociale, il suo peso pratico se si conviene con Marc Bloch che “l’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’incomprensione del passato”.

Le molte storie di vita che sono state raccolte sia attraverso la memoria orale [4] che attraverso la scrittura restano una risorsa e una guida per ritrovare le fila della storia del territorio. Aprono a percorsi della vita vissuta e della soggettività che hanno avuto poca rilevanza sia negli studi che nelle riflessioni politiche. Esse continuano a richiamare l’attenzione su uno straordinario periodo di trasformazioni culturali e sociali che è ancora fondamentale per fare ‘il passo indietro del torero’, [5] quello che consente di vedere con lucidità le difficoltà politiche e sociali del presente. Un mondo di storie che è ben lontano dall’essere visibile ai ceti dirigenti della sinistra attuale.

Note

[1] Comitato di Ente per le pari opportunità, Comune di Siena, s.d. (1997).

[2] È il titolo del romanzo autobiografico di Nikolaj Ostrovskij del 1932, esempio della letteratura del realismo socialista sovietico e quasi involontariamente comico nel descrivere la tempra della nuova umanità comunista.

[3] P. Cantelli, L. Paggi, Strutture sociali e politica delle riforme in Toscana, in “Critica Marxista”, n. 5, 1973.

[4] A. Andreini, P. Clemente (a cura), I custodi delle voci. Archivi orali in Toscana: primo censimento, Firenze, Centro Stampa Regione Toscana, 2007.

[5] E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, in Id., Furore, simbolo, valore, Milano, Feltrinelli, 1962, è una metafora che indica la necessità di collocarsi indietro nel passato per cogliere con chiarezza il presente, è la sostanza di una postura riflessiva.




“Una svolta verso il nulla”.

Nota biografica.

Riccardo_Margheriti

Riccardo Margheriti (Wikipedia)

Riccardo Margheriti nasce a Chiusi (Siena) il 4 gennaio 1938, da una famiglia di umili origini ma dalla forte identità antifascista. Si iscrive alla Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) nel 1953, ancora giovanissimo, divenendo segretario della sezione di Chiusi già l’anno seguente. La sua principale attività si svolge tuttavia inizialmente nell’ambito sindacale, nella Cgil, prima nella Camera del lavoro di Chiusi, poi nella Valdichiana e infine a Siena quale direttore provinciale dell’Inca, l’Istituto nazionale confederale di assistenza. Vicesegretario e poi dal 1975 segretario della Federazione senese del Partito comunista, è consigliere comunale a Siena dal 1968 al 1983. È senatore della Repubblica dal 1983 al 1992, ricoprendo la carica di vicepresidente della Commissione agricoltura e produzione agroalimentare. Prosegue poi la propria attività nel settore agroalimentare, come presidente dell’Ente nazionale mostra mercato dei vini doc e vicepresidente, e poi presidente, del Comitato nazionale per la tutela e valorizzazione dei vini doc presso il ministero delle Politiche Agricole e Forestali.

Avvertenza: Nella trascrizione dell’intervista si è cercato di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando gli interventi correttivi sul testo al minimo indispensabile e inserendo eventualmente nelle note a piè di pagina ulteriori informazioni o chiarimenti. L’intervista è stata realizzata il giorno 11 luglio 2020 da Riccardo Bardotti e Michelangelo Borri, presso la segreteria dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia – Sezione di Siena; la versione integrale è conservata presso l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

Per informazioni su letture preliminari ed approfondimenti, rimandiamo a QUESTO articolo della nostra Redazione.

 

D. Senatore Margheriti, può dirci brevemente in che modo ricorda la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989? Quali furono le prime riflessioni che formulò di fronte a tale evento?

R. Io ero ancora in Parlamento in quel periodo; io rimasi un po’ sconcertato, francamente, non tanto dal crollo del Muro di Berlino, ma dal modo in cui avvenne e dal fatto che non ci fosse stata reazione; e quindi mi fece capire che, fortunatamente, anche da parte di chi sarebbe potuto, come aveva fatto in precedenza, intervenire anche in modo armato, non lo aveva fatto; e quindi si apriva davvero una possibilità di autonomia anche del Partito comunista italiano – dell’ex Partito comunista italiano a quel punto –, per una strada nuova che io vedevo e continuo a vedere, di tutte le forze che attorno alle forze ideali del socialismo possono raggrupparsi…

D. E quali conseguenze produsse questo avvenimento all’interno del Partito comunista italiano, che già stava attraversando una fase complessa della propria storia politica?

R. Intanto era matura una consapevolezza con le discussioni che si erano avute dopo le diverse invasioni che c’erano state da parte dell’esercito sovietico, o comunque del patto di Varsavia, in altri paesi prima ancora dell’‘89 e la discussione che si è sviluppata all’interno del partito aveva, ripeto, maturato una consapevolezza che le cose non potevano continuare e che era indispensabile, nelle forme che sarebbero state possibili, cambiare e cambiare tutto in quel paese e nei paesi dell’Est europeo. In qualche modo dà ragione a questa convinzione il fatto che non c’è un intervento, neanche della polizia oltre che dell’esercito, al crollo del Muro di Berlino e all’uscita dalla Germania dell’Est di tanti cittadini che vanno a riabbracciare parenti, amici e così via, ma comunque che guardano alla libertà che si era costituita e realizzata nella Germania Ovest dopo la guerra e fino a quel momento. Quindi un fatto molto positivo, che imponeva ulteriore riflessione anche a noi e imponeva anche a noi di cambiare rotta, in primo luogo non solo riducendo ma azzerando i rapporti col Partito comunista dell’Unione Sovietica – del quale si diceva quel punto peste e corna, devo dire, anche all’interno del nostro del nostro partito – nonostante le speranze che aveva sollevato l’elezione di [Michail] Gorbačëv [1] e l’inizio, vero, della destalinizzazione in quel paese… Quindi una cosa, un momento di grandissimo rilievo, che imponeva, ripeto, scelte nuove anche a noi; scelte che non dovevano portare al superamento dei caratteri fondamentali del Partito comunista italiano, perché di fatto, in Italia, il Partito comunista era davvero il partito del socialismo europeo, cosa che non era il partito di [Bettino] Craxi [2]; era un partito riformatore e allo stesso tempo un partito di governo, capace quindi di affrontare i problemi dei cittadini e di tentare di dare risposte. Gli enti locali amministrati dal Partito comunista italiano e le regioni – che erano nate da non molto tempo, nel 1970 – amministrate dal Partito comunista italiano, avevano costruito lo Stato sociale, avevano costruito gli asili nido, le scuole materne e così via, nonostante l’indebitamento degli enti locali – ai quali venivano trasferiti pochi finanziamenti – ma che venivano incoraggiati, i nostri sindaci, a indebitarsi ulteriormente, purché l’indebitamento andasse verso la costruzione di uno Stato sociale vero, che consentisse, ad esempio, anche alle donne di non dover rimanere in casa ma di poter lavorare nonostante la presenza dei figli che dovevano essere curati; e doveva dare risposte sul piano del lavoro, dei diritti dei lavoratori nel luogo di lavoro e all’esterno, doveva dare risposte sulla partecipazione – prevista dalla Costituzione della Repubblica del popolo italiano – a scegliere liberamente chi doveva governarlo e a far rispondere chi lo governava ai problemi che gli venivano posti.

D. E invece con la cosiddetta svolta della Bolognina, la direzione intrapresa è quella di un superamento dell’esperienza politica e culturale del Partito comunista italiano. Come reagiscono da una parte la base e dall’altra i quadri intermedi del partito?

R. Con la svolta della Bolognina [3] intanto c’è sconcerto, nessunoavrebbe mai pensato di punto in bianco di dire: “ora si cambia nome, simbolo e il Pci non ci sarà più”. Perché naturalmente la vicenda del Pci è una vicenda non soltanto politica e culturale, è una vicenda anche umana, di formazione della persona dall’interno e nel rapporto con gli altri; era stato costruito un pezzo di società, non era soltanto un partito. La paura del crollo vinse non nella gente ma in chi fece quel tipo di svolta, vinse la paura che col Muro di Berlino finisse il Pci, e sbagliando valutazione su cosa fosse il Partito comunista italiano rispetto ai partiti al potere nell’Est… Naturalmente, far digerire la svolta alle sezioni del Pci, iscritti e così via fu una cosa non terribile, impossibile. E quindi avemmo una parte, che erano i gruppetti dirigenti, che essendo stati educati un po’ al mito anche della personalità del segretario nazionale del partito, continuavano ad avere questa visione anche nei confronti di Achille Occhetto [sorride] [4], dopo [Enrico] Berlinguer, dopo [Palmiro] Togliatti, dopo [Luigi] Longo e quindi seguivano la linea di Occhetto; e la base che se ne andava… E infatti noi perdemmo tanti voti, una parte andarono in Rifondazione [comunista]… Ma gran parte degli elettori e degli iscritti al Partito comunista prima della svolta non passò da un’altra parte, passò all’astensione, rimase a casa…Vivemmo una vicenda terribile, terribile, terribile.

L'Unità del 14 novembre 1989

L’Unità del 14 novembre 1989

D. Più in generale, quale fu l’atteggiamento delle altre forze politiche in quel frangente?

R. Naturalmente la paura del comunismo, che aveva consentito di escludere il Partito comunista dal Governo fino all’uccisione di [Aldo] Moro [5] – che poteva rappresentare invece, assieme a Berlinguer, la possibilità di mettere insieme le forze sane del paese per risolvere le questioni gravissime che stavamo attraversando – viene vissuta come una vittoria nei confronti dei comunisti e quindi come se il Partito comunista italiano, pur realizzando una svolta, dovesse in qualche modo e potesse scomparire perché non aveva più, diciamo così, il piedistallo sul quale appoggiarsi per rimanere in piedi e per continuare la propria funzione. Il partito della Democrazia cristiana quindi ha questo orientamento, il Partito socialista – sbagliando grossolanamente – con la proposta dell’Unità socialista, con Craxi ancora segretario, cerca di annettere il Partito comunista nel proprio partito… Poi matura ancora di più la vicenda della questione morale, che esplode proprio nel ‘92 con Tangentopoli, per cui la Democrazia cristiana viene azzerato nel gruppo dirigente; il Partito socialista viene azzerato nel gruppo dirigente o quasi; Craxi si dimette da presidente del Consiglio, aggredito dai soldi che gli vengono gettati contro – dai soldini, le lire – quando esce dall’ albergo per andare a Palazzo Chigi [6] ; si dimette e quindi, ecco, si va verso in qualche modo lo sfarinamento dei partiti di massa, che erano i partiti che avevano fatto la guerra di Liberazione, la Costituzione e ricostruito in qualche modo il paese nel dopoguerra, e si va verso, verso il nulla… E si sostituisce tutto questo, a quel punto, con le singole personalità e i comitati elettorali che devono tenerle in piedi, eleggerle e dalle quali dipendere.

D. Come è cambiato il modo di fare politica in Italia negli ultimi decenni e quali sono, a suo avviso, le principali cause dell’attuale situazione di crisi che stanno attraversando il sistema politico e la classe politica nel nostro paese?

R. [Oggi] ci si mobilita soltanto attorno alle persone e alle elezioni, naturalmente non essendo in campo invece tutti i giorni, sui problemi concreti all’interno dei luoghi di lavoro, nella scuola, nella sanità, ovunque; e senza avere questo tipo di presenza continua naturalmente, non racimola più voti, lascia anzi, spesso continuano ad astenersi anche quelli che hanno in fiducia – magari anche non del tutto condivisa ma in fiducia –, votato fino a ieri. Non c’è la ricerca, anche perché la scelta del partito “all’americana”, del partito che deve raggiungere la maggioranza da solo, rispetto alle diversità culturali, politiche esistenti in questo paese, storicamente, non funziona, perché è sempre legato al voto per qualcuno, non per qualcosa ma per qualcuno, il quale ci risolverà tutti i problemi… Personalizzi il tutto e attorno alla persona fai il comitato elettorale, ma non un partito politico che ha l’ambizione di essere di nuovo un partito di massa; diventa un partito d’élite che cerca di imbonire la massa e di chiedere alla massa fiducia e voti, e la massa si allontana… [l’elettorato] non ha fiducia in questo tipo di politica, in questo tipo di partiti, in questo tipo di personaggi, perché non gli offre un qualcosa in cui credere e per il quale lottare, e ottenere un qualche cambiamento…

Note al testo

[1] Michail Gorbačëv (1931), segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991, promotore di una serie di riforme che condussero alla fine della Guerra fredda e alla fine dell’esperienza di governo sovietico nell’Europa dell’Est.

[2] Bettino Craxi (1934-2000), segretario del Partito socialista italiano dal 1976 al 1993 e presidente del Consiglio dei Ministri dal 1983 al 1987.

[3] Si indica comunemente con tale espressione il processo politico avviatosi nel novembre 1989 nell’omonimo rione di Bologna e conclusosi nel febbraio 1991 con lo scioglimento del Partito comunista italiano e la conseguente nascita del Partito democratico della sinistra.

[4] Achille Leone Occhetto (1936), è stato l’ultimo segretario del Partito comunista italiano.

[5] Aldo Moro (1916-1978), fondatore, poi segretario e presidente della Democrazia cristiana, più volte presidente del Consiglio dei Ministri tra il 1963 e il 1976. Fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse nel 1978.

[6] L’episodio ebbe luogo nell’aprile 1993, quando Craxi venne fortemente contestato a Roma, all’uscita dall’hotel Raphael, da un gruppo di manifestanti che gli lanciò contro delle monetine, come risposta alle accuse di corruzione formulate a carico del leader socialista.




A sinistra del PCI di fronte all’89: memorie di un “eretico” demoproletario

Eugenio Baronti (Capannori, 1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di DP dal 1980, del quale è uno dei membri fondatori a Lucca; nel 1991 aderisce al PRC, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente per il comune di Capannori, nonché assessore regionale con delega alla ricerca, all’università e al diritto alla casa.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia Proletaria?

Mi sono avvicinato a DP fin dall’inizio della sua costituzione come cartello elettorale della sinistra extraparlamentare per le elezioni amministrative del 1975 e poi per le politiche del giugno 1976. Io militavo allora nella Lega dei comunisti, e per me quella fu una campagna elettorale che vissi con grande entusiasmo e un estenuante impegno quotidiano. Nel mio paese a Lammari, dove c’era un bel nucleo forte, riuscimmo a organizzare la prima festa politica nella sua storia di paese rurale, democristiano e conservatore – la Festa d’Estate, a sostegno della lista. Un evento straordinario, costruimmo il villaggio con le nostre mani lavorandoci fino a notte: una grande festa e un gran successo, l’unica a livello lucchese. Alla fine lasciammo la struttura ai compagni del PCI, che vi tennero la prima festa dell’Unità.

Il risultato elettorale fu pessimo, un magrissimo 1,5% che però bastò a eleggere un piccolo drappello di 6 deputati. Fu una grande delusione, mi servì qualche settimana a metabolizzarla. Subito dopo aderii alla costituente del partito, obiettivo per la quale mi impegnai molto, non senza scontri politici interni. Il 13 aprile 1978 ero tra i fondatori al cinema Jolly di Roma dove nacque DP.

Perché proprio DP e non il Partito comunista? Quali ragioni hanno guidato questa tua scelta di militanza?

Perché DP e non il grande e potente PCI? Semplice: la mia militanza movimentista, il mio antimilitarismo, la mia innata riluttanza a ogni autoritarismo, non mi lasciava alternativa. Il PCI era industrialista, sviluppista, nuclearista, molto arretrato in materia di diritti civili. Inoltre non sono mai stato filosovietico: Breznev e tutti quei burocrati e militari impataccati sulla Piazza rossa il 1° Maggio mi sembravano delle insopportabili mummie, fuori dal tempo.

Veniamo agli anni ’80: quale ruolo ricoprivi allora in DP? In che condizioni si trovava il partito in Lucchesia in quel momento?

Essendo stato tra i fondatori nella provincia di Lucca, fui eletto già al I congresso di federazione segretario provinciale, ed ero nel comitato politico regionale e in quello nazionale. La seconda metà degli anni ’80 furono per DP sicuramente i migliori in termini di impegno politico e risultati.

All’inizio del 1984 aprimmo la sede federale in via S. Tommaso in Pelleria, avviando un processo di strutturazione a livello provinciale in tutte le aree geografiche della nostra provincia, e una più limitata presenza istituzionale. Avevamo però una grande capacità di mobilitazione e una buona visibilità politica: in sede avevamo una offset con la quale stampavamo il Quaderno di Dippì, che inviavamo a iscritti e simpatizzanti.

Nell’86 la sede si trasferì in via Fillungo 88, dove tenemmo il I congresso provinciale, aperto da una mia relazione introduttiva dal titolo “Al bivio del 2000. Idee e progetti per l’alternativa”. Erano anni di grandi battaglie sulle questioni nazionali (dall’impegno antinuclearista alle 35 ore lavorative) e locali (la denuncia del malaffare nella gestione dei rifiuti industriali, culminata con l’occupazione del consiglio provinciale, e la vittoriosa lotta referendaria per la chiusura delle Mura urbane e del centro storico al traffico), che alle elezioni dell’87 – dove ero candidato alla Camera – portarono a DP i migliori risultati elettorali: 5.372 voti in provincia, in città siamo al 3,5%, nonché buoni risultati in tanti comuni della Versilia e della Garfagnana. Poi nel 1988, al VI congresso nazionale, si consumò la rottura fra Mario Capanna e quei dirigenti che lasceranno il partito per fondare i Verdi Arcobaleno.

La scissione e l’89 segneranno la fine del progetto di DP, la cui eredità ha avuto però un vasto impatto sulla sinistra italiana. Una formazione marxista eretica e antisovietica, che ha portato nel dibattito politico tematiche fino ad allora inesistenti: la critica radicale dell’idea della crescita infinita e del nostro modello di consumi e sviluppo; le battaglie per i diritti civili e sociali tenuti inscindibilmente assieme; le campagne antinucleariste (quando tutti erano affascinati dalle prospettive dell’energia nucleare); la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – lavorare meno e lavorare tutti, tratto distintivo di DP.

Ripensando a quella bella esperienza non posso che rilevare che era un piccolo partito elitario, zeppo di personalità, competenze e intelligenze, un bel numero di militanti con livelli di cultura politica estremamente elevati, molto superiori alla media dei militanti delle altre forze compreso il PCI. Per me DP è stata prima di tutto una scuola di vita e una straordinaria opportunità di crescita culturale e politica.

DP si è sempre posta criticamente nei confronti dei paesi del socialismo reale: quali erano le tue posizioni in materia? E come hai reagito di fronte al crollo del Muro nell’89? Quali ricordi hai di quella giornata, e quali riflessioni ha scatenato in te?

Nessuno allora pensava che un giorno sarebbe crollato il Muro di Berlino, sconvolgendo gli equilibri politici usciti da Yalta e che alla mia generazione sembrava dovessero durare per sempre1, il cui superamento per decenni è rimasto un’utopia perseguita da piccole e istituzionalmente marginali minoranze come DP, che osavano immaginare, per il continente europeo, un futuro non più fondato sull’equilibrio del terrore atomico. Quegli accadimenti storici si incaricarono di ricordare a tutti che niente in questo mondo è eterno, tutto ha un inizio e prima o poi anche una fine.

Fra il 1989 e il 1991 illustri ed entusiasti opinion leader – colti di sorpresa dall’evento – sostennero che la Storia era finita poiché “l’impero del male” sovietico era finalmente caduto, aprendo all’umanità prospettive di pace e benessere globali. Sciocchezze colossali, affermate senza il minimo pudore nei dibattiti pubblici che affollavano i palinsesti radiotelevisivi e le colonne dei giornali. Altro che pace! Di lì a poco, nel cuore dell’Europa, si sarebbe scatenata una delle più cruente guerre civili che trasformò l’intera Jugoslavia in un grande teatro di guerra. Parliamoci chiaro, nessun osservatore aveva allora previsto niente di tutto ciò che sarebbe accaduto.

Quella sere del 9 novembre 1989 una folla festosa di uomini e donne presero a picconate e martellate quel muro simbolo di un’Europa divisa in due, che aveva tenuto forzatamente separato un popolo; famiglie costrette a salutarsi a distanza, oltre le reti e i fili spinati, guardandosi con potenti cannocchiali, su versanti opposti e distanti, oltre la maestosa porta chiusa e proibita di Brandeburgo. Io l’ho vista da turista e ho sentito dentro di me tutto il peso soffocante e oppressivo di quel muro. La cosa che più mi amareggiò fu vedere che quei regimi crollarono indecorosamente lasciando dietro di sé una montagna di rovine e miserie a livello culturale e sociale.

Quali furono le reazioni interne al partito a livello locale, fra i tuoi compagni di militanza, di fronte all’89 e alla fine dell’esperienza comunista dell’Est?

Intanto una precisazione: noi di DP non abbiamo mai considerato socialisti e tantomeno comunisti quei regimi, che con la loro presenza infangavano l’immagine stessa del comunismo. DP era una forza antistalinista, antiautoritaria, in sintonia con quel filone marxista “caldo”, non riduzionista e meccanicista come il marxismo ufficiale che pensava che una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbero nati di conseguenza la società e l’uomo nuovo socialista. Pochi giorni dopo quelle vicende si svolse il 3° congresso della federazione lucchese, aperto da una mia relazione che non poteva non iniziare con un’analisi di ciò che stava avvenendo a Est:

“Gli sconvolgenti avvenimenti che stanno maturando in questi giorni nell’Est europeo sono stati da noi auspicati e desiderati fin dall’inizio della nostra storia. Essi costituiscono la fine di un’ambiguità e di una mistificazione che volevano identificati il socialismo e il comunismo in regimi che si sono caratterizzati per l’onnipotenza della burocrazia di partito e della polizia segreta, per le deportazioni di massa e dei carri armati utilizzati come mezzo di risoluzione dei conflitti sociali al proprio interno e nei confronti dei paesi alleati.”

Il giudizio era estremamente positivo, consapevole che queste vicende avrebbero rimesso in moto la Storia ferma a Yalta. Avvertivo però il pericolo di una forte strumentalizzazione da parte delle destre e degli anticomunisti, allo scopo di dimostrare che il capitalismo era l’unico e il migliore dei mondi possibili.

Nello stesso anno anche il PCI imbocca un cammino che lo porterà a mutare profondamente la propria fisionomia. Cosa pensasti di quel cambiamento in atto, sfociato nella fondazione del PDS? E cosa guidò la tua adesione alla neonata Rifondazione comunista, nella quale DP confluisce nel 1991?

Il nostro giudizio sulla svolta della Bolognina fu duramente critico: le modalità e il dibattito politico di allora tendevano a gettare via il bambino con l’acqua sporca. In quegli anni in molti, anche dirigenti di primo piano, facevano a gara nel dire: mai stati comunisti. Un’indegna e vergognosa liquidazione di una storia che non è mai stata la mia, ma che mi infastidiva per le conseguenze negative che aveva su tutta la sinistra noi compresi, che all’inizio ci pensammo al riparo da quella rovinosa frana poiché venivamo da un’altra storia, radicalmente critica rispetto ai regimi dell’Est; ma come spesso avviene nella storia non si fanno troppe distinzioni, e lo smottamento non risparmiò nessuno. Il senso comune fu quello di dire: il comunismo ha fallito, non c’è alcuna possibilità di rifondarlo. Poi nacque Rifondazione, e siccome io sono sempre attratto dalle sfide impossibili, l’idea di rifondare una nuova cultura comunista per il XXI secolo mi coinvolse. C’era però un ostacolo enorme: quella parte del PCI che non aveva accettato la Bolognina era quella legata a Cossutta, la più conservatrice e filosovietica. Furono mesi di dubbi e perplessità: io in un partito insieme a Cossutta mai! Il pressing su di me a livello locale e nazionale fu estenuante: l’impegno era quello di entrare con la nostra visione per mutare profondamente una prospettiva ormai morta e sconfitta.

Eravamo un gruppo di militanti preparati e determinati, certi che una volta entrati avremmo potuto condizionare lo sviluppo di RC, dando una dimensione di massa al nostro progetto di una sinistra moderna alternativa al PDS. Pochi anni dopo, con la segreteria Bertinotti, si avviò effettivamente un grande processo di rifondazione culturale che integrò la nostra cultura pacifista e ambientalista: non ci divise la battaglia culturale ma, come sempre è avvenuto nella storia della sinistra, questo processo fu interrotto per una divisione profonda rispetto al ruolo del partito nei confronti del governo. Il calvario della sinistra fino ai giorni nostri, con l’ultima divisione consumatasi alle recenti elezioni regionali toscane.

1 Così ad esempio lo storico Robert Service: “Anche se il mondo comunista era percorso da profonde divisioni interne, gli Stati comunisti coprivano un terzo delle terre emerse del pianeta. La maggior parte delle persone dava per scontato che le cose sarebbero andate avanti così per molti anni.” (in Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 523)




Maria Luigia Guaita

Presentando la prima edizione de La guerra finisce la guerra continua Ferruccio Parri, il capo-partigiano “Maurizio” poi, nel giugno 1945, Presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ricorda Maria Luigia Guaita come «una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose» che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, una «donna della Resistenza» fidata, coraggiosa e capace.

Nata a Pisa l’11 agosto 1912 Maria Luigia Guaita trascorre l’infanzia a Torino per poi raggiungere Firenze nel 1926. Qui, grazie al fratello Giovanni, allora giovane studente, inizia a frequentare gli ambienti dell’antifascismo di estrazione liberalsocialista entrando in consuetudine con personaggi come Nello Traquandi, già tra gli animatori del periodico clandestino «Non mollare» e del Circolo di cultura politica di Borgo S. Apostoli, ed Enzo Enriques Agnoletti, uno dei principali esponenti dell’azionismo fiorentino durante la Resistenza.

Avvicinatasi al Partito d’Azione (PdA) la giovane Maria Luigia ne cura l’organizzazione dell’attività clandestina sfruttando, in un primo tempo, quel contatto giornaliero col pubblico – e, quindi, con altri antifascisti – consentitole dalle mansioni di impiegata di sportello presso una filiale fiorentina della Banca Nazionale del Lavoro. Durante la lotta di Liberazione, poi, opera come staffetta, contribuisce alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito.
Agli ordini del Comando militare azionista si adopera, inoltre, per il collegamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese garantendo un servizio – rileva Carlo Francovich – «particolarmente delicato e pericoloso», ma di fondamentale importanza ai fini dell’organizzazione tattico-strategica della lotta di resistenza e generalmente svolto «da giovani donne, la cui audacia era talvolta temeraria»: tra queste, oltre alla Guaita, si ricordano Orsola Biasutti, Anna Maria Enriques Agnoletti, Gilda Larocca, Adina Tenca, Andreina Morandi. Quest’ultima – sorella di Luigi Morandi, il radiotelegrafista del gruppo Co.Ra ferito a morte il 7 giugno 1944 durante l’irruzione dei tedeschi nell’appartamento in Piazza d’Azeglio, ultima sede della radio clandestina azionista –, nei mesi dell’occupazione germanica collabora con la Guaita e, anni dopo, ne ricorda mediante un curioso aneddoto la versatilità e l’instancabilità operativa: «[Maria Luigia Guaita] Non disdegnava nessun tipo di impegno; sapeva trasformarsi anche in vivandiera, come quando riuscì ad ottenere dal proprietario del famoso ristorante Sabatini due sporte piene di conigli, destinati (e purtroppo non arrivati per una serie di contrattempi) alla formazione di Lanciotto Ballerini, che operava dalle parti di Monte Morello» e, nel gennaio 1944, resterà ucciso nella battaglia di Valibona.
Nel quadro più ampio dell’impegno antifascista di Maria Luigia Guaita assume particolare rilievo l’attività di falsificazione di documenti, permessi e timbri in soccorso a partigiani e perseguitati politici alla quale viene iniziata da Tristano Codignola, uno dei più brillanti e capaci dirigenti azionisti: «Con Pippo [Codignola] – ricorda – sarebbe stato duro lavorare, pensavo, ma avrebbe capito e Pippo capì sempre la buona volontà di tutti noi. Ricercato dalla polizia, braccato dalle SS, riuscì a creare insieme a Rita [Fasolo] e a Nello [Traquandi] tutta l’organizzazione politica del partito. Attivo, infaticabile, riempiva le lacune, colmava i vuoti imprevedibili – e di giorno in giorno, d’ora in ora – sfuggiva alla cattura».
L’efficacia del servizio ricorre, altresì, nelle parole lette dallo stesso Codignola all’Assemblea regionale del PdA, tenutasi a Firenze nel febbraio 1945, con le quali rileva come, sotto la solerte guida di Traquandi, esso sia divenuto nel tempo «un magnifico strumento di resistenza, fornendo falsificazioni di ogni natura, tessere, fotografie, timbri, carte annonarie e via dicendo»: Maria Luigia, senza esitare nel mettere a disposizione la propria abitazione fiorentina di via Giovanni Caselli 4, coordina con perizia l’apprestamento e la distribuzione dei documenti falsi permettendo a tale attività di raggiungere un notevole grado di perfezione. Dopo la Liberazione, a riconoscimento dell’impegno resistenziale il Ministero della Guerra le riconosce la qualifica di partigiano afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”-Servizio Informazioni per il periodo compreso tra il 9 settembre 1943 e il 7 settembre 1944.

La primavera del 1945 segna l’avvio della rinascita democratica dell’Italia alla quale le donne, conquistato il diritto al voto, contribuiscono in prima persona. In Assemblea Costituente, ne sono elette 21: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste – tra le quali la toscana Bianca Bianchi – e una proveniente dalle file dell’Uomo qualunque. In Toscana nessuna delle candidate nelle liste del PdA – Olga Monsani, Margherita Fasolo, Eleonora Turziani – ottiene i voti necessari per l’elezione. Maria Luigia Guaita è tra quanti, nei primi anni di vita della giovane Repubblica, confidano nel disegno politico azionista e nel progetto di rinnovamento palingenetico delle strutture dello Stato e della società italiani. Tali aspettative non trovano, però, concretezza e nelle parole da lei consegnate al proprio libro di memorie emergono con forza la delusione per la fine prematura del PdA e l’amara percezione del progressivo appannamento dei valori e delle speranze che hanno animato le donne e gli uomini della Resistenza: «Se devo necessariamente adoperare le parole che esprimono i concetti di libertà e di giustizia, – scrive – ho un attimo di esitazione, spesso ricorro a una perifrasi. “Giustizia e Libertà” mi ha cantato troppo nel cuore, per tutti gli anni della lotta clandestina. Allora mi sforzavo soltanto di essere disciplinata, ma sempre con un sottile struggimento di non fare abbastanza, anche per le perdite dolorose di tanti compagni, i migliori; e ognuno di loro si portava via una parte di me. Venne la liberazione; affascinata da questa parola sperai nell’affermarsi delle forze socialiste. Poi le giornate di Roma, il congresso al Teatro Italia. Ricordo Ragghianti, che tratteneva Parri per la giacchetta, il volto duro e caparbio di Carlo, quello tagliente e tirato di Pippo, la dialettica di La Malfa: il crollo del Partito d’Azione. Pensavo che il sacrificio di tanti compagni (e così di nuovo mi bruciava nel cuore il dolore per la loro morte) sarebbe stato sufficiente a disciplinare le forze, attutire gli screzi, frenare le ambizioni». Ciò, come noto, non avverrà e il PdA si scioglierà nel 1947.

All’assenza dalla vita politica partecipata corrisponde un intenso impegno della Guaita in attività di natura culturale e imprenditoriale. Donna emancipata da sempre legata al mondo intellettuale non solo fiorentino, ella contribuisce a fondare e animare le Edizioni “U” di Dino Gentili cui si devono, grazie all’opera editoriale di Enrico Vallecchi, la pubblicazione di numerosi volumi proibiti sotto la dittatura fascista. Maria Luigia Guaita collabora, inoltre, con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fa parte dell’Associazione Liberi Partigiani Italia Centrale (A.L.P.I.C.) e, nel 1957, dà alle stampe quel libro di memorie che Roberto Battaglia ha paragonato al Diario partigiano di Ada Gobetti definendolo «una spregiudicata narrazione delle vicende d’una staffetta partigiana che si muove o corre dalla città alla montagna e viceversa», nel quale l’autrice «insieme ai toni scanzonati del bozzetto, sa trovare, specie nelle ultime pagine del libro, quelli tragici ed ardui dell’epica partigiana, allorché descrive l’impiccagione di italiani e sovietici a Figline di Prato».
Degno di rilievo si rivela, infine, l’impegno della Guaita nel campo dell’imprenditoria tessile nella Prato della ricostruzione nonché, sul finire degli anni Cinquanta, la fondazione a Firenze della Stamperia d’arte «Il Bisonte», cui segue l’apertura sulle rive dell’Arno di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Nel 1981, a riconoscimento di questo importante impegno imprenditoriale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di Commendatore.
Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007, all’età di 95 anni. Con lei, dirà il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, «scompare una delle personalità più rappresentative della nostra città»: una donna della Resistenza e un’indiscussa protagonista della vita imprenditoriale in Toscana, in Italia e all’estero.

Mirco Bianchi, dottore in Storia contemporanea, è responsabile dell’Archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.