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«L’esperienza del Pci non è stata ripetibile, si è fermata lì…»

Avvertenza: Nel trascrivere l’intervista si è cercato, ove possibile, di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando al minimo indispensabile  gli interventi correttivi sul testo. L’intervista è stata raccolta il 19 dicembre 2021

 

D- Daniela Lastri, lei nel 1989 era una attivista e dirigente del PCI fiorentino ed ha vissuto perciò le vicende politiche che portarono alla svolta della Bolognina e alla decisione di Occhetto di cambiare il nome al partito. Può dirci qualcosa della sua esperienza politica e istituzionale di allora?

R- In quel periodo, nel 1988-1989, io facevo parte a Firenze della segreteria cittadina del PCI. Ero già stata attiva in precedenza a vari livelli all’interno della Federazione giovanile comunista (FGCI), sia nell’organizzazione provinciale fiorentina che in quella regionale dove ero rimasta fino al 1982. Naturalmente, ancor prima ero stata un’attivista del movimento studentesco, prendendo parte a collettivi studenteschi e partecipando all’attività del movimento femminista del tempo. Nel 1989, come membro della segreteria cittadina del PCI, svolgevo il ruolo di responsabile del partito per la zona a Sud-Ovest della città, in quelli che allora erano i quartieri 4 e 5, una vasta area che dall’Isolotto si spingeva fino a Mantignano, in prossimità di Scandicci. Si trattava di quartieri “rossi”, con forte tradizione operaia e di voto a sinistra. Quella era l’area che io curavo per il partito. Fu una bella esperienza, intensa e ricca di attività. In quel periodo, mi ricordo, all’interno del partito c’era una grande attenzione alle diversità e ai processi sociali in corso. Il PCI di allora era un partito in continua evoluzione benché vi fossero oggettive difficoltà dovute al cambiamento dei gruppi dirigenti che si erano susseguiti dopo la scomparsa prematura nel 1984 del segretario Enrico Berlinguer; ma ciononostante si viveva all’interno di un partito che continuava a dare molta attenzione ai grandi movimenti politici e sociali di massa, soprattutto a quelli animati dai giovani e dalle donne, un partito che costituiva perciò ancora un grande contenitore al cui interno potevano trovare spazio le principali tendenze politiche e sociali del mondo della sinistra. A tal riguardo, ricordo che in quel periodo noi facemmo un’esperienza particolarmente significativa, perché in questa zona Sud-Ovest della città che io seguivo per il PCI costituimmo una segreteria di partito fatta di sole donne. Si trattò di un elemento di novità, legato a un’esperienza molto particolare e interessante sorta poco prima all’interno del PCI che era quella della Carta delle donne, proposta nel 1986, la quale, dopo lo sbandamento dovuto alla morte di Berlinguer due anni prima, era nata per rilanciare la presenza e il ruolo delle donne all’interno del partito, aprendo e dando spazio in particolare alle componenti provenienti dalla realtà del movimento femminista. La Carta delle donne nacque con questo intento: fare in modo che il PCI si rinnovasse parlando ai soggetti che erano «promotori di cambiamento», di novità, a partire appunto dalle donne. Fu una decisione importante per un partito che allora si stava ancora interrogando sulla strada da percorrere dopo la morte di Berlinguer. È stato, quello, un periodo di grande attenzione ai mutamenti e ai cambiamenti.

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Daniela Lastri (fonte: Consiglio Regionale della Toscana)

Contemporaneamente, mentre facevo quest’attività di responsabile del PCI in quella zona cittadina, portavo avanti anche l’attività di consigliera di quartiere. Con le elezioni amministrative del 1985 ero entrata infatti a far parte delle istituzioni cittadine, tanto che poco dopo, tra il 1988-89, diventai vicepresidente del quartiere 11, che allora accorpava la zona di Piazza della Libertà e le Cure. Si trattava peraltro di un quartiere completamente diverso sul piano politico-sociale da quello dell’Isolotto-Mantignano che curavo come responsabile di zona per il PCI. Ma entrambe queste realtà di partito, come pure i miei primi incarichi istituzionali cittadini, si sono poi rivelati particolarmente importanti per la mia formazione e per il proseguimento della mia attività politica successiva. Ricordo perciò questo periodo come un periodo di grande impegno ed esperienza, segnato da queste significative attività e da questa particolare sensibilità e attenzione vissuta all’interno del partito nei riguardi dei «soggetti del cambiamento».

Io mi trovai a far parte della segreteria cittadina del PCI alla vigilia di un cambiamento epocale nel quale una serie di eventi e vicende politiche internazionali misero a dura prova la forza e la presenza delle politiche del PCI. In quel frangente, la questione che caratterizzò la mia militanza, fu naturalmente quella del cambiamento del nome del partito che Occhetto predispose alla Bolognina e che poi si sarebbe concretizzata qualche tempo dopo. Io mi sono trovata a gestire questa fase molto delicata del PCI in una zona cittadina a caratterizzazione storica operaia dove, come ho detto, il partito aveva allora profonde radici nelle quali peraltro io stessa mi riconoscevo personalmente. Anche le mie radici familiari, infatti, erano legate a quel mondo operaio da cui provenivano i miei genitori, anch’essi militanti del PCI, attivi politicamente come segretari di cellula del partito e nel sindacato, in particolare mio padre. Venendo da quest’ambiente io non ho fatto mai fatica a riconoscermi in quella storia, quella del PCI, in cui affondavano le mie radici.

D- Dunque, lei ha vissuto gli effetti di quella svolta “in prima linea”, per così dire. Quali furono le sue reazioni di fronte a quell’annuncio? La colse di sorpresa o era qualcosa che si poteva immaginare?

R- La vicenda della Bolognina e di quello che ne è conseguito da un lato non è che ci avesse preso proprio di sorpresa, perché sulla questione del cambiamento del nome c’era una discussione interna al PCI che era iniziata già da diversi anni, anche nel gruppo dirigente nazionale del partito. Poi, bisogna tener conto che il PCI ormai costituiva da tempo un’esperienza storicamente e politicamente diversa da quella dei paesi del blocco sovietico e quindi dei partiti comunisti dell’Europa dell’Est. Avevamo avuto al centro della nostra azione le questioni dell’eurocomunismo, cioè di un comunismo europeista alternativo a quello del socialismo reale; inoltre la cosiddetta “via italiana al socialismo” costituiva oramai una prerogativa tipica del PCI, quindi gli elementi di diversità, di assoluta differenza con il modello sovietico erano sicuramente molto significativi. Penso ad esempio solo al concetto della “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”, che Berlinguer espresse nel 1981 dopo le vicende politiche polacche in una nota conferenza stampa. La vicenda polacca del 1981 non a caso ha marcato profondamente questa diversità del PCI; naturalmente il partito aveva già intrapreso la propria strada separata dal modello sovietico almeno a partire dal 1968, prendendo una posizione sui fatti di Praga radicalmente diversa rispetto a quella tenuta nel 1956 di fronte alla repressione disposta in Ungheria. Ricordo come mio padre in quell’estate del 1968, di fronte agli avvenimenti cecoslovacchi, ribadisse come noi comunisti italiani fossimo oramai radicalmente lontani da quell’esperienza. E di lì a seguire, infatti, ci saremmo trovati sempre più circondati da vicende internazionali che in qualche modo ci allontanavano sempre più nettamente da quel modello al quale in passato eravamo stati legati. Penso all’invasione dell’Afganistan del 1979, ma anche alla vicenda delle proteste di piazza Tienanmen della primavera-estate del 1989 organizzate da studenti, giovani e operai contro il regime cinese: quello costituì un evento dirompente per quanto riguardava le nostre sensibilità, il nostro modo di interpretare il socialismo rispetto a quei regimi autoritari. Non per nulla, l’esperienza cinese anticipò quanto sarebbe accaduto di lì a poco nel novembre di quell’anno con la caduta del muro di Berlino. Tutte queste vicende internazionali che attraversano quel periodo storico ci vedevano perciò come comunisti italiani molto critici nei riguardi del regime sovietico, per cui la presa di posizione della Bolognina fu una scelta che certamente ci colpì ma in qualche modo si configurò quasi come una necessità, una svolta che era cioè la conseguenza di un quadro internazionale ormai fortemente incrinato e che non aveva più niente a che vedere con i valori ideali del socialismo, della democrazia ma anche della libertà; temi fondamentali e dirompenti che erano stati sempre al centro dell’idea di una “via italiana al socialismo”.

D- Perciò si trattò di una decisione necessaria? In ogni caso come fu gestita secondo lei quella svolta?

R- Personalmente ho sempre sostenuto la necessità di quella svolta, non senza naturalmente riconoscere tutte le sofferenze e le difficoltà che ne conseguirono. Non si deve dimenticare infatti che la discussione che si aprì da lì in poi fu in grado di provocare attriti e lasciare profonde ferite, non solo politiche ma anche umane, incrinando amicizie e rompendo la solidarietà tra persone che fino a poco prima avevano militato fianco a fianco nel partito. Ma l’aspetto più delicato di quella svolta secondo me fu la non preparazione, il non essere stati cioè adeguatamente preparati ad affrontare politicamente quell’evento e soprattutto il non essere stati messi nella condizione di poter maturare attorno a quella decisione un’effettiva condivisione. Questo è stato l’elemento negativo di quella vicenda, il non aver avuto la possibilità di una maggiore discussione preliminare, perché la discussione in realtà ci fu, ma vi fu solo successivamente all’annuncio, mancando invece una più aperta riflessione interna al partito prima di arrivare alla svolta comunicata alla Bolognina. Le cose erano sicuramente mature per fare quel passo, però quello che è stato giustamente criticato è stato il metodo con cui si è arrivati a prendere questa decisione e poi i tempi con la quale essa è stata attuata; elementi che spiegano in parte il disagio e il disorientamento che abbiamo vissuto successivamente nelle varie scissioni che ci sono state e che hanno sicuramente prodotto un indebolimento del PCI. Credo che questi siano stati i principali limiti che abbiamo scontato con difficoltà in quel periodo di trasformazione.

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Nel 1986 fu promossa, diffusa e discussa su iniziativa di Livia Turco membro della segreteria del PCI la “Carta itinerante delle donne”, un documento che si proponeva di aprire la vita politica del partito alle istanze del femminismo e fare in generale della partecipazione attiva delle donne la chiave di volta di una nuova politica di partito. (in foto : “L’Unità”, 18 ottobre 1986)

Credo peraltro che il PCI, il quale già negli anni Settanta e a inizio anni Ottanta aveva più volte pensato all’opportunità della modifica del nome, infondo poteva essere maturo già allora per un passo simile, perché come ho detto noi comunisti italiani costituivamo un’esperienza ben diversa rispetto alle altre realtà della sinistra socialista, non solo rispetto all’esperienza sovietica, ma anche rispetto ai compagni spagnoli, francesi e portoghesi. D’altro canto, anche se già all’epoca era forse maturo per un passo simile, va detto però che il PCI era abituato a fare le scelte con grande gradualismo, proprio perché, essendo un grande partito di massa ed avendo al proprio interno tante esperienze politiche significative, aveva bisogno di gradualità. Per cui, considerato questo contesto precedente, il modo repentino con cui nel 1989 fu annunciata alla Bolognina la decisione del cambio di nome ebbe per altri versi un effetto dirompente, divenendo un elemento di grande disagio che in seguito ha costituito per molti attivisti un ostacolo nel tentativo di comprendere le ragioni per le quali al tempo fu deciso di procedere in quel modo, con quelle modalità. Io naturalmente accettai quest’idea di cambiamento, probabilmente anche perché per formazione provenivo dal movimento giovanile e dalla FGCI, una realtà in cui la necessità che il partito si adeguasse rapidamente ai cambiamenti sociali in corso costituiva una prerogativa. I grandi mutamenti politici e internazionali vissuti in quegli anni ci conferivano probabilmente una maggiore predisposizione al cambiamento. Era un orientamento, cioè, che in quanto nuove generazioni avevamo ben presente.

Ricordo che nel 1979, non ancora ventenne, ebbi la possibilità di visitare la Germania dell’Est. Vi andai per una decina di giorni con una delegazione invitata in viaggio premio a prendere visione di come funzionassero le cose in quel paese. Ciò di cui rimasi allora colpita era la presenza molto significativa dei mezzi dell’esercito sovietico disposti in ogni angolo di strada…impressionante! Come impressionante era anche la scarsa presenza di segni di libera attività associativa. Era tutto molto precostituito. Si avvertiva per la verità l’esistenza di uno Stato sociale efficiente e quindi un’attenzione molto significativa da parte del governo della Germania dell’Est a tutto ciò che riguardava l’istruzione e la cultura, la salute e i servizi all’infanzia, ma d’altro canto eravamo consapevoli che ci facessero vedere solo le cose belle che funzionavano. Il problema era però tutto il resto. A Berlino mi impressionarono ad esempio le urla di protesta che si sentivano provenire dalla parte Ovest della città contro le misure militari prese a difesa del muro nella zona Est, mentre si assisteva anche a lanci di oggetti. Palpavi insomma con mano qual era la difficoltà che si viveva in quei paesi. Noi giovani che tornavamo da quei viaggi ci rendevamo conto come non era assolutamente sostenibile il percorso politico di quei paesi e ancor più capivamo come noi comunisti italiani fossimo diversi, come il PCI italiano fosse profondamente diverso e non avesse ormai più niente a che vedere con quelle esperienze.

Quindi, tornando alla Bolognina, la svolta ci prese sì forse un po’ alla sprovvista, ma le questioni di sostanza erano già aperte all’interno del partito. C’è stata semmai una questione di metodo, la mancanza cioè di una discussione più calma fatta senza precipitarsi; però la crisi dei partiti comunisti in Europa era ormai sotto gli occhi di tutti e l’evento stesso della caduta del muro era un fatto quasi naturale. Gorbačëv stesso era la testimonianza di un cambiamento imminente. Semmai, spiace che l’Europa e gli Stati Uniti non abbiano sostenuto allora quel processo di democratizzazione interna apertosi in Unione Sovietica con Gorbačëv ma abbiano invece concorso a che quel processo si richiudesse e a che si creassero le condizioni per quanto successo poi nel 1991, con il fallito colpo di stato, e poi con la successiva frammentazione dell’Unione Sovietica.

D- Insomma, a mancare nel 1989 è stata un’adeguata discussione interna al PCI? Ma, visti i tempi, ve ne sarebbero state le condizioni?

R- Sul problema della mancata discussione, in realtà non è che il PCI non abbia avuto il tempo di discutere, perché noi abbiamo fatto due congressi dopo la svolta della Bolognina, quello del 1990 e poi l’anno successivo quello che segnò la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra (Pds). Io nel 1990 sono stata eletta per la prima volta nel consiglio comunale di Firenze e noi ci chiamavamo PCI-PDS, per dire. Perciò, il percorso di discussione dalla Bolognina al momento in cui siamo arrivati ai congressi è stato abbastanza lungo… col successivo passaggio dai Democratici di Sinistra (DS) al Partito Democratico (PD) tutto questo per esempio non è successo; lì sì, semmai, che non vi è stata discussione e tutto è stato molto veloce e sbrigativo. Quindi, nel 1989 il problema non è stato tanto quello di non aver discusso, perché la discussione c’è stata, però è stata una discussione che è seguita a una decisione in qualche modo già presa. Allora, la discussione non la si fece nel gruppo dirigente, probabilmente non la si è fatta perché altrimenti sarebbe successo quello che era successo negli anni Settanta, col rischio che si fermasse tutto. Per fare una discussione di quel tipo, nel 1989, probabilmente ci voleva una maggiore autorevolezza dei segretari, un’autorevolezza di un Berlinguer, di un segretario così…ma insomma, col senno di poi è difficile dire. Io trovo che la discussione successivamente c’è stata ed è stata una lunga discussione che ha creato ferite significative, talvolta anche irreparabili. Il cammino intrapreso dall’annuncio della svolta nel 1989 al momento in cui questa svolta si è concretizzata è stato molto pesante, però è avvenuto tramite discussioni interne impegnative ma serie, anche a livello dei circoli e delle sezioni. Ricordo discussioni accese anche nella segretaria fiorentina di cui facevo parte e nei circoli delle zone di Firenze di cui ero allora responsabile per il partito. Anche lì ci sono state inevitabilmente delle rotture, tanto che alcune componenti della mia segreteria hanno fatto scelte diverse alla mia, c’è chi è andato ad esempio con Rifondazione comunista chi, ancora successivamente, nella Sinistra Democratica anziché nel Partito Democratico. Io, ad esempio, nei vai partiti che si sono succeduti al PCI, mi sono trovata sempre in componenti di minoranza; all’interno dei Ds ho appartenuto per esempio alla corrente minoritaria di Giovanni Berlinguer. Ci sono state insomma evoluzioni e percorsi vari e diversi, ma questo è normale. L’aspetto da sottolineare è che in fondo noi siamo stati comunque capaci di fare una discussione, lacerante, però l’abbiamo fatta. Quello che invece è insopportabile, dal mio punto di vista, è quello che è successo successivamente, con la nascita dei partiti che hanno succeduto prima il PCI e poi il Pds. Io ritengo, infatti, che la discussione che c’è stata successivamente, ad esempio al momento della nascita del PD, sia stata pesantemente condizionata da ragioni che avevano a che fare con la crisi dei partiti tradizionali e del sistema politico in generale. Io personalmente sono stata negativamente colpita dal modo in cui è maturato il passaggio tra i DS e il PD: lì non c’è stata discussione, è stato quasi un dato di fatto. Mentre lo scioglimento del PCI era stato, come ho detto, una necessità, nel caso del passaggio tra DS e PD era come se tutto fosse avvenuto per fatti che riguardavano, più che una vita interna di partito, una politica “esterna” che era completamente cambiata a seguito della crisi del sistema dei partiti. Si è manifestato cioè in quell’operazione il senso della contingenza, il fatto che vi fossero più motivi contingenti di lotta politica più che vere manifestazioni di necessità politica. Questo aspetto, credo, ha condizionato moltissimo in senso negativo il passaggio dai DS al PD. Io penso che purtroppo con la nascita del PD, noi abbiam perso quel connotato fondamentale che veniva dal PCI e che era stato mantenuto col PDS e, in qualche modo, almeno fino ai Ds e che era quello di essere ancora entro l’orizzonte del socialismo, del socialismo italiano ovviamente. Il PD ha rotto invece questo orizzonte perché con lui si è interrotta di fatto quella storia.

Naturalmente, gli anni Novanta hanno condizionato moltissimo le scelte che sono state fatte all’interno della politica dei partiti, anche di quelli della sinistra, nei quali ha finito per prevalere sul piano economico l’idea neoliberista e su quello politico la tendenza alla personalizzazione e al leaderismo. Ciò ha rovinato completamente il senso del partito tradizionale: non a caso si è affermata a un certo punto l’idea dei “partiti leggeri”, i partiti dove non importa neppure che ci siano i circoli, le sezioni, i luoghi della formazione. I partiti oggi si sono trasformati così in partiti degli elettori che guardano molto alla personalizzazione, al leaderismo, all’individualismo; il senso del collettivo della comunità si è completamente perso. Questo è un problema che riguarda naturalmente tutto il sistema politico così come si è andato evolvendo dalla metà degli anni Novanta fino all’inizio del Duemila. Ed è un elemento su cui ancora stiamo riflettendo. Questi ultimi vent’anni hanno condizionato molto anche i partiti che venivano dall’esperienza della sinistra, non per nulla la sinistra di oggi continua a interrogarsi circa il problema delle idealità e dell’orizzonte entro cui stare. Simo ancora nel mare aperto. La fermezza, la strutturazione di un partito come era i PCI o anche il PDS oggi non c’è più. Io credo che noi avremmo dovuto fermarci alla creazione del PDS, quello doveva essere il nostro orizzonte.

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Durante il Congresso nazionale della FGCI tenutosi al Palalido di Milano nel maggio 1982, il segretario del PCI Enrico Berlinguer invitò i giovani a organizzare un congresso di “futurologia” che affrontasse varie discipline: dalle scienze fisiche, chimiche e biologiche, alla demografia, all’antropologia, all’informatica. Ciò per stimolare una riflessione politica a partire dalla conoscenza degli studi più recenti su alcuni problemi di pressante attualità, quali il rapporto tra risorse e popolazioni, tra sviluppo e ambiente.

D- Dunque, da quel che dice, l’eredità del PCI sui partiti della sinistra italiana sembra oramai perduta. Pensa che rimanga di quell’esperienza un’eredità politica immateriale al di fuori dei partiti e nella società?

R- L’esperienza del PCI è un’esperienza che non è stata ripetibile, si è fermata lì. Io ritengo che l’esperienza del PCI è stata tutto dentro anche il PDS e anche in parte entro i DS, perché i DS hanno aperto anche all’esperienza dei laburisti, dei cristiano sociali, un’esperienza che stava in un contesto che era ancora inscritto in quell’orizzonte politico a cui accennavo prima. Ma il PCI è un partito irripetibile. Solo forse il PDS in parte ne conservava lo spirito, ma successivamente…il PD col PCI non c’entra nulla, ha rotto la tradizione di quel partito e ha creato una cesura netta con quella tradizione. Il mio giudizio su questo punto è molto tagliente, ma lo è per averlo vissuto…oggi purtroppo non si ritrova quell’esperienza. Dove la si può trovare? Difficile dire…il PCI negli ultimi anni della sua vita stava facendo cose innovative, pensava molto a rappresentare il mondo del lavoro, ai giovani e alle donne, queste erano le realtà a cui teneva particolarmente. Ribadisco: la Carta delle donne di cui dicevo prima è stata una delle intuizioni che meglio attestano questa volontà innovativa del PCI di guardare ai «soggetti del cambiamento», donne e giovani. Sui giovani, ricordo, ci fu un tentativo significativo negli ultimi anni di vita di Berlinguer. Nel 1982, quando io ero ancora nella FGCI, lui ci propose a Milano l’idea di fare un congresso sulla “futurologia” e in questo dava il senso di un leader che guardava lontano, che vedeva nei giovani la vera prospettiva di cambiamento. Quel congresso che ci propose anticipava i tempi… forse, magari esagero, ma in fondo mi fa pensare all’esperienza dei Fridays for Future di oggi, il collegamento cioè con le istanze di innovazione e cambiamento che fermentavano allora nella società… le questioni delle prime tecnologie informatiche allora agli inizi, del rapporto tra sviluppo e scienza, la volontà insomma di misurarci con quello che di particolarmente innovativo stava succedendo allora in quei campi…ad oggi, ripensando a quell’esperienza, forse emerge una certa amarezza e rimpianto di non aver capito in quel momento quanto ci fosse di veramente innovativo in quell’impostazione politica e quindi quanti guai avremmo evitato di passare se avessimo dato uno sviluppo concreto a quell’impostazione. Ma d’altro canto, penso che l’esperienza del PCI costituisca un’esperienza storico-politica che appartiene al suo tempo e che oggi noi non possiamo replicare, salvo forse recuperare almeno alcuni di quegli elementi di novità che la contraddistinguevano…anzitutto la necessità di guardare ai soggetti del cambiamento, alle donne, ai giovani, con un’attenzione particolare alle nuove istanze di mutamento sociale…oggi questo probabilmente lo si ritrova in alcuni movimenti politici e sociali, ma che non sono però riferibili al PCI, non c’entrano nulla, anzi. Però, io credo che, se quel partito fosse andato avanti, se fosse stato in grado di introiettare concretamente le istanze di cambiamento presenti nella società del tempo, forse oggi potremmo essere più avanzati rispetto alle questioni ecologiche, sul problema ambientale, sulle questioni della salute pubblica, avremmo avuto sicuramente un rapporto diverso con la scienza…ed oggi la pandemia ci ha dato la prova di quanto questo rapporto corretto manchi. Ma in ultimo, io penso che un’esperienza politica importante come quella del PCI oggi difficilmente la possiamo ritrovare in altri contesti, in ambito politico e partitico sicuramente no. Possiamo perciò impegnarci a valorizzare quello che nella società di oggi è presente di innovativo…questo è molto utile, anche per la politica, nonostante oggi, purtroppo, non veda con grande evidenza qualcosa che ci dia questa prospettiva. Da questo punto di vista, siamo ancora in cammino




Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza».

Il 1938 è un anno di svolta per il fascismo di Mussolini, questa data rimane ancora oggi un simbolo di immodificabile cambiamento che ha dato un identificabile e mostruoso volto legislativo all’antesemitismo fascista, al razzismo rivolto verso i popoli di colore e alla xenofobia subita dalle popolazioni considerate inferiori. Il fascismo italiano con una retorica ambigua e molto spesso contraddittoria dovette fare i conti con la propria intrinseca incapacità di creazione di una forte e chiara ideologia che non riuscì mai ad avere mai nitidi punti fermi e basi teoriche riconosciute e forti o create ad hoc su cui fondare una forte dottrina di regime. Il fascismo appare così un totalitarismo imperfetto, una dittatura in continuo mutamento caratterizzata da un tenace opportunismo che le permetteva di modificarsi e di conseguenza modificare idee e ideali continuamente vivendo e diffondendosi in una realtà di forte contraddizione e ambiguità.

Copertina 20 marzo 1940La Rivista divulgativa «La Difesa della Razza» diretta dal giornalista siciliano Telesio Interlandi e pubblicata per la prima volta nell’agosto 1938 aiutò in questo senso il fascismo di Mussolini, essa accentuò cristallizzandoli gli stereotipi viventi tra la popolazione italiana cercando di creare in questo modo una forte ideologia che non ammettesse sfumature e potesse giustificare così le scelte antisemite e razziste che in quel momento la dittatura aveva il bisogno e l’opportunità, per rafforzarsi, di promulgare[1].
La Rivista pertanto nasce in quel fatidico 1938 diventando il filo rosso che accomuna diverse azioni politiche operate dal regime nel corso degli anni: la dichiarazione della nascita dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana nel ’36, la divulgazione del Manifesto degli scienziati razzisti il 14 luglio 1938 e infine la promulgazione delle Leggi Razziali nell’ottobre del medesimo anno. Il periodico, dal 5 agosto ’38 data di pubblicazione del primo numero al giugno del ’43 quando uscirà l’ultimo numero, sotto gli auspici del Ministero della Cultura Popolare diretto da Dino Alfieri ebbe il preciso scopo di elaborare una dottrina scientifica che trovasse una logica giustificazione alla politica coloniale fascista e all’antisemitismo diventato di Stato e di conseguenza la biologia e le Leggi di Natura diventarono una sorta di lasciapassare per la dimostrazione dell’esistenza di razze inferiori e superiori; logica questa supportata da leggi pseudoscientifiche intrise da secolari pregiudizi razzisti.
La categorizzazione e quindi la discriminazione non si fermarono però al livello della suddivisione biologica delle razze, interesse che aveva caratterizzato “l’antropologia scientifica” in tutta l’Europa settecentesca[2]; questi due elementi riescono ancora a scavare, fino a raggiungere gli strati più deboli che vivono in una determinata società e creare, se è ancora possibile, differenze e alterità. Mi riferisco alla misoginia e al sessismo intrinseci anche nelle pagine della Rivista: il genere femminile viene sempre discriminato e sentito come una minoranza debole da tutelare e da modificare a seconda dell’esigenza. Il disagio provocato dai rapidi cambiamenti che caratterizzarono l’Italia del primo dopoguerra vennero sfogati sulla dimostrazione di come le donne con la “D” maiuscola dovessero essere e dovessero comportarsi; esse divennero l’ago della bilancia su cui misurare la sostanza e l’essere di un determinato paese.

«La Difesa della Razza» si fa così portatrice e in un certo qual modo protagonista della svolta senza ritorno del regime nella diffusione del razzismo di Stato; diventando la divulgatrice ufficiale della dottrina scientifica della divisione dell’umanità in razze e della stereotipizzazione del ruolo dei diversi universi femminili all’interno della società. Elemento caratterizzante della Rivista è la crudezza, la crudeltà, la ripetitività di alcuni temi sviscerati fino all’esasperazione; essa fu il risultato di un radicale cambiamento nell’Italia del 1938, quando si passò infatti da un razzismo frammentario e disorganico a un razzismo di Stato, diventando così uno degli organi principali di propaganda del regime. Il linguaggio utilizzato ai fini della sensibilizzazione è infatti semplicistico e divulgativo per poter arrivare così a un più ampio e stratificato pubblico, ecco perchè sono soprattutto le immagini scelte ad avere un ruolo fondamentale: una iconografia razzista, violenta, con un intenso impatto emotivo; immagini che parlano da sole senza dover per forza leggere gli articoli fin troppo scontati e grotteschi.

CiprianiIl periodico trae linfa vitale dal Manifesto degli scienziati razzisti pubblicato alcuni mesi prima, il 14 luglio del ‘38, sul «Giornale d’Italia»: il Manifesto è redatto, sotto ordine di Mussolini in persona, dal giovane antropologo romano Guido Landra il quale è influenzato e in linea con le tesi di razzismo biologico di derivazione tedesca[3]. Il Manifesto diventerà così il punto di partenza della Rivista, la base ideologica a cui riferirsi e in cui credere ciecamente. I firmatari del famoso decalogo furono quasi tutte personalità affermate e conosciute nella società italiana degli anni Trenta; questi ricoprivano infatti ruoli fondamentali e prestigiosi nelle varie università e istituti di ricerca, come, ad esempio, l’antropologo fiorentino Lidio Cipriani (1892-1962). Quest’ultimo schierato nelle file dei razzisti biologici entrò fin da subito a far parte del comitato di redazione della rivista pubblicando per sei anni consecutivi articoli e resoconti dei suoi viaggi di studio nel continente africano e riportando così dettagliate descrizioni “antropologiche” razziste e sessiste riguardanti le varie popolazioni da lui studiate e incontrate[4]. Cipriani, infatti, in quanto professore universitario di antropologia e direttore del Museo Nazionale di Antropologia e di Etnologia dell’Università di Firenze[5], già nel 1938 è conosciuto, non solo negli ambienti accademici, ma anche al di fuori di essi per i successi dei testi da lui pubblicati come resoconti dei propri viaggi all’estero e precisamente in Africa[6]. L’antropologo rappresenta un punto di rottura con la precedente tradizione di studi antirazzisti mantegazziana caratterizzante l’essenza dell’Università di Firenze[7]; Cipriani infatti è a tutti gli effetti allineato con la logica razzista di regime e già nei suoi testi e articoli “scientifici” dimostra questa peculiarità; lo studioso fu fortemente convinto che la mescolanza e quindi il meticciato, portassero ad una inevitabile degenerazione razziale e che le popolazioni africane non rappresentassero uno stadio evolutivo primitivo ma che fossero i risultati di processi di regresso fisico e culturale dovuti all’unione di razze civilizzate con quelle inferiori. In realtà la crudezza di questo pensiero si palesa non tanto nella lettura dei testi e degli articoli prodotti dall’antropologo quanto dal corpus di fotografie da lui scattate durante i suoi viaggi, che lo ritraggono accanto a uomini, donne e bambini africani presentati come cavie. Il fondo fotografico è composto da oltre ventottomila negativi[8], tutti organizzati e selezionati dal Cipriani stesso, il quale utilizza con rigorosa precisione, delle didascalie esplicative che inducono ad una lettura sempre razzista della fotografia. I soggetti fotografati hanno infatti pose prestabilite che danno chiaramente indicazioni sul perchè essi debbano essere considerati come appartenenti ad una razza inferiore, ed espressioni costantemente timorose e rassegnate che testimoniano la violazione della loro libertà da parte dell’occhio indiscreto dell’antropologo (Fig. 1).

Donna di colore con bambinoMolte di queste foto che determinano il modus operandi dello studio sul campo di Cipriani sono infatti riprodotte, con nota alla fine di ogni articolo, su tutti gli scritti dell’antropologo pubblicati su «La Difesa della Razza». Le donne in particolar modo, vengono usate per diffondere la tesi di una degenerazione razziale insita nei popoli africani; concetto questo veicolato mettendo in rilievo negativamente la differente concezione della maternità africana rispetto a quella europea, o meglio italiana. Le madri africane, a parte rarissimi casi, sono ad esempio fotografate con i propri figli avvolti da un tessuto legato dietro la schiena, il pagne, e perciò criticate aspramente all’interno degli articoli come madri degeneri. Cipriani sa bene dove battere il colpo e sovverte così i valori tradizionali di maternità e famiglia per ribadire e ripetere ancora una volta l’idea di una troppo netta distanza tra “noi e loro”.

Le fotografie utilizzate dal periodico fanno quindi parte, per lo più, della collezione prodotta dallo stesso Lidio Cipriani che guarda le donne nere con gli occhi dello “studioso” indiscreto e le fotografa di conseguenza come delle povere cavie, nude e irrigidite. L’universo femminile nero, costituisce adesso una diversità, una alterità, rispetto alla popolazione italiana; esso è diverso per razza e per cultura, i loro usi e costumi non hanno  nessun punto di contatto con quelli dei colonizzatori. Le immagini utilizzate sono quindi efficaci e suggestive, vengono riprodotte spesso a tutta pagina e mostrano i volti eretti in posizioni innaturali, che con l’aiuto della luce e di posizioni artefatte riescono a risultare brutti e sgradevoli.

Le donne ricoprono un ruolo fondamentale all’interno delle pagine della Rivista poiché esse, come già accennato, diventano l’ago della bilancia con cui i collaboratori del periodico, legittimati da una cultura secolare di patriarcato e sessismo, possono giudicare attraverso i diversi universi femminili analizzati la moralità e quindi l’essenza, positiva o negativa, delle varie nazioni prese in esame. La maternità delle donne nere, in questo caso descritte dal lavoro del Cipriani, diventa il terreno più fertile su cui poter creare ad hoc il contrasto e l’alterità con l’universo femminile italiano. Un altro chiaro esempio della costruzione di un controtipo negativo di donna rispetto a quella italiana era stato quello di mostrare le indigene, nel rapporto con la propria prole, in azioni lontane, animalesche, rispetto al canone normativo vigente nella cultura europea. I figli vengono trasportati sulla schiena, quasi mai presi in braccio, e allattati allungando, almeno secondo i razzisti biologici, il seno della madre fino al bambino. Questi gesti andavano a creare, come abbiamo già avuto modo di vedere, una cesura netta con quell’universo normativo tradizionale e ormai integrato da secoli nella mentalità e nella storia della nazione italiana.

Anche i riti e le superstizioni propri della cultura indigena, diventano il simbolo di separazione netta tra noi e loro. Nell’articolo Riti eDonna bianca con bambino superstizioni dei popoli africani [9], vengono elencati tutti i casi in cui un bambino appena nato rischia la vita con «un nonnulla per effetto di superstizioni»[10]; ad esempio il neonato, nella cultura del Rhodesia, sarà ucciso, attraverso soffocamento o annegamento, se vagirà prima di essere completamente partorito; tutto questo per il bene della comunità, poiché la malasorte portatrice di malattie e sciagure si è già, in quel modo, manifestata alla nascita del piccolo. Le madri, sempre secondo Cipriani, non sono devastate da questo tipo di approccio, anzi esse «condannano i propri figli senza pensarci»[11] e continuano a perpetuare malsane usanze, sulla loro prole, come quella, vigente tra le tribù del Congo, di deformare «artificialmente la testa ai bambini dei due sessi onde assicurare loro una ricercata bellezza da adulti»[12]. Le immagini utilizzate, sono ancora più eloquenti quando vengono messe a confronto nel numero XI dell’anno 1940[13], due madri di “razza” diversa con dei piccoli in braccio: la donna africana è disturbata dal figlio che piangendo le avvicina la mano alla bocca, creando così in lei una smorfia che la rende poco gradevole alla vista, in più è a seno scoperto e decorata da gioielli tradizionali; al contrario la bella e bionda madre occidentale guarda invece verso il lettore sorridendo, con la testa appoggiata in modo premuroso su quella del figlio che stringe tra le braccia (Fig. 2).

Questa breve analisi chiarisce che anche uno studioso come Cipriani poteva inserirsi a pieno titolo, nonostante le sue smentite e autodifese durante i processi post 1945, nel gruppo degli intransigenti razzisti biologici; l’affermato antropologo infatti negò fin da subito l’accusa di essere, sebbene fosse presente il proprio nome, co-firmatario del decalogo e di conseguenza egli fu colpito solo superficialmente dalle leggi di epurazioni del secondo dopoguerra proseguendo indisturbato la sua carriera scientifica. Cipriani riuscì quindi anche a costruire un controtipo negativo di donna, in questo caso riguardante le donne africane, rispetto al contesto femminile italiano.

Gli esempi riportati nell’articolo cercano di indagare e di conseguenza illustrare al lettore come gli stereotipi sessisti e maschilisti riguardanti l’universo femminile italiano e non solo propagandati dalla rivista «La Difesa della razza» possano essere ancora oggi scovati e identificati nella nostra società di appartenenza, la quale vive nel mantenimento di quelle strutture culturali e normative ereditate e mai realmente modificate o eliminate dalla dittatura fascista e che hanno permesso ad un «fascismo eterno»[14] di influenzare e controllare ancora oggi la nostra società. Tutte le donne analizzate dal quotidiano anche se appartenenti a realtà o culture diverse da quella italiana si trasformano nei diversi numeri dei fascicoli in un universo rigido e monolitico poiché tutte, nessuna esclusa, vengono intese, concepite e qualificate esclusivamente dal loro ruolo/missione primaria che è quella di diventare prima delle buone ed esemplari mogli e poi delle brave madri capaci per natura di mantenere la stabilità familiare con il loro stoicismo e con il loro amore. Il luogo comune riguardante la prova del sacrificio e del dolore, due elementi biologicamente caratterizzanti tutte le donne, ancora oggi vive e prospera nel nostro immaginario collettivo; «La Difesa della razza» marcia su questo stereotipo utilizzandolo come giustificazione, come espediente alla reclusione forzata a cui costringe le proprie donne nella sfera domestica. La casa è l’ambiente naturale dell’universo femminile dove esso si realizza e dove più si sente a suo agio. Tutte quelle donne appartenenti invece a nazioni nemiche o estranee alla cultura della penisola italiana andranno a rispecchiare e diventare un controtipo negativo di femminilità saranno descritte e così concepite da «La Difesa della razza» come delle cattive mogli e delle madri degenerate.

Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea magistrale in storia contemporanea intitolata Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza»: un’analisi intersezionale di genere, discussa dall’A. nell’a.a. 2020/2021 presso l’Università di Pisa.

Note:
[1] Segretario di redazione della «Difesa della razza» fu Giorgio Almirante, nel secondo dopoguerra leader del MSI.
[2] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 37.
[3] Cfr. F. Cassata, La Difesa della Razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 2008.
[4] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, p. 178.
[5] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Bologna, Grafis, 1994, p. 91.
[6] Aveva pubblicato nel 1936 il libro dal titolo Un assurdo etnico: l’impero Etiopico, Firenze, R. Bemporad & F.o., 1936.
[7] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, p. 92.
[8] Ivi, p. 93.
[9] L. Cipriani, Riti e superstizioni dei popoli africani, in «La Difesa della razza», 20 marzo 1941, pp. 18-21. Testo nella sezione FONTI.
[10] Ivi, p. 18.
[11] Ivi, p. 20.
[12] Ibid.
[13] «La Difesa della razza», 5 aprile 1940, pp. 24-25.
[14] Cfr. U. Eco, Il fascismo eterno, Milano, La nave di Teseo, 2017.




Vittorio e gli altr*: storie di guerra, di scelte e di lotta in terra di Siena

Per il comunista Vittorio Bardini, noto al regime fascista fin dalla seconda metà degli anni Venti per la sua attività “sovversiva”, condannato al carcere e al confino, emigrato in Unione sovietica, combattente come volontario a difesa della Repubblica nella guerra civile spagnola, la scelta della Resistenza dopo l’8 settembre del ’43 è una strada segnata, la tappa decisiva di una lunga sfida, che lo sottopone ancora a prove estreme come la detenzione nel lager di Mauthausen, ma che lo porta nel 1946 a Montecitorio, eletto all’Assemblea costituente, “padre” della nuova Italia, anche in nome dei compagni caduti nella lotta, come Aldo Borri che negli anni Trenta aveva rinunciato al lavoro di insegnante piuttosto che iscriversi al partito fascista e che dopo l’8 settembre era diventato membro del Comitato militare clandestino senese, ma che era morto in conseguenza del primo bombardamento alleato sulla città, il 23 gennaio 1944.
Così era stato per gli “antifascisti storici” (p. 77), quelli che avevano fronteggiato il regime negli anni dell’Italia in camicia nera e che, dopo l’armistizio, non indugiano nella scelta della lotta armata, come ad esempio Giovanni Guastalli, commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini. Non solo uomini, è lo stesso per Norma Soldi e Alva Bucci che di quella brigata si definiscono “staffette di vigilanza”, sempre attente a riferire ogni mossa di tedeschi e fascisti. Accanto alle convinzioni ideologiche che guidano i comunisti, vi sono anche altri percorsi.
Per il giovane Vittorio Meoni è l’ambiente dell’Azione cattolico che lo spinge a posizioni sempre più critiche con il fascismo negli anni della guerra, fino all’avvicinamento al comunismo e alla scelta partigiana. Mentre non mancano ufficiali che, fedeli al giuramento al re, organizzano gruppi armati, come il colonnello Adalberto Croci, comandante del Raggruppamento Monte Amiata.
E poi vi sono coloro che, senza impugnare le armi e più per adesione ai valori umani che per consapevolezza politica fronteggiano la guerra e l’occupazione nazi-fascista boicottandone le direttive e proteggendone i “perseguitati”: dai propri figli richiamati alla leva fascista a perfetti sconosciuti, ma riconosciuti sempre come uomini (ebrei, disertori, ex prigionieri di guerra..), fino agli stessi partigiani. Fra questi spiccano figure di sacerdoti e religiosi, come il francescano Quirino Bulletti che aveva fatto nascondere ai partigiani le armi nel cimitero della confraternita della Misericordia di cui era cappellano, subendo poi l’arresto da parte dei fascisti o come i padri del Monastero di Monte Oliveto impegnati a nascondere gli ebrei e quindi a ricercare rifugi più sicuri rispetto alla loro stessa residenza. Ma fra i resistenti vi sono anche gli ufficiali e i soldati, ben 1328, che per essersi rifiutati di combattere con i nazisti e fascisti sono trasferiti nei campi di prigionia nel Reich, privati dello status di prigionieri – con le relative tutele, ridotti a “schiavi” a servizio dell’economia nazista, come Martino Bardotti ufficiale di Poggibonsi, reso fermo nella difficile scelta dalla formazione ricevuta in Azione cattolica.

CopertinaQuesti sono solo alcune delle figure che aprono – o che animano – i capitoli della nuova Storia della Resistenza senese pubblicata dall’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea: un volume importante e “ambizioso”, come ricorda Nicola Labanca nel suo saggio introduttivo non solo perché presenta una sintesi compiuta ed al tempo stesso agile, a molti anni dal precedente volume di Tamara Gasparri (allora, nel 1976, innovativo ed approfondito) e alla luce dei successivi sviluppi della storiografia, ma anche per il metodo adottato.

Il libro è infatti prodotto dal “gruppo di lavoro” dell’Istituto senese, composto non solo da generazioni, ma anche da professionalità diverse. Un lavoro in comune che deve aver comportato un complesso, ma certamente arricchente, processo di scambio e confronto, arricchito dall’apporto di competenze diverse, quali quelle dell’antropologia, visibili in particolare nelle pagine sul mondo mezzadrile, ma ben amalgamate lungo tutto il volume. Le diverse sensibilità infatti, probabilmente per la consuetudine ad un lavoro comune consolidatasi nel tempo, hanno infatti prodotto un testo omogeneo, scorrevole, intenso, dove le singole individualità degli autori possono apparire fra le righe, ma senza disorganicità. Il testo è stato indubbiamente possibile per il vasto impegno svolto fin dalla sua fondazione dall’Istituto per la promozione della conoscenza storica di quegli anni così complessi, alla luce delle nuove domande e sfide poste dalla storiografia dagli anni Novanta, a partire dalle fondamentali questioni poste da Claudio Pavone, fino alle preziose banche dati sulle azioni della Resistenza e sulla nuova classe dirigente post-Liberazione realizzate o in via di elaborazione. Ma nella sua efficace configurazione è certo frutto delle scelte del “gruppo di lavoro”, probabilmente consolidate dalla positiva esperienza vissuta nel 2019 all’interno del progetto “Pillole di Resistenza”, la serie di video-documentari sulla Resistenza Toscana, realizzata dallo Studio RUMI, coordinata dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea, insieme a tutti gli istituti provinciali, grazie al sostegno della Regione Toscana.

Il libro è, infatti, articolato, come rileva Nicola Labanca “per temi, classici in questo tipo di studi, intrecciati ad un certo filo cronologico” (p. 12) che consentono di toccare tutte le questioni principali, a partire da profili biografici “esemplari” che le introducono. Nello scorrere delle pagine, ai volti di uomini e donne, colti nella loro complessa umanità, si succede così la narrazione dei fatti essenziali e l’individuazione dei nodi essenziali della riflessione storica: il rapporto della Resistenza con le precedenti generazioni dell’antifascismo e con la stagione della violenza politica avviata dallo squadrismo fascista nel primo dopoguerra, lo spaesamento delle istituzioni e delle persone nella convulsa estate del 1943, il tema essenziale delle scelte dopo l’8 settembre, del collaborazionismo fascista a servizio dell’occupazione nazista e delle sue dinamiche di sfruttamento del territorio e della popolazione (delineato con cura anche per “decostruire” la falsa narrazione diffusasi nella memoria locale sulla natura “blanda” dell’ultimo fascismo senese), delle forme molteplici della Resistenza a partire dalla dimensione della lotta partigiana cui viene data una dovuta centralità, senza per questo dimenticare le altre forme di Resistenza, cui viene dedicato il capitolo ottavo e dando un giusto rilievo alla presenza e al ruolo delle donne (gravemente segnate dalle violenze di guerra, basti solo pensare ai numerosi stupri ad opera delle truppe marocchine del Corpo di spedizione francese), il ruolo dei Comitati di liberazione nazionale, la complessa stagione stretta fra la liberazione del territorio e l’attesa della conclusione del conflitto in Italia.
Menzione specifica merita il settimo capitolo dedicato al mondo della campagna, travolto dal conflitto totale, per la rilevanza della mezzadria e in generale della dimensione rurale nella realtà sociale della provincia senese, ma anche per la comprensione della mentalità e della cultura della maggioranza della popolazione, così da comprendere meglio l’impatto avuto dal conflitto. L’analisi delle scelte dei contadini nel contesto dell’occupazione e di fronte al movimento partigiano evidenzia, infatti, tutta la complessità della vicenda storica, al di là di facili ed illusori schematismi che hanno animato annosi dibattiti e polemiche e aiuta a cogliere il carattere dirompente che l’impatto del conflitto ha su quella classe sociale, segnandone mentalità, scelte, comportamenti ben oltre l’esaurirsi dell’evento bellico. Ma opportuno e significativo è anche il terzo capitolo che tratteggiando l’impatto della “guerra totale” sul territorio senese e sulla popolazione, a partire dalle conseguenze degli attacchi aerei anche a fronte della sostanziale assenza di “qualsiasi struttura difensiva a tutela della popolazione e del ricco patrimonio storico-artistico” (p. 55), contestualizza bene il vario formarsi delle resistenze nel processo di disgregazione del rapporto fra italiani e regime favorito dal conflitto.

IMG_4134La dimensione del volume (oltre 270 pp.) significativa, ma “ridotta” in relazione alla complessità delle questioni trattate ne evidenzia il carattere “coraggioso” di sintesi che quindi inevitabilmente può scontare l’opportunità di alcune scelte o la minor trattazione di alcuni temi o aspetti (come ad esempio quelli dell’avvio del processo di ricostruzione e della formazione della nuova classe dirigente in un difficile rapporto con i comandi alleati, tratteggiati nell’ultimo capitolo), ma che ha in ciò il suo merito. A fronte di tanti contributi specialistici che indagano nei dettagli singoli aspetti, ciò che spesso manca (anche a livello di sintesi regionale) è un contributo che possa richiamare l’integrità del quadro senza “spaventare” il potenziale lettore per il numero eccessivo di pagine, ma piuttosto stimolandolo a proseguire un cammino di conoscenza grazie ad un apparato di note puntuali, ma non invasivo e pletorico.

Infatti, in conclusione, ritengo che il merito principale del volume sia quello di rivolgersi a tutti. L’assenza di retorica e soprattutto le scelte narrative accattivanti, la capacità di evidenziare i nodi più interessanti per la realtà locale ma anche in una chiave nazionale, lo stile e il linguaggio adottati, lo rendono “piacevolmente” leggibile per un pubblico vasto di interessati e non (solo) di specialisti (oltre che adatto per un sistematico uso didattico) in una stagione che, privata dai testimoni diretti, deve vedere proprio nel ritorno alla conoscenza storica la strada principale per rendere patrimonio comune della cittadinanza questi snodi essenziali della nostra storia comune. Direzione nella quale, con questa pubblicazione, l’Istituto di Siena aiuta tutti a fare un passo importante.




Maria Luigia Guaita

Presentando la prima edizione de La guerra finisce la guerra continua Ferruccio Parri, il capo-partigiano “Maurizio” poi, nel giugno 1945, Presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ricorda Maria Luigia Guaita come «una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose» che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, una «donna della Resistenza» fidata, coraggiosa e capace.

Nata a Pisa l’11 agosto 1912 Maria Luigia Guaita trascorre l’infanzia a Torino per poi raggiungere Firenze nel 1926. Qui, grazie al fratello Giovanni, allora giovane studente, inizia a frequentare gli ambienti dell’antifascismo di estrazione liberalsocialista entrando in consuetudine con personaggi come Nello Traquandi, già tra gli animatori del periodico clandestino «Non mollare» e del Circolo di cultura politica di Borgo S. Apostoli, ed Enzo Enriques Agnoletti, uno dei principali esponenti dell’azionismo fiorentino durante la Resistenza.

Avvicinatasi al Partito d’Azione (PdA) la giovane Maria Luigia ne cura l’organizzazione dell’attività clandestina sfruttando, in un primo tempo, quel contatto giornaliero col pubblico – e, quindi, con altri antifascisti – consentitole dalle mansioni di impiegata di sportello presso una filiale fiorentina della Banca Nazionale del Lavoro. Durante la lotta di Liberazione, poi, opera come staffetta, contribuisce alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito.
Agli ordini del Comando militare azionista si adopera, inoltre, per il collegamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese garantendo un servizio – rileva Carlo Francovich – «particolarmente delicato e pericoloso», ma di fondamentale importanza ai fini dell’organizzazione tattico-strategica della lotta di resistenza e generalmente svolto «da giovani donne, la cui audacia era talvolta temeraria»: tra queste, oltre alla Guaita, si ricordano Orsola Biasutti, Anna Maria Enriques Agnoletti, Gilda Larocca, Adina Tenca, Andreina Morandi. Quest’ultima – sorella di Luigi Morandi, il radiotelegrafista del gruppo Co.Ra ferito a morte il 7 giugno 1944 durante l’irruzione dei tedeschi nell’appartamento in Piazza d’Azeglio, ultima sede della radio clandestina azionista –, nei mesi dell’occupazione germanica collabora con la Guaita e, anni dopo, ne ricorda mediante un curioso aneddoto la versatilità e l’instancabilità operativa: «[Maria Luigia Guaita] Non disdegnava nessun tipo di impegno; sapeva trasformarsi anche in vivandiera, come quando riuscì ad ottenere dal proprietario del famoso ristorante Sabatini due sporte piene di conigli, destinati (e purtroppo non arrivati per una serie di contrattempi) alla formazione di Lanciotto Ballerini, che operava dalle parti di Monte Morello» e, nel gennaio 1944, resterà ucciso nella battaglia di Valibona.
Nel quadro più ampio dell’impegno antifascista di Maria Luigia Guaita assume particolare rilievo l’attività di falsificazione di documenti, permessi e timbri in soccorso a partigiani e perseguitati politici alla quale viene iniziata da Tristano Codignola, uno dei più brillanti e capaci dirigenti azionisti: «Con Pippo [Codignola] – ricorda – sarebbe stato duro lavorare, pensavo, ma avrebbe capito e Pippo capì sempre la buona volontà di tutti noi. Ricercato dalla polizia, braccato dalle SS, riuscì a creare insieme a Rita [Fasolo] e a Nello [Traquandi] tutta l’organizzazione politica del partito. Attivo, infaticabile, riempiva le lacune, colmava i vuoti imprevedibili – e di giorno in giorno, d’ora in ora – sfuggiva alla cattura».
L’efficacia del servizio ricorre, altresì, nelle parole lette dallo stesso Codignola all’Assemblea regionale del PdA, tenutasi a Firenze nel febbraio 1945, con le quali rileva come, sotto la solerte guida di Traquandi, esso sia divenuto nel tempo «un magnifico strumento di resistenza, fornendo falsificazioni di ogni natura, tessere, fotografie, timbri, carte annonarie e via dicendo»: Maria Luigia, senza esitare nel mettere a disposizione la propria abitazione fiorentina di via Giovanni Caselli 4, coordina con perizia l’apprestamento e la distribuzione dei documenti falsi permettendo a tale attività di raggiungere un notevole grado di perfezione. Dopo la Liberazione, a riconoscimento dell’impegno resistenziale il Ministero della Guerra le riconosce la qualifica di partigiano afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”-Servizio Informazioni per il periodo compreso tra il 9 settembre 1943 e il 7 settembre 1944.

La primavera del 1945 segna l’avvio della rinascita democratica dell’Italia alla quale le donne, conquistato il diritto al voto, contribuiscono in prima persona. In Assemblea Costituente, ne sono elette 21: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste – tra le quali la toscana Bianca Bianchi – e una proveniente dalle file dell’Uomo qualunque. In Toscana nessuna delle candidate nelle liste del PdA – Olga Monsani, Margherita Fasolo, Eleonora Turziani – ottiene i voti necessari per l’elezione. Maria Luigia Guaita è tra quanti, nei primi anni di vita della giovane Repubblica, confidano nel disegno politico azionista e nel progetto di rinnovamento palingenetico delle strutture dello Stato e della società italiani. Tali aspettative non trovano, però, concretezza e nelle parole da lei consegnate al proprio libro di memorie emergono con forza la delusione per la fine prematura del PdA e l’amara percezione del progressivo appannamento dei valori e delle speranze che hanno animato le donne e gli uomini della Resistenza: «Se devo necessariamente adoperare le parole che esprimono i concetti di libertà e di giustizia, – scrive – ho un attimo di esitazione, spesso ricorro a una perifrasi. “Giustizia e Libertà” mi ha cantato troppo nel cuore, per tutti gli anni della lotta clandestina. Allora mi sforzavo soltanto di essere disciplinata, ma sempre con un sottile struggimento di non fare abbastanza, anche per le perdite dolorose di tanti compagni, i migliori; e ognuno di loro si portava via una parte di me. Venne la liberazione; affascinata da questa parola sperai nell’affermarsi delle forze socialiste. Poi le giornate di Roma, il congresso al Teatro Italia. Ricordo Ragghianti, che tratteneva Parri per la giacchetta, il volto duro e caparbio di Carlo, quello tagliente e tirato di Pippo, la dialettica di La Malfa: il crollo del Partito d’Azione. Pensavo che il sacrificio di tanti compagni (e così di nuovo mi bruciava nel cuore il dolore per la loro morte) sarebbe stato sufficiente a disciplinare le forze, attutire gli screzi, frenare le ambizioni». Ciò, come noto, non avverrà e il PdA si scioglierà nel 1947.

All’assenza dalla vita politica partecipata corrisponde un intenso impegno della Guaita in attività di natura culturale e imprenditoriale. Donna emancipata da sempre legata al mondo intellettuale non solo fiorentino, ella contribuisce a fondare e animare le Edizioni “U” di Dino Gentili cui si devono, grazie all’opera editoriale di Enrico Vallecchi, la pubblicazione di numerosi volumi proibiti sotto la dittatura fascista. Maria Luigia Guaita collabora, inoltre, con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fa parte dell’Associazione Liberi Partigiani Italia Centrale (A.L.P.I.C.) e, nel 1957, dà alle stampe quel libro di memorie che Roberto Battaglia ha paragonato al Diario partigiano di Ada Gobetti definendolo «una spregiudicata narrazione delle vicende d’una staffetta partigiana che si muove o corre dalla città alla montagna e viceversa», nel quale l’autrice «insieme ai toni scanzonati del bozzetto, sa trovare, specie nelle ultime pagine del libro, quelli tragici ed ardui dell’epica partigiana, allorché descrive l’impiccagione di italiani e sovietici a Figline di Prato».
Degno di rilievo si rivela, infine, l’impegno della Guaita nel campo dell’imprenditoria tessile nella Prato della ricostruzione nonché, sul finire degli anni Cinquanta, la fondazione a Firenze della Stamperia d’arte «Il Bisonte», cui segue l’apertura sulle rive dell’Arno di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Nel 1981, a riconoscimento di questo importante impegno imprenditoriale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di Commendatore.
Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007, all’età di 95 anni. Con lei, dirà il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, «scompare una delle personalità più rappresentative della nostra città»: una donna della Resistenza e un’indiscussa protagonista della vita imprenditoriale in Toscana, in Italia e all’estero.

Mirco Bianchi, dottore in Storia contemporanea, è responsabile dell’Archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Nato a Pescia nel 1901, Zamponi si era distinto dopo la Grande Guerra come attivo propagandista tra la Lucchesia e la Valdinievole: fu qui che, con ogni probabilità, conobbe la futura moglie. Dopo l’adesione al PCd’I seguì un peregrinare tra Pescia e Asti, prima di tornare a Monsummano, reduce da due importanti esperienze a Torino (dove collaborò all’Ordine Nuovo) e a Milano (esponente del Comitato sindacale nazionale comunista). In Valdinievole, tuttavia, la situazione iniziava a farsi sempre più complessa: la cultura contadina aveva fornito alla politica fascista ampi spazi di movimento, guardando con sospetto ai primi processi di sviluppo industriale e promuovendo istanze di economia morale legate alle forme di sussistenza garantite dai ceti localmente dominanti. Il 30 marzo 1921, una spedizione di camice nere a Monsummano aveva imposto ai carabinieri il rilascio di tre fascisti in arresto. In aprile si registrò invece un nuovo tentativo di aggressione ai danni di due cittadini, mentre il 22 luglio dello stesso anno una trentina di squadristi partirono dalla città termale per distruggere il circolo socialista di Pieve a Nievole. Il culmine della tensione fu poi raggiunto a novembre, quando il deputato socialista Lorenzo Ventavoli venne aggredito nella sua abitazione da quattro carabinieri che avrebbero dovuto garantirne la sicurezza15. Braccato dalla polizia fascista e senza lavoro, alla fine del 1922 Zamponi decise così di emigrare a Marsiglia, soluzione comune a molti antifascisti per sfuggire al crescendo di arresti e proseguire il proprio impegno politico: cinque mesi dopo, sulla costa francese, fu raggiunto dalla compagna.

Da quel momento, la Faldi iniziò ad essere seguita. Venne interrogato il padre, anziano e ritenuto poco pericoloso per «non essersi mai allontanato da Monsummano». Date le difficoltà nel rintracciare gli spostamenti della coppia, il 4 ottobre 1925 la polizia arrivò persino a fare irruzione nella casa di famiglia e a perquisire ogni stanza. Dopo aver trovato supporto nella rete del Soccorso Rosso, Zamponi (con il falso nome di Luciano Fabbri) si era intanto iscritto alla sezione del Partito comunista francese di Rue Sambre et Meuse e aveva proseguito la sua attività politica nei circoli parigini legati al fuoriuscitismo italiano: i suoi spostamenti proseguirono ininterrottamente, soprattutto dopo l’iscrizione alla Confédération générale du travail. Nel frattempo Giulia era rientrata in Italia per alcuni mesi (il 3 aprile 1927) e, una volta ottenuto il passaporto per l’America del Sud, aveva segretamente fatto rotta verso Parigi. Nella capitale la Faldi ritrovò il marito – segretario regionale a Nancy – e ne affiancò l’attività politica, anche dopo le forti tensioni che quest’ultimo ebbe con il partito, scambiato per una potenziale spia nel corso del 1926-1927: stando ad un rapporto del Regio console d’Italia a Nizza, ella era ritenuta «anche in Francia una pericolosa propagandista comunista, capace di organizzare riunioni per i nostri connazionali e di coadiuvare lo Zamponi nelle sue funzioni di segretario regionale dei gruppi italiani di lavoro».

Abili nel muoversi all’interno della rete antifascista, i due continuarono ad eludere la sorveglianza. Dopo una segnalazione – giustificata con motivi occupazionali – nella zona mineraria tra il Belgio (con passaggi documentati a Bruxelles e Marchienne-au-Pont) e il Lussemburgo, sulla scia di ulteriori avvistamenti la polizia fascista tentò di agganciare contatti con le ambasciate di Berlino (28 gennaio 1928), Lione e Ginevra, ma sempre senza successo: come recitava una velina firmata il 14 giugno 1929 dal prefetto di Pistoia, Mauro Di Sanza, «malgrado le diligenti indagini esperite con il massimo impegno, non [era] stato possibile accertare il comportamento politico dei coniugi Zamponi, né il loro preciso recapito». Con ogni probabilità, la coppia – che nel frattempo aveva avuto un figlio, Bruno – si trovò a vivere separata per un lungo periodo. Dopo l’arresto di Zamponi nel ristorante parigino del comunista Lazzaro Raffuzzi (1928) e la successiva fuga, peraltro, la casa della Faldi venne nuovamente perquisita dall’arma di Monsummano. Ciononostante, malgrado dalla scoperta di una lettera clandestina fosse emersa l’esistenza di un punto di appoggio a Villerubane-Lione a nome di Antonietta Radeschi (forse pseudonimo della stessa Faldi), per il regime fu ancora una volta complesso intercettare una rete di spostamenti sempre più fitta. L’ipotesi di una residenza a Ginevra, ad esempio, venne presto scartata nel timore che la Faldi avesse deciso di indirizzare le proprie corrispondenze in Svizzera per poi farle ritirare da una persona di fiducia; cadde nel vuoto anche la soffiata di una sosta a Berlino, constatato – il 16 giugno 1931 – che in città «non erano mai stati presenti Zamboni (o Zambon) di nome Fulvio» e che «la Faldi Giulia non [era] stata rintracciata né conosciuta presso il locale presidio di Polizia Ufficio Anagrafe».

Ad ogni modo, le problematiche della latitanza cominciavano a farsi sentire. Pressati dalla polizia fascista e segnati da una situazione occupazionale resa ancora più gravosa dell’onda lunga della crisi economica del 1929, dopo una nuova tappa a Parigi i due coniugi decisero così di presentarsi al consolato di Lione per chiedere il rimpatrio (12 settembre 1933). Nelle settimane successive, Zamboni – che dopo il fermo si era mosso sotto un’altra falsa identità, quella di Piovani – fu munito di certificato di nazionalità, mentre la prefettura di Pistoia chiese di mutare lo status della Faldi da «comunista da fermare» in «comunista da perquisire e segnalare». Ciò che i funzionari fascisti non avevano capito, in realtà, era che quella soluzione costituiva solo un nuovo tentativo di depistaggio. Alla frontiera, infatti, i due si erano improvvisamente separati: rientrata in Italia dal valico di Bardonecchia e subito fermata, la Faldi provò a convincere la polizia che il marito non si era dato alla fuga, ma che, dopo averla accompagnata alla frontiera, si era recato a Ginevra da un amico – il pisano Filippo Falaschi – che si era offerto di trovargli un lavoro. Una versione supportata anche dalla nota rilasciata il 22 novembre 1933 alla questura di Bologna dall’ispettore generale di Pubblica Sicurezza, il commendator D’Andrea:

Con riferimento alla nota a margine, ho il pregio di comunicare all’E.V. quanto mi riferisce in proposito il Commissario Capo Cav. Aloisio dirigente la sotto-zona di Firenze: “Il sovversivo in oggetto [Zamponi] non risulta sia rientrato nel Regno. Ha rimpatriato invece il 14 settembre u.s. dal valico di Bardonecchia proveniente dal Belgio la moglie Faldi Giulia, la quale ha dichiarato che il marito l’ha accompagnata fino a Lione da dove si sarebbe recato a Ginevra presso un suo amico, certo Foloschi Filippo da Pisa, che gli avrebbe trovato colà del lavoro. Successivamente, e, cioè, il 28 ottobre decorso, lo Zamponi inviava da Lione un telegramma alla moglie chiedendo sua notizie e il 5 novembre le scriveva dandole il seguente indirizzo: Rita Gambotto, Rue Roposte 16 Lione. Comunico, infine che il nome dello Zamponi figura nel noto elenco degli espulsi del P.C. sequestrato all’emissario Fontana Angelo.16

Eppure, il 19 dicembre dello stesso anno Zamponi fu arrestato a Ventimiglia e ricondotto a Pistoia. Interrogato a lungo, riuscì a convincere il questore di non voler «esplicare in nessun modo attività politica contraria al regime», fornendo alle autorità solo le informazioni meno compromettenti. Il 10 aprile 1938, poche settimane prima della visita di Adolf Hitler a Roma, sia Zamponi che la Faldi vennero comunque inseriti nell’elenco delle «persone che, pur non ritenendosi opportuno comprendere tra quelle da arrestarsi in determinate contingenze», si riteneva potessero «costituire un pericolo in occasione del viaggio del Führer in Italia».

Da lì in poi, su quella donna di «statura media, pallida, con capelli castani folti, corporatura piccola, fronte alta, viso lungo, occhi castani e naso rettilineo» e sul marito cadde il silenzio. Sappiamo però che, dopo l’8 settembre 1943, quest’ultimo riallacciò i contatti con il partito e che, assieme alla moglie, prese parte all’attività del Cln. Non a caso, il 9 settembre 1944 venne eletto dallo stesso organo sindaco di Monsummano, partecipando alla rinascita democratica della vita provinciale con il ruolo di segretario della Federazione pistoiese del Pci: nel 1946, dopo le dimissioni di Pieruccioni, le sue capacità dirigenziali gli valsero inoltre una chiamata alla guida di una delle federazioni comuniste più deboli della Toscana, quella lucchese, prima di essere eletto deputato nelle fila “togliattiane” dal 1953 al 1958.

In tutto questo, Giulia Faldi non giocò mai il mero ruolo di spalla attribuitole dal fascismo. La sua biografia, capace di intrecciare gran parte dei nodi storiografici accennati nell’introduzione di questa breve disamina, mostra a tutti gli effetti le forme e le istanze di un impegno diretto che – nelle pieghe dell’antifascismo storico – vide protagonista un numero di donne ben superiore rispetto a quello estraibile dal Cpc. Quello della Faldi fu un percorso segnato da un forte impeto politico e ideologico, costruito attraverso le fitte trame della rete antifascista europea e caratterizzato da una contrapposizione costante e solidaristica al regime.

Una storia che, passando da un’analisi ermeneutica della carte del CPC, riesce a  fornire uno sguardo più dettagliato sui processi politici e sociali – collettivi, individuali e di genere – che animarono la provincia di Pistoia nella prima metà del Novecento, oltre a creare nuovi margini di dialogo tra la dimensione locale dell’antifascismo e quella internazionale.

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.




Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Le carte del Casellario Politico Centrale rappresentano una fonte imprescindibile per lo studio delle norme e delle modalità fasciste di sorveglianza politica. Inaugurato in piena età crispina con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, l’allora Servizio Schedario nacque come strumento di controllo e di repressione del sovversivismo anarchico e socialista. Un’istituzione coercitiva che, con l’avvento del regime, si avvalse di un inquadramento sempre più rigido e strutturato, passando da mero archivio ad ufficio autonomo sotto le dipendenze della I sezione della Divisione affari generali e riservati della P.S. Come recentemente osservato da Gianluca Fulvetti, fu durante la fase di costruzione dello “stato totalitario” che «questo sistema venne integrato dal fascismo con gli strumenti repressivi previsti dalla sua legislazione eccezionale»1; di conseguenza – riprendendo le parole di Andrea Ventura – ai «rapporti prettamente descrittivi delle prime segnalazioni si aggiunsero delle informative standardizzate e un sistema di controllo periodico capace di abbracciare l’intera vita del sorvegliato e di arrivare […] in ogni angolo del pianeta»2.

Dal punto di vista della ricerca, tuttavia, l’esame della dimensione repressiva costituisce solo una faccia della medaglia. Un’importanza analoga, se non superiore, è relegabile a due campi d’indagine distinti ma convergenti: quello degli antifascismi e quello degli antifascisti. Certo, sarebbe impossibile riassumere in poche righe un dibattito storiografico complesso e di lunga durata. Ciononostante, nel tentativo di ricostruire le molteplici forme di opposizione al regime, è doveroso sottolineare quanto e come una lettura critica dei fascicoli del CPC (che si chiudono con il 1943) possa consegnare agli studiosi importanti indicazioni al riguardo. In questa sede ne evidenzierò due, le più significative al fine di problematizzare la vicenda posta al centro della disamina.

Anzitutto, l’importanza della relazione tra spazio (inteso come spazio di controllo politico) e luogo (inteso come perimetro geografico)3. Negli ultimi anni è stata sottolineata la necessità di un confronto più attento fra la dimensione locale del fascismo e quella del regime a livello nazionale4. Un’indicazione volta a comprendere meglio le vicendevoli influenze tra centro e periferia, analizzando in chiave bilaterale l’eterogeneità delle dinamiche provinciali e le specificità del controllo sociale. Le carte del CPC, da questo punto di vista, assumono le vesti di un duplice osservatorio privilegiato: da un lato, se integrate con i fascicoli delle questure locali o con gli interrogatori, le sentenze e i rapporti provenienti dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e dai tribunali penali, possono aiutare a scavare nelle continuità e nelle rotture dei fascismi locali5; dall’altro, attraverso le inedite angolature socio-economiche, politiche e conflittuali rinvenibili dalla documentazione, forniscono un mezzo rilevante per esaminare da vicino gli sviluppi territoriali – non sempre omogenei – dell’antifascismo.

Si colloca qui la seconda linea di ricerca, quella relativa agli antifascisti. Un universo complesso nel quale i fascicoli del CPC divengono una bussola in grado di svelare, oltreché il «profilo e la mentalità delle istituzioni e dei dipendenti pubblici preposti alla sorveglianza e alla repressione del dissenso, […] le voci dirette, e dal basso»6  del sovversivismo. Certo, non si può attribuire alle carte una completezza che, in alcuni casi, si smarrì nella fitta rete intrecciata dalle sacche d’opposizione. È comunque possibile cogliervi la trasversalità dell’antifascismo, le differenze tra «antifascismo popolare» e «antifascismo politico», le traiettorie e le forme del fuoriuscitismo antifascista e occupazionale (soprattutto verso la Francia e il Belgio, ma anche verso il Sud America e i richiami della Guerra civile spagnola), fino a ricostruire vicende talvolta lacunose e incomplete, ma in grado di fornire preziosi dettagli sui percorsi di uomini e donne sovente destinati a giocare un ruolo di primo piano anche nella Resistenza e nella costruzione dell’edificio repubblicano7.

Nelle pieghe di un sistema capillare e sterminato, però, a risaltare è soprattutto la latenza (per diversi motivi) di due corpi socio-politici: quello degli antifascisti cattolici e quello delle antifasciste8. Ci concentreremo qui sul secondo aspetto, inerente alle donne marginalizzate dalle attenzioni poliziesche e relegate dal regime al ruolo di «angeli del focolare domestico». Scendendo repentinamente nel contesto pistoiese, nel database del CPC ne troviamo infatti sole 45 su un totale di 1.468 schedati9. Tra queste, c’è Giulia Faldi. Nata a Monsummano10  il 30 luglio 1899 dal padre Giulio e da Guglielma Bartoletti, fin dall’adolescenza si trovò a vivere una realtà animata da forti tensioni conflittuali. Nella cornice di un’area segnata dalla piccola proprietà terriera, dove a poderi parcellizzati e spesso concessi a mezzadria si sommavano fattorie di piccole-medie dimensioni (non di rado di proprietà nobiliare) collocate nella zona tra Tizzana e Monsummano11, prese parte attiva alle manifestazioni organizzate dal movimento socialista bracciantile. A confermalo era un’accurata relazione rilasciata il 28 ottobre 1926 dalla prefettura di Lucca, nella quale la Faldi – attraverso un lessico fortemente ideologizzato – veniva definita una «attiva comunista»:

La predetta è cresciuta in una famiglia di sovversivi. Il padre fu per vari anni acceso socialista e tuttora professa false idee. Il fratello è tuttora un sovversivo irriducibile per cui la Faldi Giulia sin da giovinetta si dette al sovversivismo. Essa organizzò e presiedette comizi e riunioni; benché abbia poca cultura (avendo frequentato solo la scuola elementare) è abbastanza intelligenze e loquace, ed è stata una assidua propagandista specie nelle campagne fra le masse di contadini. In ogni agitazione e manifestazione sovversiva che veniva organizzata in paese essa era sempre presente e fra le persone più accese. Non risulta sia stata mai arrestata o denunciata all’autorità giudiziaria, però è stata più volte richiamata al dovere dai vari comandanti della stazione di Monsummano e da funzionari […] dell’ordine pubblico. Dopo l’avvento del fascismo fu costretta a troncare la sua propaganda sovversiva e a rimanere in casa molto riservata12.

Nelle carte del CPC, tuttavia, non c’è traccia del padre. Si trovano invece pochissime informazioni sul fratello Gino, muratore di undici anni più grande. Esponente di zona e militante «nella parte estremista del partito socialista», egli prese «parte attiva a tutte le manifestazioni sovversive del secondo dopoguerra» quando fu «candidato al Consiglio comunale e provinciale».

Denunciato nel 1921 e poi prosciolto in Camera di consiglio dalle accuse di tentato omicidio, bancarotta fraudolenta e «apologia di reato e di delitto contro i poteri dello Stato per professe idee comuniste», con l’avvento del fascismo fu sottoposto ad un controllo sempre meno stringente, frutto di un «contegno riservato» e di rari richiami13. Un trattamento ben diverso rispetto a quello riservato alla sorella, assieme alla quale – in seguito alla scissione di Livorno del 21 gennaio 1921 – aveva aderito al Partito comunista d’Italia. Il motivo non era da ricercare solo nella febbrile attività politica della Faldi, ma piuttosto in una delle poche circostanze ritenute inderogabili dal regime per sorvegliare una donna: il suo legame affettivo con un antifascista di spicco. Non era un caso che, nonostante i precedenti, la prima segnalazione su Giulia Faldi fosse arrivata solo nel 1923, indicata come «assidua propagandista […] fra le donne» . E non era un caso che il vasto fascicolo a lei riservato riportasse spesso informazioni sul marito: il comunista Fulvio Zamponi14.

 

[continua]

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.




“Pillole di Resistenza”. Un progetto video di divulgazione storica per il 75° anniversario della Liberazione

Fare «storia», tra conoscenza e cittadinanza.

Anni fa, lo storico ed ex partigiano Claudio Pavone, invitato a parlare di Resistenza in un noto liceo milanese, raccolse tra le altre la sollecitazione di un ragazzo che così si espresse: «Lei ha perfettamente ragione, sono pienamente convinto che la Resistenza sia stata una cosa grande, nobile; però lei ci ha messo un’emozione che io non capisco. Per noi è come parlare delle cinque giornate di Milano: possiamo ben essere convinti che è una gloria dei nostri avi aver cacciato il maresciallo Radetsky, però lo leggiamo nei libri di storia e basta». Riferendo tempo dopo quell’episodio in sede di convegno, Pavone avrebbe commentato: «Rispondere soltanto “tu hai il dovere di emozionarti come me” non avrebbe avuto senso. Bisognava sforzarsi di impostare un discorso che, partendo dai problemi dei giovani di oggi, arrivasse poi a trovare un vero terreno di incontro e di colloquio»[1].

Che la Resistenza possa apparire per gli italiani, e per le giovani generazioni in particolare, un riferimento identitario sempre più sfocato e lontano è questione che oramai da tempo è sotto lo sguardo di tutti. Le cause di questo stato di cose sono molte e varie, e non è certo questo il luogo per ripercorrerle e discuterne. Sicuramente, in anni recenti vi hanno contribuito svariati fattori che chiamano in causa – tra altri – il mutamento degli attori e dei tradizionali riferimenti politici ed ideologici, il ruolo della scuola, della ricerca e degli operatori culturali, il peso dei media e dei nuovi mezzi informatici di comunicazione nell’orientare l’opinione pubblica sul tema, e così’ via. D’altro canto – come anche l’aneddoto che abbiamo riportato mette in luce – una certa quota di responsabilità la si può rintracciare anche nel ruolo e nelle interazioni, molto spesso problematiche, che «storia» e «memoria» esercitano o hanno fin qui esercitato l’un l’altra rispetto al problema della conoscenza del passato, della Seconda guerra mondiale e della Resistenza in particolare. Il tema è di quelli capitali e sarebbero molti – troppi – gli spunti di analisi.

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Partigiani fiorentini in piazza Beccaria (ISRT)

Vale la pena ricordare tuttavia che, anziché nel senso indicato dal giovane interlocutore di Pavone – il quale a un presunto eccesso di «memoria» contrapponeva la richiesta di una pratica e di una conoscenza storica impersonale e asettica – nella realtà dei fatti l’interesse per il passato e quindi la domanda di conoscenza della storia della Seconda guerra mondiale e del Novecento in generale si sono rivolti più spesso alla «memoria» – intesa come testimonianza – che alla «storia» – intesa come disciplina “scientifica” – e questo secondo una tendenza che a partire dal dopoguerra ha registrato un’accelerazione sensibile soprattutto negli ultimi decenni. La crescita – e quasi l’eccesso – di memoria e di «memorie» – quelle delle vittime della guerra soprattutto – cui si è assistito a partire dagli anni Novanta come conseguenza dell’entrata in crisi del «paradigma antifascista» sul quale si era costruita – talvolta con intenti olografici e non senza reticenze – la memoria pubblica della Resistenza e della Seconda guerra mondiale, ha portato infatti al centro della scena il ruolo del «testimone», consentendo che, soprattutto per le nuove generazioni, la conoscenza della storia passasse anzitutto attraverso la scoperta introspettiva e la condivisione dei vissuti e delle sofferenze individuali delle vittime e quindi fosse affidata anche a pratiche emozionali. Si è trattato e si tratta di esperienze sicuramente preziose sebbene, come è stato più volte sottolineato, si corra il rischio che alla sollecitazione emozionale, soprattutto se mediaticamente sovraesposta, non corrisponda un’adeguata trasmissione di contenuti storici. La «vittimizzazione della memoria» in particolare ha recato e reca conseguenze negative rispetto alla conoscenza storica, soprattutto quando un certo abuso di memorie rischia di produrre l’appiattimento di esperienze individuali e collettive storicamente tra loro assai diverse entro la stessa categoria vittimaria. La storiografia ha da tempo messo in guardia su simili rischi; tuttavia, nonostante essa avesse contribuito all’ampliamento dello sguardo pubblico sulla pluralità delle memorie della Seconda guerra mondiale spingendo oltre la tradizionale dimensione politico-militare della Resistenza, per una serie di motivi si è rivelata sempre più in crisi nel fornire all’opinione pubblica gli strumenti necessari per una corretta conoscenza critica di quei fenomeni. La «storia» – secondo alcuni osservatori – ha appunto perso centralità nell’orientare il dibattito pubblico sulla Resistenza e la Seconda guerra mondiale (e più in generale sul Novecento), sopravanzata da attori sprovvisti di solide strumentazioni analitiche e spesso mossi da intenti più o meno velati di polemica politica o comunque interessati esclusivamente a rovesciare presunte vulgate di una Resistenza ancora egemonizzata e “taciuta”, attori che il sistema dei media e il mercato editoriale hanno spesso premiato con maggiore visibilità.

GR_Liberazione di Massa Marittima, giugno 1944_Archivio CLN Massa Marittima

Truppe alleate fanno il loro ingresso a Massa Marittima (ISGREC)

La sfida cui oggi la «storia» – intesa come disciplina e conoscenza critica e scientifica dei fatti storici – è chiamata risulta probabilmente tra le più difficili ma proprio per questo essa non può sottrarvisi, tanto più che l’«era del testimone», almeno per quanto riguarda la storia della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, pare avviata oramai a chiudersi. Le risposte a questa sfida possono essere di vario tipo e su più livelli. A nostro parere non si tratta tanto del grado di separazione che essa debba mantenere con la «memoria» (lo stesso Pavone avrebbe potuto replicare al giovane milanese che lo aveva sollecitato che in fondo, come avrebbe scritto più tardi, anche «la storia più asettica, nella sua volontà di essere scientifica, può talvolta stimolare la memoria, favorendo il riemergere di ricordi accantonati»[2]), ma anzi del ruolo che la «storia» possa e debba avere rispetto ai processi di costruzione della memoria pubblica in atto in un paese. Più che sul terreno ambiguo e scivoloso dell’«uso pubblico» della storia, la questione va inquadrata entro il problema annoso dell’«utilità» che la storia debba avere, non tanto e non solo nel campo dei saperi, ma in quello della vita civile e sociale: se, cioè, il sapere storico costruito su base critica debba assolvere o meno anche a un ruolo pedagogico, ricercando, come è stato proposto, «un pur difficile equilibrio tra correttezza scientifica e costruzione di un ethos per il paese»[3].

Per gli storici e per chi lavora da anni nel campo della ricerca e della divulgazione storica si tratta di un nervo sensibile. Gli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea della Rete Parri sono sicuramente tra i soggetti che per primi si sono impegnati da anni su questo fronte, promuovendo progetti di ricerca, didattica e divulgazione storica condotti con rigore scientifico e consapevolezza critica senza però perdere di vista al contempo la finalità di fornire strumenti utili non solo a una conoscenza storica rigorosa ma a una cittadinanza attiva e consapevole. Nel far ciò essi si confrontano da tempo anche con le nuove pratiche e i nuovi mezzi di comunicazione storica che provengono dall’applicazione dei più recenti strumenti digitali e informatici e che già hanno portato la disciplina storica nel mondo della public history e della digital history.

Le “Pillole di Resistenza”.

La Rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea negli ultimi anni ha promosso in tal senso nuovi progetti di divulgazione e informazione storica, inaugurati nel 2018 con la pubblicazione di una web serie in occasione del 70° Anniversario della Costituzione della Repubblica Italiana (“La Costituzione è giovane!”, link a you tube: https://www.youtube.com/watch?v=q6ieiYSJ2uI). Quest’anno, ricorrendo il 75° Anniversario della Liberazione, la rete toscana ha promosso con il contributo della Regione Toscana e il coordinamento dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età contemporanea di Firenze la realizzazione di un video progetto di divulgazione storica sul tema della Resistenza in Toscana dal titolo Pillole di Resistenza (link al trailer del progetto “Pillole di Resistenza”: https://www.youtube.com/watch?v=meuu1rwqVhg). Il progetto, affidato alla regia di Nicola Melloni (Rumi Produzioni), si compone di dieci episodi, ciascuno dedicato a un tema in particolare della storia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale in Toscana e affidato al racconto esperto di uno storico, individuato tenendo conto sia della sua competenza sul tema che della sua esperienza nel campo della ricerca, della divulgazione e della didattica storica. Non solo storici di professione e dell’accademia, dunque, ma anche figure che oltre a una solida formazione scientifica vantano consolidate esperienze all’interno degli Istituti storici della Resistenza. Uno degli scopi del progetto, infatti, era quello di coniugare il rigore del sapere storico proprio della disciplina con le sensibilità richieste da una divulgazione storica seria ma capace di parlare al grande pubblico, e alle generazioni più giovani in primo luogo, con linguaggi chiari ma diretti, fornendo appunto delle “pillole” della durata di circa 15 minuti utili a formare non solo una maggiore conoscenza del nostro recente passato ma anche una cittadinanza più consapevole delle radici storiche del nostro presente. Da qui anche la decisione di rendere le “Pillole” liberamente accessibili a tutti sul web, pubblicandole sul canale you tube dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età contemporanea di Firenze con cadenza settimanale ogni martedì a partire dal 31 marzo e sino al 2 giugno prossimo, festa della Repubblica.

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Partigiani del Raggruppamento Patrioti Apuani (ISRA Pontremoli)

Poiché il progetto nasce e si muove a partire dalla conoscenza aggiornata che la ricerca scientifica e la storiografia hanno prodotto negli anni sulla storia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale, i dieci temi delle “Pillole” sono stati coerentemente individuati sulla base di tali acquisizioni. Con le parole e nello spirito dell’insegnamento di Pavone, possiamo dire che la scelta dei temi e dei soggetti trattati ha tenuto conto dell’ampliamento dell’«arco dell’esperienza resistenziale»[4] e del conseguente riposizionamento della storiografia dall’originaria attenzione prestata in via esclusiva alla dimensione politica e militare della Resistenza a forme di opposizione non armate, variamente definite «civili» e «non violente», atteggiamenti di rifiuto della guerra fascista, di disobbedienza non passiva che segnarono una reale «ripresa della parola dal basso» dopo decenni di oppressione. Da qui l’interesse a portare entro il perimetro resistenziale fenomeni quali quello della renitenza alla leva militare, del dissenso pagato a caro prezzo dai militari italiani internati dopo l’8 settembre nei campi di prigionia tedeschi, della difesa degli impianti industriali dalle razzie tedesche e degli scioperi nelle fabbriche, della riscoperta e della salvaguardia del valore assoluto della vita umana dimostrato da donne e uomini nel dare assistenza ai perseguitati politici e della razza, agli sbandati e agli sfollati e a chi era stato vittima di violenze ideologiche e di guerra, e molto altro ancora. Una varietà complessa di esperienze diverse accomunate però dal desiderio di resistere «alla guerra» (alla guerra fascista, all’occupazione nazifascista e alle sue biopolitiche genocidarie anzitutto) al quale poi si salda come ulteriore stadio la volontà non più e non solo di resistere «alla guerra» fascista ma di optare per «una guerra di riscatto» dal nazifascismo, scegliendo la via armata. Entrambi sono aspetti indissolubili dell’esperienza resistenziale e come tali stanno assieme anche entro il racconto che della Resistenza ci offrono le “Pillole”.

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Civili sfollati, Livorno viale Caprera (ISREC Livorno)

La varietà di queste esperienze resistenziali, d’altro canto, richiama il vissuto specifico e irripetibile di chi le sperimentò, ragione per la quale anche nelle “Pillole” si è scelto di raccontare la Resistenza nei suoi aspetti costitutivi attingendo ampiamente alle storie di vita, semplici ma esemplari, di donne e uomini toscani che tra il 1943 e il 1945 scelsero con coraggio e conseguenze spesso esiziali la via della disobbedienza e della resistenza. Un vissuto che, affidato alla voce dello storico, è ricostruito in ciascuno degli episodi con una selezione di immagini, documenti e testimonianze provenienti in larga parte dallo stesso patrimonio archivistico e documentale che la Rete degli Istituti toscani conserva e da anni mette a disposizione di storici e ricercatori. Materiale, questo, sapientemente montato nel racconto filmico delle “Pillole” e in grado di restituire il senso e lo spessore di queste voci e di queste vite, nonché di luoghi e vicende simbolo, i quali si fanno non solo «documento storico» ma «testimonianza» vera e propria.

Il primo episodio, 8 settembre 1943: L’ora delle scelte curato da Nicola Barbato, ricercatore dell’ISREC di Lucca, affronta il tema della “scelta” resistenziale all’indomani dell’armistizio e del difficile quadro che si apre con esso. L’effimera illusione di un’uscita indolore dalla guerra che l’8 settembre aveva creato è spazzata via definitivamente dallo sbando dell’esercito e dall’occupazione tedesca della penisola. Ma pur di fronte al tracollo generale, allo sfaldarsi dei tradizionali vincoli di appartenenza e persino del comune senso di identità nazionale, che per taluni segna persino la “morte della patria”, non decadono invece i presupposti di un riscatto collettivo degli italiani. Posti di fronte a una scelta di campo difficile quanto indifferibile, molti di loro danno prova di una tenace e coraggiosa volontà di rivalsa sul fascismo che, ancor prima di assumere il carattere di lotta armata, ha il volto della solidarietà spontanea prestata ai soldati sbandati, agli ex prigionieri alleati evasi dai campi fascisti, ai renitenti alla leva e ai perseguitati politici e della razza. Una solidarietà affrontata con coraggio e pagata, spesso, a caro prezzo che costituisce in verità “l’alba di una nuova patria” e che Nicola Barbato ripercorre delineando, tra le altre, le vicende cariche di significato dell’anziano colonnello Cione, di Vera Vassalle, degli IMI lucchesi Dante Uniti e Davide Massei.

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La partigiana viareggina Vera Vassalle (ISREC Lucca)

Il secondo episodio, RSI. La Repubblica Sociale in Toscana, curato da Francesca Cavarocchi ricercatrice dell’Università di Firenze e dell’ISRT di Firenze, ricostruisce la fisionomia e le politiche di controllo che interessarono in Toscana l’apparato della Repubblica Sociale Italiana. Ricostituitosi nel settembre del 1943 come governo collaborazionista e fiancheggiatore dell’occupante tedesco, il fascismo repubblicano vide assurgere a ruoli apicali numerosi toscani, spesso vecchi fascisti o squadristi della prima ora – tra i quali il fiorentino Alessandro Pavolini o Guido Buffarini Guidi – secondo una continuità ideale con il ruolo che la regione aveva svolto in passato come una delle “culle” del fascismo delle origini. E di quel fascismo originario – squadrista, violento e predatorio – la RSI raccolse l’eredità nei mesi di guerra. Allora, piuttosto che mitigare i pesanti effetti del sistema di occupazione tedesco sulla popolazione civile, i fascisti repubblicani si resero protagonisti di un inasprimento delle politiche di controllo sulle risorse e la forza lavoro locali oltre che degli strumenti di repressione del dissenso politico. Sebbene contrassegnate da una maggior brevità e instabilità rispetto alle regioni del Nord Italia, le strutture della RSI in Toscana svolsero un ruolo diretto nella persecuzione e deportazione degli ebrei e nella repressione antipartigiana, con gravi responsabilità.

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Francesca Cavarocchi durante le riprese del secondo episodio “RSI. La Repubblica Sociale in Toscana”

Il terzo episodio, Vivere la guerra totale, curato da Matteo Grasso giovane storico e direttore dell’ISRPT di Pistoia, pone al centro del racconto le difficili e drammatiche condizioni di vita patite dalla popolazione civile toscana nel contesto della “guerra totale”. Partendo anzitutto dal simbolo più caratteristico della guerra totale, l’esperienza dei bombardamenti alleati sulle citta e sulla popolazione civile, e con un focus particolare su Pistoia, Grasso tocca tutti i principali aspetti, materiali e psicologici, di una vita scandita continuamente dalla minaccia della guerra aerea e sconvolta dalle gravi conseguenze che essa ebbe in termini di distruzioni, morti e patimenti. Lo sgombero e lo sfollamento forzato dei centri abitati disposti nel tentativo di porre al sicuro i civili ma anche di sottrarre il prezioso patrimonio artistico culturale di molte città toscane ai rischi connessi ai bombardamenti e all’avanzare del fronte, il drastico peggioramento della situazione alimentare e sanitaria a seguito dell’entrata in crisi del sistema di razionamento e approvvigionamento e l’incapacità delle autorità di far fronte all’emergenza, sono aspetti generalizzati della crisi che la popolazione toscana vive negli anni di guerra e poi, con nuova intensità, nei mesi dell’occupazione tedesca, quando le razzie e le sistematiche requisizioni nazifasciste conducono ancor più allo stremo la regione.

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Manifesto della RSI contro la renitenza alla leva di Salò (ISRA Pontremoli)

Il quarto episodio, curato da Catia Sonetti storica e direttrice dell’ISTORECO di Livorno, tratta il tema de La persecuzione degli ebrei. Partendo dalla vicenda dell’arresto nel dicembre 1943 al Gabbro, piccola frazione di Rosignano Marittimo, delle famiglie ebraiche dei Bayona, dei Baruch e dei Modiano e della loro successiva deportazione ad Auschwitz, Sonetti fa luce, risalendo a ritroso, sugli antefatti e sulle premesse storiche della persecuzione antisemita. Delineando nei suoi tratti costitutivi il profilo sociale, culturale ed economico delle tre principali comunità israelitiche toscane e delle altre presenze ebraiche disseminate nella regione, si ripercorrono i processi di emancipazione e il grado di integrazione di tali comunità e di tali presenze entro il tessuto civile toscano, tra Unità, Grande Guerra e Fascismo per poi meglio cogliere su di esse gli effetti generati dall’introduzione della legislazione razziale fascista. Le conseguenze delle politiche discriminatorie del Fascismo con la progressiva messa al margine e poi con l’espulsione dalla vita pubblica dei cittadini ebrei sono indagate tramite le dolorose vicende di vita di coloro che cercarono di porsi in salvo, tentando l’espatrio, come nel caso della famiglia del medico fiorentino Giulio Levi, o di chi, invece, subì la radiazione dal pubblico impiego come accadde a Enrica Calabresi, professoressa universitaria, più tardi suicida di fronte a sicura deportazione. Nel ricostruire il passaggio dalla “persecuzione dei diritti” alla “persecuzione delle vite” sono poste al centro le responsabilità degli italiani e delle autorità fasciste repubblicane e le figure di coloro che, come nel caso di Giovanni Martelloni e Mario Carità, risultarono tra i maggiori responsabili dell’arresto e della deportazione di centinaia di ebrei fiorentini e toscani; ma è altresì ricordato anche il ruolo di protezione che svolsero allora esponenti e organizzazioni della Chiesa toscana o semplici cittadini. A chi tra i perseguitati cercò di opporsi alla deportazione, anche scegliendo la via della resistenza armata come nel caso della famiglia degli Orefice, si contrappongono le vicende tremende di chi invece non fece ritorno e le poche ma preziose voci dei salvati che al rientro dai campi ebbero il coraggio di testimoniare.

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La vecchia Sinagoga di Livorno parzialmente distrutta dai bombardamenti (ISTORECO Livorno)

Al tema degli Scioperi e delle deportazioni politiche è invece dedicato il quinto episodio, curato da Camilla Brunelli, direttrice del Museo e Centro di Documentazione della Deportazione e Resistenza (Figline di Prato). Una delle pagine al contempo più gloriose e terribili della Resistenza civile, lo sciopero generale indetto ai primi di marzo del 1944 dal Comitato di Liberazione dell’Alta Italia in Toscana interessò principalmente le aree più industrializzate tra Firenze, Prato ed Empoli, ma si diffuse comunque anche in altre zone manifatturiere della regione. Oltre che a Prato, nella sua diffusa industria tessile, a Firenze si mobilitarono, tra gli altri, gli operai e le operaie delle Officine Galileo, della Pignone, della Cipriani e Baccani, della Richard-Ginori, della Manetti & Roberts, oltre alle sigaraie della Manifattura Tabacchi. Nell’empolese entrarono in sciopero gli operai delle vetrerie; ad Abbadia San Salvatore, sul Monte Amiata, i minatori; ma si scioperò anche a Cavriglia, nel Pistoiese, nel Pisano, a Livorno e Piombino, a Santa Croce sull’Arno e nel Mugello. Si trattò di proteste che generavano per lo più da un radicato e diffuso sentimento di rifiuto e di resistenza civile alla guerra, motivato dall’insofferenza per le privazioni causate dal conflitto e dal malcontento per la continua e sistematica azione di depredazione delle risorse produttive e umane condotta dall’occupante nazifascista. Di fatto si trattò della prima opposizione esplicita di massa al fascismo, ragion per cui la reazione delle autorità fasciste e naziste fu repentina e muscolare, traducendosi in una dura repressione che portò a rastrellamenti generalizzati e indiscriminati della forza lavoro, per la verità non solo di quella scioperante. Arrestati e poi concentrati in luoghi di smistamento quali la Fortezza di Prato o le ex scuole delle Leopoldine in Piazza S. Maria Novella, centinaia di scioperanti furono da lì deportati verso il lager di Mauthausen e quindi trasferiti in vari sottocampi: Gusen, Melk e soprattutto Ebensee. La gran parte di loro, come l’antifascista pratese Diego Biagini, non fece mai ritorno.

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Matteo Grasso durante le riprese del terzo episodio “Vivere la guerra totale”

Resistere con o senza armi, è il tema del sesto episodio delle Pillole, curato da Pietro Clemente, già docente di antropologia culturale e Presidente dell’ISRSEC di Siena. Resistenza in armi e resistenza civile si incontrano idealmente nel racconto di Clemente e trovano quasi una sintesi nel piccolo borgo contadino di Monticchiello, nel comune di Pienza, luogo di ambientazione nell’aprile 1944 di una fiera e vittoriosa battaglia partigiana; un episodio, se si vuole minore, della resistenza armata in Toscana ma cionondimeno significativo in quanto non solo rilancia e infonde nuovo spirito al movimento di liberazione senese dopo l’eccidio di Montemaggio ma segnala il raggiungimento di una certa maturità militare del movimento di liberazione tutto, una crescita organizzativa complessa che denota anche il contributo determinante dei civili: dietro e attorno alle mura medioevali del piccolo paese dove i partigiani della formazione Mencatelli si trincerano e respingono l’assalto delle truppe fasciste ci sono infatti e prestano aiuto molti giovanissimi (studenti, operai ma soprattutto contadini) e diverse donne (che collaborano dall’esterno); c’è in definitiva la solidarietà e l’aiuto della popolazione civile tutta a dimostrazione che senza di questa la lotta armata difficilmente avrebbe potuto sopravvivere e prosperare. Ma oltre ai civili e ai contadini, e ai mezzadri toscani soprattutto senza i quali le bande partigiane non avrebbero potuto sopravvivere alla macchia, vi sono anche i sacerdoti, schierati apertamente come don Paoli a Lucca e don Angeli a Livorno contro la guerra e dalla parte di chi la soffre e decisi a immolare se stessi nel salvataggio di ebrei e perseguitati e nella protezione delle popolazioni civili dalle violenze degli occupanti.

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Luciana Rocchi durante le riprese del settimo episodio “Donne, tra guerra e Resistenza”

Donne, fra guerra e Resistenza è l’altro grande tema al centro del settimo episodio curato da Luciana Rocchi, storica dell’ISGREC di Grosseto del quale è stata fondatrice e per molti anni direttrice.  Attraverso le biografie e il vissuto tormentato di una selezione significativa di donne toscane passate attraverso la guerra ci si pone la domanda di quanto delle condizioni di partenza, culturali, morali, sociali rimanga e di quanto invece muti drasticamente nella Toscana del dopoguerra. La risposta non è univoca e deve confrontarsi con le molte e spesso contrastanti esperienze vissute dalle donne negli anni del conflitto. Certo, le difficoltà e le privazioni del tempo di guerra, comuni a tutte, le gettano in uno stato di emergenza costante e di estrema durezza di vita, spesso sradicandole dai propri luoghi vitali di riferimento (le case, le famiglie), mentre lo stereotipo dell’etica del sacrificio per la patria che aveva caratterizzato il linguaggio delle autorità fasciste verso le donne perde ormai ogni aderenza con il loro vissuto. Da qui, un nuovo protagonismo, conquistato duramente e a prezzi altissimi. Al di là del tradizionale ruolo di maternage e di cura per chi ha bisogno – siano i propri figli minacciati dai bandi di chiamata alle armi di Salò contro cui si rivoltano le madri di Massa Marittima, oppure gli ebrei, gli sfollati e i partigiani che Iris Origo accoglie nella sua villa in Val d’Orcia – vi sono donne che si mettono in gioco direttamente entro il movimento di Resistenza per le quali il rifiuto della guerra non è in conflitto con l’accettare la necessità della violenza. Non solo staffette, dunque, ma anche donne in armi, che trovano in ogni caso le ragioni della propria scelta o nel desiderio di rivalsa dalla cultura dell’obbedienza in cui erano cresciute o perché spinte dagli affetti e dagli amori a seguire i propri cari e i propri amati in clandestinità. Il prezzo da loro pagato è altissimo, come emblematicamente racconta la vicenda della medaglia d’oro Norma Parenti, trucidata a un passo dalla Liberazione del proprio paese. Il dopoguerra che si apre tra tristezza e orrori vede ancora profonde ferite da sanare, mentre per alcune lascia un senso amaro di disillusione. Ma l’eredità delle donne in armi e senz’armi che hanno vissuto la Resistenza, benché assuma l’andamento di un cammino carsico, riaffiora e la si ritrova nell’etica di responsabilità di molte donne che saranno attive in politica e nelle rivendicazioni sociali del dopoguerra.

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Norma Parenti, medaglia d’oro al valor militare (ISGREC Grosseto)

L’ottavo episodio della serie, curato da Gianluca Fulvetti, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa e membro del CdA dell’Istituto nazionale Ferruccio  Parri e del direttivo dell’ISREC di Lucca, è dedicato al tema delle Stragi in Toscana. La «guerra ai civili», come da tempo messo in luce da un filone storiografico attento a cogliere le implicazioni e gli effetti delle politiche di occupazione nazifasciste sulle popolazioni locali, raggiunge in Toscana uno dei massimi gradi di intensità e di efferatezza registrando tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 più di 4.400 vittime in oltre 800 episodi, tra stragi, eccidi e uccisioni singole. È soprattutto l’estate di sangue del 1944 a segnare il picco quantitativo e qualitativo della guerra ai civili in Toscana. Allora, alle necessità della guerra antipartigiana e del controllo del territorio che già nei mesi precedenti avevano animato l’impiego spesso indiscriminato della violenza sulle popolazioni locali si somma l’urgenza militare di rallentare a tutti i costi l’avanzata alleata; urgenza che porta i reparti della Wermacht e delle Waffen SS, non senza l’appoggio di fascisti e collaborazionisti, a scatenare a ridosso della linea del fronte grandi operazioni di bonifica del territorio, rastrellamenti e massacri di civili, ma anche uno stillicidio sparso di uccisioni che la ritirata tedesca si lascia dietro. Non solo le grandi stragi, come S. Anna di Stazzema e Civitella Val di Chiana, popolano la mesta cartina dell’estate di sangue toscana, ma altre meno note, ma non meno atroci, come nel caso della strage della Certosa di Farneta che Fulvetti tratteggia. È un salto di qualità quello che si compie nell’estate del 1944 che d’altro canto era già stato preannunciato con i grandi cicli antipartigiani che nella primavera del 1944 avevano colpito molte comunità toscane dell’Appennino e che avevano registrato la volontà delle autorità tedesche di gestire il dissenso non più con soluzioni politiche, ma con il ricorso alla violenza militare. L’eredità, materiale e morale, dei lutti che dilaniano la Toscana del 1944 lascia aperta e a lungo insoluta nel dopoguerra la domanda di giustizia dei familiari e delle comunità colpite, il cui dolore cade in un oblio di cui si rendono colpevoli le autorità politiche e giudiziarie italiane e alleate mentre il tentativo di dare un senso o un volto ai “presunti” colpevoli finisce per sedimentare memorie “divise” e conflittuali destinate a mantenersi tali ancora a lungo.

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Gianluca Fulvetti durante le riprese dell’ottavo episodio “Le stragi in Toscana”

Il nono episodio è dedicato invece a Liberazioni e insurrezione ed è curato da Matteo Mazzoni, storico e direttore dell’ISRT di Firenze. Al centro del racconto è l’andamento del quadro militare della guerra di Liberazione e il ruolo che, a partire dal giugno 1944 in avanti, svolgono in Toscana gli eserciti alleati, da un lato, e dall’altro il movimento partigiano, il quale, dopo aver animato la lotta a tedeschi e fascisti nei mesi precedenti, punta adesso a precedere gli Alleati nella liberazione delle città. Se l’imparità con il nemico ostacola la volontà delle formazioni partigiane di svolgere entro la lotta di Liberazione un ruolo veramente autonomo dall’apporto delle forze alleate, la posta in gioco rimane comunque alta e il tentativo di evidenziare il proprio contributo, oltreché sul piano militare, assume un significato politico di enorme rilevanza per le forze dell’antifascismo toscano.  Pur nella dialettica delle posizioni e delle prospettive, l’obiettivo comune della sconfitta dei nazifascisti consente  forme di collaborazione tra Alleati e partigiani e persino il reciproco riconoscimento dei ruoli. Tra gli altri casi richiamati, la battaglia di Firenze e l’insurrezione dell’11 agosto ne sono il principale esempio, con gli Alleati che, giunti alle propaggini meridionali della città, riconoscono sia le nomine del governo della città espresse dal CTLN quale organo rappresentante delle forze resistenziali che il ruolo svolto dalle Brigate partigiane calate sulla città dai colli circostanti nei duri combattimenti che si protraggono fino alla fine del mese lungo la linea del Mugnone. È, come noto, quello fiorentino uno snodo centrale nella storia della Resistenza italiana che lascia un’eredità politica e un esempio prezioso per le successive insurrezioni delle città del Nord Italia.

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Sepolture di vittime di stragi nazifasciste (ISRA Pontremoli)

L’ultimo episodio, curato da Andrea Ventura, giovane storico dell’ateneo pisano e direttore dell’ISREC di Lucca (a cui in particolare è affidato il racconto storico), assieme a Luca Baldissarra, docente di Storia presso l’Università di Pisa, ha come tema La Linea Gotica in Toscana. Con attenzione particolare al settore apuano – oggetto di un tardivo sfondamento alleato e quindi di un’occupazione tedesca che nei territori di Massa, Carrara e Pontremoli si prolunga sino all’aprile inoltrato del 1945 – Ventura ripercorre i presupposti strategici e militari che con l’avvio della campagna alleata in Italia avevano spinto le autorità tedesche a realizzare una grande linea di fortificazioni tra Massa (sul Tireno) e Pesaro (sull’Adriatico) che si inerpicava per centinaia di chilometri tra le Alpi Apuane e l’Appennino. La Gotica – spiega Ventura –  è nello stesso tempo una linea del fronte e di confine che separa due eserciti (Alleati e nazifascisti), due governi (la RSI e il Regno del Sud), due sistemi di occupazione (tedesco e alleato), due opposte esperienze politiche e di guerra. Ma al contempo la Gotica rappresenta anche uno spazio in sé, dove migliaia di lavoratori faticano nella costruzione delle difese, dove decine di migliaia di soldati provenienti da cinque continenti diversi si insediano e si preparano al combattimento, dove i fascisti collaborano con i tedeschi e compiono anche autonomamente stragi e rastrellamenti, dove i partigiani operano intensamente, dove le popolazioni vivono una quotidianità totalmente stravolta dalla guerra. La Gotica, in sintesi, è uno spazio che racchiude in sé la storia della Seconda guerra mondiale: non solo linea militare, ma anche demarcazione politica, ideologica e mentale, aspetti questi che Ventura ricostruisce puntualmente anche con l’ausilio della preziosa documentazione fotografica e documentale messa a disposizione, tra altri, dall’ISRA di Pontremoli.

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Camilla Brunelli durante le riprese del quinto episodio “Scioperi e deportazioni politiche”.

In sintesi un progetto video, complesso e articolato, nato dalla solerte e sentita collaborazione tra tutti gli Istituti della Resistenza della Rete toscana, sotto il coordinamento del dott. Matteo Mazzoni, la segreteria scientifica e la ricerca d’archivio di Giada Kogovsek e Francesco Fusi, che si spera possa dare un piccolo ma significativo contributo affinché la «storia», oltre a formare conoscenza critica e rigorosa dei fatti, possa ancora esprimere la propria utilità nella società di oggi, magari fornendo «quel terreno di incontro e di colloquio» necessario alla costruzione di un ethos per il paese di cui parlava anche Pavone.

 

[1] Intervento di Pavone in Passato e presente della Resistenza. 50° Anniversario della Resistenza e della Guerra di Liberazione, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 1995, p. 113.

[2] Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 67-68.

[3] Mirco Carrattieri, La Resistenza tra memoria e storiografia, «Italia contemporanea», XXXIII (2015), n. 95, p. 18.

[4] Claudio Pavone, Un Guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 31.




CHE GENERE DI DIDATTICA?

Quando la Fondazione Carlo Marchi ha chiamato associazioni, scuole ed enti a rispondere al bando 2019 sul contrasto agli stereotipi e alla violenza di genere, come ISRT abbiamo sentito il dovere e tutta l’importanza di presentare un progetto.

La violenza di genere e complessivamente il sistema di stereotipi legati al genere sono il frutto di una società costruita su radici di stampo patriarcale. L’urgenza sociale degli ultimi decenni ha spinto verso una forte riflessione che ha coinvolto le istituzioni del mondo. Prova ne sono le numerose direttive, le deliberazioni e gli inviti a porre rimedio, con speciale sguardo rivolto a coloro che hanno in mano la formazione delle giovani generazioni. Un’educazione di e al genere e lo smascheramento degli stereotipi legati ai rapporti maschile-femminile risultano quindi non più rimandabili e l’unico vero strumento sul medio-lungo periodo. A nostro avviso è stato quindi fondamentale intervenire proprio a partire dalla formazione e dalla didattica, quindi, sulla scuola.

Così è nato Un’altra storia. Percorsi di formazione e conoscenza contro la violenza di genere, un progetto che si pone l’obiettivo di produrre maggiore consapevolezza e dare gli strumenti per operare finalmente quel passaggio dalla teoria alla prassi quotidiana. Abbiamo pensato a due fasi: un corso di formazione per docenti delle scuole secondarie (previsto per marzo 2020, ma rimandato dopo il primo incontro causa emergenza covid-19) e un festival aperto alla cittadinanza (previsto per novembre 2020). Perché non solo il festival? Perché se con il festival ci proponiamo di portare alla luce la costruzione culturale dei generi e il valore normativo da essi assunto nel tempo rivolgendoci a un pubblico ampio e non specializzato, il corso di formazione è diretto specificamente a chi porta avanti quotidianamente il difficile compito di formare ragazze e ragazzi in un’età molto delicata. La scuola, infatti, è il contesto privilegiato in cui intervenire per prevenire il diffondersi e il radicarsi di culture sessiste, misogine e di violenza.

Quello che ci è sembrato immediatamente chiaro nella fase di progettazione è che per le-gli stesse-i docenti non è facile portare “il genere” nelle classi, per motivi vari e diversi. In parte per il pregiudizio che grava sul concetto stesso di “genere”, spesso frainteso, e a maggior ragione sul ruolo che la scuola dovrebbe assumere rispetto a un’educazione di e al genere. Un altro ostacolo molto importante è la mancanza di strumenti adeguati, di sostegni didattici che vadano ad accompagnare gli intenti e la passione di chi insegna. Per questo motivo, abbiamo strutturato il nostro corso intorno a un volume davvero innovativo uscito l’anno scorso per le edizioni Biblink: I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia (Biblink, 2019, www.biblink.it/catalogo/bl00120.html). Un “sillabo” agile ed efficace che consente l’approccio a una didattica diversa della storia, della filosofia, del diritto, dell’arte, della letteratura, utile a orientare la/il docente nei temi dell’educazione di genere attraverso un repertorio di materiali versatili da utilizzare all’interno dell’attività curricolare. Si tratta quindi di uno strumento con duplice funzione: di auto-formazione e successivamente di supporto nella costruzione di percorsi didattici che abbiano al centro lo sguardo di genere nelle varie discipline.

Il primo incontro di Un’altra storia, il 3 marzo scorso presso il Murate Art District (www.murateartdistrict.it), ha confermato le nostre idee, i presentimenti iniziali e le nostre speranze: un gruppo davvero gremito di docenti ha partecipato attivamente, molte le domande e le proposte in seguito agli interventi della professoressa Graziella Priulla (Università di Catania; Quale punto di vista? Didattica e genere) e della dottoressa Alessandra Celi (Società Italiana delle Storiche e co-curatrice del “sillabo”; I secoli delle donne. Strumento di formazione e autoformazione). Le-i docenti hanno espresso chiaramente la volontà di integrare una programmazione che da sempre esclude la prospettiva di genere e il desiderio di essere sostenut* da strumenti strutturati. I manuali risultano lacunosi, le donne sono assenti o relegate in box da colonnino, nei quali il loro apporto viene tratteggiato in una dimensione di eccezionalità, isolato dal contesto, mai approfondito. La cultura raccontata nei libri scolastici si delinea completamente al maschile, tagliando fuori dalla narrazione le donne e soprattutto il rapporto tra i generi nella costruzione (attraverso fatti storici, arte, letteratura ecc.) di un mondo di fatto condiviso.

Si tratta di un “vizio” di prospettiva millenario, che ha la stessa radice della famosa frase “La storia la scrivono i vincitori”. Infatti, nonostante le donne non costituiscano una minoranza vera e propria dal punto di vista numerico, ne hanno lo status. Occupano, cioè, una posizione di subalternità all’interno di una cultura che le ha invisibilizzate nelle narrazioni e ne ha fattivamente impedito il fiorire, escludendole dal sistema educativo, dai circoli culturali, limitandone i diritti e le possibilità. Lo stesso meccanismo ha minato i diritti civili, la libertà personale delle donne, e ne ha determinato i ruoli, i compiti, gli ambiti. Certo, oggi sono molte le conquiste ottenute attraverso il sacrificio e le battaglie di generazioni di donne (anche se queste conquiste non sono ancora distribuite in modo uniforme nel mondo), ma non è facile costruire nuove fondamenta al posto di fondamenta millenarie. Ne sono prova, come abbiamo visto, l’impostazione e i contenuti della didattica.
Quali sono le possibili ricadute dirette di una scuola che non si confronti con l’educazione di e al genere? Quali le conseguenze sulle-sugli studenti del non leggere mai nei loro testi di scuola (che rappresentano, in quella fase del percorso di formazione, le fonti cartacee più autorevoli e scientifiche a loro disposizione) storie di donne che hanno contribuito in modo sostanziale al corso degli eventi?
Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) nella sua opera probabilmente più nota, Phänomenologie des Geistes (La fenomenologia dello spirito, Einaudi 2008) delinea il concetto di “riconoscimento”, ripreso e declinato sulla questione di genere dalla filosofa statunitense Judith Butler (1956) in Undoing Gender (Fare e disfare il genere, Mimesis 2014). Il riconoscimento è proprio il contrario dell’invisibilizzazione di un soggetto da parte di un altro soggetto, ovvero quella dinamica che si replica ogni volta che una maggioranza mette in ombra l’esistenza e la dignità di una minoranza. Il riconoscimento, invece, è quel processo che si costruisce nella relazione tra due soggetti, un percorso non necessariamente semplice, ma che conferisce valore, lo status di esistenza a entrambi i soggetti coinvolti.

Possiamo guardare all’assenza delle donne nei manuali scolastici e nella didattica come, di fatto, a un mancato riconoscimento. Quindi, possiamo facilmente immaginare quali tipi di considerazioni – anche inconsce – vengano introiettate dalle-dagli studenti. È proprio dal riconoscimento di valore che nasce il rispetto, la solidarietà, la cooperazione, la complicità. È nel mancato riconoscimento che possono instaurarsi una legittimazione delle disuguaglianze di genere e il rafforzarsi di modelli misogini e violenti, tutt’oggi vivi nel tessuto sociale. Il compito della scuola, però, dovrebbe essere quello di produrre una cultura nuova per le-i giovani, che veicoli i principi del rispetto e del valore delle diversità.
Dalla nostra esperienza, ancora in divenire, abbiamo còlto la consapevolezza delle-dei docenti, consapevolezza che, riteniamo, debba essere sostenuta e soccorsa, attraverso strumenti nuovi, attraverso un fare rete, attraverso percorsi nei quali sia possibile ripensare insieme alla didattica, porsi nuove domande per ottenere nuove risposte. Per questo motivo, non appena sarà possibile, riprenderemo Un’altra storia con la stessa passione, e attraverso il confronto, lo scambio immagineremo un’educazione di genere trasversale, pluridisciplinare, aperta alla costruzione di percorsi didattici molteplici.