1

«Verso le 1,30 di stanotte ho udito…»

Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti nel suo ultimo intervento alla Camera dei deputati denuncia le violenze e i brogli elettorali effettuati dai fascisti durante le ultime elezioni politiche, quelle che si erano svolte il 6 aprile, chiedendo «l’annullamento in blocco delle elezioni della maggioranza» e mettendo di fatto in crisi il risultato politico che più sta a cuore a Mussolini e ai fascisti: la parvenza di legalità, che con la realizzazione della legge Acerbo volevano perseguire.
La riforma elettorale approvata prima dalla Camera, il 23 luglio, e poi dal Senato il 3 novembre 1923, istituiva il collegio unico nazionale e la scheda di Stato, abolendo il sistema proporzionale e stabilendo la regola dell’attribuzione di due terzi dei seggi alla lista che avesse raccolto la maggioranza dei voti validi, senza fissare in origine alcun tipo di quorum. I votanti sono il 63% del corpo elettorale e il «listone» ottiene 4.305.936 voti[1], ai quali si aggiungono i 347.552 voti delle «liste bis» raggiungendo così il 56,54% dei voti su un totale di quelli validi di 7.021.551. Al Nord Italia, a dispetto delle pressioni e delle violenze, le forze dell’opposizione raccolgono più voti di quelle fasciste, ma nonostante questo il plebiscito ottiene un notevole successo. Nella provincia pisana al «listone» vanno 72.163 voti a fronte dei 14.792 raccolti dall’opposizione[2].
Matteotti denuncia con audacia le violenze e le manipolazioni del voto effettuate dalle squadre fasciste con la collaborazione di numerose prefetture e apparati dello Stato, ma questa coraggiosa presa di posizione gli vale solo la condanna a morte. Il 10 giugno è rapito e ucciso dalla banda fascista dei sicari di Dùmini[3].
Le violenze degli squadristi perpetuate nei mesi e nelle settimane precedenti il voto elettorale spesso si tramutano in veri e propri attacchi criminali: ad esempio, il 28 febbraio 1924, i fascisti uccidono a Reggio Emilia a colpi di pistola il candidato socialista Antonio Piccinini, tipografo e sindacalista, mentre in altre località feriscono altri esponenti dell’opposizione come i riformisti Enrico Gonzales, Giovanni Battista Canepa e Bruno Buozzi.
L’uccisione di Antonio Piccinini avviene con una dinamica ben precisa, la stessa che i fascisti utilizzano in altri casi. L’esponente socialista è prelevato al suo domicilio da alcuni fascisti, che si sono fatti aprire la porta con uno stratagemma: gli squadristi si presentano come socialisti esibendo una tessera sottratta a veri iscritti, aggrediti in precedenza. Piccinini è poi trucidato da lì a poco nella casa di due dei sequestratori, che dopo averlo stordito di bastonate lo appendono a dei ganci in un locale per la lavorazione dei maiali e lo finiscono con quattro colpi di rivoltella sparati a bruciapelo. Il corpo straziato è fatto trovare all’alba sotto un albero lungo la ferrovia Reggio-Ciano d’Enza, non lontano dalla sua abitazione, affinché i lavoratori che arrivano in città col treno locale per recarsi al lavoro possano constatare la fine che i fascisti fanno fare ai dirigenti operai.

Ugo Rindi

Anche la provincia pisana è attraversata da numerosi episodi di violenza e intimazioni: il 20 marzo una squadra di fascisti a Pontedera devasta la casa del comunista Antonio Romboli bastonando l’intera famiglia e ferendo il figlio con un colpo di pistola; nello stesso giorno è aggredito e ferito l’ex sindaco di Bientina, Annibale Iacopetti; il 24 marzo a Nodica i fascisti feriscono un socialista; il 29 marzo a Latignano gli squadristi picchiano un invalido di guerra iscritto al Partito popolare; il 4 aprile viene bastonato un ex consigliere del Partito popolare e a Ponsacco un gruppo di iscritti al Partito di Don Sturzo sono percossi selvaggiamente.
L’episodio più grave, sempre legato alle tensioni nate intorno alla data delle elezioni, è quello dell’uccisione di Ugo Rindi, tipografo, segretario della locale Federazione italiana del libro (il sindacato dei tipografi)[4], che avviene a Pisa nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1924[5].
Recentemente l’Archivio di Stato di Pisa ha ricevuto un consistente fondo di documenti provenienti dall’archivio del Tribunale di Pisa che sono stati oggetto di un primo ordinamento e che contribuiscono a chiarire ancora meglio la dinamica dell’assassinio[6].

L’8 aprile, intorno alle 20, Emilio Gnesi, ufficiale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, si reca insieme al console Francesco Adami dal questore Pace e dal prefetto Renato Malinverno per denunciare il grave ferimento di un fascista. Il presunto responsabile è Ulico Caponi, colono abitante in località Villa Filippi a circa un chilometro e mezzo da Porta a Lucca sulla via per San Giuliano Terme. Nel frattempo, la notizia viene fatta girare ad arte in città[7].
Il racconto degli squadristi afferma che un’auto guidata dallo squadrista Dino Poli, con a bordo Gualtiero Bacci e Ruffo Lester e i militi della MVSN Emilio Gnesi, Giulio Susini, Ruffo Monnosi e Guido Marradi, aveva raggiunto «Villa Filippi», la casa colonica abitata della famiglia Caponi per dare una lezione a Ulico, che il giorno delle elezioni ha dichiarato, all’uscita del seggio, la propria fede antifascista di fronte agli squadristi presenti. Evitato il linciaggio grazie all’intervento di un ufficiale dei carabinieri il Caponi si è rifugiato a casa sua. Secondo i fascisti quando Caponi li vede entrare nel proprio cortile si dà alla fuga nei campi sparando e ferendo gravemente lo squadrista Poli[8]. Il ferito è immediatamente trasportato in ospedale ma le sue condizioni, nonostante l’intervento dei sanitari, peggiorano rapidamente nella notte e intorno alle 14 del 9 aprile spira tra le braccia della moglie[9].
Il Prefetto e il Questore di Pisa credono ai fascisti e si prodigano immediatamente per dare ordini affinché il presunto assassino venga assicurato alla giustizia e chiedendo agli stessi squadristi di collaborare alle ricerche. Questi ultimi non si fanno ripetere la richiesta una seconda volta e immediatamente si mobilitano attivando quattro squadre che perlustrano Pisa e dintorni, colpendo tutti coloro che gli capitano a tiro, compreso, come ricorda il Procuratore generale della repubblica di Firenze, «persone indifferenti e innocue»[10].
Tra le due e trenta e le tre del 9 aprile due barrocciai, Riccardo Cioni di Empoli e Armando Matteucci di Firenze, sotto un’incessante pioggia escono da Porta a Lucca con i loro carri dirigendosi a sinistra verso Viareggio per la via del Marmigliaio quando i loro cavalli all’improvviso si bloccano perché qualcosa impedisce loro di procedere. Scesi dai loro carri i due barrocciai si accorgono che in mezzo alla strada giace insanguinato il corpo di un uomo. Subito si dirigono verso la vicina stazione daziaria avvisando gli impiegati presenti, due dei quali si recano sul posto e riconoscono immediatamente il corpo di Ugo Rindi, una persona molto nota nel quartiere e in città[11].
Avvertite le autorità, i carabinieri e il commissario di PS giunti sul posto confermano il riconoscimento di Rindi, ucciso da due pugnalate, una delle quali gli ha reciso l’aorta. Il corpo viene rimosso dal selciato intorno alle 9 di mattina[12].

Alessandro Carosi

In poco tempo la notizia della morte di Rindi fa il giro della città. Il sindacalista aveva seguito le orme paterne sia dal punto di vista professionale che ideale[13]: da giovane era stato affascinato delle idee libertarie ed era una persona molto amata e impegnata nel sociale, tanto che le stesse autorità durante l’inchiesta più volte sottolineano nei loro rapporti che Rindi era una persona «idealista» e «proba e innocua», ricordando come si fosse distinto nel settembre del 1920 negli aiuti ai terremotati della Garfagnana e Lunigiana. Come scrive il Procuratore generale di Firenze, anche il parroco di Porta a Lucca, don Angelo Petrini, ne «esalta le virtù e i meriti sebbene il Rindi non accettasse la religione cattolica»[14].
Le indagini vengono espletate velocemente e le autorità ben presto comprendono la reale dinamica dei fatti grazie anche alla collaborazione fondamentale e inaspettata del capitano Bruno Santini, leader di una delle fazioni del fascismo locale, che fin dalle prime ore del 9 aprile si prodiga, facendo visita anche alla famiglia Rindi, per comprendere la dinamica della brutale aggressione e individuare i responsabili. È grazie proprio alla denuncia di Santini e di altri suoi commilitoni alle autorità che vengono identificati gli assassini di Rindi[15].
L’11 aprile è arrestato il sindaco di Vecchiano, il già allora famigerato Alessandro Carosi[16], che come ricorda il Procuratore generale di Firenze amava presentarsi come «Tenente Carosi, sette volte omicida». Un personaggio che è animato al pari di altri sicari fascisti, sempre in base alle parole del Procuratore di Firenze, da «un istinto ferino» con assoluta mancanza di «moralità», che ha l’abitudine di ferire e uccidere per «brutalità, spavalderia e intimidazione»[17]. Carosi fa parte, dunque, di quella genia di «squadristi famigerati, accaniti e sanguinari, espressione di ceti e ruoli sociali ben definiti e tutt’altro che marginali e spostati»[18].

Filippo Morghen

Nei giorni e nelle settimane successive vengono arrestati anche i complici di Carosi: Antonio Sanguigni[19], segretario del fascio di Avane, Ranieri Cola[20], Giuseppe del Pellegrino[21] e Giulio Malmusi[22]. Sono arrestati anche il presunto mandante, Francesco Adami, console della MSVN[23] e il suo padrino, Filippo Morghen[24], segretario provinciale della Federazione e presidente del consiglio provinciale, oltre ai suoi più stretti collaboratori, gli squadristi Girolamo Grimaldi[25], segretario del fascio di San Giuliano Terme, Giuseppe Biscioni[26] e Ovidio Chelini, segretario del fascio di Nodica[27].
Vasta è l’eco dell’efferato assassinio sulla stampa locale e nazionale, Rindi è, come già ricordato, un personaggio assai conosciuto nella città, da tutti indicato come «uomo mite e onesto»[28]. Una grande sottoscrizione popolare nei confronti della famiglia del tipografo assassinato è lanciata dal periodico cattolico «Il Messaggero toscano»[29]. I funerali e le molte testimonianze dell’affetto della Pisa popolare e antifascista sono la prova di un’unanime condanna del delitto. La morte di Rindi ha lasciato nella disperazione la famiglia: la moglie Nella e i figli Emilio e Vera, la madre Rosa, la sorella Lavinia, che, subito dopo che Rindi è uscito di casa con i «fascisti», hanno cercato in città il proprio congiunto rivolgendosi invano anche alla Questura[30].
È molto probabile che Santini colga al volo l’occasione dell’assassinio di Rindi per cercare di liberarsi una volta per tutte

Giulio Malmusi, squadrista complice di Carosi nell’omicidio Rindi.

del gruppo legato a Filippo Morghen che, dall’autunno del 1922 ai primi mesi del 1924, si è distinto nell’occupazione di tutti i posti di potere chiave del territorio[31]. Questa occupazione di poltrone, una vera e propria ingordigia di potere, ha aperto delle fratture e «una furiosa e selvaggia lotta di gruppi» nelle file fasciste lasciando una parte degli squadristi della prima ora senza un corrispettivo adeguato di riconoscimenti e palesando un tradimento degli «ideali» del fascismo sansepolcrista[32].
Il 10 aprile giunge in città Luigi Freddi, responsabile dell’ufficio stampa del PNF, squadrista milanese della prima ora e «fedelissimo» di Mussolini, inviato a Pisa come commissario straordinario per rimettere ordine in una Federazione locale ormai profondamente dilaniata dai contrasti interni. Tutti i vertici della Federazione sono obbligati alle dimissioni e anche il prefetto Malinverno, troppo accondiscendente verso alcuni dei ras locali è sostituito da Giovanni Battista Rossi.
In giugno poi la notizia del rapimento dell’on. Giacomo Matteotti, con la sua eco emotiva, ha l’effetto, anche nel pisano, di un’ulteriore onda d’urto nelle file del fascismo e dell’opinione pubblica. Il clima politico è caratterizzato dall’incertezza, le autorità sono disorientate e gli stessi fascisti sembrano per un istante più indecisi e confusi sul da farsi.
Una lettera del capitano Santini alla redazione de «Il Messaggero toscano» della fine di agosto fotografa con chiarezza il clima politico di Pisa di quell’estate:

La situazione della città di Pisa è angosciosa, terribile, e non è soltanto una situazione del partito, ma l’imposizione di un sistema che offende la cittadinanza e gli onesti di tutte le tendenze, poiché mira all’apologia della delinquenza che ogni partito deve saper distruggere in se stesso se vuole vivere e prosperare. Pisa vive da tre mesi una tragica ora che non si vuol comprendere. Pisa ha visto l’8 aprile commettere nelle sue mura un assassinio obbrobrioso davanti al quale impallidisce un fatto come quello di Matteotti e i delinquenti furono consegnati alla giustizia dai fascisti stessi che non potevano ammettere nella loro buona fede che il fascismo si imbastardisse convivendo con l’inutile e deleteria delinquenza[33].

Nel frattempo nei primi giorni di luglio Freddi è sostituito nel suo incarico di commissario straordinario dall’on. Ezio Maria Gray che cerca di riportare alla «normalità» la vita della Federazione, ma in realtà alla fine chi paga maggiormente è il gruppo di Santini che l’anno successivo, non senza aver ricevuto minacce e pressioni di ogni tipo, decide di abbandonare Pisa e la militanza per trasferirsi a Milano.
La figura che si afferma in questo periodo di transizione è quella di Guido Buffarini Guidi, decorato di guerra, avvocato, massone e sindaco di Pisa, dal 1923 al giugno 1924, quando lascia l’incarico perché eletto in Parlamento. Noto per il motto «Ci penso io», ripetuto più volte a fronte di problemi e richieste di interventi, Buffarini non abbandona a se stessi gli esecutori dell’assassinio di Rindi, garantendo loro sussidi, assistenza e coperture.
La violenza del fascismo pisano ha un’altra occasione di mettersi in mostra il 2 gennaio 1925, il giorno prima del noto discorso di Mussolini al Parlamento sulle responsabilità del delitto Matteotti, quando sono assaltate le sedi delle organizzazioni dell’opposizione che ancora sopravvivevano e della massoneria. Viene tentato anche un assalto alle Carceri giudiziarie di S. Matteo al fine di liberare Carosi e Adami ma il tentativo fallisce per l’intervento massiccio di carabinieri e guardie di P.S. Sono devastate anche la redazione e la tipografia del «Messaggero toscano», che vengono distrutte da una forte esplosione, le abitazioni e gli studi di vari «notabili», rei di aver abbandonato il sostegno al fascismo, come Alfredo Pozzolini e Arnaldo Dello Sbarba, mentre gli squadristi non riescono ad entrare nello studio di Adolfo Zerboglio, noto giurista e senatore, perché sulla porta trovano un capitano degli alpini che impedisce armi alla mano alla squadra fascista di eseguire l’ordine di distruzione[34].
Il Procuratore generale di Firenze alla fine dell’anno conclude la sua istruttoria rinviando a giudizio Carosi, come esecutore dell’assassinio di Rindi, Malmussi e Grimaldi come complici, Adami e Biscioni come mandanti, mentre Morghen, Sanguigni, Cola e Del Pellegrino sono prosciolti dalle accuse per insufficienza di prove[35].
Il processo si svolge al Tribunale di Genova nel settembre del 1925, in un clima totalmente diverso rispetto a quello dell’anno precedente: nonostante le prove raccolte durante l’inchiesta, la sentenza finale è di assoluzione piena per tutti gli imputati. La corte di Genova ha subito forti pressioni politiche, proveniente anche da Roma, al fine di impedire una condanna che in quel contesto avrebbe significato una sconfessione piena di tutta l’organizzazione fascista locale. Il processo è anche l’occasione per la resa dei conti tra le due fazioni del fascismo a Pisa che nei mesi trascorsi hanno continuato a darsele di santa ragione, anche a colpi di revolver. In settembre un fascista seguace di Santini, Pilade Fiaschi, ingaggia a Marina di Pisa uno scontro a fuoco con un fascista «ufficiale», Gino Salvadori, entrambi rimangono feriti sul selciato ma ad avere la peggio è il secondo, che muore poco dopo[36].
Gli imputati assolti a Genova ricevono calorose accoglienze sia nella città ligure che a Pisa, dove i loro camerati li portano in «trionfo» per le vie delle città come dei «vincitori» di una gara sportiva[37].

Nel 1945, quando la guerra ancora non è terminata la Cassazione annulla la sentenza del 1925 e il caso viene riaperto ma nel frattempo uno dei principali esecutori dell’omicidio, Alessandro Carosi, si è dato alla macchia. Verrà condannato in contumacia a 21 anni di reclusione, come gli altri due imputati, ma non farà mai un giorno di carcere per il delitto Rindi, continuerà a vivere e lavorare a Roma, con la complicità di amici potenti, sotto il falso nome di Filippo Filippi[38]. Morirà nella capitale il 29 gennaio 1965 e la sua scomparsa avrà una vasta eco sui maggiori quotidiani italiani[39].
Carosi in carcere in precedenza ci era finito per un’altra tragica storia. Nel 1931 a Viareggio, dove risiedeva, uccide Assunta Beneforti (Tina), la sua amante e madre del figlio Sergio nato nel 1927. Per questo omicidio verrà condannato dalla Corte d’Assise di Firenze ad una lunga pena detentiva. Il 9 aprile 1943 inspiegabilmente Carosi è liberato con la condizionale e posto in regime di libertà vigilata. Decide di stabilire la propria residenza a Guardistallo dove viveva e lavorava la figlia Liliana avuta da una precedente relazione. Qui il 1° agosto 1943 sposa Cesarina Cesari la madre di Liliana. Il Prefetto preoccupato della presenza di Carosi e temendo le sue attività lo fa arrestate proponendolo per l’internamento in un campo di concentramento. Dopo l’8 settembre Carosi è liberato e nominato triumviro della Federazione pisana del nuovo Partito fascista repubblicano. Nei mesi seguenti collabora attivamente con la RSI e con gli occupanti nazisti.
Il 24 giugno 1944 si perdono le sue tracce, pare che si sia diretto al Nord insieme ai reparti e autorità fasciste della provincia. Secondo alcune testimonianze sembra che Carosi sia coinvolto nella denuncia alle autorità tedesche dell’antifascista e membro del CLN, Sisto Longa, che aveva retto il municipio di Guardistallo nei giorni seguenti la caduta di Mussolini. Longa il 29 giugno viene trucidato insieme ad altri 51 civili e 11 partigiani dalla Quarta compagnia della 19ª divisione da campo della Luftwaffe[40].

Il 14 maggio 1965, il senatore Umberto Terracini presenta un’interrogazione al Ministro dell’Interno, il senatore Paolo Emilio Taviani – democristiano ed ex membro del CLN ligure –, chiedendo come il ricercato Alessandro Carosi avesse potuto vivere e lavorare indisturbato a Roma nonostante la pesante condanna ricevuta. A Terracini rispose il sottosegretario all’interno, Crescenzo Mazza, con argomentazioni generiche e inconcludenti[41].
La vicenda Carosi mostra bene come l’eredità del fascismo abbia pesantemente condizionato la vita della giovane Repubblica italiana e come i suoi fantasmi si siano di volta in volta materializzati lasciando ferite profonde e aperte nella società civile del nostro Paese.
Il delitto Rindi è per Pisa quello che l’assassinio di Matteotti rappresenta per l’Italia: una svolta decisiva nell’evoluzione del fascismo, dove un partito politico da solo, il partito fascista, si autoproclama unico rappresentante di tutta la nazione. Un secondo effetto di questi episodi ricade soprattutto sulla tenuta dell’ordine pubblico e sulla gestione della giustizia. È evidente come in ambedue i casi lo Stato abdica a gruppi di potere locali e nazionali che si ergono in modo violento e spiccio, a volte in forme contraddittorie, a gestori della sicurezza nazionale.
Mussolini con il discorso del 3 gennaio 1925, assume la responsabilità storica di aver condotto il fascismo attraverso l’illegalità e la violenza al potere, mettendo al bando le residue forme democratiche del vecchio sistema monarchico/liberale, verso la costruzione di uno stato totalitario.
Pisa antifascista ricorderà Ugo Rindi nel secondo dopoguerra con varie manifestazioni e con l’intitolazione della strada che costeggia l’Arena e che partendo da via L. Bianchi arriva fino alla via del Marmigliaio.

NOTE:

1 La Lista nazionale nota comunemente come Listone oltre al Partito nazionale fascista (PNF), che l’anno prima aveva assorbito l’Associazione nazionalista italiana, comprendeva la maggioranza degli esponenti liberali come Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra e, inizialmente, anche Enrico De Nicola (che però ritirò la sua candidatura prima delle elezioni), ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti filofascisti, oltre a numerose personalità della destra liberale e cattolica italiana.
2 Si v. gli art. La elezione politica è stata un plebiscito nazionale e La Votazione di Pisa, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
3 Cfr. G. Mayda, Il pugnale di Mussolini: storia di Amerigo Dùmini, sicario di Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M.L. Salvadori, L’antifascista: Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Roma, Donzelli, 2023.
4 All’anagrafe Ugo Gustavo Ruffo Rindi nasce a Pisa il 21 maggio 1882 da Emilio e Rosa Lorenzetti. Per un inquadramento generale sulla storia del lavoro e sindacale di Pisa nel periodo cfr. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS edizioni, 2016.
5 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il funzionario di servizio della Questura di Pisa al Procuratore del Re, 9 aprile 1924. Il quotidiano dei socialisti il giorno dopo la notizia della morte di Rindi riporta il fatto con il titolo esemplificativo: L’esecuzione capitale di un tipografo a Pisa, «L’Avanti!», 10 aprile 1924. Nell’articolo si fa riferimento alla similitudine del caso Rindi con quella del socialista Piccinini assassinato a Reggio Emilia in febbraio. 6 6 Per la cronaca pisana si v. anche Misterioso assassinio a Pisa. Un tipografo ucciso a pugnalate, «La Nazione», 10 aprile 1924 e Il tipografo ucciso, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
7 Il progetto di riordino è stato realizzato grazie ad un contributo della Fondazione Pisa e della Biblioteca Franco Serantini e realizzato dalla dr.ssa Giulia Vierucci. Ringrazio la direttrice dell’Archivio di Stato di Pisa, dr.ssa Jaleh Bahrabadi, per la disponibilità e la collaborazione e per l’autorizzazione alla consultazione dei materiali.
8 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, Rinvio a giudizio Carosi Alessandro … [et al.] per omicidio premeditato, 13 febbraio 1925 (d’ora in poi Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …)
Caponi si eclissa ma raggiunto dalle notizie delle minacce fatte alla famiglia decide il giorno dopo di costituirsi alle autorità rimanendo in carcere per circa due mesi. La «falsa» notizia dell’agguato nel quale sarebbe rimasto ferito Poli propagata dai vertici della Federazione pisana del fascio è immediatamente ripresa dalla stampa nazionale. Cfr. “Chauffer” ferito da uno sconosciuto mentre attende a una riparazione, «Il Corriere della sera», 9 aprile 1924.
9 La moglie accorsa in ospedale ebbe il tempo di ascoltare dalla voce del marito morente la nuda e tragica verità dei fatti. Poli nell’inseguire il Caponi attraversò un fosso e risalì la sponda opposta mentre i suoi iniziavano a sparare. Nella concitazione degli avvenimenti gli squadristi non si accorsero che sparavano nella sua direzione ed un colpo da fuoco «amico» lo prese in pieno. Alla moglie furono fatte molte pressioni da parte dei «camerati» di suo marito e gli venne garantito un vitalizio da parte della Federazione pisana del fascio e al processo Rindi dell’anno successivo confermò la versione «ufficiale» sulla dinamica dei fatti contribuendo all’assoluzione degli imputati. Solo dopo vent’anni, alla riapertura del procedimento contro i responsabili dell’omicidio di Ugo Rindi la vedova Poli racconterà la verità. Va qui ricordato che all’epoca la magistratura non aprì nessun fascicolo per perseguire i responsabili della morte dello squadrista, nonostante dopo pochi giorni fosse a conoscenza di tutti i nomi dei presenti al fatto. Poli venne sepolto con tutti gli onori del caso entrando nell’albo dei «martiri» del fascismo.
10 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
11 Ib.
12 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Verbale di visita di località e rimozione di cadavere, Pisa, 9 aprile 1924 e Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Stazione di Portanuova, Verbale di omicidio in persona di Rindi Ugo ad opera di 5 sconosciuti, Pisa, 9 aprile 1924. Carosi, accompagnato da Malmusi e da altri tre squadristi, si è presentato intorno all’1,30 a casa della famiglia Rindi, annunciandosi come commissario di P.S. si è fatto aprire la porta e ha chiesto a Rindi di seguirlo perché indiziato di omicidio.
13 Il padre Emilio, nato a Pisa il 30 giugno 1858, operaio tipografo è stato un attivo militante internazionalista nelle Pisa post-unitaria. Cfr. M. Bacchiet, Malfattori e birrri nel fosco fin del secolo morente. Pisa 1872-1900, Ghezzano, BFS edizioni, 2023, pp. 86-88.
14 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
15 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, a. 1922 e sgg., Carosi Alessandro … [et al.], Comando della Legione territoriale dei carabinieri di Livorno, Compagnia di Pisa, Verbale della denuncia di Bruno Santini … [et al.] in ordine all’omicidio volontario in persona Rindi Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
16 Alessandro Carosi nato a Roma il 9 febbraio 1899 da Emilio e Pia Antilli, commerciante, arrestato l’11 aprile 1924. Cfr. L’arresto d’un sindaco fascista per l’uccisione del tipografo pisano, «Il Corriere della sera», 12 aprile 1924.
17 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
18 M. Palla, I fascisti toscani, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Toscana, Torino, Einaudi, 1986, pp. 473.
Antonio Sanguigni nato a Pisa il 12 febbraio 1896 da Giuseppe e Assunta Del Rosso, residente a Vecchiano, possidente, detenuto dal 23 aprile 1924. Sanguigni verrà poi «giustiziato» dai partigiani nella notte tra il 4 e 5 agosto 1944 in località Faeta.
19 Ranieri Cola nato a Vecchiano il 18 maggio 1899 da Luigi e Teresa Pardi, terrazziere, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
20 Giuseppe Del Pellegrino nato a Vecchiano il 16 settembre 1900 da Amadio e Zoraide Bartelloni, orticultore, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
21 Giuseppe Malmusi nato a Modena il 21 maggio 1897 da Giuseppe e Margherita Malmusi, studente, arrestato il 21 luglio 1924.
22 Francesco Adami nato a San Paolo in Brasile il 7 settembre 1893 da Pio e Maddalena Stefani, residente a Pisa, studente, detenuto dal 19 aprile 1924. Adami durante gli anni del fascismo continuerà la propria militanza, dopo la caduta del fascismo sarà tra i fondatori del Fascio repubblicano. Nominato il 1° ottobre 1943 Prefetto di Pisa, carica che mantiene fino alla fine del mese, seguirà poi Buffarini Guidi al nord. La sua nomina a Prefetto è contraddistinta da continui arresti di molti antifascisti e una gestione dell’ordine pubblico violenta e arrogante.
23 Filippo Morghen nato a Castellina Marittima il 22 febbraio 1882 da Antonio e Margherita Werner-Debeauvert, residente a Pisa, avvocato, arrestato e detenuto dal 19 aprile al 24 ottobre 1924.
24 Girolamo Grimaldi nato a Livorno il 27 luglio 1888 da Ernesto e Argia Cappelli, capostazione ferroviario, residente a San Giuliano Terme, detenuto dal 19 aprile 1924.
25 Giuseppe Biscioni nato a Calci il 3 marzo 1900 da Gino e Marianna Malanima, studente, detenuto dal 21 aprile 1924. Biscioni la sera dell’8 aprile ha l’incarico di guidare una seconda squadra verso Porta Nuova alla ricerca della famiglia Bucchioni, ben noti esponenti antifascisti e libertari della zona. Trovati a casa il padre Ferruccio e i figli, Azelio e Libertaria, non passa a vie di fatto solo perché i membri della sua squadra si rifiutano di eseguire l’ordine di uccidere i malcapitati. ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
26 Ovidio Chelini verrà arrestato a fine aprile del 1924 anche per un altro tentativo di omicidio nei confronti di Alfredo Gemignani, antifascista, ferito a colpi di rivoltella la sera del 23 marzo. Cfr. Un altro delitto scoperto presso Pisa, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
27 Per la cronaca si v. i nn. del «Messaggero toscano» del 10 e 23 aprile e 3 maggio 1924. Inoltre gli art. Nuovi particolari sui fatti di Pisa, «L’Avanti!», 25 aprile 1924 e Rivelazioni sui misfatti di Pisa. Il Rindi ucciso con due pugnalate, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
28 La sottoscrizione raccolse nelle settimane successive una quota considerevole, circa undicimila lire, poi venne bloccata su pressione del commissario straordinario Freddi timoroso che questo gesto di solidarietà si tramutasse in un affronto al potere locale del fascio. Venne ripresa in autunno raggiungendo le dodicimila lire per poi essere immediatamente chiusa. 29 Si v. «Il Messaggero toscano», nn. del 30 aprile, 10 giugno e 29 ottobre 1924.
30 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Compagnia di Pisa, Dichiarazione resa da Rindi Lavinia in merito all’uccisione del proprio fratello Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
31 Il caso Rindi mette in luce una radice leggermente diversa sulla natura delle divisioni tra i fascisti in città, di genere più personale e legata strettamente al controllo del potere, rispetto alla narrazione fino ad ora accreditata sul piano storiografico e cioè di un dissidio politico nato tra la componente, più in linea con alcuni dei valori originari del primo squadrismo, radicale, ancorato agli ideali dell’interventismo e del mito della guerra nazionale, e quella di origine agraria, con una matrice nel conservatorismo antidemocratico delle classi medie della provincia e dichiaratamente più violento. Emerge dalle biografie personali dei protagonisti, in gran parte di estrazione piccolo borghese, un «ceto» e una «generazione», con un profilo psicologico e antropologico di uomini che aspirano ad un benessere e ad un prestigio che credono acquisito di diritto con la partecipazione alla guerra e bramano un potere rivendicato manu militari attraverso un breve periodo di stragi e baldoria. Va ricordato che il problema della violenza dello squadrismo pisano, spesso espressione di una rabbia sorda e furiosa, che si mantiene anche dopo gli anni caldi del 1921-’22, è un tema che viene dibattuto anche nel 5° congresso provinciale del PNF del dicembre 1923, che approva una risoluzione di condanna dei continui abusi, soprattutto nel capoluogo, esercitati da squadre provenienti anche da altre località. La risoluzione afferma: «Se gli atti commessi nella giurisdizione del fascio pisano da fascisti appartenenti a qualunque fascio, saranno considerati reato, il direttorio denuncerà all’autorità competente i fautori assumendone piena e completa responsabilità» («Il Messaggero toscano», 15 dicembre 1923).
32 E. Ragionieri, Il partito fascista (appunti per una ricerca), in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), t. 1, Firenze, L.S. Olschki, 1971, p. 68.
33 «Il Messaggero toscano», 30 agosto 1924.
34 L’episodio è ricordato da Piero Zerboglio, figlio di Adolfo. Il capitano degli alpini, forse lo stesso Santini, si presenta agli astanti «camerati» affermando che non avrebbe permesso a nessuno di entrare nello studio di Zerboglio, padre di un eroe della Prima guerra mondiale. Infatti il figlio Enzo era caduto combattendo valorosamente alla fine dell’ottobre del 1918 e per questo era stato decorato con la medaglia d’oro al valore. Cfr. Biblioteca F. Serantini, sez. Archivio, P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto.
35 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
36 Cfr. Conflitto tra fascisti a Pisa, «Il Popolo», 20 settembre 1924. Fiaschi verrà poi condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere, Giudici, Giudizi e Giudicati, «Il Ponte di Pisa», 5-6 settembre 1925.
37 Cfr. La fine del processo per l’assassinio del tipografo Rindi. Tutti gli imputati assolti, «La Stampa», 27 settembre 1925.
38 Cfr. G. Ghislanzoni, La doppia vita dell’ex squadrista Carosi, «Corriere dell’informazione», 1-2 febbraio 1965.
Tra i numerosi articoli si v. ad esempio quelli pubblicati dal quotidiano «La Stampa» di Torino: Scoperto dopo la morte l’uccisore di due socialisti vissuto sotto falso nome a Roma, e 39 L’ex squadrista ricercato per due omicidi aveva anche ucciso e bruciato l’amante, «La Stampa», Torino, 31 gennaio e 2 febbraio 1965. Cfr. anche Chi ha aiutato il fascista pluriomicida?, «L’Unità», 1° febbraio 1965.
40 Cfr. P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il mulino, 1997, ad indicem.
41 Senato della Repubblica, IV Legislatura, 296a seduta pubblica, Resoconto stenografico, venerdì 14 maggio 1965, pp. 15594-15598.

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.




Le Scuole Leopoldine, scenario di violenze e anticamera della deportazione nei lager nazisti.

Nei resoconti che parlano della secolare storia delle Scuole Leopoldine di piazza Santa Maria Novella a Firenze, dove oggi si trova il Museo Novecento, difficilmente si scopre ciò che vi accadde nel 1944, quando l’edificio fu requisito dalle truppe germaniche di occupazione. Pochi sanno che qui, come reazione furente allo sciopero generale dei primi di marzo del 1944 indetto dal Comitato di Liberazione nazionale, furono concentrati, interrogati, registrati e quindi deportati nel lager nazista di Mauthausen le lavoratrici e i lavoratori scioperanti, arrestati dai militi della Repubblica Sociale Italiana insieme a persone rastrellate per strada in modo indiscriminato a Firenze e in provincia, in particolare nel pratese e nell’empolese[1].
Prima esplicita opposizione di massa al fascismo, questo sciopero è considerato dagli storici, per le sue dimensioni e ripercussioni, uno degli eventi più straordinari della resistenza civile europea. Alcune fonti stimano circa 500.000 aderenti. Gli organizzatori parlarono di un milione di partecipanti, le autorità nazifasciste di circa 200.000[2]. Le reazioni dei nazisti e dei fascisti repubblicani furono immediate. Nonostante la rinuncia ad eseguire l’ordine di Hitler di deportare il 20% degli scioperanti, derivante dalle condizioni in cui si trovavano le forze occupanti e dalla volontà di evitare azioni che avrebbero prodotto sollevazioni popolari ancora maggiori[3], i costi umani furono elevati, anche a causa della complicità e fattiva collaborazione della milizia fascista e di una parte dei dirigenti d’azienda.
Per i nazisti, ogni occasione di repressione e pretesto di rappresaglia era utile per deportare in massa uomini e donne in grado di lavorare a favore dell’industria bellica del Reich. Oltre a costituire un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile, le deportazioni avevano infatti anche l’obiettivo di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù.
In Toscana[4], come nel resto dell’Italia centro-settentrionale, la repressione fu dura: i rastrellamenti furono indiscriminati, si arrestarono gli operai che avevano scioperato ma anche quelli che non avevano scioperato, nonché impiegati, professionisti e perfino ignari passanti[5]. I fascisti effettuarono i rastrellamenti a Empoli, a Prato e nel centro di Firenze, soprattutto nel rione di San Frediano. Del rastrellamento e «invio in Germania di alcune centinaia» troviamo traccia nel rapporto della Militärkommandantur (Comando militare) di Firenze del 13 marzo 1944, in cui si parla dell’arresto di «elementi perturbatori pericolosi» e si sottolinea «l’energico intervento delle autorità italiane». Inquietante è inoltre il riferimento alla preparazione di «liste»[6], che furono in effetti messe a punto da molte aziende in cui erano avvenute astensioni dal lavoro[7].
Centinaia furono i fermati in provincia, arrestati per strada, prelevati da casa o direttamente dalle fabbriche e rinchiusi in luoghi di raccolta (spesso nelle caserme dei Carabinieri o nelle Case del Fascio, a Prato nella Fortezza medievale del Castello dell’Imperatore, sede della Guardia Nazionale Repubblicana), dove avvennero le prime selezioni. Gli arrestati in provincia furono poi portati a Firenze con i pullman o con degli autocarri, e «scaricati» davanti al grande edificio delle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella, centro di raccolta regionale dove erano state già condotte le persone rastrellate in città. Molti sopravvissuti al loro ritorno dai lager hanno riferito del grande beffardo cartello che era affisso sul palazzo: «Operai volontari per la Germania».
Documenti originali che si trovano all’Archivio Storico del Comune di Firenze, emersi solo molto recentemente grazie alla collaborazione dell’Archivio stesso, attestano che le autorità tedesche di occupazione che avevano requisito l’edificio, lo avevano classificato come «Sammellager», cioè letteralmente ‘campo di raccolta’[8], facendo sì che anche questo edificio entrasse a far parte dell’articolato sistema concentrazionario nazista. Alle Scuole Leopoldine si svolsero nei giorni 7 e 8 marzo 1944 le prime schedature e i primi interrogatori da parte delle SS, aiutati da un interprete. Ebbe un ruolo importante anche il Reparto Servizi Speciali della RSI comandato dal criminale fascista Mario Carità, che molti testimoni dicono di aver visto in quei giorni nei corridoi e nelle aule dell’edificio. Alcuni fermati furono rilasciati grazie ad interventi vari, altri ancora riuscirono a fuggire. La mattina dell’8 marzo 1944 la piazza era gremita di persone alla ricerca di notizie dei propri familiari. Le donne, pur avendo partecipato in gran numero allo sciopero, vennero escluse dalla deportazione[9] e rilasciate, mentre 338 uomini furono portati nel pomeriggio alla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella poco distante e, stipati nei vagoni piombati già predisposti, deportati nel lager di Mauthausen (dove arrivarono l’11 marzo) e nei suoi sottocampi, tra i più terribili dell’intero sistema concentrazionario nazista. Sopravvissero in 64, cioè il 19%.
Poco è pubblicato nei libri di storia locale sull’argomento delle Scuole Leopoldine come centro di raccolta degli arrestati nel marzo 1944, la cui vicenda è documentata al Museo della Deportazione e Resistenza di Prato[10]. Molto si trova però nella memorialistica, in particolare all’interno del corpus di interviste ad ex-deportati raccolte dal Prof. Andrea Devoto alla fine degli anni ’80 in collaborazione con l’ANED[11], l’Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti, nelle sezioni di Firenze, Prato, Empoli e Pisa, che si adopera da decenni per conservare la memoria della deportazione politica.
Il 6 marzo 2017, la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato, in collaborazione con l’ANED Toscana, l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, il Comune di Firenze/Museo Novecento e la Regione Toscana, ha realizzato per la prima volta negli spazi del Museo Novecento (Ex Scuole Leopoldine) un evento di approfondimento storico dal titolo La memoria di un luogo: marzo 1944, arresti e deportazione, cui è seguita la lettura teatrale, a cura del Teatro d’Almaviva, di brani di interviste a testimoni sopravvissuti ai lager. Tra queste si ricorda quella di Roberto Castellani, per molti anni presidente della sezione ANED di Prato:

Noi (di Prato) ci presero e ci portarono in Fortezza, lì dai repubblichini, poi ci prese un pullman e ci portarono in piazza Santa Maria Novella alle Scuole Leopoldine, la sera; s’arrivò lì e trovai altre persone che erano già state prese a Prato e tra questi ci trovai anche il Pitigliani, che lui era ebreo, pensi che situazione! Lo conoscevo. Disse «Oh Castellani, ci sei anche te?» E io ebbi un po’ di paura e dissi: «Icché ci fanno?» «Eh, non ci fanno nulla, stai tranquillo domani ci mandano via tutti, o forse, dice, ci manderanno a fare dei fossati a fare delle trincee». Viene la mattina presto un maresciallo delle SS e ci fanno un interrogatorio, persona per persona. Mi chiamano, e mi domandano «Te che hai fatto lo sciopero?» «Sì», I’avevo fatto, non avevo mica nulla da nascondere, dice «Che mestiere tu fai?» «Lavoro alle filande» «Va bene, lo sai, dice, che è proibito fare lo sciopero?» «Mah, io non lo so, mi dissero di fare festa e feci festa, ecco», e basta. Mi dissero «Vai via» e mi mandonno via; suppergiù le solite domande le fecero a tutti. La mattina dell’8 marzo arrivarono tanti altri, tanti tanti, più che la sera, furono presi nelle fabbriche…[12] .

Fiorello Consorti, altro testimone, ricorda:

E invece la mattina dissero: «Mettetevi lì!» Ci si mise lì, ce n’era degli altri: s’aspettò e poi ci portarono via. Fui uno degli ultimi ad essere preso, e ci portarono in fortezza … poi ci portarono a Firenze, in questa scuola qui, c’era scritto «Lavoratori volontari», un cartellone di propaganda … fanno come tutti, vede: loro fanno uguale: mettono i cartelli per far credere quello che vogliono ma invece non è in quella maniera. Ci scaricarono tutti lì, perché gli autobus li appoggiarono a quegli scalini, aprivano gli sportelli, un repubblichino fuori col mitra, e ci scaricarono tutti sul sagrato e ci misero dentro, e dentro c’era un cortile col loggiato[13].

Anche Alberto Ducci, per molti anni presidente della sezione ANED di Firenze, era stato portato alle Scuole Leopoldine. Questi i suoi ricordi:

E così la mattina ci han fermato in piazza Dalmazia a Firenze e ci hanno chiesto i documenti a tutti e tre: gli altri due li hanno rimandati, e me mi hanno detto che dovevo seguirli perché il prefetto mi doveva parlare. Questi documenti li han controllati in un elenco che avevano questi repubblichini, dopo di che mi han fatto salire su un camion militare, dove ho trovato altri repubblichini con tanto di mitra, e altri sventurati, una decina o 12, ci hanno portato giù alle Scuole Leopoldine in piazza Santa Maria Novella. C’erano tantissime persone, mi ricordo questo: di un certo Ballerini, di Campi, che fin dall’inizio cercò di farci un po’ di coraggio. Ricordo ci trovai un repubblichino di Bagno a Ripoli, un certo Calosi, e mi permisi di dirgli, «Guardi, la mi conosce, io non ho fatto nulla» e lui mi gridò che ero un traditore, insomma, e roba del genere, e quindi non ci fu nulla da fare: anzi, poi dissero che ci avevano messo nel gruppo delle facce sospette, giù, mentre si scendeva dalle aule che eravamo ai piani superiori, ci sistemarono a gruppi giù in questa specie di giardino al piano terra, e di lì dissero che eravamo delle facce sospette, ci fecero partire a gruppi, non mi ricordo, di 15, di 20, per farci salire sui camion, e quando passavamo davanti ci sputavano addosso, insomma, ce ne facevano di tutte[14].

Questo invece il racconto di un altro presidente della sezione ANED di Firenze, Mario Piccioli:

Fui preso, perché il giorno avanti presero mia madre che lavorava alla cartiera Cini in via Arnolfo. Lì c’era una grande fabbrica di cartotecnica e grafica, e appunto per gli scioperi che fecero furono prese diverse, che erano quasi tutte donne. E difatti la sera noi s’era a casa, e questa donna la ‘un tornava. E allora, che si fa, che non si fa? Dopo la mia zia ci avvisò che queste donne erano state portate alle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella. […] Quando siamo dentro alle scuole (un repubblichino) mi porta su; queste donne l’erano tutte in un’aula, no? e quelle altre erano piene di uomini che avevano preso da Prato, da Empoli, dalle fabbriche. Mi buttarono dentro un’aula con loro. Dopo un poco, gli fo a un carabiniere. «Per piacere, sento piangere, c’è una stanza dove ci sono delle donne, ci deve essere anche la mi’ mamma, sicché già che sono qui …». M’accompagnò. Difatti c’erano tutte le donne della fabbrica e c’era anche mia madre ma passarono solo due minuti perché mi sentii riacchiappare per il colletto e portare via. Poi mi portarono da una signorina a una macchina da scrivere, era tedesca, ma parlava un poco d’italiano, e ci chiedeva i connotati e scriveva. Verso mezzogiorno ci dettero, a quell’epoca c’era i filoncini lustri di 300 grammi, un filoncino per uno e un pochino di formaggio. Allora si cominciò a dire, non ci lasciano andare, perché ci danno da mangiare! E difatti dopo un po’ venne uno della milizia: «Voi traditori della patria pagherete caro!». Chiamarono 20 di noi, io non c’entrai fra questi, loro andarono via e noi si aspettò. Dopo quello della milizia ritorna, la solita musica: altri 20 e io entrai in questa mandata. La piazza era piena e c’era preparato un camion con quattro Tedeschi, uno per lato, e noi 20 ci buttarono sopra; imboccarono da piazza Santa Maria Novella, quella stradina lì, Via degli Avelli, poi al bagagliaio della stazione dalla parte di dietro, di via Alamanni. Salirono su con questo camion e s’andette proprio dentro alla stazione. E lì c’era un mare di Tedeschi, una tradotta bell’e preparata, tutto il convoglio, e ci buttarono dentro un vagone bestiame[15].

Tra gli arrestati c’era inoltre Piero Scaffei, che a proposito delle vicende del marzo 1944 ricorda:

Ecco, una volta entrato nelle Scuole Leopoldine, dove c’è gli archi, dove ora c’è la nostra lapide, non si riuscì più. Mi presentai lì, c’era una signorina a un tavolo, tedesca, non so, o italiana che parlava il tedesco, questo non lo so. Dalle Scuole Leopoldine montai sul camion anch’io e mi portarono alla stazione di Santa Maria Novella […]. C’era i carri bestiame già tutti pronti, brum. Carri bestiame, niente, nudi e crudi. Tutti s’aspettava, tutti pensavano, «Ci manderanno a Cassino a fare trincee” perché il fronte era a Cassino in quel momento. Poi quando vidi che si andava verso Prato dissi “ma qui si va in su, si va al nord»[16].

È importante che cittadini, turisti e studenti conoscano questo luogo della memoria, poco noto come tale. Nonostante una piccola targa, posta sulla parete interna del loggiato, renda il giusto omaggio alle vittime, occorre spiegare cosa avvenne al suo interno. La memoria passa infatti anche attraverso la conoscenza di edifici che, come questo, furono scenario di persecuzione e anticamera dell’estrema violenza e della morte nei lager.

 

Note

1. Si veda sul tema il saggio da cui sono tratte parti del presente contributo: C. Brunelli e G. Nocentini, La deportazione politica dall’area Firenze, Prato ed Empoli, in Il libro dei deportati. Volume II. Deportati, deportatori, tempi, luoghi, a cura di B. Mantelli, Mursia, Milano 2010, pp. 620-658.
2. L’importanza dello sciopero fu compresa già allora dalla stampa statunitense. Il 9 marzo 1944 il “New York Times” (che parlò di svariati milioni di scioperanti) scrive: «In fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani». Anche il giudizio degli storici dei nostri tempi non differisce molto da questa analisi: «Come dimostrazione politica, lo sciopero generale ebbe una grandissima importanza. Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. Fu il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti». Si veda L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 225.
3. Ivi, pp.221-222. Si veda anche, a questo proposito E. Collotti, L’occupazione tedesca in Toscana, in Storia della Resistenza in Toscana, vol. I., a cura di M. Palla, Carocci, Roma 2006, pp. 85-146.
4. Per maggiori informazioni sugli scioperi in Toscana si rinvia a: F. Taddei, Il Pignone di Firenze 1944/1954, La Nuova Italia Editrice (Toscana Sindacato), Firenze 1980; in particolare L. Malgalaviti, Il Pignone tra Resistenza e ricostruzione, pp.119-144, che a p.128 testimonia come alle famiglie dei deportati il Pignone avesse inviato il 27 marzo 1944 lettere di licenziamento per «assenza arbitraria dal lavoro». Si vedano inoltre: L. Mancini, Le sigaraie: lavoro e organizzazione produttiva nella Manifattura tabacchi di Firenze fra Resistenza e dopoguerra, in Ricerche storiche, Edizioni Polistampa, Firenze gennaio-aprile 2004; Era la Resistenza. Il contributo di Empoli alla lotta contro il fascismo e per la liberazione, a cura di P. L. Niccolai e S. Terreni, Giampiero Pagnini Editore, Firenze 1995; M. Carrai, Lotte sindacali e democrazia: 1919-1948, p. 122, in La tradizione antifascista ad Empoli 1919-1948, atti del convegno (Empoli, 23 aprile 2004), a cura di P. Pezzino, Pacini Editore, Pisa 2005; M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del Terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Livorno 1987.
5. Gli stessi occupanti, nel rapporto della Militärkommandantur di Firenze del 13 aprile 1944 a poco più di un mese dal giorno della deportazione, ammisero che «un notevole numero (…) di italiani, del tutto innocenti, è stato deportato in Germania senza ragione». Toscana Occupata. Rapporti delle Militärkommandanturen, introduzione di M. Palla, Leo S. Olschki, Firenze 1997, p.143.
6. «Incitati dalla propaganda nemica e inaspriti dalla penuria di generi alimentari i lavoratori hanno tentato di scioperare anche nella provincia di Firenze, particolarmente a Prato, ad Empoli e nella stessa Firenze in diverse fabbriche. L’energico intervento delle autorità italiane, sollecitate dal Comando militare, e in particolar modo l’invio in Germania di alcune centinaia tra gli elementi perturbatori più pericolosi hanno fatto sì che l’agitazione ben presto rientrasse e il lavoro venisse ripreso. Attualmente nelle aziende nelle quali si è scioperato si preparano liste di nominativi degli scioperanti e tra questi si segnalano in particolar modo i sobillatori, allo scopo di poter disporre di materiale per arresti per future occasioni». Ivi, p. 116.
7. Esempi di liste con nomi di operai scioperanti sono conservate in copia al Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Figline di Prato.
8. Si veda presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi), Fondo Scuole Leopoldine, Affari spediti 1944, coll. SL 91, in particolare il documento a firma del tenente colonnello della Wehrmacht Gieseke del Comando germanico di Piazza di Firenze riguardante la «Requisizione di edifici per scopi di impiego nel lavoro» (Arbeitseinsatzzwecke). Di seguito la traduzione testuale della lettera datata 2 marzo 1944: «Le Scuole Leopoldine a Firenze Piazza Santa Maria Novella n. 10 sono da subito requisite per la Wehrmacht tedesca. La scuola è a disposizione della sezione amministrativa militare del lavoro come campo di raccolta (Sammellager) per manodopera italiana destinata al trasferimento in Germania».
9. Si veda il racconto di Mario Piccioli, contenuto in M. Piccioli, Da San Frediano a Mauthausen, a cura di B. Confortini, comune network, Firenze 2007.
10. Il museo, voluto fortemente dai sopravvissuti pratesi ai lager di Mauthausen ed Ebensee e inaugurato il 10 aprile 2002, è una delle poche strutture in Italia ad essere dedicata in modo specifico alla memoria della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti.
11. cfr. La Speranza Tradita. Antologia della deportazione politica toscana, a cura di I. Verri Melo, Pacini Editore, Giunta regionale Toscana, Firenze 1992, con un’appendice inserita nella seconda edizione del febbraio 2014, a cura della Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato con le biografie dei testimoni intervistati, tra cui quelle che seguono nelle note.
12. Operaio al lanificio San Martino di Prato, fu arrestato in piazza San Francesco a Prato il 7 marzo 1944 nell’ambito di una retata effettuata in seguito agli scioperi. Come molti altri pratesi, Castellani si era recato nel centro cittadino per verificare gli effetti di un bombardamento alleato che si era abbattuto sulla città. Detenuto nella Fortezza di Prato (sede della Guardia Nazionale Repubblicana) e alle Scuole Leopoldine di Firenze, a Mauthausen fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.027. Il 25 marzo 1944 venne trasferito al sottocampo di Ebensee dove fu assegnato ad una squadra che curava i giardini delle SS. Successivamente, dopo aver disertato il lavoro per restare accanto ad un amico malato, fu inviato per punizione a lavorare nelle gallerie. Liberato ad Ebensee il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, è stato un testimone instancabile, prodigandosi per l’istituzione del gemellaggio della pace tra Prato ed Ebensee e per la creazione del Museo della Deportazione di Prato. R. Castellani, Intervista del 20 aprile 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20. 28.
13. Rivedibile alla visita di leva, Fiorello Consorti lavorava come operaio in una ditta tessile a Prato. Arrestato da un carabiniere e dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana l’8 marzo 1944 in via Mazzoni, fu detenuto nella Fortezza di Prato (sede GNR) e alle Scuole Leopoldine di Firenze. Arrivato a Mauthausen, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.076. Trasferito al sottocampo di Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice, fu liberato il 6 maggio 1945 dagli americani. F. Consorti, Intervista del 24 giugno 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20.
14. Ducci, che al momento dell’arresto lavorava come operaio, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft) a Mauthausen, dove ricevette il numero di matricola 57.101. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò dapprima all’ampliamento del campo e successivamente nelle gallerie. Liberato il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. A. Ducci, Intervista del 22 marzo 1988, in Fonti 4. 9. 16. 19. 20.
15. Commesso in una pizzicheria, Piccioli fu arrestato la mattina dell’8 marzo 1944 da un agente in borghese della Guardia Nazionale Repubblicana in piazza Santa Maria Novella, dove si era recato per cercare la madre, arrestata la sera prima per aver partecipato allo sciopero e reclusa nel centro di raccolta alle Scuole Leopoldine. La madre fu rilasciata insieme alle altre donne. Mario invece fu deportato lo stesso giorno nel campo di concentramento di Mauthausen. Numero di matricola 57.344, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft). Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice. Il 10 settembre 1944 venne trasferito nel sottocampo di Linz III e impiegato in lavori esterni, soprattutto nel trasporto merci. Durante un bombardamento alleato alla fine del 1944 il rifugio della sua squadra di lavoro venne colpito. Di trentadue uomini se ne salvarono solo quattro, tra cui Mario, che, ferito ad una gamba, fu trasferito in infermeria. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. M. Piccioli, Intervista del 28 gennaio 1988, in Fonti 4. 8 n.3-5/2010. 9. 16. 20. 23. 28.
16. Arrestato l’8 marzo 1944 in piazza Santa Maria Novella, Scaffei fu deportato lo stesso giorno. Classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevette il numero di matricola 57.399. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò come manovale all’esterno delle gallerie. Il 16 maggio 1944 fu ricoverato in infermeria in seguito ad un’infezione alla mano e successivamente trasferito nel Sanitätslager (infermeria) di Mauthausen. Probabilmente a metà agosto 1944 venne nuovamente trasferito a Linz III. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. P. Scaffei, Intervista del 21 gennaio 1988, in Fonti 4. 9. 16. 20.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Una giornata della Tecnica

4 Maggio 1941. É un giorno che cade di domenica, ma le scuole sono aperte, i laboratori funzionanti, i corridoi percorsi da torme di visitatori. Non è una situazione che si verifica dappertutto: chiusi sono i licei, e così le scuole elementari e le nuove scuole medie. Ad aprire le porte sono soltanto istituti tecnici, scuole d’avviamento e scuole tecniche. Così infatti il governo fascista, e soprattutto il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, avevano programmato di celebrare la ricorrenza della neonata “Giornata della Tecnica”, che varata nel novembre 1939, aveva conosciuto la sua prima celebrazione il 2 Giugno 1940. A sancirne la nascita, un radiodiscorso del Ministro, pronto a evidenziare il ruolo che la manifestazione avrebbe dovuto assumere nel convincere giovani e famiglie a preferire
l’istruzione tecnica e professionale a quella liceale verso cui, asseriva, troppo alto continuava a essere il numero di iscritti.
Se istruzione tecnica e professionale appaiono unite in questa manifestazione, questo non vuol dire che non costituissero, oggi come allora, due percorsi nettamente divisi. Più lunga e consolidata la vicenda temporale dell’Istituto tecnico: sorto con la riforma Casati del 1859, era stato riformato dalla Legge Gentile che aveva previsto, come collegamento tra scuola elementare e Istituto tecnico superiore, un corso intermedio (denominato Istituto tecnico inferiore) di quattro anni dove centrale appare lo studio del latino. Frastagliato appare invece il percorso dell’istruzione professionale, che fino al 1928 fu sempre prerogativa di Ministeri di carattere industriale ed economico: basti qui sapere che le scuole di avviamento propriamente dette sorsero nel 1929 dalla fusione tra il corso post-elementare (sesta, settima, ottava elementare), le scuole complementari e le scuole professionali gestite fino ad allora dal Ministero dell’Economia Nazionale.
Lungi dal rivelarsi come un cruccio di natura esclusivamente fascista, le preoccupazioni ministeriali, così simili a quelle che avevano motivato il varo della riforma Gentile, traevano le proprie radici da un sostrato primo-novecentesco e liberal-conservatore – che, già in età giolittiana, innalzava alti lai contro la pur moderata crescita di iscritti che le scuole post-elementari, allora frequentate da un selezionatissimo numero di studenti (mai più del 7% delle coorti di età corrispondente), registrarono in quegli anni. Erano ansie destinate a saldarsi, e a giustificare, molti punti della “Carta della scuola” che proprio in quei mesi, dopo aver ottenuto l’approvazione del Gran Consiglio, Bottai si stava apprestando a concretizzare – invero con conseguenze assai limitate, se pensiamo che di tutta l’architettura prospettata solo la scuola media vide la luce, con il Regio Decreto 1° luglio 1940. Proprio l’istruzione media, e in particolare quella tecnico-professionale, era il principale oggetto delle attenzioni della “Carta”. Da una parte, infatti, la nuova scuola media avrebbe unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e
dell’istituto magistrale; caratterizzata dalla corposa presenza dello studio del latino, si presentava come una scuola destinata alle élite, come dimostrava anche la presenza di un esame di ammissione tutt’altro che formale. Dall’altra, la scuola di avviamento professionale, teoricamente destinata alle fasce socialmente ed economicamente più deboli della società, sarebbe stata “sdoppiata” da due nuove scuole, entrambe di durata triennale: la scuola professionale, da fondarsi nelle città medio-grandi, e la scuola artigiana, che sarebbe stata invece inaugurata in tutti gli altri centri urbani e rurali. Più limitate erano le prospettive che questi due istituti, in confronto alla scuola di avviamento professionale, aprivano: mentre i licenziati dalla scuola professionale potevano proseguire i propri studi soltanto iscrivendosi alla biennale scuola tecnica, gli iscritti alla scuola artigiana non disponevano di ulteriori canali di formazione. Passati, come documentano gli Annuari Statitici Italiani del 1932 e del 1943, da 67224 iscritti nel 1930 (dato comprensivo delle scuole soppresse nel 1929 per dar luogo agli avviamenti) a 288558 iscritti nel 1941, gli avviamenti erano diventati, in quegli anni, l’istituto di istruzione media maggiormente frequentato in terra italica. Proprio per questo motivo, il disegno assumeva una caratura politica e sociale marcatamente conservatrice, che andava a intaccare la (pur ridotte) potenziale mobilità sociale assunta dalla scuola di avviamento professionale, che, attraverso la frequenza di un anno di corso integrativo oppure di un esame, consentiva l’iscrizione all’Istituto tecnico – e, in misura nettamente minoritaria, all’Istituto magistrale e persino al Liceo scientifico.
L’istituzione della “Giornata della Tecnica” coincideva dunque con un periodo delicato per il Ministero, coinvolto, nonostante le contingenze belliche, nell’attuazione di una riforma prima procrastinata, poi accantonata in misura definitiva. È sotto la luce di questa contingenza che possiamo leggere il corposo fondo che, nel 1941, i Provveditorati, dietro impulso governativo, produssero, editando monografie incentrate sullo sviluppo dell’istruzione tecnico-professionale nella propria provincia. Un corpus bibliografico che, nella generale carenza di informazioni disponibili per questo segmento scolastico, si rivela inaspettatamente prezioso: l’intento propagandistico, chiaramente evidente e anzi rimarcato anche dai documenti ufficiali e dalle riviste di Regime, consente infatti di vagliare quali, secondo Provveditori e Presidi, costituivano le caratteristiche più salienti delle scuole professionali da loro dirette, e soprattutto quale ruolo dovevano giocare nell’assetto socio-economico italiano: quello di preservare un ordine sociale da tutelare nella sua fissità? Oppure quello di favorire, nel caso di alunni particolarmente meritevoli, la
prosecuzione degli studi? Non derogano a questa diade le monografie dei Provveditorati toscani. Corsi integrativi di collegamento tra scuole di avviamento e istituti tecnici, innanzitutto, sono segnalati soprattutto negli istituti agrari, spesso privi, a differenza dei loro omologhi, di un corso inferiore: corsi integrativi sono infatti in funzione presso gli Istituti agrari di Pescia e Grosseto. Anche gli episodici accenni al collocamento dei licenziati e alla provenienza sociale degli studenti sembrano tradire un quadro socialmente composito: degli ex- studenti che avevano frequentato negli ultimi dieci anni la scuola di avviamento “Margaritone” di Arezzo, il 20,8% degli studenti continuava gli studi; tra gli iscritti alla scuola di avviamento di Foiano della Chiana, il 20% proviene da famiglie di commercianti e industriali e il 15% da nuclei di impiegati. È un quadro composito che convive con le dissonanti sfaccettature con cui, nel presentare a famiglie e funzionari ministeriali le loro scuole, i Presidi toscani, similmente ai colleghi del resto d’Italia, mostrano di nutrire concezioni differenti, a volte dissonanti, sulle prospettive che le scuole di avviamento avrebbero dovuto aprire ai loro licenziati. Se infatti a Chiusi della Verna il Preside afferma che «Numerosi sono gli alunni usciti da questi tre soli anni di avviamento i quali non interrompono i loro studi, ma li proseguono, frequentando le Scuole Tecniche e gli istituti Tecnici Industriali, animati dal desiderio di perfezionare le loro conoscenze, desiderio sorto in parte accanto alle macchine di questa scuola», per converso, il collega della scuola di avviamento “Giuseppe Giusti” di Pescia rimarca come «tale scuola della durata di tre anni ha carattere eminentemente popolare, ed accoglie, subito dopo la quinta elementare, i figli dei lavoratori e della piccola borghesia per avviarli ad un mestiere o ad un impiego s’intende di natura modesta». Emerge qui, nuovamente, la dimensione di contenimento sociale che l’istruzione professionale, fin dalla metà del XIX secolo, ha assunto negli occhi e nella mente di classi dirigenti per le quali le occasioni di mobilità sociale inducevano a preoccupazione e spavento.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro della segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” e della redazione della rivista “Farestoria”, è, dal 2016, parte del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in storia dell’istruzione professionale, memorie scolastiche e letteratura per l’infanzia. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla Tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGraw Hill, 2023).

Articolo pubblicato nel febbraio 2024.




Rivendicazione di diritti negati

Sono numerose le motivazioni per cui, in epoca contemporanea, si è perpetrata a lungo la posizione subordinata delle donne rispetto agli uomini, che ha comportato la loro esclusione dalla sfera pubblica e ha accentuato la divisione dei sessi a livello lavorativo. In Italia, le cose iniziarono a mutare, soprattutto a livello legislativo, dopo il 1945, nonostante già precedentemente ci fossero stati scioperi e manifestazioni che avevano avuto come protagonista la compagine femminile.

Durante la Seconda guerra mondiale, come già era accaduto nel conflitto precedente, le donne occuparono posizioni lavorative e sociali dalle quali erano state fino a quel momento escluse. Con il crollo del regime fascista e il ritorno definitivo degli uomini dal fronte, si iniziò a riflettere su come accorciare la distanza lavorativa, sociale e culturale che separava donne e uomini. Nonostante non si ripropose l’aggressività che aveva caratterizzato il primo dopoguerra, in un primo momento l’atteggiamento dei sindacati e dei partiti non sembrò mutare rispetto ai primi decenni del secolo: le rivendicazioni riguardanti il diritto al lavoro femminile e la parità salariale sembravano non rientrare nell’agenda politica comunista, molto più interessata ai problemi di disoccupazione operaia maschile.

A livello legislativo furono sicuramente fondamentali il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 (10 febbraio 1946) – che riconosceva anche alle donne il diritto di voto rendendole cittadine a tutti gli effetti – e l’approvazione della legge n. 860 del 26 agosto 1950, sulla «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri», proposta da Teresa Noce (Pci) e sostenuta da Maria Federici (Dc).

Per quanto riguarda l’attività dei sindacati e delle organizzazioni femministe e democratiche, un momento di svolta fu rappresentato dalla Conferenza Nazionale della donna lavoratrice (Firenze, 23-24 gennaio 1954) patrocinata dalla Cgil e di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario. In tale occasione si affrontarono le questioni considerate più urgenti e che la Costituzione italiana avrebbe dovuto garantire: il raggiungimento della parità salariale; il diritto al lavoro; la tutela della salute e della maternità; il rispetto della libertà nei luoghi di lavoro; l’attuazione di una legislazione che difendesse le categorie più sfruttate.

A gettare le basi per la Conferenza furono due distinti momenti nel 1952: il primo risalente all’aprile, quando su «Le nostre lotte» venne pubblicato un resoconto di quanto emerso il 25 marzo durante la riunione a Roma della Commissione Femminile Nazionale della Cgil. In quell’occasione si iniziò a riflettere sull’importanza di un’azione concreta, svolta attraverso riunioni e assemblee, per discutere delle problematiche che interessavano le lavoratrici. Dai momenti di confronto, sarebbero dovute scaturire «proposte, rivendicazioni, richieste concrete e precise che, raccolte in quaderni» sarebbero state studiate e analizzate, rappresentando la base per la loro realizzazione. La C.F. riteneva che per garantirsi l’appoggio dell’opinione pubblica sui diritti delle lavoratrici, fosse fondamentale il contributo dei comitati cittadini, delle organizzazioni sindacali e delle singole personalità che «con iniziative e attività, ciascuna nell’ambito che le è proprio, contribuisca alla liberazione delle lavoratrici dalla schiavitù e dall’oppressione ed al raggiungimento della loro completa emancipazione». Quanto emerso sarebbe poi culminato in una conferenza nazionale.

Il secondo momento in cui si parlò di una possibile conferenza nazionale fu durante il III Congresso Nazionale della Cgil (Napoli, 26 novembre-3 dicembre 1952), durante il quale si chiese al sindacato di patrocinare una conferenza di tutte le associazioni e gruppi femminili nazionali, che avrebbe portato all’elaborazione della «Carta dei Diritti» per un miglioramento della situazione non solo lavorativa, ma anche abitativa e sociale delle donne italiane.

I lavori di preparazione dell’evento iniziarono molto presto, intensificandosi a inizio autunno 1953. La Commissione di coordinamento e di direzione spronò il coinvolgimento alla mobilitazione delle lavoratrici iscritte alla Cisl e alla Uil, ma anche di coloro non sindacalizzate. Furono invitate a prendere parte all’iniziativa anche tutte le associazioni interessate ai diritti delle donne, tra cui l’Unione delle donne in Italia (Udi), che aveva organizzato a Roma, tra il 10 e il 12 aprile 1953, il Congresso della Donna Italiana. Nonostante si trattò di un evento distinto da quello patrocinato dalla Cgil, permise di iniziare a parlare di temi che sarebbero stati approfonditi durante la Conferenza fiorentina. La Commissione di coordinamento invitò, inoltre, le segreterie delle Camere Confederali del lavoro e le federazione a organizzare assemblee preparatorie e diede le indicazioni per l’elezione delle delegate che avrebbero presenziato a Firenze, scelte durante le assemblee aziendali o interaziendali.

Durante le assemblee provinciali avrebbero preso la parola le lavoratrici del territorio per portare le testimonianze delle condizioni nelle quali si trovavano, così da creare delle Carte rivendicative, attraverso cui avanzare le proprie richieste. Esse avrebbero dovuto indicare una serie di informazioni: tipo e numero di riunioni realizzate in preparazione della Conferenza provinciale e di quella nazionale; numero di partecipanti; azioni rivendicative già intraprese ed eventuali risultati raggiunti. La documentazione prodotta sarebbe stata poi raccolta in ‘album’ con anche materiali fotografici: oltre alle immagini che ritraevano le lavoratrici durante lo svolgimento delle assemblee, si chiedeva di inserire anche quelle che potessero testimoniare le loro condizioni di vita e di lavoro.

Molti risultati positivi dati dall’impegno alla preparazione della Conferenza si ebbero anche dalle attività svolte da alcune federazioni di categoria, tra cui la Federmezzadri, che riuscì ad organizzare un’Assise nazionale e che nella provincia di Firenze promosse la «Giornata della ragazza mezzadra», per dare rilievo anche alle condizioni in cui si trovavano le più giovani.

Per quel che riguarda l’organizzazione della Conferenza, in un primo momento Renato Bitossi sperò che la manifestazione si potesse svolgere al Teatro della Pergola, in quanto sede adatta ad accogliere le numerose persone in arrivo da tutta Italia, ma Eugenio Saccenti, a causa della programmazione del Teatro, non riuscì a soddisfare tale richiesta. Gli organizzatori decisero così di svolgere la prima giornata all’interno dei locali del Parterre, dove sorgeva anche il Palazzo delle Esposizioni, in Piazza della Libertà, mentre il discorso conclusivo di Giuseppe Di Vittorio – segretario generale della Cgil – del 24 gennaio si tenne al Teatro Apollo (già Cinema Rex e oggi Mercure Hotel).

La Conferenza si aprì con i saluti di Elsa Massai – responsabile della C.F. della Camera Confederale del Lavoro di Firenze – che sottolineò come «la emancipazione della donna, il rispetto e le affermazioni dei diritti delle lavoratrici sono elementi indispensabili per l’avvento di quella società giusta, civile, progredita, per cui oggi ci battiamo». Dopo di lei, Fernando Santi dichiarò che la Conferenza non era importante solo per le donne italiane, ma anche per il mondo del lavoro nella sua globalità. Egli evidenziò il carattere unitario e democratico della Conferenza, poiché a presenziare erano delegate di provenienza diversa con lo scopo di lottare per cancellare l’inuguaglianza e per realizzare la giustizia sociale. A portare i loro saluti ci furono inoltre le operaie licenziate dalla Magona di Piombino, che, attraverso i lavori della Conferenza, speravano di riappropriarsi del diritto al lavoro del quale erano state private.

Durante la prima giornata dell’evento, presero la parola anche esponenti arrivate dall’estero, a prova del fatto che la manifestazione fiorentina aveva l’attenzione internazionale. Mary Wolfard, a nome della Federazione sindacale mondiale, riconobbe nella lotta delle lavoratrici italiane quella di «tutte le donne di tutti i Paesi capitalistici e coloniali ed anche quella della Federazione Sindacale Mondiale». Allo stesso modo, Germaine Guillé – delegata della Confederazione Generale del Lavoro Francese – sottolineò come a muovere le lotte delle donne italiane e francesi ci fossero dei motivi e delle esperienze comuni.

Uno dei temi più dibattuti riguardò la parità salariale. Nella sua relazione, Rina Picolato – al vertice della Commissione Femminile Nazionale – sottolineò che l’accorciamento delle distanze tra la retribuzione maschile e quella femminile rappresentava un miglioramento per tutti e non solo per le donne, dal momento che «le basse retribuzioni del lavoro femminile sono spesso sfruttate come elemento di freno al miglioramento delle stesse retribuzioni maschili, al progredire di tutto lo schieramento del lavoro verso un migliore tenore di vita». Direttamente collegato alla questione economica, vi erano anche lo sfruttamento massiccio e i soprusi padronali ai quali venivano sottoposte le lavoratrici, di cui parlò nel suo intervento Gina Casetti – segretaria della C.I. della Pirelli di Torino.

Queste, insieme ad altre questioni portate in auge dagli interventi delle relatrici, sarebbero state affrontate ulteriormente attraverso un’inchiesta popolare – promossa durante la Conferenza – all’interno dei luoghi di lavoro. A intervenire e a portare la loro testimonianza furono operaie, braccianti agricole, impiegate, professoresse, delegate di associazioni di categoria e delle Camere del Lavoro provenienti da tutta la Penisola, a dimostrazione del fatto che la manifestazione fiorentina riuscì ad avere una larga risonanza nazionale. Gli interventi diedero prova delle situazioni difficili condivise da gran parte delle lavoratrici, anche se appartenenti a luoghi e contesti diversi.

Attraverso il discorso di chiusura, Giuseppe Di Vittorio evidenziò come le donne avessero acquisito, anche grazie al lavoro di preparazione della Conferenza, «una chiara coscienza che l’inferiorità cui le condanna la società, lo sfruttamento supplementare cui le sottopongono i signori agrari ed industriali, non sono cose inevitabili come si è voluto far credere e come qualcuno tenta di far credere ancora oggi». Egli denunciò il fatto che nonostante la Costituzione democratica italiana sancisse i principi di uguaglianza civile, economica e morale della donna rispetto all’uomo, ancora troppo spesso essi non venivano applicati: non solo a livello di remunerazione economica, ma anche per quel che riguardava la garanzia di igiene, sicurezza e protezione della lavoratrice. Per combattere contro le condizioni nelle quali si trovavano moltissime lavoratrici e per concretizzare le iniziative promosse dalla Conferenza, era necessario che le commissioni femminili sindacali si unissero alle altre organizzazioni democratiche che avevano a cuore queste questioni.

Alla luce delle carte rivendicative compilate durante le assemblee preparatorie e di quanto emerso durante la manifestazione fiorentina, venne emanata la Carta dei diritti della lavoratrice. Attraverso di essa, si chiedeva che «i principi sanciti dalla Costituzione – conquistata anche per il generoso contributo delle donne alle Lotte di Liberazione Nazionale – siano tradotti in operante realtà», tra questi il diritto al lavoro e l’accesso a tutte le carriere e professioni; retribuzione uguale per uguale lavoro; la protezione per la salute; la tutela per la maternità; il rispetto dei contratti di lavoro; il rispetto della personalità umana e delle libertà anche all’interno delle aziende. Con la Carta vennero inoltre promosse «La settimana dei diritti delle lavoratrici» (1°-8 marzo) e la già citata inchiesta popolare sulla situazione all’interno dei luoghi di lavoro.

La Conferenza ha rappresentato dunque un momento fondamentale di riflessione, aprendo un dialogo e un confronto a livello nazionale: nonostante fu necessario qualche anno per raggiungere risultati importanti, si ambiva a una «Patria democratica e indipendente, giusta e umana, per tutti i suoi figli».

Queste e altre questioni saranno i temi principali della mostra in occasione del 70° anniversario della Conferenza, che verrà inaugurata nella prima settimana di marzo 2024 presso il Complesso monumentale delle Murate di Firenze. Promossa dalla Cgil nazionale e Toscana e dallo SPI nazionale e toscano, in collaborazione con la Fondazione Valore Lavoro e l’Archivio storico nazionale della CGIL, e patrocinata dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana, sarà un’occasione per riflettere su quanta strada si è fatta finora e quanta ne resta da fare per il raggiungimento della piena parità tra donne e uomini.

Martina Lopa si è laureata in Scienzie Storiche all’Università degli Studi di Firenze, con una tesi sul ruolo avuto dalle donne nelle prime associazioni per la protezione degli animali, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.

Articolo pubblicato nel gennaio 2024.




LA LEGGENDARIA BANDIERA ROSSA DEL PONTINO

Un episodio del sovversivismo livornese che, attraverso i racconti orali, è rimasto a lungo nella memoria popolare è quello della funambolica bandiera rossa del Pontino.
La leggendaria beffa è stata narrata in chiave antifascista, a distanza di oltre cinquant’anni, da alcuni militanti comunisti, ma con particolari diversi e, soprattutto, con incerta e contraddittoria collocazione temporale, tanto da indurre in errore chi – compreso il sottoscritto – ne ha riferito.
In realtà, l’avvenimento è tutt’altro che dubbio in quanto, come ho potuto appurare, è attestato e datato dal seguente articolo, pubblicato su la «Gazzetta Livornese» del 29 settembre 1921, in cui è descritto con ricchezza di particolari:

Una bandiera rossa sul Pontino.

La polizia veniva ieri informata che sul Pontino i sovversivi avevano posto in luogo ben visibile una insegna rossa.
Verso le 24 di questa notte alcuni agenti e un plotone di regie guardie si recavano in camion nel luogo indicato.
L’insegna era legata ad un fascio di fili dell’energia elettrica, che passando al di sopra degli stabili del Pontino attraversano il canale – all’altezza di una quindicina di metri e oltrepassano la Fortezza.
Sotto il vento freddo funzionari e agenti lavorarono a lungo a bordo di un navicello per preparare una lunghissima pertica, all’apice della quale era un cencio imbevuto di benzina a cui fu appiccato il fuoco, ma si accorsero che l’insegna era di latta e rimandarono ad oggi l’operazione.

La bandiera in possesso della polizia.

Il Questore, nel pomeriggio d’oggi, ha disposto che alcuni operai specialisti ritentassero la prova onde impossessarsi del vessillo.
Gran folla ha assistito all’… esperimento.
Gli operai mediante una scala Ponte piazzata sulla strada, sono riusciti, operando abilmente, a giungere fino all’altezza dei fili.
La folla ha seguito l’operazione come semplice spettatrice. Alla fine gli operai sono riusciti a staccare la lastra di bandone foggiata a bandiera che però è caduta in acqua.
Una squadra di agenti con funzionari a bordo di una barca, si recavano là dove l’oggetto era caduto e dopo brevi ricerche riuscivano a recuperarlo.
La polizia aveva spiegato un largo apparato di forza.
Non si è verificato alcun incidente.

Appurata dunque la cosiddetta verità storica, può essere interessante considerare le narrazioni più conosciute dell’episodio che, nella loro contraddittorietà, si sovrappongo ad alcuni episodi analoghi, avvenuti negli stessi luoghi, ma in tempi diversi.
Infatti, pochi mesi prima, per festeggiare la vittoria elettorale socialista, «sugli Scali delle Cantine, un marinaio della marina mercantile, salito col mezzo di una fune all’altezza del filo conduttore della luce elettrica, vi stendeva sopra un drappo rosso» («Gazzetta livornese, 18-19 maggio 1921») e il 30 agosto 1930, come riferisce un rapporto di Questura, una bandiera rossa con falce e martello venne appesa sugli Scali del Pontino.
Un primo racconto lo troviamo nell’intervista al comunista Eletto Allegri, classe 1903, raccolta da Iolanda Catanorchi a metà anni Settanta, secondo il quale l’episodio era avvenuto il primo maggio del 1925 o 1926, quindi in pieno regime fascista, e collegata alla figura di Ilio Barontini, segretario della federazione livornese del Partito comunista d’Italia, indicato come il “regista” dell’iniziativa, mentre invece non vi era alcun accenno all’esecutore materiale del gesto, attribuito anzi ad un generico «noi»:

il primo maggio era proibito e allora noi decidemmo di fare qualcosa per il primo maggio. In quell’occasione, ma non mi ricordo bene se era il 25 o il 26, quella data lì di sicuro, ci organizzammo […] si mise una bandiera rossa attraverso dalla fortezza ai fossi del Pontino, dalla fortezza nuova, al centro del fosso, con un cavo. Questa bandiera rossa, lui pensò, sai Barontini ci diceva tutto di fare queste cose, questa bandiera rossa fu messa ma non di stoffa, era un pezzo di lamiera pitturato con il minio e la falce e martello. Barontini disse “vedrete che questa non la spostano”; si mise questa cosa […] E la mattina poi ti puoi immaginare la sorpresa degli operai, delle guardie, a vedere queste cose qui. Noi pensammo al nostro rione, io ero del rione Pontino-San Marco dove abitava Barontini […] mi ricordo appunto l’episodio di questa bandiera; venne i pompieri, la polizia; i pompieri in mezzo con la barca a motore con delle torce cercavano di bruciarla, ma invece si anneriva, diventava rossa e nera e allora dovettero venire con la scala porta, levarla, fare un sacco di storie. Barontini soddisfatto.

Una seconda versione, è quella trasmessa da Mauro Nocchi (1934 – 2020), figlio del militante comunista Alcide e lui stesso dirigente del PCI. Il testo, risalente agli anni Novanta ed in seguito rielaborato, riprende in parte la testimonianza di Allegri, raccolta da Catanorchi, e coincide col racconto di De Santi, con l’aggiunta di qualche colorito dettaglio ripreso dalla narrazione popolare e forse ascoltato dal padre. Anche in questo caso, l’episodio è collocato in pieno Ventennio e si sostiene che la bandiera sarebbe stata portata ed esposta a Roma, alla Mostra della Rivoluzione fascista del 1932:

Negli anni 30, in pieno regime fascista, a Livorno, seppure in modo clandestino, il sentimento antifascista e di ribellione alla dittatura fascista era ancora molto forte nella gente. Nel notte del 1° maggio si compì un atto memorabile sul Pontino. Un atleta mise un cavo tra la Fortezza Nuova e l’ultima casa del Pontino con appesa una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore. Si chiamava Danilo Bugliesi ed era un compagno omosessuale, e solo per questo era discriminato. E l’hanno picchiato tante volte i fascisti perché era omosessuale e perché era comunista. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase li per giorni. E quando i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra dei cimeli della rivoluzione.
Quel mattino molte persone radunate lungo le spallette dei fossi sugli Scali delle Cantine, gioivano per l’accaduto, e mentre la Polizia con l’aiuto dei pompieri si davano un gran da fare per toglierla, qualcuno dietro le finestre socchiuse fischiettava “Bandiera Rossa”. Le persone che assistettero all’insolito spettacolo, spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera oppure scoprire i fringuelli che cantavano dietro le finestre, correndo qua e la andò nel pallone […] E di questi episodi la storia di Livorno ne è piena…

Una terza versione è quella raccontata da Luigi De Santi, classe 1919, dirigente della Società di Cremazione, intervistato da Catia Sonetti nel 2001. Per evidenti motivi anagrafici, neppure De Santi poteva essere stato testimone dei fatti. Per questo, non indica alcuna data, descrive una bandiera “anacronistica” e nell’indicare Danilo Bugliesi come il principale autore dell’azione, lo ritiene imparentato con una famiglia benestante e lui stesso commerciante in preziosi.

A Livorno c’era quella bandiera di quello, che poi nella vita privata era un diverso. Però […] era un atleta e mise un cavo tra la Fortezza e l’ultima casa del Pontino, una bandiera di metallo, che poi fu la bandiera che fu il primo simbolo del Partito comunista dopo la liberazione. Una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore […] Lui era un compagno omosessuale e a quel tempo c’era la mentalità che un omosessuale era un uomo di terza qualità. Invece era un uomo intelligente, commerciava in oro, brillanti, apparteneva alla famiglia Galli-Marchini, i padroni della zona Pontino che aveva magazzini nella zona degli stracci. Si chiamava Danilo Bugliesi e l’hanno picchiato tante volte povero figlio, e perché era omosessuale e comunista, per tutte e due. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase lì dei giorni, e quando poi i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra sui cimeli della rivoluzione.

Per la cronaca, esiste pure una quarta versione, la più fantasiosa, quella di Umberto Vivaldi, portuale comunista classe 1940, riportata nel libro Livornesi! Storie popolari, pubblicato nel 1998, in cui il fatto del 1921 è diventato un episodio della Resistenza, tra folklore e maldestra rimasticatura delle precedenti narrazioni:

Bugliesi e Galli del rione San Marco Pontino, fecero cucire dalle loro donne, scampoli di stoffa rossa, così che divenne fuori una gigantesca bandiera. La notte del primo maggio, sugli scali delle Cantine, la legarono con una corda sul cavo d’acciaio che dalla Fortezza Nuova attraversa il fosso fino ai caseggiati. Quel mattino, molte persone radunate lungo le spallette dei fossi, gioivano per l’accaduto. Mentre la polizia con l’aiuto dei pompieri si dava da fare per toglierla, alcuni antifascisti da dietro le finestre socchiuse fischiavano Bella Ciao. Le persone che assistevano all’insolito spettacolo spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista, non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera, oppure scoprire i fringuelli che fischiavano Bella Ciao, correndo qua e là andò nel pallone.

Se questa è la leggenda, quel Danilo Bugliesi, generalmente indicato come il principale artefice dell’azione dimostrativa, è stata una persona reale: nato a Livorno il 30 settembre 1903 e deceduto il 19 settembre 1955; figlio di Agostino e Annita Crovatti, nonché appartenente – seconda una nota di Questura del 1933, ad una «famiglia di pregiudicati e sovversivi».
Infatti, il padre Agostino, classe 1864, facchino, risultava schedato nel Casellario politico centrale come anarchico sin dal 1903, mentre il fratello minore Primo (classe 1906) nel 1930 avrebbe subito una condanna per tentato espatrio clandestino e nel 1933 una diffida in quanto «professa idee comuniste» e «per l’opera sovversiva spiegata nel passato».
Anche Danilo era stato “attenzionato” dalla polizia, come si evince da una confusa nota della Questura di Livorno, datata 9 ottobre 1927, che oltre a farci sapere il mestiere (facchino e, successivamente, lavapiatti a Roma) lo indicava in questi termini: «di cattiva condotta morale politica. Egli sebbene non abbia precedenti politici in questa città, prese parte nel passato a manifestazioni simpatizzando coi comunisti […] pure nell’epoca dei moti rivoluzionari rossi, partecipò a tutte e azioni del genere e per molto tempo conservò idee comuniste, e simpatizzante del partito anarchico di cui fa parte il di lui padre».
In aggiunta, per avvalorare lo stigma morale, veniva riferito che «durante il servizio militare, mentre si trovava circa 2 anni orsono in licenza, fu tratto in arresto perché sospetto reato di pederastia passiva poi prosciolto dal reato addebitato».
Riguardo il suo diretto coinvolgimento nella collocazione della bandiera non abbiamo riscontri, ma la residenza di Danilo Bugliesi appare indicativa e avvalora la fondatezza dei “si dice”. Infatti, egli abitava sugli Scali del Pontino n. 3, piano primo, in un edificio demolito nel 1948, oggi corrispondente al caseggiato dove si trova la Farmacia S. Marco. Quindi, corrisponderebbe proprio a «l’ultima casa del Pontino» indicata dal De Santi. Inoltre, non è certo difficile supporre che Danilo potesse contare sulla complicità familiare – piuttosto che su quella di qualche struttura politica – visto che, oltre sul padre e sul fratello, poteva contare sullo zio paterno, Pietro Bugliesi (1862 – 1928), abitante a due passi, ossia sugli Scali delle Cantine al n. 9 (l’attuale civico 78). Anche lui, facchino, era schedato come anarchico nel Casellario politico centrale sin dal 1902 e nel febbraio 1922, sarebbe stato arrestato, a seguito di perquisizione domiciliare, per detenzione di una rivoltella non denunciata («Gazzetta livornese», 16 e 17 febbraio 1922).
Frammenti di un sovversivismo evocato a posteriori a simbolo di un’opposizione collettiva od organica al partito, ma sovente espressione della rivolta informale di sodalizi familiari e individualità per troppo tempo dimenticate.

Fonti archivistiche

Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Agostino;
Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Pietro Paolo Garibaldo Dionisio;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A8, Busta 1384, Fasc. 19, Bugliesi Primo;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A1, Busta 45, 1927, Fasc.128, Bugliesi Danilo.

Archivio pubblicato nel gennaio 2024.




Bandiere sovietiche, ritratti di Lenin e altri cimeli

Nell’ottobre 2023 si è avviato alla sua conclusione il progetto di ricerca promosso dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia “L’identità comunista: il PCI in Toscana e il mito dell’URSS”. Il progetto, realizzato grazie al contributo della “Presidenza del Consiglio dei Ministri. Struttura di Missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni”, ha inteso analizzare e documentare il radicamento del mito sovietico entro il Partito Comunista Italiano in Toscana, dalla data della sua fondazione fino al suo scioglimento. Il libro fotografico Il mito sovietico nel PCI in Toscana, edito
da ISRPT Editore, è il frutto tangibile del suddetto lavoro di ricerca: a cura di Andrea Borelli, il volume riunisce documenti, articoli e foto che richiamano, per l’appunto, quel mito sovietico di cui il PCI e i suoi militanti toscani erano imbevuti, a testimonianza della loro forte connessione politico-sentimentale con l’URSS.
Avendo avuto il piacere di collaborare a quest’opera, in questa sede andrò ad approfondire il “pezzo” di ricerca da me curato, ovvero la raccolta delle fonti iconografiche: fonti che, nel volume, sono confluite in maniera particolare nella sezione Cimeli e souvenir, in quanto il mio obiettivo è stato quello di “catturare”, fotograficamente parlando, oggettistica a tema sovietico dei generi più disparati. Ho quindi deciso di indagare, in primis, sulla presenza di eventuali cimeli sovietici nelle Case del popolo e nei Circoli Arci della Provincia di Pistoia, limitatamente alla zona della piana. Case del popolo e Circoli, spesso, hanno infatti ospitato le sezioni e le cellule del PCI: quali luoghi migliori, dunque, per andare a caccia di memorabilia che richiamassero il collegamento fra PCI e URSS? E, in effetti, nonostante siano ormai passati più di tre decenni dalla Bolognina, posso anticipare che qualche traccia di questo legame è rimasta proprio in quelle costruzioni che dell’attività politica del PCI frequentemente furono teatro.
La mia esplorazione è dunque iniziata coinvolgendo, in totale, una quarantina di Case del popolo e Circoli: c’è purtroppo da dire che, nella grande maggioranza dei casi, i cimeli “del tempo che fu” sono andati perduti nel corso degli anni (vuoi per traslochi, vuoi per rimaneggiamenti dei locali, vuoi per la delusione portata, fra gli attivisti, dalla fine del PCI dopo la cesura della Bolognina). Ho infatti rinvenuto oggetti a tema con la mia ricerca solo in sette Case del popolo e Circoli Arci. Si tratta delle Case del popolo di Tobbiana e Fognano (Comune di Montale), del Circolo Rinascita di Agliana, della Casa del popolo di Bottegone, del Circolo Garibaldi, del Circolo Niccolò Puccini di Capostrada e del Circolo di Iano (tutti siti nel Comune di Pistoia). Purtroppo, per motivi di spazio, non tutti questi Circoli e Case del popolo hanno trovato spazio tra le pagine de Il mito sovietico nel PCI in Toscana; ma, nonostante ciò, tutta l’oggettistica a tema sovietico da essi posseduta è stata fotografata e poi catalogata nel fondo archivistico appositamente creato dall’ISRPT in occasione di questo progetto di ricerca.
È dunque iniziata una sorta di “caccia al tesoro”, al termine della quale sono stati riportati alla luce oggetti di vario tipo a tema URSS: gagliardetti, bandiere, libri, busti, quadri, cartoline e manifesti; l’elemento iconografico ivi raffigurato più di frequente è l’immagine di Lenin, assurto a una sorta di icona pop del comunismo (di profilo, di fronte, realistico, stilizzato e così via). Nella maggior parte dei casi, questi “antichi tesori” sono stati conservati nelle stanze delle Case del popolo e dei Circoli pur essendosi perso, nel tempo, il ricordo della loro provenienza, andata dispersa nel lungo periodo trascorso dal secondo dopoguerra a oggi. Ciò che è sicuro è che ho riscontrato ovunque, di fronte alla mia richiesta di “riesumare le vestigia del passato”, una grande voglia di partecipazione e una certa gioia nell’avere l’occasione di ridonare valore a un patrimonio, ormai storicizzato, testimoniante la passione politica e il legame dei comunisti toscani nei confronti dell’Unione Sovietica. Le bandiere, i quadri, i gagliardetti e tutti gli altri oggetti a tema sovietico non sono infatti solamente delle “cose”, ma sono invece vere e proprie rappresentazioni simboliche di un omaggio a un Paese – l’Unione Sovietica – che, per molti militanti del PCI, rappresentava niente di meno che la concreta realizzazione dell’utopia social-comunista. Spero dunque che questo progetto possa fungere da apripista per un ulteriore lavoro di ricerca sul tema che riesca a coprire l’intera Provincia di Pistoia, in quanto sono pronta a scommettere che altre “reliquie sovietiche” siano in attesa di essere scoperte, proprio nelle tante Case del popolo e nei Circoli Arci disseminati nel nostro territorio. Un patrimonio disperso che, senza dubbio, andrebbe valorizzato come merita, in quanto testimonianza tangibile di quel filo rosso che, per lungo tempo, ha legato la nostra Regione con il Paese dove si pensava – col senno di poi, forse ingenuamente –che la “futura umanità” si fosse incarnata, faro di civiltà a cui tendere e ambire, per un domani e un avvenire migliore.

Daniela Faralli collabora con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, di cui è membro del consiglio direttivo. Fa parte del comitato redazionale della rivista “Farestoria” ed ha lavorato nell’ambito del progetto di ricerca “Il Mito sovietico dell’URSS in Toscana”, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. 




Il nuovo inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea

Nelle prossime settimane sarà presentato al pubblico il nuovo Inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea – ISREC (consultabile qui), realizzato con il patrocinio del Ministero della Cultura, e già disponibile e scaricabile in formato PDF dal sito istituzionale, nella sezione ‘Archivio e Biblioteca’. Questo testo nasce dall’esigenza di aggiornare e dare una nuova forma a quello che era stato redatto al momento della catalogazione curata da Antonietta Cutillo e Cecilia Rosa nel 1999. Da allora l’Archivio dell’ISRSEC ha acquisito nuova documentazione e preso in deposito diversi fondi archivistici di persona, donati dai diretti interessati o da eredi, e catalogati via via da Aldo Di Piazza e da altri collaboratori dell’Istituto, in singoli file di lavoro, disponibili presso la Sala studio dell’Ente. Il progetto iniziato tra la fine del 2022 ed il 2023, si è prefisso lo scopo di compiere una revisione di tutti questi cataloghi, frutto del lavoro di mani diverse, ed elaborati in tempi diversi, al fine uniformare il testo e di ottenere uno strumento di ricerca completo ed esaustivo, ma di facile lettura per l’utente che fosse interessato a compiere ricerche all’interno del vasto materiale che compone l’Archivio storico dell’Istituto.

Il risultato è un inventario che si compone della descrizione dei documenti raccolti dall’ISREC nel corso della sua attività, prevalentemente materiali, in originale ed in copia, relativi agli eventi che hanno interessato Siena durante il Governa fascista, la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di Resistenza partigiana; la serie che risulta senz’altro essere quella più consistente, è quella che raggruppa la documentazione prodotta dalle Brigate partigiane e dei Gruppi di combattimento, in particolare quella relativa all’attività della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, operante con i suoi distaccamenti in buona parte della provincia senese. Il catalogo passa poi a descrivere gli archivi aggregati, come ad esempio quelli che raccolgono i documenti relativi all’attività dell’ANPI, a partire dal 1945, e dell’ANPIA, ma soprattutto archivi di persona. Questa sezione è ampia e composita: alcuni fondi raccolgono poche carte specificatamente legate alla Resistenza e all’attività politica – come quelli di Giorgio Salvi e di Giovanni Guastalli –, altri molto consistenti raccontano anche la vita privata e lavorativa dei loro produttori. Così incontriamo, uno dopo l’altro, gli archivi personali del libraio ed editore senese Nello Ticci, di Vittorio Meoni – unico sopravvissuto all’eccidio del Montemaggio, ma anche presidente per molti anni dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’ANPI provinciale di Siena –, di Sergio Vieri – partigiano e in seguito esponente del Partito Comunista Italiano e dirigente della CGIL –, di Martino Bardotti – Deputato della Repubblica sotto le fila della Democrazia Cristiana –, e di Fortunato Avanzati – partigiano, presidente dell’ANPI provinciale di Siena, assessore al Comune di Siena e membro della Segreteria della Federazione senese del PCI. I documenti raccolti in questa serie di archivi aggregati sono variegati e ricchi di contenuti; lo studio e l’approfondimento di questi materiali possono fornire allo studioso della storia contemporanea del territorio senese – e non solo- ampi spunti di indagine.

Questo nuovo strumento di ricerca, al momento consultabile unicamente in formato digitale, ha lo scopo di guidare il ricercatore a comprendere la quantità di tematiche diverse, che è possibile approfondire con lo studio attento di questi documenti, e di dare conto della consistenza e di una sintetica descrizione dei contenuti, per un primo approccio dell’utente all’Archivio. Una guida insomma, che non ha l’intento di descrivere analiticamente, carta per carta, tutto quello che si conserva presso l’Istituto storico della Resistenza senese, ma di invogliare gli studenti delle scuole, gli universitari, gli studiosi che si occupano della storia recente di questo territorio, a visitare questo archivio così ricco di informazioni, che raccontano episodi, più o meno noti, del nostro recente passato.




Il lavoro femminile a Campo Tizzoro

La Società Metallurgica Italiana – Smi – nacque il 14 aprile 1886 a Roma. Già a partire dall’anno seguente iniziarono ad aprire i primi stabilimenti in Toscana e di particolare rilevanza furono quelli della Montagna Pistoiese: Limestre, Mammiano e Campo Tizzoro. La costruzione di quest’ultimo iniziò nel 1910 e divenne operativo a partire dall’anno seguente. Campo Tizzoro, trovandosi in un fondovalle isolato e stretto tra ripidi monti, veniva considerato un posto protetto da possibili attacchi, era inoltre una zona in cui era presente abbondante «manodopera a basso costo, di provenienza rurale e perciò non ancora politicizzata o sindacalizzata».

L’arrivo della Smi sull’Appenino toscano produsse numerosi cambiamenti a livello sia sociale che culturale: migliaia di persone vennero inserite nel lavoro salariato in zone rurali e montane, inoltre, nel 1915, la Smi contribuì alla costruzione della Ferrovia Alto Pistoiese e anche al finanziamento della rete telefoninca sulla montagna. Ciò che caratterizzava gli stabilimenti della Smi nella zona della Montagna era «l’autoritario disciplinamento delle maestranze, la volontà di consolidare nei lavoratori un sentimento di appartenenza all’azienda e di acquietare insubordinazioni», cose che vennero conseguite sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Se da una parte la Smi era dunque centro propulsore del miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e oprattutto degli operai della zona, dall’altra imponeva una presenza quasi autoritaria. A tal proposito, la Società realizzò numerose infrastrutture sociali che avevano lo scopo di pianificare la vita dei dipendenti e della comunità a vari livelli: culturale, ricreativo, sportivo, didattico. A Campo Tizzoro – zona deserta prima dell’avvento dello stabilimento industriale – venne per esempio creato quello che fu battezzato “Villaggio Orlando”, che racchiudeva istituti scolastici, impianti sportivi, ma anche un museo, una biblioteca, una chiesa, oltre a numerosi alloggi per le famiglie. Venivano organizzati corsi serali di scuola elementare per gli operai e le operaie analfabeti, oltre al cinematografo e alla filodrammatica.

Durante la Prima guerra mondiale, la Smi fu la principale fornitrice delle munizioni per l’esercito e la marina, in quel periodo venne inoltre avviata la costruzione del nuovo impianto di Fornaci di Barga, che cominciò a produrre nel giugno 1916. In occasione dei periodi bellici, la Società metallurgica era stata dichiarata «industria ausiliaria», per questa ragione usufruì non solo di agevolazioni nell’approvigionamento di materie prime e di privilegi relativi alla manodopera, ma anche dell’esonero delle maestranze maschili dal servizio militare, cosa che ebbe sicuramente delle conseguenze nella vita delle comunità locali.

Negli anni Venti, la produzione della Smi non fu costante: nel 1926, in seguito a un momento di crisi, recuperò, per poi retrocedere nuovamente con la crisi del ’29, tanto che a Campo Tizzoro le maestranze erano circa 700 nel 1927, mentre nel 1930 passarono a essere solo 126.

Per quel che riguarda il rapporto della fabbrica di Campo Tizzoro con il fascismo, soprattutto nel periodo dalla guerra di Spagna, emerse l’avversione verso il regime, tanto che nel 1943 cominciarono i rallentamenti per sabotare la produzione di munizioni e in seguito la S.A.P. – Squadra di Azione Patriottica – utilizzò le gallerie sotterranee della fabbrica per trafugare viveri, armi e munizioni destinate ai partigiani. Anche a Fornaci si registrano posizioni antifasciste tra gli operai.

Seguì, nel secondo dopoguerra, un momento di crisi e una diminuzione della manodopera, che portò a numerose mobilitazioni e proteste nel pistoiese in opposizione ai licenziamenti. Complice sicuramente anche il clima che si respirava a livello nazionale e internazionale in quegli anni, ci fu un inaspriamento del rapporto tra lavoratori e direzione aziendale, oltre a forti discriminazioni in base all’appartenenza politica: per esempio a Campo Tizzoro i comunisti furono i primi a essere licenziati.

Nel 1976, la Metallurgia Italiana si dotò di una nuova organizzazione finanziaria e le imprese produttive vennero concentrate nel gruppo La Metalli Industriale S.p.A (Lmi), così che la Smi diventò holding di un gruppo industriale metallurgico internazionale.

Una particolarità dell’industria metalmeccanica della zona della Montagna Pistoiese fu la forte presenza femminile, soprattutto a partire dal periodo del primo conflitto mondiale: nel 1918 le donne a Campo Tizzoro rappresentavano il 44,7% della manodopera, ma già da prima della Grande Guerra vi era comunque una partecipazione femminile considerevole all’interno dell’industria. Nonostante il brusco calo dell’occupazione delle donne nel secondo dopoguerra, il ruolo avuto dalle operaie precedentemente aveva permesso loro di creare un rapporto molto stretto con la fabbrica, di conseguenza iniziarono a ottenere ruoli sempre più importanti e maggiori responsabilità all’interno degli stabilimenti.

Fu proprio a Campo Tizzoro che Gabriella Venturi – sindacalista attiva tra fine anni ’60 e inizi 2000 – mosse i primi passi all’interno della fabbrica. Le vicende che hanno caratterizzato la sua vita sono ricostruibili attraverso i pochi documenti di archivio conservati, ma anche grazie alle parole di chi l’ha conosciuta personalmente: amici, compagni e parenti.

Gabriella nacque il 29 dicembre 1942 a Pistoia e visse tutta la vita a Pracchia, in via Fontana, dove, non essendosi mai sposata, abitò con i genitori. Non si ha una data precisa del suo ingresso alla Smi di Campo Tizzoro come operaia, probabilmente ciò avvenne attorno ai diciotto anni. Per quel che riguarda l’istruzione, sappiamo che Gabriella portò a termine il perscorso della scuola media, ma non frequentò mai le superiori, e, presubilmente, prima di iniziare il suo percorso nell’industria metallurgica, svolse qualche lavoro saltuario.

Proveniente da una famiglia profondamente credente, inizialmente s’iscrisse alla Cisl, in quanto sindacato più vicino al mondo cattolico e quindi alla sensibilità con la quale era cresciuta. In seguito avvenne il passaggio dalla Cisl alla Cgil, nei primi anni Settanta, un passaggio che, nelle loro interviste, Renzo Innocenti e Simonetta Bartoletti descrivono come qualcosa che avvenne in maniera naturale e repentina[1]. La nipote Simonetta sottolinea il fatto che la svolta, quindi il passaggio dal sindacato cattolico alla Cgil, all’interno della famiglia di Gabriella aveva avuto un certo peso, quasi come se la donna avesse tradito alcuni ruoli e alcuni valori con i quali era cresciuta. Simonetta racconta che il padre di Gabriella si ritrovò presto a dover fare i conti con la realtà e ad adeguarsi a essa: i tempi erano cambiati e le cose «stavano andando avanti più vivacemente rispetto a quello che lui aveva vissuto». La trasformazione di Gabriella fu radicale: non solo entrò nella Cgil, ma si iscrisse al Partito comunista italiano nel 1974. Oltre a essere iscritta al Pci, la nipote Simonetta riporta che Gabriella, nel 1984, era iscritta anche all’Anpi. Purtroppo non ci sono elementi che permettono di attestare se fosse iscritta anche precedentemente.

Venne licenziata, per motivi non del tutto chiari, dalla Smi di Campo Tizzoro probabilmente nel 1983 o nel 1984, infatti le ultime attestazioni della sua presenza nella fabbrica trovate in archivio risalgono al 27 gennaio 1983, quando venne eletta, come anche precedentemente, nel reparto Nastro[2]. Nei primi anni Ottanta, all’interno della Lmi vennero eliminati migliaia di posti di lavoro, tanto che si passò dai circa 7’000 occupati nel 1980 ai 3’000 nel 1985. Dopodichè la ritroviamo assunta in Cgil il 2 gennaio 1985 e Simonetta Bartoletti afferma che Gabriella è stata la prima donna in Segreteria Confederale, cosa che, purtroppo, non si può confermare attraverso i documenti consultati.

Renzo Innocenti – segretario provinciale quando Gabriella faceva parte della segreteria Fiom – nella sua intervista racconta che il suo primo incontro con Venturi avvenne nel periodo dell’autunno caldo, in occasione di un’occupazione – probabilmente la prima – dell’Istituto tecnico industriale di Pistoia frequentato dallo stesso Renzo. Gabriella, già dipendente della Smi di Campo Tizzoro, arrivò alla scuola con una delegazione. Si tratta di un evento che conferma il fatto che anche a Pistoia il movimento degli studenti aprì un fronte di confronto e unità con gli operai. Innocenti afferma che, fin dall’inizio, Gabriella gli diede l’impressione di essere una combattente, una persona molto concreta, pragmatica, tenace e una donna che emergeva in un mondo di uomini. Del suo animo guerriero si hanno delle attestazioni grazie ai documenti di archivio. A tal proposito, colpisce un evento in particolare: durante le assemblee di fabbrica del 20 ottobre 1971, viene indetto, attraverso il volantino «No! Ai 400 licenziamenti», uno sciopero per il giorno seguente. In quell’occasione, insieme ad alcuni compagni, Gabriella venne accusata di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, di aver ostacolato la libera circolazione e di avere usato violenza contro alcune guardie giurate. Per queste ragioni, venne citata a comparire il 21 novembre 1973.

Gabriella aveva inoltre un’attenzione e un legame profondo nei confronti della Montagna Pistoiese, sentiva la necessità di scommettere su un suo ruolo più forte e visibile, in modo tale da contribuire a contrastare la perdita del ruolo industriale e manifatturiero dovuto al ridimensionamento della presenza della Smi, ma voleva anche impedire la chiusura di aziende occupate in altri settori nella zona della Montagna. Nonostante Renzo Innocenti non ricordi che Gabriella abbia mai seguito le lavoratrici a domicilio, in un documento risalente al 21 maggio 1985 e a lei destinato, emerge che la donna era stata nominata come componente della Commissione Comunale per il lavoro a domicilio «per il comune di San Marcello Pistoiese in rappresentanza dei lavoratori».

Il rapporto di Venturi con il movimento femminista è interessante, dal momento che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ci fu un radicale mutamento all’interno dei sindacati, sia della partecipazione femminile, sia dell’organizzazione delle strutture delle donne. La maggior parte della nuova generazione delle sindacaliste aveva preso parte alle vicende che avevano caratterizzato il loro tempo: avevano beneficiato della scolarizzazione di massa e in molte avevano preso parte al movimento del 1968. Si erano inoltre distanziate e avevano iniziato a guardare con scetticismo alcune posizioni delle loro precorritrici. Dall’intervista di Renzo Innocenti emerge però il fatto che Venturi non sembrerebbe aver mai avuto stretti rapporti con il femminismo, anzi, in diverse occasioni pare abbia criticato alcune posizioni radicali del movimento. Simonetta Bartoletti ricorda che Gabriella era spesso in giro, in diverse occasioni si recava anche all’estero, e più che cercare di trovare un proprio spazio in quanto donna all’interno del sindacato, con i suoi tempi e le sue differenze, sembrava piuttosto voler adeguarsi a uno stile di vita che solitamente caratterizzava la sfera maschile. Era sicuramente molto legata alla famiglia, ma allo stesso tempo era sempre sui fronti, passava poco tempo in casa. Non erano molte le donne disposte a dedicare tutto il loro tempo a un impegno così totalizzante e questo fu sicuramente un elemento che colpiva tutti coloro con i quali si trovava a confrontarsi Gabriella. Nonostante questa presa di distanza dal movimento femminista, Gabriella era comunque consapevole delle difficoltà, delle differenze e delle disparità di genere all’interno del movimento sindacale per i ruoli di responsabilità e di direzione.

Andata in pensione nei primissimi anni 2000, Gabriella si spense nel 2002, ma il suo ricordo è sopravvisuto a lei. Una prova dell’affetto e dell’importanza che ha avuto la donna all’interno del sindacato si ha in occasione della tredicesima edizione di CGIL INCONTRI del 2009, che si svolse tra il 23 giugno e il 5 luglio. L’incontro del 2 luglio con i ragazzi del campo di lavoro Liberarci dalle Spine s’intitolava «….dedicato alla Lella (Gabriella Venturi) “Racconti di lotte al femminile”», coordinato da Maria Cangioli e con la partecipazione di Anna Goretti.

Martina Lopa studia storia all’Università di Firenze, dove sta lavorando a una testi di laurea sulle prime organizzazioni femminili e l’animalismo nell’800, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.