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Cattolici e fascismo nella Toscana nord-occidentale (1920-1922)

Ritratto mons. Maffi

Grazie all’apertura graduale degli archivi vaticani, la storiografia ha chiarito ormai nelle sue linee essenziali il rapporto tra cattolicesimo e fascismo. Se per quanto riguarda i vertici la relazione è stata restituita alla storia, lo stesso non può dirsi per il piano locale, su cui disponiamo di informazioni lacunose. Il problema emerge chiaramente nel caso toscano, alla cui conoscenza questo scritto vuole contribuire concentrandosi sull’area nord-occidentale della regione prima della marcia su Roma. L’obiettivo è evidenziare, senza pretese di esaustività, i caratteri fondamentali della vicenda, a cominciare dalla preminenza di Pisa – dovuta soprattutto alla presenza del cardinale-arcivescovo Pietro Maffi, il più noto e influente esponente del cattolicesimo in quell’area e uno dei principali sul piano nazionale, al punto da risultare tra i papabili al conclave del 1922.

Gli studi più accurati hanno individuato nel 1921 l’inizio del confronto tra cattolici e fascisti. Se, infatti, in precedenza le due parti si erano sostanzialmente ignorate, dalla primavera del 1921 s’intensificò l’azione squadrista contro le sinistre e, in misura molto più ridotta, i popolari, suscitando proteste e commenti nel mondo cattolico. Reazioni che, è bene sottolinearlo, non giunsero mai a una piena equiparazione tra socialismo (oggetto di una condanna inappellabile) e fascismo (di cui si deplorarono gli eccessi, cioè le violenze contro i cattolici).
Uno sguardo gettato sulla Toscana nord-occidentale conferma la validità sostanziale di questa cronologia, nonostante differenze significative tra le varie diocesi. Il caso Ritratto Gronchipisano spicca per la presenza di due personalità di rilievo nazionale: il deputato e futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, membro dell’ala sinistra del PPI, sarebbe stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e del commercio nel governo Mussolini (1922-1923); e il già citato Maffi che, alfiere dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano e in ottimi rapporti con i Savoia, nel 1915-1918 si era distinto per l’appoggio entusiastico allo sforzo bellico, fino a divenire il simbolo dell’unione tra fede e patria. Sotto l’impulso del cardinale, il movimento cattolico raggiunse uno sviluppo considerevole, attestato tra le altre cose dal successo del giornale «Il Messaggero toscano» (l’unico quotidiano della città). A Pisa, inoltre, la solida presenza dei movimenti e partiti “sovversivi” fu contrastata da uno squadrismo assai violento, animato da autentici assassini come Alessandro Carosi e dilaniato da faide interne. Nell’insieme, questi elementi fanno di Pisa un osservatorio di prim’ordine per studiare i rapporti tra cattolici e fascismo nel primo dopoguerra – rapporti tesi, perché agli occhi della cittadinanza Maffi incarnava quel patriottismo di cui le camicie nere rivendicavano l’esclusiva. A dire il vero, da parte cattolica non mancò la volontà di trovare un terreno d’incontro con i fascisti, sulla base dell’antisocialismo e del culto dei caduti: caduti della Grande Guerra, come si vide in occasione delle onoranze al Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, cui il cardinale partecipò; e caduti della rivoluzione fascista, come si vide invece durante le esequie degli squadristi Zoccoli e Menichetti nel 1921, legittimate dalla presenza rispettivamente di Maffi e del suo segretario, mons. Calandra. Tuttavia, queste aperture non ebbero l’esito sperato, come emerse nel 1922. In giugno, a Pisa, le camicie nere si piazzarono all’esterno della cattedrale impedendo il regolare svolgimento della tradizionale processione del Corpus Domini e sollevando le proteste del cardinale. In settembre, a Buti, il pievano Cascioni Poli (reduce della guerra e sostenitore del PPI) sparò un colpo di pistola in aria per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e mettere in fuga i fascisti che nottetempo stavano tentando di irrompere nella canonica, allontanandosi poi dal paese per ragioni di sicurezza. Si tratta, com’è evidente, di episodi limitati ma utili a comprendere gli attriti che a Pisa caratterizzano i rapporti tra cattolici e fascisti fino al termine della faida Santini-Morghen e per qualche verso anche dopo.

Ricostruire le vicende delle altre diocesi risulta più complesso, date la mancanza tanto tra il clero quanto tra i laici delle personalità di rilievo nazionale e la debolezza del movimento cattolico nelle zone dove le sinistre erano più radicate. A Livorno, ad esempio, la voce cattolica più autorevole era rappresentata dal «Fides» – un bisettimanale che, cessato al termine del 1921, nella veste grafica e nelle idee (rigidamente integriste, in linea con il pensiero del suo direttore don Giovanni Casini) rivelava una posizione non certo all’avanguardia, preoccupata dalle trame di massoni, ebrei e socialisti più che dal fascismo[1].
Nemmeno a Massa la situazione era favorevole al movimento cattolico, che però si mostrò più battagliero. Ai contrasti tra la curia vescovile e i popolari si sommavano infatti le vivaci polemiche tra il settimanale fascista «Giovinezza» e il corrispettivo cattolico «La Difesa popolare» che, diretto dall’avv. Carlo Perfetti, aveva come motto: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo». Lo scontro culminò nel marzo-aprile 1922, quando i fascisti parlarono di «pericolo clerico bolscevico», accusando il PPI di essere una «forza antinazionale» sostenuta da sacerdoti «traditori della nostra fede». Parole respinte con sdegno dalla controparte, secondo cui se i principi cristiani fossero rimasti confinati nelle chiese per timore della violenza, le «masse sfruttate» non avrebbero mai ottenuto la «giusta mercede» né l’Italia avrebbe ritrovato la pace[2].
Ancora diversa l’atmosfera a Lucca, dove la Chiesa esercitava un’influenza considerevole sulla vita politica e sociale. Qui, non a caso, i fascisti capeggiati da Carlo Scorza agirono con cautela. Il loro obiettivo era chiaro (separare i cattolici dal PPI) ma di difficile realizzazione, perché il foglio cattolico di riferimento (il settimanale «L’Esare») respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di doppia militanza; inoltre, nel maggio 1921 il bollettino diocesano precisò che i cattolici potevano esercitare attività politica ma non militare nei partiti liberali né accettare i principi del socialismo, lasciando come unica opzione il PPI. Pur a fronte di un’opposizione ferma, prima della marcia su Roma le camicie nere evitarono di avviare una vasta campagna di violenze contro i cattolici, limitandosi a rare aggressioni e qualche scritta sui muri. In questo senso, il caso lucchese risulta emblematico del livello di violenza nei rapporti tra cattolici e fascisti, che a queste date restava ancora contenuto.

Ritratto mons. Simonetti

Ritratto mons. Simonetti

L’eccezione maggiore è costituita dal delitto di Collodi, frazione di Pescia, che a conoscenza di chi scrive costituisce l’episodio più grave occorso nell’area in questione. Qui nell’ottobre 1921 i fratelli Lamberti, militanti fascisti e proprietari di una cartiera chiusa a causa di uno sciopero, uccisero a colpi di pistola Ubaldo Ciomei, consigliere comunale di Pescia e attivista dell’Unione del lavoro di Lucca, dandosi poi alla latitanza. Il settimanale cattolico locale, «Il Popolo di Valdinievole», condannò con fermezza i responsabili e presentò la vittima nelle vesti di «martire», senza che si giungesse peraltro a una vera e propria rottura con il fascismo. Al risultato contribuì il vescovo di Pescia Angelo Simonetti, i cui inviti alla pace e alla fratellanza favorivano di fatto il partito più forte; inoltre, fin dal dicembre 1920 egli aveva dichiarato in una lettera a «Il Popolo di Valdinievole» che «la vera azione cattolica non è né deve essere per sé e per i suoi fini politica, né deve perciò confondersi affatto con quella di un partito» – una sconfessione del PPI che certo non aiutò ad arginare l’ascesa del fascismo nella diocesi .

La formazione del governo Mussolini, che includeva esponenti popolari, fu accolta dai cattolici se non con gioia almeno con fiducia in un avvenire più ordinato. I mesi e gli anni seguenti videro in realtà un aumento sensibile degli attacchi contro di loro, senza che per questo si verificasse un ripensamento. Anzi, com’è noto il rappresentante principale dell’antifascismo cattolico, don Sturzo, fu costretto all’esilio dai superiori; il PPI fu sciolto; e sulla memoria di don Minzoni, il parroco ferrarese ucciso dagli squadristi nell’agosto 1923, calarono censura e oblio. Sull’esito incise la minaccia del manganello, certo, ma anche elementi di più lungo periodo, sedimentati a fondo nella mentalità cattolica, come l’insistenza sui doveri più che sui diritti e la convinzione che in mancanza di un accordo con l’autorità politica la missione della chiesa sarebbe fallita. Per queste ragioni, benché consapevoli del carattere agnostico e violento del fascismo, nella grande maggioranza dei casi i cattolici lo ritennero un male minore rispetto al nemico tradizionale: il socialismo. Questa prospettiva caratterizzò tutto il pontificato di Pio XI, che solo negli ultimi mesi di regno cominciò a distaccarsene, con una scelta che peraltro il successore si guardò bene dal sottoscrivere. Solo le sconfitte patite nel corso della Seconda guerra mondiale convinsero il papato e i cattolici italiani a voltare definitivamente le spalle a Mussolini.

Nota:
1. Cfr. ad es. La mala bestia, in «Fides», 16 gennaio 1921.
2. Il cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini ha visto Dio ridotto a portabandiera del P.P. e il popolo insidiato dalla coppia Sturzo-Lenin, in «Giovinezza!», 19 marzo 1922; «Giovinezza» sulle furie!, in «La Difesa popolare», 1° aprile 1922, p. 2.

L’articolo è la relazione presentata in occasione del seminario organizzato il 20 ottobre 2022 dalla Biblioteca F. Serantini dal titolo 1922: Pisa e la Toscana tra fascismo e antifascismo.




Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.

 




Il cardinale Maffi e il fascismo

Quello tra chiesa cattolica e fascismo è un rapporto complesso, che non può essere ridotto a mera strumentalizzazione reciproca, volta al rafforzamento del consenso e alla soluzione della «questione romana». Come ha spiegato Giovanni Miccoli, si trattò di «un’alleanza e un accordo non meramente tattici ma più intimi e sostanziali», basati su «consonanze essenziali» (il culto di valori come ordine, gerarchia, disciplina, autorità, obbedienza) e «nemici comuni» (su tutti, liberalismo e comunismo). Il dato appare con particolare chiarezza nel caso pisano, caratterizzato da una serie di elementi di particolare rilievo: la violenza estrema dello squadrismo, dilaniato da faide intestine e animato da personaggi brutali come Alessandro Carosi; la forza delle sinistre e in particolare del movimento anarchico, che vantava una lunga tradizione di militanza in città; e, non in ultimo, la presenza del cardinale Pietro Maffi, protagonista della vita intra- ed extra-ecclesiale della prima metà del Novecento italiano.

Nato a Corteolona (Pavia) nel 1858, Maffi fu nominato arcivescovo di Pisa nel 1903. Divenuto cardinale nel 1907, promosse lo sviluppo del movimento cattolico e instaurò rapporti cordiali con i Savoia, approfittando della prossimità della residenza reale di San Rossore. Ciò aumentò grandemente il suo prestigio in seno all’episcopato, al punto da sfiorare l’elezione al conclave del 1914. Durante la Prima guerra mondiale Maffi divenne il simbolo dell’unione tra fede e patria nell’Italia grigioverde, esortando i pisani all’obbedienza e contribuendo a contenere il malcontento attraverso iniziative di carattere assistenziale come la ricerca di informazioni sui militari dispersi o prigionieri negli Imperi centrali.

La ripresa della conflittualità politica e sociale dopo la fine del conflitto lo indusse a lanciare un appello alla pacificazione, auspicando un ritorno alla società cristiana; ciò detto, basta sfogliare «Il Messaggero toscano» – il quotidiano da lui fondato nel 1913 – per rendersi conto che, agli occhi del cardinale, il pericolo maggiore era costituito dal socialismo ateo. Non a caso, quando furono i cattolici a subire attacchi e intimidazioni da parte delle camicie nere Maffi tenne un profilo generalmente basso, cercando di calmare gli animi e di trovare un terreno d’intesa con l’aggressore nella celebrazione della memoria “eroica” dei caduti della Prima guerra mondiale: così accadde nel novembre 1921, durante la cerimonia per il Milite ignoto, e nel maggio 1924, con l’inaugurazione del monumento ai caduti nel cortile della Sapienza. I fascisti, però, volevano restare gli unici padroni della scena pubblica e nel gennaio 1925 distrussero la tipografia che stampava i fogli cattolici distribuiti a Pisa, Lucca, Livorno, Pontremoli e La Spezia. Il danno considerevole spinse Maffi a mutare registro, indirizzando prima un telegramma di protesta al ministro dell’Interno («Vescovo ne ho pianto, italiano ne ho arrossito»), poi una lettera pastorale ai pisani. Dedicata al quinto comandamento, essa conteneva frasi durissime contro chi si era macchiato di omicidio nei recenti scontri politici: «Guai alla mano che gronda sangue! Guai ai piedi che urtano in un cadavere! Oh, la dinastia di Caino! Continua puro; ma lo senta che, dove mancano gli uomini, Dio arriva, Dio che ai colpevoli non dà tregua e incessante li persegue e sopra di loro grida e sentenzia: Maledetto, maledetto! Maledetto nel tempo! Maledetto nell’eternità! Maledictus eris!».

Pietro_Maffi_cardinaleDavanti al pericolo di perdere il sostegno di uno dei membri più illustri dell’episcopato, le cose iniziarono a mutare. Complici la fine della faida tra Bruno Santini e Filippo Morghen e l’ascesa di Guido Buffarini Guidi, l’atmosfera andò rasserenandosi e le relazioni tra Chiesa e fascismo entrarono in nuova fase. Nel maggio 1926, lo stesso Mussolini venne in città per assistere all’inaugurazione del restaurato pergamo di Giovanni Pisano nella cattedrale e si lasciò fotografare al fianco del cardinale, quasi a proclamare alla cittadinanza la ritrovata armonia tra le due autorità. L’evento fu un brutto colpo per i fascisti più ostili a Maffi, che dovettero rassegnarsi. Negli anni successivi, nessun incidente turbò i rapporti tra cattolici e camicie nere, che celebrarono insieme la memoria “eroica” del 1915-1918. Ad esempio, nel novembre 1928 il decennale della vittoria fu celebrato in duomo all’insegna della continuità tra guerra mondiale e fascismo: Buffarini lesse il bollettino della vittoria, l’ex cappellano militare Ezio Barbieri celebrò la messa e Maffi benedisse il tumulo imbandierato e circondato da soldati e fascisti; tutti intonarono infine la Marcia reale, l’Inno del Piave e Giovinezza.

Come si vede, alla vigilia della conciliazione il cardinale non esitò a legittimare il regime che si voleva erede di Vittorio Veneto; il culto dei caduti, tuttavia, fu solo l’aspetto più evidente di una convergenza profonda che, come attesta il bollettino diocesano, si manifestò nell’approvazione delle misure varate dal governo per l’incremento della natalità, del numero delle questure sul territorio e, soprattutto, della produzione cerealicola, funzionale al ritorno alla vita “devota” dei campi.

Per quanto importanti, questi elementi impallidiscono di fronte a quello che, a buon diritto, può essere considerato il sogno di una vita: la conciliazione tra Stato e Chiesa del febbraio 1929, che segnò la fine dell’annosa «questione romana» e il culmine della parabola politico-religiosa di Maffi. Pur non avendo avuto parte attiva nei negoziati, egli volle manifestare la propria soddisfazione con tre lettere di ringraziamento dirette al papa Pio XI, al re Vittorio Emanuele III e al dittatore che «con mano sicura e forte» teneva le redini del Paese. Non si trattava di sentimenti affettati: nel comunicare la notizia al clero diocesano, infatti, il presule annunciò con toni trionfali la fine della vecchia Italia dominata da «massoneria, liberalismo, scuole atee e corruzione».

Gli ultimi anni furono ricchi di soddisfazioni per Maffi, chiamato a Roma nel gennaio 1930 per celebrare il matrimonio tra il principe ereditario Umberto e Maria José del Belgio a Roma. Nella circostanza, egli fu insignito del collare dell’Annunziata, che gli dava il titolo di cugino del re.

La morte lo colse nel marzo 1931, mentre la crisi tra regime e Azione cattolica entrava nella fase più acuta. A riprova delle tensioni mai del tutto sopite, il necrologio de «L’Idea fascista» (organo del fascio pisano) precisò che, al di là dei meriti innegabili acquisiti nel corso della sua carriera, lo scomparso non aveva compreso né apprezzato fin da subito l’importanza del fascismo. I detrattori, però, dovettero mordere il freno davanti alla solennità dei funerali che, oltre alla partecipazione di undici vescovi e del maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, ebbero l’adesione del re, del segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli e di Mussolini. Quest’ultimo plaudì in un telegramma all’«illustre cardinale Maffi che durante vita operosa seppe armonizzare religione, patria, scienza» e si fece rappresentare al rito dal sottosegretario di Stato al ministero di Giustizia e affari di culto Giuseppe Morelli. La resa dei conti, però, era solo rimandata. Ancora in ottobre, quando la tempesta sembrava ormai alle spalle, «L’Idea fascista» tornò ad accusare lo scomparso di antifascismo.

La presenza di una figura del calibro di Maffi, decisamente inusuale per una diocesi periferica e dalle dimensioni modeste come quella pisana, contribuì a dare agli eventi locali una risonanza notevole non solo nella penisola ma anche all’estero, facendo della Pisa degli anni Venti una sorta di osservatorio da cui scrutare i punti di forza e le criticità della politica ecclesiastica del fascismo. Soprattutto, la vicenda di Maffi evidenzia un dato cruciale. A dispetto di divergenze, tensioni, moniti, incidenti e intimidazioni, i responsabili ecclesiastici non smisero mai di cercare o, dopo il 1929, di difendere la conciliazione. Le leggi razziali causarono certamente un raffreddamento dei rapporti tra le due autorità, anche perché violavano le disposizioni concordatarie in materia di matrimonio; ciò detto, furono soltanto le sconfitte inanellate dall’esercito nel corso della Seconda guerra mondiale a segnare il distacco definitivo della Chiesa da un regime entrato ormai nella sua fase terminale.




Spartaco Lavagnini e la nuova Internazionale: una polemica del 1917

Poco più di un mese dopo il disastro di Caporetto sul fronte italiano della Grande Guerra e poche settimane dopo la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, il 1° dicembre 1917, Spartaco Lavagnini pubblica su La Difesa – settimanale del PSI fiorentino, cui collaborava regolarmente dall’ottobre del 1915 – un articolo intitolato La nuova Internazionale, destinato ad avere una risonanza non trascurabile sulla stampa socialista dell’epoca. Lo firma con l’ormai abituale pseudonimo di Vezio. L. parte dalla constatazione del fallimento della Seconda Internazionale e – rilevati i limiti e l’insufficienza della tattica parlamentare – addita la prospettiva di un nuovo organismo sovranazionale, basato sull’accordo fra tutte le scuole del sovversivismo rivoluzionario, che dia unità d’organizzazione alle masse operaie. Auspica che divenga possibile discutere nelle grandi assise internazionali fra socialisti, sindacalisti ed anarchici i grandi problemi che interessano il proletariato del mondo ed avvistare i mezzi più adatti a risolverli.  Prosegue Vezio: Nei grandi avvenimenti [della storia contemporanea] (…) l’unità proletaria si è immediatamente realizzata, gli aggruppamenti politici sovversivi hanno saputo trovare il comune terreno per una comune azione. Non ci pare quindi impossibile dare a questa unità ed a questi atteggiamenti più stabile consistenza e forme più durature.

Una settimana dopo, dalle colonne de Il Grido del Popolo – organo della Federazione socialista torinese – giunge severa la critica di Gramsci: Così la “Difesa” cade in questo errore di logica. Scambia il compito che può avere un convegno internazionale, nel quale si fissano dei princìpi generali che rinsaldino le coscienze in un determinato momento della storia, (…) e il compito di un organismo stabile. Il partito ha una continuità, è un organismo complesso, ha bisogni pratici, e solo in quanto riesce a soddisfarli acquista in potenza, e suscita le forze sociali necessarie per il raggiungimento dei suoi fini. E poi l’attacco a fondo alle posizioni di L. – (…) la nostra distinzione [in quanto partito] sarebbe distrutta da una fusione con gli anarchici e i sindacalisti. Non è solo l’antiparlamentarismo che ci separa dai sindacalisti e specialmente dagli anarchici. Siamo non solo distinti, ma diversi dagli anarchici, a malgrado dagli occasionali accostamenti. Divergiamo per il fine, per la mentalità che la divergenza di fine determina.

Emerge qui il fondamento della posizione e della critica gramsciana: una concezione organica del partito, di una compagine fondata su una precisa identità politica, con una sua visione d’insieme del corso storico e del rapporto con la classe nella sua totalità – di contro alla visione del partito come un processo, legato alla spontaneità delle masse in movimento e da questa dinamica definito nei suoi modi d’essere e nei suoi obbiettivi.

Vale comunque la pena di leggere per intero il testo di Gramsci (cfr. la bibliografia), non fosse altro in quanto riporta pressoché integralmente l’articolo di Vezio, anche se questo scambio polemico fra i due dirigenti rivoluzionari è noto da tempo ed è stato ampiamente ricostruito nella bella biografia che Andrea Mazzoni ha recentemente dedicato a L.

Meno ricordati sono gli interventi, in questo confronto, di Amadeo Bordiga e di Giacinto Menotti Serrati. Il primo, all’epoca animatore e dirigente della Federazione napoletana del PSI, prende posizione dalle colonne de L’Avanguardia – il settimanale della FGSI, che in quell’autunno 1917 si trova temporaneamente a dirigere – con una breve nota, nella quale si dice sostanzialmente in pieno accordo con la posizione de Il Grido del Popolo. Questo trafiletto introduce un più ampio articolo di un giovanissimo militante d’origine sarda, non ancora sedicenne, Giuseppe Sotgiu, ben presto destinato a diventare segretario della FGSI e ad entrare nella direzione de L’Avanguardia, in seguito al richiamo di Bordiga sotto le armi e all’arresto del segretario dell’organizzazione giovanile, Luigi Polano. Sotgiu, dopo aver ricordato la fine della Prima Internazionale proprio per le inconciliabili divergenze fra anarchici e marxisti e il crollo della Seconda, a causa della sua disomogeneità, vista la presenza dei “social-nazionalisti”, fa proprie le conclusioni dell’articolo di Gramsci

Serrati – allora direttore dell’Avanti! – interverrà sul quotidiano socialista il 6 gennaio 1918, riprendendo le posizioni di Gramsci e Bordiga, rinviando inoltre ad un proprio articolo di due anni prima, pubblicato sullo stesso quotidiano socialista, nel quale egli già aveva proposto agli anarchici la ricerca di un terreno comune nell’azione contro la guerra, senza che ciò comportasse l’abiura alle rispettive concezioni politiche generali, che erano inconciliabili.

Si può già intravedere come traspaiano in filigrana in questa polemica, apparentemente marginale e condotta in punta di penna, alcuni temi ed alcuni atteggiamenti politici che ricompariranno – mutatis mutandis, ma con ben altre conseguenze pratiche – nel corso degli anni successivi, dalla primavera-estate del 1920 e nei mesi che precedono la scissione di Livorno, fino al periodo della lotta contro il fascismo, nei mesi che precedono e seguono la marcia su Roma (si pensi alla scelta della direzione del PCd’I di non aderire nel 1921  agli Arditi del Popolo e alla questione del Fronte unico, oggetto di profonde controversie fra la sezione italiana dell’Internazionale Comunista e lo stato maggiore di Mosca).

È importante cogliere come questa polemica non sorga dal nulla, come una tempesta in un bicchier d’acqua, ma si ricolleghi alla spinta di non poche frange della sinistra giovanile socialista ad approfondire e rendere organico il legame con anarchici e sindacalisti rivoluzionari nella comune azione contro la guerra. È tutto un fermento nel movimento operaio e socialista italiano, che fiorisce a partire dalla fine del 1915 e si estende con l’amplificarsi in Italia degli echi delle conferenze di Zimmerwald (5-8 settembre 1915) e di Kienthal (25-30 aprile 1916).

In Puglia, ad esempio, un gruppo di giovani socialisti rivoluzionari, fra cui Nicola Modugno (che ritroveremo a Firenze il 18 novembre 1917 – vedi più oltre), tenta di organizzare per il giugno 1916 un Congresso interregionale giovanile socialista anarchico rivoluzionario, poi impedito dalla polizia, che mira a spengere sul nascere i focolai dell’insubordinazione. Ma le spinte a saldare, a livello locale e “dal basso”, un’unità fattiva contro la guerra fra giovani socialisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari non sono confinate al solo Meridione (sui cui movimenti sovversivi si veda l’utile libro di Daria Del Donno, citato nella bibliografia).

Il 10 giugno 1916 Gramsci – in un articolo pubblicato sulla pagina torinese dell’Avanti! – annuncia che: Un gruppo di giovani del circolo “Andrea Costa” ha preso l’iniziativa per la costituzione a Torino di un fascio internazionalista rivoluzionario che dovrebbe comprendere i socialisti, gli anarchici e i sindacalisti. Un blocco rosso insomma. Gramsci si dice contrario ad una fusione organica: una fusione di tal genere avviene naturalmente nel momento dell’azione, quando si ha un fine immediato da raggiungere un nemico comune da colpire (…) E’ opinione volgare e diffusa che gli anarchici e i sindacalisti siano più “rivoluzionari” che i socialisti anche estremi. E questo è un pregiudizio perché il rivoluzionarismo non è in funzione assoluta con le affermazioni gladiatorie e con la violenza di linguaggio (…). Crediamo perciò che il nostro partito non abbia affatto bisogno di queste iniezioni per irrobustirsi (…).  Una posizione analoga aveva vivacemente sostenuto Bordiga, già nell’aprile, allorché – nell’ambito della Federazione socialista di Napoli – si era esaminata la possibile convergenza con elementi anarchici nel lavoro politico e sindacale.

Sulla stampa socialista il dibattito sulla questione dell’unità di classe contro la guerra sta andando avanti dagli inizi di quel 1916; a partire dal già menzionato articolo di Serrati del gennaio. Da questo confronto emerge la sintonia fra Gramsci e Bordiga – che ritroveremo nel dicembre 1917 – nell’escludere ogni alleanza spuria a sinistra.

Anche in ambito libertario e sindacalista la questione troverà vasta risonanza soprattutto a partire dal 1° maggio 1917, quando sull’Avanti! compare un articolo di Jacques Mesnil sul tema della nuova internazionale. Mesnil è un anarchico di origini belghe, particolarmente legato al PSI e in ottimi rapporti con Serrati, che lo accetterà come corrispondente parigino del quotidiano socialista. Nel 1921 parteciperà al III° Congresso del Komintern e per alcuni anni sarà nella redazione de L’Humanité, allora organo della sezione francese dell’I.C.

In autunno, con una lettera da Londra, pubblicata su Guerra di classe (la rivista fondata dal sindacalista Armando Borghi, dopo la rottura con gli elementi interventisti dell’Unione Sindacale Italiana), prende posizione Errico Malatesta a favore di una nuova Internazionale, che si batta per l’emancipazione del proletariato mondiale dal capitalismo e dai suoi governi. Una formazione (Malatesta propone di chiamarla la Mondiale per sottolinearne il carattere sovranazionale) alla quale potrebbero partecipare i socialisti non anarchici ed i laburisti non socialisti, a patto che rinuncino ad imporre le proprie tattiche, ovvero il parlamentarismo e il gradualismo riformista. Una posizione speculare, se vogliamo, a quella di Gramsci e di Bordiga.

L. interviene nel momento culminante di tutto questo dibattito. Per quanto riguarda l’evoluzione di Vezio, la posizione espressa nell’articolo da cui siamo partiti è in assoluta coerenza con tutta la sua militanza politica e sindacale. L. è sicuramente espressione dell’ambiente massimalista fiorentino, pur se gli resteranno sempre estranei i toni esagitati e la verbosità demagogica da comiziante.

Del resto il massimalismo sarà uno dei tratti distintivi di gran parte dei militanti socialisti che aderiranno tre anni dopo alla mozione di Imola e, nei primi mesi del 1921, daranno vita alle sezioni toscane del PCd’I.  Basti qui ricordare l’estrazione anarchica, negli anni di gioventù, di quadri del livello di un Ilio Barontini o di un Ersilio Ambrogi (entrambi originari della provincia di Pisa – Cecina e Castagneto rientravano allora in tale ambito amministrativo), oppure l’apprendistato e i tratti dell’impegno politico di un Arturo Caroti, o di un Armando Aspettati (entrambi fiorentini), di un Luigi Salvatori (originario di Querceta in provincia di Lucca), o di un Egidio Gennari (per diversi anni, particolarmente significativi, attivo su Firenze).

Quella di L. – la sua visione e la sua passione per fomentare e sviluppare l’unità di classe al di là delle appartenenze di sindacato e di partito (potremmo dire dal basso), resta una coerenza totale, dispiegata fino all’ultimo. C’è una coerenza di fondo fra lo spirito dell’articolo del dicembre 1917 e l’impegno unitario, senza riserve, di L. a fianco degli anarchici (due nomi per tutti: il pisano Augusto Castrucci e il livornese Enzo Fantozzi) e dei sindacalisti rivoluzionari all’interno del Sindacato Ferrovieri Italiani (S.F.I.), per la cui adesione alla CGdL Vezio non rinunciò a battersi durante il biennio rosso.

Una coerenza che ritroviamo nella collaborazione con l’avvocato Mario Trozzi, al tempo stesso legale dello S.F.I. e esponente di rilievo del massimalismo fiorentino. Vale la pena di ricordare che nel suo studio il 18 novembre 1917 si tiene, fra i principali esponenti della sinistra socialista italiana, la riunione nazionale clandestina per raccordare le posizioni degli aderenti alla frazione intransigente rivoluzionaria del PSI, che ha preso vita nel corso dell’estate precedente: una pietra miliare lungo la strada che porterà alla nascita del PCd’I. Una riunione nella quale – e la circostanza ha anche un suo forte significato simbolico –  si incontrano di persona per la prima volta Gramsci, Bordiga e anche – secondo quanto riporta Andrea Mazzoni nel suo libro – lo stesso Lavagnini.

In fondo la vicenda qui richiamata ci ricorda ancora oggi quanto tormentato, non breve e di certo non lineare sia stato il cammino che ha portato i più importanti dirigenti del futuro PCd’I ad emanciparsi – forse mai completamente del tutto – dai limiti del massimalismo, tratto caratteristico del movimento operaio italiano nei primi decenni del ‘900 (e forse non solo in questi). Giustamente Andrea Mazzoni sottolinea quanto L. si ispirasse al modello di Karl Liebknecht nella sua intransigente opposizione alla guerra e al militarismo prussiano. Ma tanto al tribuno di Firenze che a quello di Berlino (caduto due anni prima di lui), la reazione borghese – fascista per il primo, d’ispirazione socialdemocratica (maggioritaria) per il secondo – non ha consentito di contribuire ulteriormente a dare uno sbocco politico ai fermenti rivoluzionari sorti in Europa all’indomani dell’Ottobre sovietico.




«Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini»

«[…] Bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi. Siamo quello che siamo […]» [1]

Le parole che il partigiano giellista ebreo Emanuele Artom consegna alle pagine del suo diario nel novembre 1943, poco prima di essere catturato dai fascisti, torturato dai tedeschi e brutalmente assassinato, colgono i dubbi e le inquietudini, comuni a tanti altri protagonisti di quell’esperienza di lotta, su come quelle vicende sarebbero state raccontate negli anni a venire.

Ricostruire quei fatti nella giusta prospettiva, per evitare sterili agiografie, come temeva Artom o, come è divenuto costume in anni più recenti, vili dannazioni di memoria, non è esercizio vuoto o consunto, ma una operazione oggi quanto mai necessaria[2]: sul piano memoriale e identitario, per tamponare i sempre più insistenti rigurgiti fascisti; in termini storiografici e di ricerca, dal momento che la prosecuzione degli studi reca con sé ulteriori scoperte e approfondimenti; per colmare lacune ancora presenti in specifici contesti territoriali.

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Lanciotto Ballerini, partigiano di Campi Bisenzio, caduto eroicamente a Valibona il 5 gennaio 1944 e insignito della medaglia d’oro al valor militare. Al suo nome venne intitolata la 22° Brigata Garibaldi (nella foto, Lanciotto sotto le armi sul fronte etiope, esperienza che rafforzò in lui un sentimento di ripudio per la cultura militarista e aggressiva del fascismo. Fonte: ANPI Campi Bisenzio)

Il recente volume di Francesco Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (Viella, 2021), promosso dall’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Firenze, riesce con perizia a fare tutto questo: depurare dalle distorsioni apportate dal tempo e dalla memoria, ricucire dagli sfilacciamenti che l’appropriazione politica di quegli eventi ha prodotto, ristabilendo equilibrio e riportando all’interno di una seria e rigorosa ricerca storica le vicende della Resistenza fiorentina.

Molto è stato scritto in merito a questa importante esperienza di lotta in grado di anticipare i fenomeni di opposizione politica e militare più avanzati che presero avvio a Nord: note sono la maturità politica dimostrata dal fronte cittadino e l’autonomia rivendicata dal Comitato Toscano di Liberazione (Ctln) rispetto agli Alleati, aspetti fondamentali nel rendere possibile quello che fu il primo esperimento di autogoverno della Resistenza.

Sebbene determinante, la dimensione urbana e cittadina della stessa ha finito per oscurare le altre esperienze di lotta armata nate e sviluppatesi in provincia, spesso ricordate solo in relazione alla liberazione di Firenze. Eppure la presenza di bande e gruppi partigiani “fuori dalle mura”, prima dell’11 agosto 1944, non fu affatto marginale: ce lo ricorda bene il volume di Francesco Fusi che – ne dà nota il sottotitolo – ricostruisce la genesi di uno dei principali gruppi garibaldini fiorentini, la 22 Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini. Una scelta d’indagine non casuale, che tiene conto del maggior peso e dalla più solida dimensione armata che nella guerra in montagna ebbe l’organizzazione garibaldina, dal momento che quella azionista si radicò maggiormente nel contesto cittadino esprimendo la sua leadership politica all’interno del Ctln[3].

Così come altrove, anche nel contesto fiorentino, in particolare nelle zone di Monte Morello, di Monte Giovi, del Mugello si costituirono, subito dopo l’8 settembre, i primi raggruppamenti partigiani, tra questi anche i primitivi nuclei delle quattro brigate Checcucci, Fabbroni, Lanciotto e Romanelli che tra cambi interni, avvicendamenti, trasferimenti, aggregazioni e scissioni, nei mesi a seguire, il 24 maggio 1944, confluirono nella 22a Brigata Garibaldi Lanciotto agli ordini della Delegazione Toscana del Comando Generale delle Brigate Garibaldi, sotto la guida di Aligi Barducci “Potente” e intitolata a Lanciotto Ballerini, comandante partigiano caduto il 3 gennaio 1944 a Valibona in uno scontro con i fascisti.

L’attenzione dell’autore va, fin dalle prime battute, all’analisi delle motivazioni morali ed esistenziali della scelta partigiana di quanti animarono le formazioni originarie: l’obbiettivo è puntato sugli individui, le loro scelte. Proprio il confronto con i percorsi personali e biografici degli “uomini in banda”, che animano le pagine del primo capitolo, permette di mettere in luce il carattere spontaneo del movimento, ridimensionando il ruolo giocato nelle prime fasi dal personale politico e dalle avanguardie organizzate. La scelta partigiana viene così a configurarsi come «[…] un caleidoscopio di fattori, tra loro distinti, che tuttavia sovente si intrecciano, finanche a sovrapporsi l’un l’altro. Motivazioni soggettive e condizioni oggettive, scelte consapevoli mosse da idealità e slanci ribellistici o, di contro, costrizioni imposte dagli eventi alle quali ci si vuol sottrarre […]» [4].

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Giulio Bruschi “Berto”. Antifascista di Sesto Fiorentino, perseguitato politico e tra i primi organizzatori dopo l’8 settembre 1943 del movimento partigiano su Monte Morello. Divenne in seguito Commissario politico della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (foto: ACS, Casellario Politico Centrale)

Sono i percorsi di vita, le specifiche condizioni sociali, l’educazione e l’ambiente familiare, le esperienze e le conoscenze pregresse a spingere alla lotta; si tratta di una scelta individuale che riesce a raggiungere una reale maturazione quando l’orizzonte politico lontano e sbiadito dell’antifascismo delle origini trova nella banda armata[5], che si organizza e diviene comunità, i suoi contorni più definiti. Nella parabola della scelta partigiana, dunque, l’antifascismo politico e l’appartenenza partitica assumono i contorni vivi di un approdo, anziché configurarsi come un punto di partenza[6].

Ripulendo la narrazione da sterili eroismi, il volume mette in luce i limiti delle prime bande che si costituiscono subito dopo l’armistizio e a cui prendono parte soldati italiani sbandati ed ex prigionieri evasi (inglesi, americani, russi e slavi), ai quali si aggiungono in modo sparso i civili: dissidenti e detenuti politici da poco scarcerati, giovani e studenti mossi da una generica esigenza di riscatto. Sono i personalismi, l’impreparazione mista a un’ingenua e talvolta pericolosa impulsività nell’armarsi a dominare. L’attività svolta è all’inizio embrionale e circoscritta, fatta di azioni che mirano a consolidare la propria presenza sul territorio, “disturbando” il nemico. «Ognuno sta nella vita partigiana con il suo abito d’origine […]» [7] ha scritto Roberto Battaglia, ce lo conferma anche il ritratto schietto, quasi dissacrante di Lanciotto Ballerini, ricostruito nel testo attraverso le testimonianze di altri resistenti: un partigiano in “carne e ossa”, una figura umanissima, con le sue grandezze e i suoi limiti, caratteri dissonanti che non ne limitano il successo, anzi, concorrono ancora oggi a farcelo vicino sentire.

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Aligi Barducci “Potente”. Primo comandante della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini, poi comandante della Divisione Garibaldina Arno protagonista della liberazione di Firenze. Ferito mortalmente l’8 agosto 1944 in Piazza S. Spirito, sarà insignito della medaglia d’oro al valor militare (Foto: Wikipedia)

Evidenzia l’autore come, tra le bande nate nel settembre del 1943, quelle che sopravvissero all’inverno furono proprio le formazioni che avevano tratto origine da contesti e situazioni entro cui operavano le reti e le strutture dell’antifascismo organizzato. Fu così per le due principali formazioni che a partire dall’8 settembre scelsero come propria sede il Monte Morello: il gruppo di Giulio Bruschi e quello, appunto, di Lanciotto Ballerini. Su entrambi avevano diretto i loro sforzi sia le reti dell’antifascismo locale sia l’organizzazione clandestina fiorentina, con particolare riguardo a quella comunista, nel caso del gruppo di Sesto Fiorentino di Bruschi, mentre per la formazione di Campi Bisenzio, legata a Ballerini, fu attivo un insieme composito di forze che, oltre al Pci, annoverava anche azionisti e libertari: «un’eterogeneità che in seguito aprirà una disputa su chi dovesse rivendicare l’organizzazione del gruppo partigiano Lanciotto e di conseguenza l’identità politica di quest’ultimo»[8]. La questione dei contrasti, delle tensioni e delle conflittualità politiche e militari, esterne e interne, che connota l’esperienza resistenziale delle principali forze dell’antifascismo fiorentino, è uno dei nodi centrali dell’intera narrazione e consente, ancora una volta, di depurare il campo da una acritica visione della guerra di liberazione come processo unitario e lineare.

La progressiva maturazione umana, organizzativa e politica degli uomini e delle bande di afferenza, ricostruita attraverso le pagine del volume, si lega all’evoluzione della lotta in corso e agli eventi che si succedono nei mesi a seguire. Tra gennaio e marzo 1944 molteplici furono i momenti di crisi che portarono allo stallo delle operazioni, dai drammatici fatti di Valibona, al progressivo abbandono dell’ormai pericolosa zona di Monte Morello verso il Mugello, dove si avvicendarono, tra contrasti e discussioni, i comandi interni. Inquietudini e tensioni endogene furono inoltre generate dal problema della sicurezza delle formazioni: i numerosi arresti da parte della polizia fascista, sia di membri del partito comunista che di quello d’azione, in città e tra le bande, furono il segno tangibile che l’opera di raccolta di informazioni del nemico, attraverso il significativo apporto di spie e delatori, stava funzionando a pieno ritmo.

Iniezioni di fiducia furono invece rappresentate dai rifornimenti che iniziarono ad arrivare con i primi aviolanci alleati, e che, pur generando tra le formazioni comuniste e azioniste screzi e polemiche per ripartizioni giudicate poco equilibrate, così come accuse reciproche di furti, costituirono un passo in avanti sul piano delle potenzialità offensive. Lo dimostra bene l’operazione che, il 6 marzo 1944, i partigiani condussero con esito positivo presso Vicchio: un attacco in pianura interamente pianificato e coordinato dalle bande di montagna su un obiettivo stabilmente presidiato dal nemico. I fatti, ricostruiti in dettaglio nel volume, ebbero ampia risonanza e un importante significato politico-militare per le stesse formazioni che avevano promosso con successo l’iniziativa. Nessuno in realtà considerò i rischi, in particolare quelli di rappresaglia sulla popolazione.

Proprio il ciclo repressivo lanciato di lì a poco dai comandi tedeschi su tutto l’arco appenninico contribuì ad avviare, per i gruppi partigiani, una nuova fase carica di difficoltà e pericoli, ma pure foriera di nuove e necessarie scelte.

La decisione di costituire una formazione unitaria con un ruolo strategico nella zona di Pratomagno riconosciuta dal comando militare del Ctln, politicamente diretta dal Pci fiorentino e in cui potessero confluire le diverse bande garibaldine attestatesi su Monte Giovi, tra il Mugello e la Valdisieve, dopo i rastrellamenti nazifascisti e la dispersione subita in aprile sul Falterona , segnò un definitivo passo in avanti nell’organizzazione e nella maturazione politica dei diversi gruppi che a essa furono aggregati. Dell’operazione che portò alla nascita della 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini l’autore sottolinea le problematicità logistiche legate alla scarsità di vettovagliamento e di armi in una zona già satura di sfollati e in cui si accalcavano nuove reclute sfuggite alla chiamata di leva; non di minore importanza le difficoltà psicologiche ed emotive: il persuadere degli uomini abituati a una loro autonomia a sottostare a una nuova disciplina non si dimostrò cosa facile e portò talvolta ad accuse di prevaricazione ai danni di tutti quei gruppi che avevano mostrato la loro contrarietà nel farsi assorbire.

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La prima pagina del ruolino degli effettivi della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (ISRT, Fondo resistenza armata)

Il volume rivela come la disorganizzazione e l’approssimazione con cui i primi resistenti erano scesi in campo vennero superate all’interno del nuovo gruppo grazie alla maggiore esperienza e alla coesa organizzazione interna, affiancata anche da una pedagogica attività di educazione politica (spesso di avvicinamento al partito) portata avanti per orientare e consapevolizzare i combattenti, in molti casi connotati da atteggiamenti politici confusi e ingenui.

Nonostante la cronica mancanza di armi, la Lanciotto fu in grado di sostenere sul Pratomagno un’attività di guerriglia senza precedenti, anche se la stessa non si rivelò immune da errori, superficialità, eccessivi azzardi, che in molte occasioni posero il gruppo in conflitto con la popolazione del luogo. Ricorda l’autore come «la condotta dei partigiani di Potente su Pratomagno ancora oggi è al centro di ricostruzioni piene di livore che li dipingono nel migliore dei modi come irresponsabili o peggio dei fanatici ideologizzati colpevoli d’aver condotto una guerra sporca insensibile alla sorte delle comunità locali sulle quali avrebbero attirato una serie di atroci rappresaglie»[9]. Il gruppo viene dunque percepito come un attore esogeno che interviene a turbare gli equilibri locali.

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Romeo Fibbi “Romeo”. Appartenente a una famiglia di antifascisti di Compiobbi (Fiesole) emigrata in Francia per sfuggire alle persecuzioni del Fascismo. Volontario militare in Spagna assieme al padre Enrico con le Brigate internazionali, quindi recluso nei campi di prigionia francesi. Rientrato in Italia, dopo l’8 settembre Romeo si pone in collegamento con l’organizzazione comunista fiorentina, assumendo poi il comando di un gruppo di partigiani nel Mugello. Rileverà il comando militare della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini dopo che Aligi Barducci “Potente” passerà alla guida della Divisione Arno (Foto: ACS, Casellario Politico Centrale)

Il tema chiave del rapporto tra partigiani e popolazione locale, che trova ampio spazio all’interno della narrazione, offre l’opportunità di mettere in luce la «natura instabile» e problematica della reciproca e forzata convivenza, una relazione mutevole nel tempo che fu necessario via via rinegoziare, lo dimostrano bene i fatti di Montemignaio e Cetica, a cui l’autore dedica ampia trattazione.

Si tratta di una questione che si lega a un problema cruciale, quello della violenza -pre e post liberazione – rispetto a cui il libro fornisce valide interpretazioni e molteplici spunti di riflessione. Quanto e perché la violenza partigiana agita e procurata poté considerarsi più legittima e giustificabile? In che modo i resistenti provarono a disciplinarla e a renderla moralmente più accettabile? Vi riuscirono davvero?

Il prezzo pagato dai partigiani nella battaglia per la liberazione di Firenze fu alto (205 caduti, 400 feriti, 18 dispersi tra squadre cittadine e partigiani)[10], anche a causa delle numerose difficoltà, ripercorse nel testo, che le forze resistenti si trovarono inaspettatamente ad affrontare. La Divisione Arno, la formazione unitaria in cui, il 6 luglio, era confluita la stessa Brigata Lanciotto, assieme alla Caiani, la 22a Bis Sinigaglia e la Fanciullacci, registrò la perdita totale di oltre 50 uomini, con la morte del suo stesso comandante “Potente”.

Ci ricorda l’autore, senza voler in alcun modo sminuire questo importante contributo di sangue, come la liberazione della città non sarebbe stata possibile senza la schiacciante superiorità strategico-militare degli Alleati, sottolineando, tuttavia, come il contributo dell’azione partigiana rispose invece a una importante finalità politica: «se le forze resistenziali volevano avere una chance di condizionare i futuri assetti politici e sociali del paese in senso democratico, esse dovevano per forza presentarsi agli alleati come militarmente in grado di contribuire alla liberazione, a prescindere dai costi»[11].

La storia che si apre a seguire, ripercorsa dell’ultime pagine del volume, è quella di ritorno all’ “ordinario”, segnata dai bisogni, dalle difficoltà materiali e umane che caratterizzarono l’immediato dopoguerra. Il disarmo dei partigiani fiorentini a opera degli Alleati creò in molti sentimenti di delusione e rabbia, anche a fronte di istanze di cambiamento e rinnovamento parzialmente tradite; in alcuni il sentimento di frustrazione si trasformò invece in spinta per continuare a combattere fino alla completa liberazione del paese. Per molti altri ancora tener viva la fiamma della Resistenza significò continuare a operare attivamente nell’ambito delle nascenti istituzioni repubblicane, all’interno della politica dei partiti democratici e delle organizzazioni sindacali.

«[…] Gli uomini sono uomini, bisogna cercare di renderli migliori e a questo scopo per prima cosa giudicarli con spregiudicato e indulgente pessimismo»[12], scriveva ancora Emanule Artom.

Al libro di Francesco Fusi il merito di non aver giudicato, ma di aver ricostruito attraverso una solida documentazione quelle vicende: storie di uomini che nella loro normalità, ciascuno con le proprie risorse e capacità, scelsero di non tirarsi indietro.

 

 

 

[1] Emanuele Artom, Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940-febbraio 1944, a cura di G. Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 609-616, in Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, Laterza, Roma-Bari, 2021, p. 37.

[2] Riprendo tali considerazioni da Francesco Filippi, Un libro di storia smonta tutte le “fake news” sui partigiani, in «Micromega», 10 marzo 2021 Url: <https://www.micromega.net/anche-i-partigiani-pero/>.

[3] Francesco Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini, Viella, Roma, 2021, p. 13.

[4] Ivi, p. 65.

[5] Cfr., ivi, pp. 65-66.

[6] Alberto De Bernardi, Un contributo per discutere e scrivere la storia della Resistenza e della Repubblica, in «Italia Contemporanea», 276 (2004), p. 520, in F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., p. 67.

[7] Roberto Battaglia, Un uomo un partigiano, Il Mulino, Bologna, 2004 [ed. or. 1945], pp. 147, 151, in F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., p.111.

[8] F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., pp. 87-88.

[9] Ivi, p. 253.

[10] Ivi, p. 347.

[11] Ivi, p. 348.

[12] Si faccia riferimento alla nota 1 di questo testo.




Oberdan Chiesa. Un uomo, una vittima, un mito.

Una delle frasi più famose della narrativa italiana sulla Resistenza è quella del partigiano Kim, tra i protagonisti de Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, «E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si ritrova dall’altra parte»[1]. Lo stesso Claudio Pavone, nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza utilizzò questo passo letterario per spiegare le ragioni attorno ai diversi schieramenti di campo all’indomani dell’8 settembre 1943, non sempre semplici e spesso legate al caso. Ecco, a me sembra che la frase di Calvino calzi anche per descrivere, almeno in parte, e la scelta antifascista di Oberdan Chiesa – e forse anche del fratello Mazzino, a cui Stefano Gallo ha già dedicato uno studio[2] – anticipata di quasi un ventennio rispetto all’ambientazione originaria della storia, cioè al momento dell’instaurazione del regime fascista. Il «nulla» che colpì i fratelli Chiesa – comunque cresciuti in un ambiente familiare imbevuto di idee repubblicane e socialiste – fu una spedizione squadrista contro il loro quartiere, consumatasi quando entrambi erano degli adolescenti. Ma procediamo con ordine.

La famiglia Chiesa era composta dai genitori, Garibaldo e Ada Cini, e da quattro figli, Corrado-Giovanni, Mazzino, Oberdan e Mazzina. Già i loro nomi tradivano l’orientamento politico che si respirava al numero 54 di via Giuseppe Garibaldi, l’arteria principale del quartiere livornese “Il Pontino” – uno dei centri “sovversivi” della Livorno contemporanea – dove vivevano. Ma dalle memorie dei protagonisti emerge ancora più chiaramente come la spinta alla loro decisa presa di posizione contro il fascismo avvenne nell’ottobre del 1924. Bisogna ricordare come in seguito all’omicidio Matteotti il partito di governo sembrò sbandare, anche sull’onda della costernazione dei circoli conservatori che avevano supportato l’ascesa di Mussolini. La reazione dei fascisti fu contraddistinta da un uso diffuso della violenza squadrista, la stessa del biennio 1921-1922, che si riversò anche su Livorno[3]. Quella sera un gruppo di squadristi invase la fiaschetteria dei fratelli Sirio e Gino Spagnoli, noti repubblicani da poco convertiti al comunismo, per dargli una lezione. I due non si fecero intimidire ed estrassero le armi che tenevano sotto al bancone, ferendo tre degli aggressori e mettendo in fuga gli altri[4]. Come ritorsione un folto gruppo di fascisti si diresse verso il loro appartamento, che era esattamente dal lato opposto a quello dei Chiesa:

Durante la notte mia madre è venuta in camera – chi parla è Mazzino, che ricordava  quell’episodio a mezzo secolo di distanza – terrorizzata, mi ha svegliato dicendomi che i fascisti erano giù e volevano entrare in casa […] Non c’è stato bisogno di andare ad aprire perché avevano già abbattuto la porta ed erano entrati dentro. Sono entrati [sic] in camera dove io dormivo con mio fratello [Oberdan] e tra questi “masnadieri” ho visto uno […] che ha detto “No, no, non sono quelli che stiamo cercando”[…] Quando sono andati via, allora, mi sono alzato [mi sono affacciato alla finestra] e ho assistito ad una scena terrificante: da ogni parte c’era un incendio. Per vendicarsi, siccome i fascisti non avevano potuto trovare quelli che avevano sparato, avevano dato fuoco ai pagliai, perfino a delle pine […] per   fare il fuoco […] e dettero la via ai maiali […]. Come al solito la reazione dei fascisti si riversò nei confronti degli inermi e degli ultimi[5].

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

L’episodio, per quanto risoltosi in maniera fortunata per i due fratelli Chiesa, fu il trauma – lo affermò lo stesso Mazzino nell’intervista audio –  che decise per un loro percorso di vita votato all’antifascismo. Il primo ad impegnarsi nella lotta aperta contro il partito di governo fu Mazzino, il quale aderì formalmente alla federazione giovanile comunistamettendosi a distribuire manifestini in città e ad aiutare nell’organizzazione comizi clandestini[6]. Oberdan decise di rimanere ancora per un po’ nell’ombra, evitando di esporsi pubblicamente e interiorizzando la propria opposizione al fascismo. Di lì a poco anche lui avrebbe fatto sentire la sua voce, costringendo la polizia politica a mettersi sulle sue tracce. Soprattutto all’estero.

Nel settembre del 1933, all’indomani del servizio militare di leva, Oberdan espatriò per Bona, in Algeria, dove fece il suo battesimo politico partecipando, col fratello – allora già da qualche tempo esule ed agente del Pcd’I clandestino –, all’aggressione al direttore della scuola italiana di quella città[7]. Per quell’episodio fu processato ed espulso dalla colonia francese spostandosi prima a Marsiglia, poi ad Ajaccio, dove risiedette dal gennaio all’agosto 1936, ed infine a Grenoble[8]. In quest’ultima città rimase poco tempo perché, lo stesso giorno del suo arrivo, ebbe modo di parlare con altri emigrati che gli parlarono di cosa stesse accadendo in Spagna. Non sapeva veramente nulla riguardo l’ammutinamento del generale Francisco Franco contro la giovane repubblica? Pur nutrendo alcuni dubbi su questa dichiarazione – che fece lui stesso al momento del rimpatrio – non mi è stato possibile scoprirlo, ma è certa la sua partenza per Barcellona dei giorni seguenti. Partecipò alla Guerra Civil prima tra i ranghi della centuria “Gastone Sozzi”, poi nelle Brigate internazionali e, infine, nella Marina da guerra repubblicana. Nel 1939, al momento della sconfitta, fu costretto a lasciare la Spagna finendo recluso nei campi di prigionia francesi per gli ex volontari. L’ultimo campo fu quello di Vernet, dal quale venne liberato nell’estate del 1941 per essere rimpatriato in Italia. Raggiunse Livorno a settembre, rimanendovi per poche settimane. Iscritto al Casellario politico centrale dal 1934, fu condannato al confino, che scontò sull’isola di Ventotene. All’indomani della caduta del regime fascista venne liberato, rientrando nella sua Livorno solo alla fine del mese di agosto. La città che si trovò di fronte non era certo quella lasciata anni prima, avendo già subito i due grandi bombardamenti del 28 maggio e del 28 giugno 1943[9].

La sua permanenza fu tutto sommato breve, dato che dopo la notizia dell’armistizio con gli angloamericani e l’avvio dell’occupazione nazifascista, trascorsero pochi mesi prima del suo arresto. Oberdan venne fermato dalla squadra politica della Questura di Livorno il 22 dicembre 1943, e quello che fece in questo lasso di tempo, ahimè, non è testimoniato da nessuna fonte. Sicuramente ebbe un ruolo nell’organizzazione della Resistenza livornese, ma non certo così centrale come è stato dipinto nel dopoguerra. Questo emerge abbastanza chiaramente sia nella documentazione prodotta durante il processo ai suoi assassini – sebbene gli inquirenti non dedicarono ampia attenzione ad approfondire le modalità del suo arresto – sia nelle memorie di alcuni tra i principali animatori della lotta partigiana nel livornese. Anche la sua scelta come vittima delle rappresaglia che si consumò per ordine della Prefettura di Livorno sulla spiaggia di Rosignano Solvay il 29 gennaio 1944 conferma questa lettura, a cui è importante aggiungere come in occasione del suo arresto venne fermato anche il principale rappresentante della Resistenza comunista livornese in quelle prime settimane di occupazione, vale a dire Vasco Jacoponi[10]. Al di là di queste interpretazioni – che ci tengo a ribadire come siano del tutto personali, sebbene ancorate ad un ampio scavo archivistico e bibliografico – resta il fatto che quella mattina del gennaio 1944, in risposta ad un attentato fallito contro il maresciallo comandante la stazione dei carabinieri di Rosignano Solvay di poche ore prima, Oberdan venne fucilato da un plotone della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) composto da ex militi della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e carabinieri. La sua esecuzione era l’esempio concreto di quella guerra civile che si combatté tra il 1943 e il 1945 in Italia, per cui il ricordo dell’episodio non poteva perdersi tra quelli che costellarono quei mesi. Alla formazione di una solida memoria “popolare” della morte di Oberdan contribuì indubbiamente il processo che venne celebrato nell’estate del 1947 – dopo più di due anni di istruttoria e decine di testimonianze raccolte – contro la catena di comando fascista-repubblicana che aveva ordinato, ed eseguito, la rappresaglia. Sul banco degli imputati finirono: Edoardo Serafino Facdouelle, capo della provincia di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Giampaolo Mannelli, segretario particolare di Facdouelle e dirigente dell’ufficio politico della Prefettura di Livorno; Fernando Gori, federale del Partito fascista repubblicano di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Renato Simoncini, commissario del fascio repubblicano di Quercianella; Giovanni Giampieri, ispettore federale e commissario del fascio di Piombino; Giuseppe Bartolini, tenente colonnello della Gnr e comandante della 88ª legione di Livorno tra gennaio e aprile 1944; Michele Cioffi, capitano dei carabinieri e comandante del gruppo di Livorno tra l’estate 1942 e quella del 1944; Luigi Carocci, squadrista e capitano della Gnr; Luigi Porquieur, capitano della Gnr e comandante dell’ufficio politico dell’88ª Legione; Luigi Cardile, tenente della Gnr; e Eugenio Bartolini, Sirio Lami e Marino Piga, tutti e tre militi della Gnr livornese. Facdouelle e Mannelli, entrambi latitanti, vennero puniti con l’ergastolo; a Gori furono inflitti 26 anni e 8 mesi di reclusione; a Carocci, latitante anche lui, 20 anni e 8 mesi; a Giuseppe ed Eugenio Bartolini, Cardile, Piga e Lami 13 anni, 9 mesi e 10 giorni; mentre a Cioffi 11 anni, 1 mese e 24 giorni. Tutti furono condannati a pagare le spese processuali e a risarcire la madre di Oberdan, costituitasi parte civile e assistita dall’avvocato Augusto Diaz. In virtù dell’amnistia del 22 giugno 1946, nota come “amnistia Togliatti”, vennero immediatamente condonati 8 anni e 10 mesi a Gori, mentre 5 anni ai due Bartolini, Cardile, Piga, Lami e Cioffi[11].

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l'uccisione di Oberdan.

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l’uccisione di Oberdan.

Ho definito la memoria scaturita dal processo come “popolare” non per caso, in modo da far emergere la differenza con quella “istituzionale” che rese il 29 gennaio una data topica del calendario laico dei livornesi. Perché accadde ciò? A partire dal 1945 la neonata federazione labronica dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia pose una stele commemorativa sul luogo dell’esecuzione di Oberdan quale punto di riferimento soprattutto per gli abitanti di Rosignano Solvay. Nel capoluogo di provincia, invece, gli venne dedicata una via e intitolata una sezione del Pci. A partire dal 1948, a causa del mutato clima internazionale, le cose iniziarono a cambiare e le celebrazioni annuali in sua memoria assunsero un chiaro orientamento politico. A ciò si aggiunse l’offensiva giudiziaria antipartigiana che si aprì nel dicembre 1947 e che investì anche la figura di Oberdan[12]. In questo clima si svolse il processo ad alcuni componenti della banda partigiana “Danesin” – dal nome del suo comandante Sante, e che operò tra i comuni di Rosignano Marittimo, Castellina Marittima e Riparbella – imputati quali autori dell’attentato del 27 gennaio 1944 che portò alla rappresaglia contro Oberdan, ma anche del tentato omicidio del commissario prefettizio di Montecatini Val di Cecina Oreste Giglioli, e degli omicidi dell’ex squadrista di Rosignano Solvay Arturo Gaiozzi, dell’ex podestà di Castellina Marittima Francesco Renzetti, e del maresciallo dei carabinieri di Riparbella Lugi Scordo. Non mi soffermo sulla complessità di questo processo – col primo grado celebrato dalla Corte d’assise di Pisa, il secondo dalla Corte d’appello di Firenze e il terzo dalla Cassazione – ma per comprenderla è sufficiente sapere come solo il dibattimento durò dal 16 febbraio al 30 marzo 1953, e che i principali imputati furono portati in carcere già a partire dal luglio 1951. Il significato del processo, per quanto risoltosi in maniera tutto sommato favorevole a Danesin e ai suoi compagni di lotta, non fu tanto quello di far giustizia di fatti di sangue risalenti a quasi un decennio prima, quanto quello di attaccare ancora una volta l’attività partigiana, cercando di screditarla in un’aula di tribunale. In questo scontro tra le parti finì schiacciata la memoria di Oberdan, che fu completamente riabilitata solo dopo la fine di questa seconda fase di processi. Il 19 luglio 1959, in occasione del 15° anniversario della Liberazione di Livorno, si tenne la consueta orazione del sindaco del capoluogo per commemorare l’evento. Dopo le dimissioni di Furio Diaz, primo cittadino dal 1944 al 1954, le funzioni erano passate a Nicola Badaloni. Nel suo discorso ufficiale, ricordò il nome di Oberdan, ponendolo in continuità con i valori risorgimentali della città e affiancandolo, unico civile, ai numerosi militari livornesi decorati di medaglia d’oro al valore militare[13]. L’inedita attenzione di Badaloni verso la figura di Oberdan non era assolutamente di facciata, ma sintomo di un diverso interesse rispetto a prima per la sua triste vicenda, e il significato pedagogico che avrebbe potuto assumere per tutto il contesto livornese: Oberdan era la figura attorno alla quale coagulare l’antifascismo di una provincia nei suoi vari passaggi dal 1922 al 1945, esaltando l’esperienza del fuoriuscitismo, dell’intervento internazionale in Spagna, del confino fascista e della guerra partigiana. Si spiega così perché in occasione del 18° anniversario della fucilazione di Oberdan, i giornali livornesi pubblicarono, per la prima volta contemporaneamente, il testo di una lettera inviata dall’avvocato Campi a sua madre alcuni anni prima, in cui ricambiava ai ringraziamenti per aver ricordato il figlio nella seduta del consiglio comunale del luglio 1954, tenutasi per decidere sull’apposizione di una targa commemorativa il decimo anniversario della Liberazione nella sala consiliare del municipio[14]. D’altro canto, poi, anche la considerazione del principale esponente della famiglia Chiesa ancora in vita, Mazzino, stava cambiando. Dopo un’iniziale contestazione trasversale a tutte le scelte politiche della federazione comunista, Mazzino “l’anarcoide” era stato escluso dalla vita del Pci. Nel 1957 aveva addirittura rifiutato la tessera perché «nemmeno un gatto della federazione» era intervenuto al funerale della madre. Grazie però ad una lenta mediazione dello stesso sindaco Badaloni si convinse a tornare tra le fila comuniste, avvallando così l’uso pubblico della figura del fratello[15]. A partire dal 1964, in occasione del 20° anniversario della morte Oberdan, la data 29 gennaio si affermò definitivamente nella serie delle celebrazioni annuali della Resistenza in tutta la provincia Livorno.

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino, 1964 (ed. or. 1946), p. 146

[2] Cfr. S. Gallo, Mediterraneo antifascista. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio, in Salvatore Capasso, Gabriella Corona e Walter Palmieri, Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall’Italia, il Mulino, Bologna, 2020, pp. 1-17. La ricerca è stata pubblicata anche su questo portale col titolo Mazzino Chiesa, un uomo in mare. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio https://www.toscananovecento.it/custom_type/mazzino-chiesa-un-uomo-in-mare/ (consultato il 28 febbraio 2022).

[3] Cfr. T. Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno. Lotta politica e sociale (1918-1922). La lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Quaderni della Labronica, Livorno, 1990; M. Rossi, La battaglia di Livorno. Cronache e protagonisti del primo antifascismo (1920-1923), Bfs, Pisa, 2021.

[4] Cfr. Nicola Badaloni e Franca Pieroni-Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno, 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 169 e 201.

[5] Pochi mesi prima di morire Mazzino Chiesa rilasciò una lunga intervista audio a Iolanda Catanorchi, per un progetto di raccolta delle memorie di 7 figure storiche dell’antifascismo livornese. Cfr. Mazzino Chiesa, intervista audio di I. Catanorchi per il progetto dal titolo Livornesi sovversivi nel ventennio fascista, 1974, 1.18.00 (d’ora in poi Intervista a Mazzino Chiesa, 1974).

[6] Nel novembre 1926 Mazzino venne arrestato per la prima volta a Napoli, mentre si trovava su una nave proveniente dal Canada, per il ritrovamento di alcuni materiali del “Soccorso rosso” a casa. A tradirlo era stata una lettera alla madre intercettata dalla polizia, già sulle sue tracce per via degli stretti legami con altri comunisti livornesi. Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A8, b. 1398, fasc. «Mazzino Chiesa», verbale di perquisizione del 18 settembre 1926 e sgg. Per una narrazione più precisa della sua attività in questo periodo della sua vita rimando all’intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 00.05.00.

[7] Oberdan si dichiarò innocente a più riprese – anche nell’interrogatorio del 1941 al suo rientro dall’esperienza spagnola, scagionando pure il fratello – ma contro di lui le autorità francesi poterono far valere l’espatrio clandestino e l’assenza di un qualsiasi documento d’identità. Archivio Centrale dello Stato, Min. Interno, Cpc, b. 1303, fasc. 47130 «Oberdan Chiesa», verbale di interrogatorio ad Oberdan (28 ottobre 1941).

[8] Si trattava di Leo Franci, un comunista di Colle Vall d’Elsa emigrato a Marsiglia da pochi mesi dopo una fuga rocambolesca dall’Italia. Volontario in Spagna dall’ottobre del 1936, divenne commissario politico della 1° compagnia, 2° battaglione del «Garibaldi», e fu ucciso a Villanueva de Pardillo (nei pressi di Madrid) nel luglio 1937. I. Cansella e F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Effegi, Arcidosso, 2012, p. 198.

[9] Cfr. E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ETS, Pisa, 2016.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell'anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell’anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

[10] Jacoponi aveva aderito da subito alla svolta comunista del 1921, divenendo segretario della Federazione giovanile comunista di Pisa e Livorno nel 1924. Fu arrestato due anni più tardi, processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato e assegnato al confino a Lipari. Riuscì a fuggire dall’isola emigrando clandestinamente in Francia e mettendosi al servizio del Pcd’I. Nel 1940 fu rimpatriato dalle autorità francesi, processato una seconda volta e confinato a Ventotene. Nel dopoguerra ricoprì vari incarichi in seno alla Cgil e al sindacato dei portuali di Livorno, risultando eletto alla Camera dei deputati nel 1948, nel 1953 e nel 1958. Cfr. I. Tognarini, Là dove impera il ribellismo. Resistenza e guerra partigiana dalla battaglia di Piombino (10 settembre 1943) alla liberazione di Livorno (19 luglio 1944), Esi, Napoli, 1988, p. 158.

[11] ASLi, Tribunale, Corte d’assise speciale, b. 855, fasc. «1947», sentenza del processo per l’uccisione di Oberdan Chiesa (16 luglio 1947).

[12] Cfr. Guido Neppi Modona, Il problema della continuità dell’amministrazione della giustizia dopo la caduta del fascismo, in Luigi Bernardi (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, Franco Angeli, 1984, pp. 11- 39; Guido Neppi Modona, La giustizia in Italia tra fascismo e democrazia, in Giovanni Miccoli, Guido Neppi Modona, Paolo Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 223-228; Michela Ponzani, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Aracne, Roma, 2008; Simeone del Prete, «Fare di ogni processo una lotta politica». Gli avvocati difensori nei processi ai partigiani del secondo dopoguerra, «Contemporanea», articolo in early access  https://www.rivisteweb.it/doi/10.1409/102810 (consultato il 28 febbraio 2022).

[13] Le biografie di questi personaggi erano state raccolte pochi anni prima e pubblicate unitariamente in «Rivista di Livorno. Rassegna di attività municipale a cura del Comune», ed. “Decennale della Resistenza” (1955), fasc. I-II, pp. 17-22. ASLi, Prefettura, b. 37, copia del verbale del consiglio comunale del 14 luglio 1959.

[14] Ricordo del sacrificio di Oberdan Chiesa, «Il Telegrafo», 26 gennaio 1962. Lo stesso articolo fu pubblicato anche su un altro giornale locale con una presentazione alla lettera leggermente diversa, di cui ho trovato solo il ritaglio effettuato dalla polizia senza alcuna indicazione. ASLi, Questura, A4b (1965-1980), b. 497, ritaglio di articolo di giornale Ricordo di Oberdan Chiesa (26 gennaio 1962).

[15] Intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 03.19.55. In questo passaggio Mazzino spiegò come quella era la prima volta in cui raccontava come si fossero svolti realmente i fatti, spesso ricondotti alla diaspora di molti comunisti dal partito nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss.




Il paese più rosso d’Italia.

Il paese più rosso d’Italia (2021), edito dalla Betti Editrice, è un volume scritto dal buonconventino Gino Civitelli.  Civitelli è autore di varie pubblicazioni sulla storia locale, sulla Resistenza, sul movimento operaio e contadino. Il libro, redatto da un militante del partito, non è altro che una testimonianza delle vicende del Partito Comunista Italiano (PCI) nel Senese. In particolare, l’autore cerca di spiegare i motivi del consenso e successo del PCI a Buonconvento, piccolo borgo marginalmente toccato dalla Resistenza che diventò il “paese più rosso della provincia più rossa d’Italia” (p. 11). Attraverso brevi capitoletti, l’autore fornisce una panoramica della storia del PCI dal 1921, anno della sua fondazione, fino la sua dissoluzione nel 1992. In questo modo, Civitelli affronta le più varie tematiche: dalle questioni politiche nazionali (ad. es. il fascismo, il rapporto con il Partito Socialista Italiano, con la Democrazia Cristiana e la Chiesa, la figura di Togliatti e il Compromesso Storico, le Brigate Rosse ecc.), locali (Buonconvento), internazionali (ad. es. il rapporto con gli Alleati nel dopoguerra e con la Russia nel corso del XX secolo), fino a quelle più sociali (ad. es. le donne, i mezzadri, gli operai, le associazioni, ecc.). Il volume, quindi, si muove su un doppio binario ovvero quello cronologico (dal 1921 al 1992) e quello tematico; entrambi si intrecciano fornendo un quadro generale utile a tutti coloro interessati nel conoscere la storia del PCI e nello specifico l’importanza del Partito per Buonconvento e viceversa.

Il libro verte sulla storia di Buonconvento, il rapporto dei buonconventini con il PCI e il consenso che quest’ultimo guadagnò nel paese. Civitelli riconduce il successo del PCI nel territorio, non solo all’antifascismo locale diffuso, in particolare alla mezzadria. Per l’autore, il PCI fu il partito che riuscì a raccogliere la rabbia dei contadini, sintetizzare le rivendicazioni dei mezzadri una volta giunto al potere il fascismo e ricondurle verso gli obiettivi e i miti della Rivoluzione russa. In effetti, mostra come i contadini e gli operai videro nel PCI l’opportunità per raggiungere i propri obiettivi e una prospettiva concreta per il futuro. Secondo Civitelli, Siena era la provincia con la percentuale più alta di mezzadri e Buonconvento il Comune che ne aveva di più (p. 16). È interessante osservare come, attraverso la storia di un paese e del rapporto con il PCI, l’autore riesca a fornire un quadro generale del partito a livello nazionale e internazionale e mostrare quali erano le dinamiche che regolavano e caratterizzavano il partito. Il lettore quindi attraverso una storia micro (Buonconvento) riesce ad osservare una storia macro (la storia del PCI a livello nazionale e internazionale).

Il rapporto micro/macro si osserva anche attraverso i militanti buonconventini e le varie tematiche affrontate da Civitelli nel libro le quali contribuiscono a completare e arricchire il quadro generale della storia del PCI. L’autore, infatti, attraverso le testimonianze degli esponenti locali più noti non soltanto porta alla luce le loro esperienze ma riesce a toccare diversi nodi con valenza più ampia: ad. es. la questione femminile, la propaganda del PCI, la scuola partito, le manifestazioni ecc. In effetti, il libro raccoglie varie testimonianze ed esperienze personali che permettono al lettore conoscere più da vicino il funzionamento del partito e della vita politica e sociale dei singoli individui. Completano il quadro le varie fotografie presenti nel libro che concretizzano l’immaginario di chi legge all’illustrare la realtà così com’era.

Di conseguenza, il libro diventa una vera e propria testimonianza della storia rossa di Buonconvento poiché racchiude parte della vita dello scrittore e di alcuni dei suoi colleghi. Il volume, infatti, verte principalmente sulla conoscenza dell’autore e sulle dichiarazioni o interviste fatte ai suoi pari. Ecco perché tra le pagine del libro, il lettore riesce ad avvertire la posizione e il giudizio, talvolta critico, dell’autore verso il partito di cui ne ha fatto parte. Diventa dunque una valutazione retrospettiva della storia e pertanto rispecchia l’opinione e versione dello scrittore.

In sintesi, Il paese più rosso d’Italia fornisce una panoramica della storia del PCI e della storia di Buonconvento intrecciando la dimensione macro con quella micro lungo la vita del partito e attraverso diverse tematiche. È, quindi, un libro destinato ad un pubblico ampio, interessato nel conoscere la storia del PCI e di Buonconvento attraverso i ricordi, le esperienze, le opinioni dei protagonisti. In questo libro Civitelli ci offre la sua versione.

 




Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento

Un legame inscindibile. Non può essere definita altrimenti la connessione storica tra Livorno e il Partito comunista italiano, tutt’oggi percepibile nonostante l’epilogo dettato tra il novembre 1989 e il febbraio 1991 dalla svolta della Bolognina. Uno spazio politico, amministrativo e sociale che la mostra organizzata dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Livorno (Il Pci a Livorno. Dal dopoguerra allo scioglimento) ha saputo intelligentemente ricostruire, regalando uno spaccato trasversale di quello che il Pci ha rappresentato per la vita repubblicana della città labronica.

Al lavoro di Catia Sonetti, Erika Schiano e Michela Molitierno sono certamente attribuibili vari meriti, in particolare quello di aver riassunto la correlazione tra la storia del partito e la storia del lavoro nella scelta di installare i pannelli all’interno di appositi container portuali. Estrapolata da un’ipotetica cornice museale, la mostra – itinerante e composta da 350 foto – è stata così capace di accentuare ulteriormente uno spazio di rappresentazione orizzontale, lontano dal verticismo istituzionale e concentrato sulla dimensione di piazza e sulla partecipazione della base militante.

241334402_447766106962840_1613773604018022445_nA ciò si sommano altri due aspetti su cui mi vorrei brevemente soffermare. In primo luogo, la valorizzazione della fotografia come documento storico. Gli scatti inseriti nella mostra, per larga parte inediti e provenienti dal fondo Pci dell’Archivio Istoreco e dagli archivi privati di Antonio Brugnoli e Roberto Leonardi, risultano imprescindibili nel consegnare un’impressione più chiara della popolarità, della militanza e dell’evoluzione politica del partito. E ciò tanto per il loro impatto visivo, quanto per il messaggio da essi veicolato. Come sottolineato nell’introduzione al Catalogo da Catia Sonetti, «guardare queste immagini ci [trasmette]» la «percezione precisa del cambiamento sociale, […] antropologico, che ha vissuto il nostro Paese: dai volti di donne e uomini degli inizi del secondo dopoguerra, magri, severi, con i bambini che si fanno carico […] di manifestare con i loro abiti dismessi […], alle immagini degli ultimi decenni di questa storia, con i volti più sorridenti, […] più patinati, […] più televisivi»[1].

Allo stesso tempo, è possibile osservare i frammenti dei cortei o delle adunate come «eventi fotografici»[2] in grado di mostrare il frutto delle scelte compositive dell’autore e la crescente importanza rivestita sul piano proselitistico dalla componente mediatica. Ciò è particolarmente evidente in una delle sei sezioni che compongono la mostra, quella denominata Vita di Partito[3]: ai meravigliosi manifesti ideati da Oriano Niccolai si sommano una serie di scatti capaci di enfatizzare volutamente aspetti specifici dell’universo comunista, dalla “democraticità” delle sezioni[4] alla presenza femminile nelle attività organizzative, passando per le calche durante i comizi e i flussi di militanti (con una particolare attenzione riservata ai più giovani) diretti verso le Feste de l’Unità.

Il secondo punto concerne invece l’importanza dell’infografica elettorale posta all’inizio della mostra. La ricchezza dei dati esposti (dalle amministrative alle politiche) apre invero ad una duplice possibilità: da un lato, quella di valutare l’impatto dei processi nazionali sul piano locale; dall’altro, il peso giocato sulle percentuali dall’intreccio politico cittadino. A ben vedere, il risultato – tra i picchi dell’immediato secondo dopoguerra e la stabilizzazione sopra al 50% degli anni 1976-1987 – mostra una solidità evidente e un’area di riferimento assai vasta, protesa ad andare ben oltre lo «zoccolo duro della base» e a mettere in evidenza l’egemonia giocata dal partito sul versante sociale, politico e culturale della città. Se questa lente bifocale si riflette sulle foto nelle diverse istanze rivendicative (dalla trasformazione delle tematiche occupazionali alle grandi questioni internazionali) e nell’impatto sempre più tangibile della società dei consumi, dal punto di vista statistico può quindi aiutarci a valutare l’incidenza sul contesto labronico del clima del 1948, della crisi del 1956 o delle conseguenze del 1968-1969, fino alla grande stagione di crescita collocabile attorno alla metà degli anni Settanta. A rifletterlo sono altresì i manifesti elettorali e i volantini propagandistici che si alternano alle istantanee, contribuendo a proiettare sui visitatori anche la portata iconografica delle istanze rivendicative ed elettorali.

Attraverso questa molteplicità di aspetti, pertanto, la mostra Il Pci a Livorno ci fornisce un prezioso strumento di analisi e di riflessione. Esperimento unico sul piano regionale, quello avanzato dalle curatrici è stato un tentativo di andare oltre il centenario del Partito comunista d’Italia, così da collocarne le vicende in una cornice di problematizzazione storiografica distante da eventuali letture politicizzate. Un percorso a cui si è aggiunta anche la pubblicazione del volume Pci in Toscana dalla liberazione allo scioglimento. Racconto per immagini (ETS, Pisa 2021), tracciando il pregevole impegno dell’Istoreco Livorno nel ripercorrere con piglio esegetico la narrazione politica predominante sul piano regionale e la sua declinazione su versanti anche poco esplorati come quello sportivo[5].

In sintesi, l’obiettivo posto alla base del progetto può dirsi perciò pienamente raggiunto. Ovvero, quello di dare voce alle immagini per creare un autentico spazio di riflessione, favorendo un supporto reciproco tra storia e memoria (arricchita dagli appuntamenti organizzati nel corso della mostra)[6] oramai sempre più imprescindibile per ipotizzare risposte concrete e formulare al presente le giuste domande.

[1] C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento. Catalogo della mostra, Istoreco Livorno, Livorno 2021, p. 8.

[2] Cfr. A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[3] Le altre cinque sono: Lavoro, Battaglie civili, Pace e questione internazionale, Feste de l’Unità e Sport.

[4] Si veda ad esempio la foto a pagina 82 in: C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno, cit.

[5] Tra le altre iniziative riconducibili al centenario, si ricordano la pubblicazione del volume La vicenda non comune di un militante comunista. Bruno Bernini e le sue carte, scritto da Catia Sonetti e da Michela Molitierno, e il convegno Storia generale e percorsi biografici tra stalinismo e antistalinismo, che si terrà online il prossimo 10 dicembre (2021) e conterà sugli interventi di Antonella Salomoni, Alexander Höbel, Patrick Karlsen, Anna Tonelli e Claudio Rabaglino.

[6] Il 23 settembre, in Piazza Saragat, si è tenuto l’appuntamento Feste de l’Unità: il racconto dei protagonisti e osservatori, durante il quale Catia Sonetti e Michela Berti hanno dialogato con Maurizio Paolini e Claudio Seriacopi. Ha fatto poi seguito l’incontro del 30 settembre, Il Porto e il lavoro a Livorno tra passato e futuro, quando al Palazzo del Portuale è stata allestita una tavola rotonda che ha coinvolto Luciano Guerrieri, Enzo Raugei, Gianfranco Simoncini, Catia Sonetti e Fabrizio Zannotti.