1

LA LEGGENDARIA BANDIERA ROSSA DEL PONTINO

Un episodio del sovversivismo livornese che, attraverso i racconti orali, è rimasto a lungo nella memoria popolare è quello della funambolica bandiera rossa del Pontino.
La leggendaria beffa è stata narrata in chiave antifascista, a distanza di oltre cinquant’anni, da alcuni militanti comunisti, ma con particolari diversi e, soprattutto, con incerta e contraddittoria collocazione temporale, tanto da indurre in errore chi – compreso il sottoscritto – ne ha riferito.
In realtà, l’avvenimento è tutt’altro che dubbio in quanto, come ho potuto appurare, è attestato e datato dal seguente articolo, pubblicato su la «Gazzetta Livornese» del 29 settembre 1921, in cui è descritto con ricchezza di particolari:

Una bandiera rossa sul Pontino.

La polizia veniva ieri informata che sul Pontino i sovversivi avevano posto in luogo ben visibile una insegna rossa.
Verso le 24 di questa notte alcuni agenti e un plotone di regie guardie si recavano in camion nel luogo indicato.
L’insegna era legata ad un fascio di fili dell’energia elettrica, che passando al di sopra degli stabili del Pontino attraversano il canale – all’altezza di una quindicina di metri e oltrepassano la Fortezza.
Sotto il vento freddo funzionari e agenti lavorarono a lungo a bordo di un navicello per preparare una lunghissima pertica, all’apice della quale era un cencio imbevuto di benzina a cui fu appiccato il fuoco, ma si accorsero che l’insegna era di latta e rimandarono ad oggi l’operazione.

La bandiera in possesso della polizia.

Il Questore, nel pomeriggio d’oggi, ha disposto che alcuni operai specialisti ritentassero la prova onde impossessarsi del vessillo.
Gran folla ha assistito all’… esperimento.
Gli operai mediante una scala Ponte piazzata sulla strada, sono riusciti, operando abilmente, a giungere fino all’altezza dei fili.
La folla ha seguito l’operazione come semplice spettatrice. Alla fine gli operai sono riusciti a staccare la lastra di bandone foggiata a bandiera che però è caduta in acqua.
Una squadra di agenti con funzionari a bordo di una barca, si recavano là dove l’oggetto era caduto e dopo brevi ricerche riuscivano a recuperarlo.
La polizia aveva spiegato un largo apparato di forza.
Non si è verificato alcun incidente.

Appurata dunque la cosiddetta verità storica, può essere interessante considerare le narrazioni più conosciute dell’episodio che, nella loro contraddittorietà, si sovrappongo ad alcuni episodi analoghi, avvenuti negli stessi luoghi, ma in tempi diversi.
Infatti, pochi mesi prima, per festeggiare la vittoria elettorale socialista, «sugli Scali delle Cantine, un marinaio della marina mercantile, salito col mezzo di una fune all’altezza del filo conduttore della luce elettrica, vi stendeva sopra un drappo rosso» («Gazzetta livornese, 18-19 maggio 1921») e il 30 agosto 1930, come riferisce un rapporto di Questura, una bandiera rossa con falce e martello venne appesa sugli Scali del Pontino.
Un primo racconto lo troviamo nell’intervista al comunista Eletto Allegri, classe 1903, raccolta da Iolanda Catanorchi a metà anni Settanta, secondo il quale l’episodio era avvenuto il primo maggio del 1925 o 1926, quindi in pieno regime fascista, e collegata alla figura di Ilio Barontini, segretario della federazione livornese del Partito comunista d’Italia, indicato come il “regista” dell’iniziativa, mentre invece non vi era alcun accenno all’esecutore materiale del gesto, attribuito anzi ad un generico «noi»:

il primo maggio era proibito e allora noi decidemmo di fare qualcosa per il primo maggio. In quell’occasione, ma non mi ricordo bene se era il 25 o il 26, quella data lì di sicuro, ci organizzammo […] si mise una bandiera rossa attraverso dalla fortezza ai fossi del Pontino, dalla fortezza nuova, al centro del fosso, con un cavo. Questa bandiera rossa, lui pensò, sai Barontini ci diceva tutto di fare queste cose, questa bandiera rossa fu messa ma non di stoffa, era un pezzo di lamiera pitturato con il minio e la falce e martello. Barontini disse “vedrete che questa non la spostano”; si mise questa cosa […] E la mattina poi ti puoi immaginare la sorpresa degli operai, delle guardie, a vedere queste cose qui. Noi pensammo al nostro rione, io ero del rione Pontino-San Marco dove abitava Barontini […] mi ricordo appunto l’episodio di questa bandiera; venne i pompieri, la polizia; i pompieri in mezzo con la barca a motore con delle torce cercavano di bruciarla, ma invece si anneriva, diventava rossa e nera e allora dovettero venire con la scala porta, levarla, fare un sacco di storie. Barontini soddisfatto.

Una seconda versione, è quella trasmessa da Mauro Nocchi (1934 – 2020), figlio del militante comunista Alcide e lui stesso dirigente del PCI. Il testo, risalente agli anni Novanta ed in seguito rielaborato, riprende in parte la testimonianza di Allegri, raccolta da Catanorchi, e coincide col racconto di De Santi, con l’aggiunta di qualche colorito dettaglio ripreso dalla narrazione popolare e forse ascoltato dal padre. Anche in questo caso, l’episodio è collocato in pieno Ventennio e si sostiene che la bandiera sarebbe stata portata ed esposta a Roma, alla Mostra della Rivoluzione fascista del 1932:

Negli anni 30, in pieno regime fascista, a Livorno, seppure in modo clandestino, il sentimento antifascista e di ribellione alla dittatura fascista era ancora molto forte nella gente. Nel notte del 1° maggio si compì un atto memorabile sul Pontino. Un atleta mise un cavo tra la Fortezza Nuova e l’ultima casa del Pontino con appesa una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore. Si chiamava Danilo Bugliesi ed era un compagno omosessuale, e solo per questo era discriminato. E l’hanno picchiato tante volte i fascisti perché era omosessuale e perché era comunista. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase li per giorni. E quando i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra dei cimeli della rivoluzione.
Quel mattino molte persone radunate lungo le spallette dei fossi sugli Scali delle Cantine, gioivano per l’accaduto, e mentre la Polizia con l’aiuto dei pompieri si davano un gran da fare per toglierla, qualcuno dietro le finestre socchiuse fischiettava “Bandiera Rossa”. Le persone che assistettero all’insolito spettacolo, spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera oppure scoprire i fringuelli che cantavano dietro le finestre, correndo qua e la andò nel pallone […] E di questi episodi la storia di Livorno ne è piena…

Una terza versione è quella raccontata da Luigi De Santi, classe 1919, dirigente della Società di Cremazione, intervistato da Catia Sonetti nel 2001. Per evidenti motivi anagrafici, neppure De Santi poteva essere stato testimone dei fatti. Per questo, non indica alcuna data, descrive una bandiera “anacronistica” e nell’indicare Danilo Bugliesi come il principale autore dell’azione, lo ritiene imparentato con una famiglia benestante e lui stesso commerciante in preziosi.

A Livorno c’era quella bandiera di quello, che poi nella vita privata era un diverso. Però […] era un atleta e mise un cavo tra la Fortezza e l’ultima casa del Pontino, una bandiera di metallo, che poi fu la bandiera che fu il primo simbolo del Partito comunista dopo la liberazione. Una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore […] Lui era un compagno omosessuale e a quel tempo c’era la mentalità che un omosessuale era un uomo di terza qualità. Invece era un uomo intelligente, commerciava in oro, brillanti, apparteneva alla famiglia Galli-Marchini, i padroni della zona Pontino che aveva magazzini nella zona degli stracci. Si chiamava Danilo Bugliesi e l’hanno picchiato tante volte povero figlio, e perché era omosessuale e comunista, per tutte e due. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase lì dei giorni, e quando poi i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra sui cimeli della rivoluzione.

Per la cronaca, esiste pure una quarta versione, la più fantasiosa, quella di Umberto Vivaldi, portuale comunista classe 1940, riportata nel libro Livornesi! Storie popolari, pubblicato nel 1998, in cui il fatto del 1921 è diventato un episodio della Resistenza, tra folklore e maldestra rimasticatura delle precedenti narrazioni:

Bugliesi e Galli del rione San Marco Pontino, fecero cucire dalle loro donne, scampoli di stoffa rossa, così che divenne fuori una gigantesca bandiera. La notte del primo maggio, sugli scali delle Cantine, la legarono con una corda sul cavo d’acciaio che dalla Fortezza Nuova attraversa il fosso fino ai caseggiati. Quel mattino, molte persone radunate lungo le spallette dei fossi, gioivano per l’accaduto. Mentre la polizia con l’aiuto dei pompieri si dava da fare per toglierla, alcuni antifascisti da dietro le finestre socchiuse fischiavano Bella Ciao. Le persone che assistevano all’insolito spettacolo spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista, non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera, oppure scoprire i fringuelli che fischiavano Bella Ciao, correndo qua e là andò nel pallone.

Se questa è la leggenda, quel Danilo Bugliesi, generalmente indicato come il principale artefice dell’azione dimostrativa, è stata una persona reale: nato a Livorno il 30 settembre 1903 e deceduto il 19 settembre 1955; figlio di Agostino e Annita Crovatti, nonché appartenente – seconda una nota di Questura del 1933, ad una «famiglia di pregiudicati e sovversivi».
Infatti, il padre Agostino, classe 1864, facchino, risultava schedato nel Casellario politico centrale come anarchico sin dal 1903, mentre il fratello minore Primo (classe 1906) nel 1930 avrebbe subito una condanna per tentato espatrio clandestino e nel 1933 una diffida in quanto «professa idee comuniste» e «per l’opera sovversiva spiegata nel passato».
Anche Danilo era stato “attenzionato” dalla polizia, come si evince da una confusa nota della Questura di Livorno, datata 9 ottobre 1927, che oltre a farci sapere il mestiere (facchino e, successivamente, lavapiatti a Roma) lo indicava in questi termini: «di cattiva condotta morale politica. Egli sebbene non abbia precedenti politici in questa città, prese parte nel passato a manifestazioni simpatizzando coi comunisti […] pure nell’epoca dei moti rivoluzionari rossi, partecipò a tutte e azioni del genere e per molto tempo conservò idee comuniste, e simpatizzante del partito anarchico di cui fa parte il di lui padre».
In aggiunta, per avvalorare lo stigma morale, veniva riferito che «durante il servizio militare, mentre si trovava circa 2 anni orsono in licenza, fu tratto in arresto perché sospetto reato di pederastia passiva poi prosciolto dal reato addebitato».
Riguardo il suo diretto coinvolgimento nella collocazione della bandiera non abbiamo riscontri, ma la residenza di Danilo Bugliesi appare indicativa e avvalora la fondatezza dei “si dice”. Infatti, egli abitava sugli Scali del Pontino n. 3, piano primo, in un edificio demolito nel 1948, oggi corrispondente al caseggiato dove si trova la Farmacia S. Marco. Quindi, corrisponderebbe proprio a «l’ultima casa del Pontino» indicata dal De Santi. Inoltre, non è certo difficile supporre che Danilo potesse contare sulla complicità familiare – piuttosto che su quella di qualche struttura politica – visto che, oltre sul padre e sul fratello, poteva contare sullo zio paterno, Pietro Bugliesi (1862 – 1928), abitante a due passi, ossia sugli Scali delle Cantine al n. 9 (l’attuale civico 78). Anche lui, facchino, era schedato come anarchico nel Casellario politico centrale sin dal 1902 e nel febbraio 1922, sarebbe stato arrestato, a seguito di perquisizione domiciliare, per detenzione di una rivoltella non denunciata («Gazzetta livornese», 16 e 17 febbraio 1922).
Frammenti di un sovversivismo evocato a posteriori a simbolo di un’opposizione collettiva od organica al partito, ma sovente espressione della rivolta informale di sodalizi familiari e individualità per troppo tempo dimenticate.

Fonti archivistiche

Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Agostino;
Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Pietro Paolo Garibaldo Dionisio;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A8, Busta 1384, Fasc. 19, Bugliesi Primo;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A1, Busta 45, 1927, Fasc.128, Bugliesi Danilo.




Bandiere sovietiche, ritratti di Lenin e altri cimeli

Nell’ottobre 2023 si è avviato alla sua conclusione il progetto di ricerca promosso dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia “L’identità comunista: il PCI in Toscana e il mito dell’URSS”. Il progetto, realizzato grazie al contributo della “Presidenza del Consiglio dei Ministri. Struttura di Missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni”, ha inteso analizzare e documentare il radicamento del mito sovietico entro il Partito Comunista Italiano in Toscana, dalla data della sua fondazione fino al suo scioglimento. Il libro fotografico Il mito sovietico nel PCI in Toscana, edito
da ISRPT Editore, è il frutto tangibile del suddetto lavoro di ricerca: a cura di Andrea Borelli, il volume riunisce documenti, articoli e foto che richiamano, per l’appunto, quel mito sovietico di cui il PCI e i suoi militanti toscani erano imbevuti, a testimonianza della loro forte connessione politico-sentimentale con l’URSS.
Avendo avuto il piacere di collaborare a quest’opera, in questa sede andrò ad approfondire il “pezzo” di ricerca da me curato, ovvero la raccolta delle fonti iconografiche: fonti che, nel volume, sono confluite in maniera particolare nella sezione Cimeli e souvenir, in quanto il mio obiettivo è stato quello di “catturare”, fotograficamente parlando, oggettistica a tema sovietico dei generi più disparati. Ho quindi deciso di indagare, in primis, sulla presenza di eventuali cimeli sovietici nelle Case del popolo e nei Circoli Arci della Provincia di Pistoia, limitatamente alla zona della piana. Case del popolo e Circoli, spesso, hanno infatti ospitato le sezioni e le cellule del PCI: quali luoghi migliori, dunque, per andare a caccia di memorabilia che richiamassero il collegamento fra PCI e URSS? E, in effetti, nonostante siano ormai passati più di tre decenni dalla Bolognina, posso anticipare che qualche traccia di questo legame è rimasta proprio in quelle costruzioni che dell’attività politica del PCI frequentemente furono teatro.
La mia esplorazione è dunque iniziata coinvolgendo, in totale, una quarantina di Case del popolo e Circoli: c’è purtroppo da dire che, nella grande maggioranza dei casi, i cimeli “del tempo che fu” sono andati perduti nel corso degli anni (vuoi per traslochi, vuoi per rimaneggiamenti dei locali, vuoi per la delusione portata, fra gli attivisti, dalla fine del PCI dopo la cesura della Bolognina). Ho infatti rinvenuto oggetti a tema con la mia ricerca solo in sette Case del popolo e Circoli Arci. Si tratta delle Case del popolo di Tobbiana e Fognano (Comune di Montale), del Circolo Rinascita di Agliana, della Casa del popolo di Bottegone, del Circolo Garibaldi, del Circolo Niccolò Puccini di Capostrada e del Circolo di Iano (tutti siti nel Comune di Pistoia). Purtroppo, per motivi di spazio, non tutti questi Circoli e Case del popolo hanno trovato spazio tra le pagine de Il mito sovietico nel PCI in Toscana; ma, nonostante ciò, tutta l’oggettistica a tema sovietico da essi posseduta è stata fotografata e poi catalogata nel fondo archivistico appositamente creato dall’ISRPT in occasione di questo progetto di ricerca.
È dunque iniziata una sorta di “caccia al tesoro”, al termine della quale sono stati riportati alla luce oggetti di vario tipo a tema URSS: gagliardetti, bandiere, libri, busti, quadri, cartoline e manifesti; l’elemento iconografico ivi raffigurato più di frequente è l’immagine di Lenin, assurto a una sorta di icona pop del comunismo (di profilo, di fronte, realistico, stilizzato e così via). Nella maggior parte dei casi, questi “antichi tesori” sono stati conservati nelle stanze delle Case del popolo e dei Circoli pur essendosi perso, nel tempo, il ricordo della loro provenienza, andata dispersa nel lungo periodo trascorso dal secondo dopoguerra a oggi. Ciò che è sicuro è che ho riscontrato ovunque, di fronte alla mia richiesta di “riesumare le vestigia del passato”, una grande voglia di partecipazione e una certa gioia nell’avere l’occasione di ridonare valore a un patrimonio, ormai storicizzato, testimoniante la passione politica e il legame dei comunisti toscani nei confronti dell’Unione Sovietica. Le bandiere, i quadri, i gagliardetti e tutti gli altri oggetti a tema sovietico non sono infatti solamente delle “cose”, ma sono invece vere e proprie rappresentazioni simboliche di un omaggio a un Paese – l’Unione Sovietica – che, per molti militanti del PCI, rappresentava niente di meno che la concreta realizzazione dell’utopia social-comunista. Spero dunque che questo progetto possa fungere da apripista per un ulteriore lavoro di ricerca sul tema che riesca a coprire l’intera Provincia di Pistoia, in quanto sono pronta a scommettere che altre “reliquie sovietiche” siano in attesa di essere scoperte, proprio nelle tante Case del popolo e nei Circoli Arci disseminati nel nostro territorio. Un patrimonio disperso che, senza dubbio, andrebbe valorizzato come merita, in quanto testimonianza tangibile di quel filo rosso che, per lungo tempo, ha legato la nostra Regione con il Paese dove si pensava – col senno di poi, forse ingenuamente –che la “futura umanità” si fosse incarnata, faro di civiltà a cui tendere e ambire, per un domani e un avvenire migliore.

Daniela Faralli collabora con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, di cui è membro del consiglio direttivo. Fa parte del comitato redazionale della rivista “Farestoria” ed ha lavorato nell’ambito del progetto di ricerca “Il Mito sovietico dell’URSS in Toscana”, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. 




Il nuovo inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea

Nelle prossime settimane sarà presentato al pubblico il nuovo Inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea – ISREC (consultabile qui), realizzato con il patrocinio del Ministero della Cultura, e già disponibile e scaricabile in formato PDF dal sito istituzionale, nella sezione ‘Archivio e Biblioteca’. Questo testo nasce dall’esigenza di aggiornare e dare una nuova forma a quello che era stato redatto al momento della catalogazione curata da Antonietta Cutillo e Cecilia Rosa nel 1999. Da allora l’Archivio dell’ISRSEC ha acquisito nuova documentazione e preso in deposito diversi fondi archivistici di persona, donati dai diretti interessati o da eredi, e catalogati via via da Aldo Di Piazza e da altri collaboratori dell’Istituto, in singoli file di lavoro, disponibili presso la Sala studio dell’Ente. Il progetto iniziato tra la fine del 2022 ed il 2023, si è prefisso lo scopo di compiere una revisione di tutti questi cataloghi, frutto del lavoro di mani diverse, ed elaborati in tempi diversi, al fine uniformare il testo e di ottenere uno strumento di ricerca completo ed esaustivo, ma di facile lettura per l’utente che fosse interessato a compiere ricerche all’interno del vasto materiale che compone l’Archivio storico dell’Istituto.

Il risultato è un inventario che si compone della descrizione dei documenti raccolti dall’ISREC nel corso della sua attività, prevalentemente materiali, in originale ed in copia, relativi agli eventi che hanno interessato Siena durante il Governa fascista, la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di Resistenza partigiana; la serie che risulta senz’altro essere quella più consistente, è quella che raggruppa la documentazione prodotta dalle Brigate partigiane e dei Gruppi di combattimento, in particolare quella relativa all’attività della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, operante con i suoi distaccamenti in buona parte della provincia senese. Il catalogo passa poi a descrivere gli archivi aggregati, come ad esempio quelli che raccolgono i documenti relativi all’attività dell’ANPI, a partire dal 1945, e dell’ANPIA, ma soprattutto archivi di persona. Questa sezione è ampia e composita: alcuni fondi raccolgono poche carte specificatamente legate alla Resistenza e all’attività politica – come quelli di Giorgio Salvi e di Giovanni Guastalli –, altri molto consistenti raccontano anche la vita privata e lavorativa dei loro produttori. Così incontriamo, uno dopo l’altro, gli archivi personali del libraio ed editore senese Nello Ticci, di Vittorio Meoni – unico sopravvissuto all’eccidio del Montemaggio, ma anche presidente per molti anni dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’ANPI provinciale di Siena –, di Sergio Vieri – partigiano e in seguito esponente del Partito Comunista Italiano e dirigente della CGIL –, di Martino Bardotti – Deputato della Repubblica sotto le fila della Democrazia Cristiana –, e di Fortunato Avanzati – partigiano, presidente dell’ANPI provinciale di Siena, assessore al Comune di Siena e membro della Segreteria della Federazione senese del PCI. I documenti raccolti in questa serie di archivi aggregati sono variegati e ricchi di contenuti; lo studio e l’approfondimento di questi materiali possono fornire allo studioso della storia contemporanea del territorio senese – e non solo- ampi spunti di indagine.

Questo nuovo strumento di ricerca, al momento consultabile unicamente in formato digitale, ha lo scopo di guidare il ricercatore a comprendere la quantità di tematiche diverse, che è possibile approfondire con lo studio attento di questi documenti, e di dare conto della consistenza e di una sintetica descrizione dei contenuti, per un primo approccio dell’utente all’Archivio. Una guida insomma, che non ha l’intento di descrivere analiticamente, carta per carta, tutto quello che si conserva presso l’Istituto storico della Resistenza senese, ma di invogliare gli studenti delle scuole, gli universitari, gli studiosi che si occupano della storia recente di questo territorio, a visitare questo archivio così ricco di informazioni, che raccontano episodi, più o meno noti, del nostro recente passato.




Gli internati militari follonichesi: nodi storiografici e metodologia di una ricerca

Gli internati militari rappresentano il più consistente gruppo di italiani trattenuti con la forza in Germania durante la guerra: oltre 600.000 furono infatti coloro che opposero un netto rifiuto, determinati a continuare volontariamente la propria reclusione pur di non aderire ancora al progetto nazifascista. Di loro, oltre 40.000 morirono prima di poter riabbracciare le proprie famiglie per le dure condizioni di prigionia a cui furono sottoposti. Dai sondaggi avviati negli archivi di alcuni Comuni della provincia di Grosseto, si intuisce che anche da questo territorio il numero di IMI deportati fu probabilmente abbastanza alto rispetto alle conoscenze acquisite dalla storiografia: il riordino in corso a cura dell’Isgrec dell’Archivio postunitario del Comune di Roccastrada, ad esempio, restituisce un prospetto riassuntivo con una quarantina di nominativi di deportati militari in Germania rientrati nell’ottobre del 1945, mentre una segnalazione del suddetto Comune al Comitato provinciale Reduci dalla prigionia fa presente che “i reduci da rientrare ammontano a circa un centinaio” (Archivio Comunale di Roccastrada, in stato di riordino).

L’internato militare follonichese Lisio Nunzi nel campo di prigionia

Una ricerca condotta dall’Isgrec sul contesto di Cinigiano nel 2015, invece, ha permesso di  avviare un’operazione di recupero della memoria della deportazione che esitò in quel caso in un documentario (Fu la loro scelta. Racconti di Resistenze, prodotto dall’ISGREC e finanziato dal Comune di Cinigiano, che ruota attorno alle interviste rilasciate da testimoni, reduci e internati militari della Seconda guerra mondiale): consentì di mettere in luce tramite le residue memorie orali del territorio la drammaticità dell’esperienza vissuta da tre deportati, cosiddetti “schiavi di Hitler”, privati dei loro diritti, umiliati e sfruttati nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma che non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. La metodologia applicata in questo progetto dimostra come la ricostruzione evenemenziale dei percorsi umani sia la base da cui partire per una riflessione di taglio storico anche sul tema della deportazione; una metodologia che permette da un lato di dettagliare e accrescere i profili biografici di partenza, dall’altra mirante all’individuazione del numero più veritiero possibile di deportati.

Opera dell’artista Evrio Cicalini, internato militare

Quella degli IMI fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie su cui una recente iniziativa del Comune di Follonica ha portato i ricercatori delll’ISGREC nuovamente ad indagare, allargando il quadro conoscitivo a un altro Comune della provincia. Infatti, dalla volontà espressa con una mozione dal Consiglio comunale di Follonica di realizzare una ricerca storica che permettesse “di individuare con esattezza i nomi dei follonichesi deportati nei lager nazisti”, è stata affidato all’Isgrec un incarico per il recupero della storia e della memoria degli internati militari di Follonica, portato avanti grazie alla sinergia fondamentale con la sezione Anpi “Virio Ranieri” di Follonica.

Obiettivo della ricerca era quello di procedere a livello locale, tenendo fermo come criterio quello della provenienza generica dal territorio follonichese, per rintracciare i nati o vissuti a Follonica deportati come internati militari dopo l’8 settembre. Questo a partire dai pochi nominativi inizialmente reperiti nel volume del 1996 “Il mi’ paese è libero: fra testimonianze orali e carteggi. Follonica dal 1940 al 1945” e in parte forniti dal Comune, prevedendo sondaggi sulle Banche dati online e tramite il contatto con associazioni dei reduci (in primis l’Associazione nazionale reduci della prigionia – ANRP – e l’Associazione nazionale ex Internati) per la verifica dei nominativi ed eventualmente l’incrocio dei dati.

Targhetta identificativa di Lisio Nunzi, internato nello Stalag V-B di Villingen, nella regione tedesca del Baden-Württemberg

Proprio le competenze maturate dall’Isgrec durante la pluriennale attività di indagine a livello locale sul tema della deportazione razziale (si vedano gli studi condotti da Luciana Rocchi), sulla deportazione politica (con la posa delle pietre di inciampo dedicate ad Albo Bellucci, Giuseppe Scopetani e Italo Ragni davanti al Comune di Grosseto e di quella dedicata a Tullio Mazzoncini a Campo Spillo) e sulla memoria degli IMI, cui già si è accennato, hanno suggerito di procedere a livello locale, tenendo fermo come criterio quello della provenienza dal Comune di Follonica. Una tipologia di lavoro storico che permette di mettere in luce non soltanto alcune figure importanti della storia del territorio, ma anche di evidenziare questioni rilevanti per l’interpretazione del quadro nazionale, che potrebbero tornare utili nel momento in cui verranno realizzate altre ricerche a livello provinciale ma anche regionale.

Targa apposta nella Giornata della Memoria 2023 a Follonica in ricordo degli IMI

Scopo del lavoro, inoltre, è stato anche quello di riportare queste vicende all’interesse collettivo, restituendo a Follonica la memoria storica dei suoi internati militari, ormai quasi dispersa. Proprio per questo motivo, alla ricerca storica vera e propria, che confluirà prossimamente in un volume, si è scelto di affiancare iniziative di public history dedicate alla comunità follonichese, come l’apposizione, a gennaio 2023, di una targa in memoria presso lo spazio antistante il palazzo comunale, con la partecipazione delle autorità cittadine, dell’Anpi e dei ricercatori dell’ISGREC e con il coinvolgimento delle famiglie degli IMI, della cittadinanza e delle scuole. L’iniziativa pubblica ha restituito quindi i risultati della ricerca portando con forza all’attenzione della collettività il tema in maniera simbolica, nella giornata dedicata dalle leggi dello Stato italiano a tenere insieme la memoria della Shoah, cioè lo sterminio e la persecuzione del popolo ebraico, con quella dell’internamento militare e della deportazione politica. La visibilità data dall’evento alla ricerca, ha permesso di raggiungere ulteriori famiglie che conservavano una memoria familiare privata di internamento militare, anche tramite una mail dedicata presso il Comune di Follonica finalizzata alla raccolta di segnalazioni. Ne sono emersi, allo stato attuale, ben 23 nominativi, 23 storie, che rappresentano rispetto al numero iniziale, un notevole allargamento delle conoscenze storiche che riguardano il territorio.

L’invito del Comune di Follonica a rintracciare gli Imi che nella città sono nati o che l’hanno resa la sede della loro crescita personale e professionale, è uno dei gesti istituzionali che contribuisce nel modo più sensibile e concreto, a distanza di ormai ottanta anni, a restituire la riconoscenza mancata verso persone che dedicarono tutti i loro sacrifici per l’Italia. Molto profondo anche il senso di comunità espresso alle origini stesse della ricerca. Non si è infatti trattato di analizzare i follonichesi nati o residenti nella città, per quanto le loro storie siano state ripercorse anche attraverso la ricerca negli archivi dell’anagrafe. Ma si è voluto comprendere tutti coloro che hanno vissuto una parte importante della loro vita a Follonica, contribuendo allo sviluppo della città, o anche alla sua ricostruzione nel dopoguerra. In qualche modo, cioè, parti integranti di una comunità, intesa come insieme di persone e di valori che hanno fatto dell’antifascismo (nel dopoguerra) e del senso civico della memoria (ai nostri giorni) le colonne portanti della propria identità. Quanto voluto da una istituzione cittadina come quella di Follonica è certamente un gesto di grande valore e di importanza storica, sebbene condotta su un numero estremamente ristretto di militari in confronto agli oltre 600mila che vissero la loro stessa esperienza. Ma è fondamentale anzitutto perché restituisce valore al sacrificio fatto dai prigionieri nei campi tedeschi, che dopo lunghi mesi di sofferenze e lavoro forzato tornarono in una patria poco pronta ad accoglierli e a capirli. Si tratta poi di un tassello di un mosaico molto grande che, per quanto necessiti di altri studi locali per andare a completare il panorama complessivo, è pur sempre un esempio ed un punto di partenza importante.

Ruolo matricolare di Rino Burgassi, Archivio di Stato di Grosseto

Lo studio condotto si è avvalso di più fonti. Le testimonianze raccolte hanno rappresentato soltanto la seconda fase di una ricostruzione che, come di dovere, è partita dagli archivi e ha cercato conferme e integrazioni nell’incrocio dei dati e delle informazioni. Gli elenchi di nominativi conosciuti a livello locale (grazie al contributo dell’Associazione Il Golfo) o apparsi su alcune pubblicazioni di vecchia data sono stati analizzati e verificati presso molteplici diversi fondi. Questo ha permesso anzitutto di scartare alcuni militari che, anch’essi prigionieri, non vissero la vicenda dell’internamento in Germania. La ricostruzione degli arruolamenti e della dislocazione dei militari all’8 settembre 1943 si è ricostruita principalmente attraverso i ruoli matricolari custoditi presso l’Archivio di Stato di Grosseto e di alcune altre provincie dove gli internati erano residenti al momento della leva. Le nuove fonti online messe a disposizione da Arolsen e altre iniziative sorte recentemente per valorizzare il sacrificio degli Imi sono parimenti state consultate per ottenere conferme o smentite. Gli archivi di Onorcaduti rappresentano poi la fonte principale per verificare gli eventuali caduti. Una ricerca a livello locale, infine, non poteva prescindere da un approfondito lavoro presso gli uffici dell’anagrafe comunale. L’aver incluso nell’analisi cittadini di Follonica nel senso più ampio, ha infatti implicato che si verificassero gli spostamenti di residenza, per comprendere quando e perché gli internati raggiunsero Follonica, o se ne allontanarono nel corso del dopoguerra. Se tutto questo ha preparato il terreno per la consultazione dei parenti dei militari, è stata fondamentale anche un’intensa opera di ricerca per passaparola al fine di rintracciare i figli, i nipoti e gli altri parenti dei protagonisti di quelle ormai lontane vicende. Da Follonica ci siamo quindi spostati anche in altre città italiane, dove nel tempo le famiglie si sono trasferite. Un percorso di ricerca dunque non facile ma che ha messo in rilievo la partecipazione e la vicinanza di questi nuclei familiari ormai stabilitisi altrove con le origini follonichesi dei genitori.

I familiari di alcuni IMI di Follonica davanti alla targa che ne ricorda la tragica vicenda

Se l’analizzare l’esperienza degli Imi a livello locale presenta alcuni precedenti, alcuni dei quali condotti con studi ben più ampi e completi, quanto svolto a Follonica rappresenta tuttavia una novità non trascurabile. Non sono state ricostruite le storie degli Imi soltanto attraverso le carte d’archivio né con le testimonianze dirette dei reduci, come in gran parte degli studi condotti sino ad ora. Il lavoro si è intenzionalmente allargato allo studio delle conseguenze dell’internamento sulla personalità dei militari dopo il loro rientro in patria e delle reazioni dei familiari e della comunità al ritorno dei prigionieri. Cosa ha lasciato in ognuno di loro la dura esperienza vissuta? Ha influito, e in che misura, nel loro costruirsi una famiglia, trovare lavoro, trascorrere il proprio tempo libero? E ancora: cosa hanno raccontato alle proprie famiglie, e in che modo lo hanno raccontato? Ciò che non hanno voluto dire e spiegare, a cosa fu dovuto? Per rispondere a queste domande la fonte più efficace sono state le testimonianze dei familiari, coloro cioè che in prima persona accolsero o conobbero gli Imi dopo che riuscirono a rientrare in patria. Ascoltando le loro voci si è potuta ricostruire non soltanto la storia della loro vita, ma anche il loro stesso atteggiamento verso l’esperienza subita, ed il loro approccio con i figli e con la comunità locale. Da tante storie diverse e comportamenti diversi si può tuttavia ricostruire un’unica storia: quella della difficoltà per gli internati militari di ricongiungersi con la nuova Italia che trovarono al rientro dalla Germania. Un’Italia che aveva mostrato i suoi nuovi tratti anche a Follonica, impegnata nella ricostruzione e amministrata da nuovi partiti politici e nuove figure istituzionali.

Storiograficamente, infine, lo studio si apre ad un’altra novità: l’utilizzo di testimonianze di seconda generazione. In un panorama in cui molte pubblicazioni, anche di grande valore scientifico, hanno utilizzato le testimonianze dirette degli Imi per ricostruire le vicende della prigionia e del loro ritorno in patria, l’utilizzo di racconti secondari non è ancora sviluppato. Da una parte sembra naturale aver voluto interpellare i testimoni diretti di quelle tragiche esperienze fino a che è stato possibile. Ma ascoltando i parenti degli Imi follonichesi ci è sembrato che le loro testimonianze non fossero un ripiego, una fonte di rimpiazzo. Abbiamo riscoperto piuttosto il loro grande valore per analizzare l’impatto della prigionia sui familiari degli internati e come quei duri mesi in Germania segnarono per sempre le loro vite, lasciando ferite indelebili e sofferenze prolungate. Ma anche qualche insegnamento, sapientemente tramandato ai figli e ai nipoti. Certo, i dettagli della detenzione, del lavoro nei campi, della vita nelle baracche possono subire alcune sfumature passando di generazione in generazione, molti aneddoti possono andare perduti. Le voci dei parenti ci aprono molti altri ambiti di riflessione, sia sulla metabolizzazione del ricordo che sulla sua funzione ed influenza sulla memoria della comunità.

Dino Ferri, libretto del campo di lavoro e prigionia

Le storie emerse sono tutte diverse l’una dall’altra. Hanno in comune alcuni punti cruciali della vicenda degli Imi, come la cattura, il viaggio in Germania, gli aspetti della prigionia. Ma hanno anche tante sfaccettature diverse. Il panorama degli internati follonichesi spazia fra momenti diversi nei quali vennero catturati, e soprattutto in luoghi diversi dello scacchiere di guerra del settembre 1943. Provenivano da famiglie di estrazione sociale, politica ed economica diversa, e questo contribuì a modellare l’impatto con la prigionia e, soprattutto, il loro reinserimento nella società locale del dopoguerra. Appartenevano ad armi e reparti differenti, sebbene nessuno di loro appartenesse al ruolo degli ufficiali. Quello che avevano lasciato a Follonica, o nei loro luoghi di origine, era un contesto altrettanto diversificato. Qualcuno aveva un’attività lavorativa bene avviata, altri erano dei ragazzi che si avvicinavano proprio in quel momento al mondo del lavoro, magari aiutando i genitori o facendo apprendistato in qualche azienda locale. Vi erano padri di famiglia, sposati e con figli, mentre altri erano i figli giovani di famiglie che avrebbero avuto necessità del loro supporto. Conseguenza inevitabile dei reclutamenti fascisti, che univano i richiamati alla leva in un susseguirsi sempre più affannato di nuovi uomini al fronte.

Molto interessanti sono poi le storie delle nuove vite. Se qualcuno tornò, pur con i suoi traumi interiori, alla vita precedente, molti altri iniziarono proprio al loro rientro a Follonica una nuova esistenza. Si sposarono, trovarono un impiego, nel difficile contesto economico dell’immediato dopoguerra, e si reinserirono in modo non sempre semplice nella comunità locale. Un approccio spesso difficile per la scarsa propensione della società di quei mesi ad accogliere e ad ascoltare chi, suo malgrado, ricordava la guerra e la disperazione. Eppure tutti loro avviarono attività a Follonica, collaborarono alla ricostruzione della città, parteciparono attivamente ad iniziative sportive, culturali, ricreative.

Lo studio dell’impatto della prigionia degli internati militari sulle famiglie e sulle comunità in cui vissero dopo il rientro in patria è in gran parte da scrivere. L’interesse mostrato a Follonica dai figli e dai parenti degli Imi ha dimostrato come essi stessero ancora aspettando un riconoscimento del sacrificio dei loro padri. L’adesione al progetto, l’impegno dimostrato nel rendersi disponibili, la loro voglia di raccogliere i documenti che conservano gelosamente e di offrirli alle nostre letture sono tutti segnali di apprezzamento per l’iniziativa di valorizzazione e di memoria che si è voluta realizzare. L’interesse dimostrato anche da persone più giovani, come i nipoti, ci suggerisce anzi che siamo forse in ritardo nell’ascoltare i loro padri. Una terza generazione sembra già a disposizione, almeno a Follonica, per raccontare quanto i loro padri raccontano dei loro padri.




Combattenti aretini senz’armi…

Francesco Venuti, autore delle Memorie di guerra e di prigionia, edito dal Consiglio Regionale della Toscana nel 2018, ha inteso contribuire con questa ricerca all’impegno dispiegato nel corso del tempo dai molti storici che hanno studiato il dramma dell’8 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani del 1943, mediante il paziente recupero di testimonianze scritte dagli stessi deportati in forma di diario o di ricordo, oltre al paziente lavoro di archivio compiuto sia in Italia che in Germania, soprattutto a partire dal Convegno di Firenze del 1985.
Si è trattato non solo del tentativo di colmare un “vuoto di memoria” causato dal silenzio che per decenni aveva accompagnato la vicenda degli I.M.I. ma anche di compiere un sia pur tardivo atto di giustizia nei confronti di tutti quegli italiani in uniforme che per decenni erano stati dimenticati dalle istituzioni repubblicane, dalla società nazionale impegnata nella faticosa ricostruzione postbellica, da un’opinione pubblica tesa a cancellare gli orrori della guerra insieme alle sue vittime: perfino le stesse autorità militari sembrava avessero steso un velo su quanto era accaduto ad una massa sterminata di soldati ingannati dai nazifascisti.
L’oblio e la rimozione colpirono i sopravvissuti sin dal momento della liberazione e del rimpatrio, spesso vissuti dagli ex internati come fonte di sofferenze, rabbie, umiliazioni, provati quando si resero conto che presso le autorità italiane mancava la necessaria volontà e spesso la stessa capacità di comprendere non solo la portata del loro vissuto, ma più banalmente gli stessi problemi legati al rimpatrio: i governi formatisi in seguito alla liberazione nazionale non mostrarono alcun interesse ad attrezzarsi adeguatamente per accogliere i sopravvissuti. L’opinione pubblica, alimentata in parte da una propaganda ancora di stampo fascista, tendenzialmente considerò gli internati come l’immagine perturbante non solo della sconfitta, ma anche quella dell’imboscamento e della fuga dalle responsabilità. Spesso lo stesso rientro in famiglia, oggetto di idealizzazione durante la prigionia, soffocava ogni tentativo del reduce di narrare le proprie sofferenze di fronte all’indifferenza di chi aveva a sua volta subito le sofferenze del passaggio del fronte, le prepotenze degli invasori e le violenze fasciste.
In conclusione, quella che nella esperienza comune poteva costituire un passaggio dalla prigionia alla libertà, divenne per la maggior parte dei reduci un crollo delle illusioni, la chiusura nello sconforto che spiega come ad una narrazione priva di ascolto fu scelto il silenzio.

Nell’archivio dell’Associazione Combattenti e Reduci della Federazione pratese l’autore dello studio citato in apertura si è imbattuto in nove testimonianze relative ad I.M.I. sopravvissuti della provincia di Arezzo. Si tratta di DINO BELARDI, AGOSTINO BROCCHI, GIUSEPPE CANNONI, ARMANDO LAPI, ORLANDO LIPPI, ALESSANDRO MARTINI, DINO MASETTI, MINO MENCATTINI, OSVALDO VISI.

Dino Belardi nasce a Camucia (Cortona) il 20 agosto 1912. Si sposa con Elena Salvadori. Dal 28 ottobre partecipa alle operazioni svoltesi sul fronte greco-albanese 1940 nel diciannovesimo Reggimento di artiglieria “Gavinana” ed è catturato in Albania il 14 settembre 1943. È internato nello M. Stammlager V G, presso Bonn col numero di matricola 89918 e inviato al lavoro coatto presso una fattoria. Liberato nel 1945, rimpatria il 13 settembre dello stesso anno presentandosi al Centro Alloggio di Bolzano. Il suo foglio matricolare così recita: «Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze della cattura e al comportamento tenuto durante la prigionia di guerra». Muore a Montemurlo di Prato, dove si era trasferito con la famiglia, l’8 agosto del 1997.

Agostino Brocchi nasce a Cortona il 23 marzo 1924, è chiamato alle armi l’11 maggio 1943 e arruolato nel sesto Reggimento Genio. Catturato a Bologna e deportato a Dortmund dal settembre 1943 ad aprile 1945, col numero di matricola 19798 è inviato al lavoro coatto in una fabbrica di armi dove riceve persistenti danni alla salute connessi al lavoro, come varici interne degli arti inferiori di notevole entità con esito a destra di ulcera varicosa. Al momento del rimpatrio, l’11 settembre 1945, si presenta al Centro Alloggio di Como.

Giuseppe Cannoni nasce a Castelfranco Piandiscò (Arezzo) considerato uno dei borghi più belli d’Italia il 24 agosto 1916. Arruolato di leva il 10 giugno 1936 e chiamato alle armi il 15 maggio 1937, milita nel 40° Reggimento di fanteria, Divisione “Modena” come soldato semplice fino al 27 agosto 1938. Richiamato alle armi il 2 maggio 1940 col grado di caporalmaggiore, il 12 ottobre 1943 è catturato a Prevesa (Epiro), che dal luglio del 1942 era sede della 139ª Squadriglia della Regia aeronautica italiana, internato presso Linz (Vienna) col numero di matricola 30311 e condannato al lavoro coatto di riparatore nelle ferrovie in qualità di tornitore. Rimpatria il 25 giugno 1946, e si ricongiunge alla famiglia abitante nella frazione di Certignano. Il 5 settembre è costretto ad operarsi di ernia epigastrica contratta durante la prigionia. Si ignora la data di morte.

Armando Lapi nasce l’8 maggio 1910 a Cetica, nel comune di Castel San Niccolò (Arezzo). Arruolato nell’Arma dei carabinieri il 2 luglio 1929, dapprima è assegnato alla Legione Allievi di Roma e poi, a partire dal 7 novembre 1939, risulta in servizio nella Legione di Firenze, dopo che il 28 ottobre 1939 si era sposato nella chiesa di Torre, frazione anch’essa di Castel San Niccolò, con Emilia Durazzi ed era andato ad abitare a Strada, capoluogo del comune. Il 19 luglio 1941 parte per il fronte dei Balcani in servizio presso la 65ª sezione dei carabinieri della Divisione di fanteria “Cacciatori delle Alpi”. Dopo l’8 settembre 1943 riesce a rimpatriare con mezzi di fortuna e raggiungere la famiglia il 18 ottobre dello stesso anno. Subito dopo si presenta al Comando della Legione di Firenze; ma poiché non intende aderire alla R.S.I. si dà alla macchia, rientrando di nascosto nella casa paterna di Campareccia, dove lo raggiungono la moglie e il figlio di due anni. Dopo il fortuito incontro con un maresciallo, suo vecchio amico, militante nella formazione “Lanciotto Ballerini”, operativa sul Pratomagno al comando di Aligi Barducci (“Potente”) lo segue nella cosiddetta “Repubblica partigiana del Pratomagno” e combatte col nome di battaglia di “Quaranta”. Partecipa alla vittoriosa battaglia di Cetica il 29 giugno 1944, giorno nel quale i nazifascisti avevano attuato le stragi di Civitella della Chiana, Cornia e San Pancrazio di Bucine. Catturato dal nemico il 4 agosto successivo, durante un rastrellamento, insieme al fratello Artemio è deportato in Germania nella regione della Saar, dove svolge lavoro agricolo coatto nelle fattorie oppure di addetto alla rimozione delle macerie procurate dai bombardamenti a Wiesbaden e a Francoforte sul Meno. I due fratelli sono liberati nell’agosto 1945 e nello stesso mese rimpatriano: Armando presterà servizio presso la Compagnia dei carabinieri di Prato, dove sono nati altri due figli, Lorenzo e Liliana, fino al pensionamento, il 1° novembre 1956 e dove si è spento il 20 dicembre 2006.

Orlando Lippi nasce a Poppi (Arezzo) il 15 maggio 1920, dove il 15 giugno 1944 è catturato come civile, essendo un contadino, internato a Sondershausen, in Turingia col numero di matricola 42076 e obbligato al lavoro in una officina di produzione di armi nel reparto di pezzi da mitragliatrici come tornitore. È liberato dalle truppe americane nel maggio 1945.

Alessandro Martini di Cortona nasce il 21 settembre 1915. In servizio militare a Corfù, non si conosce in quale arma, è catturato nel settembre 1943 e internato a Fulda, nell’Assia, nello Stammlager IX A col numero di matricola 82608, dove è costretto a lavorare in una fabbrica di maschere antigas ed altri lavori, fino a maggio del 1945. Secondo la sua dichiarazione per tutto il tempo dell’internamento è stato tenuto sotto custodia e sottoposto a continue perquisizioni e controlli da parte dei sorveglianti. Rimpatria il 5 luglio 1945.

Dino Masetti nasce il 19 ottobre 1923 a Pratovecchio (Arezzo). Nel gennaio 1943 è inquadrato nell’8° Reggimento di artiglieria di stanza a Postumia, in Slovenia. Dopo l’8 settembre 1943 tenta di fare resistenza ai tedeschi con un gruppo di commilitoni, ma è catturato e inviato in Germania in diversi campi di prigionia: Stettino, Mannheim, Ludwigschafen, Heidelberg, Landau, per poi finire a lavorare sulla linea Sigfrido agli inizi del 1945. Rimpatria nel settembre 1945.
«L’8 settembre […] a un certo momento verso le nove di sera suonò l’allarme e venne l’ordine assoluto di rientrare in caserma ma non si sapeva ancora il perché, che c’era stato l’armistizio […] fu fatta resistenza, noi non ci si arrese ai tedeschi, ma non s’aveva nulla: si aveva un moschetto e la pistola, ma cosa si fa contro i carri armati? In conclusione, fu fatta una sessantina di morti e poi ci si dovette arrendere».

Mino Mencattini di Stia (Arezzo), presta servizio militare a partire da febbraio 1942 nel terzo Reggimento “Granatieri di Sardegna”, corpo della Divisione “Forlì” di stanza a Viterbo. Dopo l’8 settembre 1943 è catturato e internato prima a Wietzendorf (lager X/B, matricola n° 173040 KG- ITL) presso Belsen e poi a Klein Wasleben, nel Magdeburgo. Il suo racconto autobiografico della prigionia mette al centro della narrazione la condizione di totale distruzione della dignità degli internati, lo stato di abbandono, la solitudine aggravata dalle sopraffazioni, dalle violenze e dalla fame ossessiva e incalzante. La deportazione sui carri bestiame, senza cibo, ma soprattutto senza acqua segna l’inizio «dell’abbrutimento, dell’autoannientamento morale nel quale l’infernale macchina tedesca avrebbe voluto ridurci, facendoci prima morire nello spirito».
Il discorso del comandante SS del campo di Wietzendorf rivolto ai prigionieri il giorno dopo il loro arrivo non lascia dubbi:
«Voi non siete dei normali prigionieri di guerra; i prigionieri di guerra sono avversari, leali combattenti che cadono prigionieri e meritano rispetto da soldati; voi siete dei volgari traditori badogliani che ci avete improvvisamente e proditoriamente voltato le spalle; perciò, non possiamo, non dobbiamo considerarvi prigionieri di guerra, ma pericolosi internati a completa disposizione del grande Reich e del nostro grande Führer. […] Tenete bene a mente una cosa – aggiunse – voi non siete nessuno, siete una cosa, uno strumento, del quale disporremo come crederemo meglio, quando e dove vogliamo!».
Finalmente, per i sopravvissuti, il 1° luglio 1945 partenza per l’Italia. Al passo del Brennero attende i reduci un vecchio treno merci, già occupato, insufficiente per tutti:
«L’impatto con quel treno fu un’amara delusione per tutti. Tutta l’accoglienza “ufficiale” di cui ci aveva parlato il colonnello Salzano consisteva in quel merci rugginoso e stipato e in un plotone di carabinieri per sorvegliarci. […] Mi tornavano in mente le parole di quell’anziano capitano degli alpini che ci aveva avvertiti: – Non aspettatevi che vi accolgano a braccia aperte; per i reduci non è facile parlare di diritti, non lo fu neppure nel 1918, e allora tornarono vittoriosi. I diritti saranno di quelli che sono stati a casa, degli eroi dell’ultima ora. […] Andiamo avanti tutti verso casa; siamo liberi in questo treno che ci riporta, ma siamo muti. Abbiamo tutti bisogno di scongelare, di sciogliersi l’anima, disincagliarci, riacquistare la speranza e la fiducia in noi stessi e negli altri. Ma sono cose, doni che pochi potranno darci. Non certo la nostra “mamma Italia” che quasi si vergogna di noi…».

Osvaldo Visi di Angiolo, nato a Lierna, frazione del comune di Poppi (Ar), ultimo di tre fratelli tutti chiamati alle armi.
«… Nel periodo che ho passato in Germania ricordo di aver cambiato molte città, ma di queste non ricordo che alcuni nomi. Ricordo di aver lavorato il ferro in una fabbrica vicino alla quale c’era una casa dove portavano con i camion i prigionieri provenienti da vari Paesi europei. Io non ci sono mai entrato, ma sentivamo dire che da lì li portavano poi a morire. Qui ho visto uccidere un uomo perché aveva “rubato” un po’ di frutta in un orto …».

Le fonti delle loro narrazioni sono presenti rispettivamente: per Dino Belardi, Agostino Brocchi e Giuseppe Cannoni nell’archivio della Federazione pratese dell’A.N.C.R. Per Armando Lapi e Dino Masetti in Ultime voci, raccolta di testimonianze a cura della Federazione pratese: per il primo alle pp. 90-96, vol. III, per il secondo alle pp. 48-56, vol. VIII. Per Mino Mencattini le memorie sono presenti in Eravamo nessuno, Edizioni Fruska, Stia (Ar), 1989. Per Osvaldo Visi la testimonianza integrale è reperibile in Salvo Salvi, Ritorno alla vita. Ricordi di un lontano dopoguerra, Edizioni Fruska, Soci (Ar), 2012.




Il Campo P.G. n. 60 di Colle di Compito (Capannori)

IL CAMPO FINO AL 10 SETTEMBRE 1943[1]

Nel giugno 1940 l’Italia fascista entrò in guerra. Fin dai primi giorni il Ministero degli Interni istituì su tutto il territorio nazionale campi per i militari nemici catturati. Contestualmente inasprì la legislazione antiebraica del 1938 e, con norme che si fecero sempre più restrittive, impiantò campi di concentramento e luoghi per il “normale internamento di guerra degli stranieri nemici e/o indesiderabili, e degli italiani pericolosi”. [2]

Il campo P.G. n.60, sorse[3] come campo per soldati e sottufficiali angloamericani ma dopo il tragico episodio del 10 settembre 1943, oggetto di questa nota, fu ristrutturato e servì al fascismo repubblicano come campo di concentramento – fino alla metà del ’44 – per ebrei e oppositori alla RSI e ai tedeschi occupanti.

Fu scelta l’area paludosa del Pollino, paradiso dei cacciatori di uccelli acquatici,[4] appartenuta al conte Gaddo della Gherardesca e da lui parzialmente bonificata grazie a un’idrovora inaugurata nel 1925. Al tempo della requisizione da parte dell’Esercito Regio, ne era proprietario il genovese Giuseppe Ravano che, con la moglie Candida Bombrini, vi gestiva una fattoria. Non ci è documentato l’assetto originario del campo; possiamo però ricavarne alcune caratteristiche – dimensione e strutture – oltre che da testimonianze – da una pianta di poco successiva. [5] La recinzione, con “fili spinosi“, abbracciava un perimetro di circa 600 mt, con diverse garitte per le sentinelle. Vi trovavano posto baracche di legno utilizzate come dormitori cui si aggiunsero tendoni di tipo “Roma” per fare fronte alle maggiori esigenze. Un luogo insalubre e soggetto ad alluvioni, assai freddo d’inverno per la nevicate sui monti antistanti e infestato da insetti nei mesi estivi; situato a tre km dal primo posto di ristoro (un dopolavoro[6]), ma con il vantaggio della prossimità (grazie a una stradina vicinale che attraversava il campo) alla piccola stazione di Colle di Compito, sulla linea Lucca-Pontedera: all’epoca uno snodo ferroviario vitale, soprattutto per il collegamento con la Piaggio. La linea, dopo il bombardamento della stazione di Pisa, il 31 agosto ’43, era diventata arteria logistica nevralgica per i tedeschi e, proprio perciò, bersaglio di frequenti e rovinose incursioni aeree alleate che ne decretarono il finale abbandono, spesso colpendo anche il campo. [7]

In questa fase (prima dello “sbandamento”) la sorveglianza e il controllo fanno capo al Ministero degli Interni. Il comando del campo è affidato a un colonnello dell’esercito coadiuvato da ufficiali, carabinieri e soldati. [8] Nonostante le forti carenze igieniche rilevate anche da ispezioni della CRI[9] e qualche problema di convivenza[10] i prigionieri vengono trattati con umanità: ricevono pacchi con generi di prima necessità; presso il campo è in servizio per un certo tempo un capitano medico; in certe occasioni possono, accompagnati, uscire in paese. La popolazione locale – che vede “i neri” per la prima volta – prova nei loro confronti curiosità e sentimenti di solidarietà; non mancano i piccoli baratti (molto richiesta la canapa, per fumarla) e l’abituale quota di mercato nero. Nel complesso le relazioni, anche tra soldati e popolazione locale, sono buone. Lo scenario bellico, però, evolvere. Nel giro di soli tre mesi, da luglio a fine settembre 1942, il numero dei prigionieri, soprattutto inglesi e sudafricani, cresce vertiginosamente. È un picco cui farà seguito un brusco e drastico calo. [11] Lo Stato Maggiore dell’Esercito decide comunque la trasformazione del campo da ‘attendato‘ a ‘baraccato’, ma alla fine di agosto alcune “difficoltà” impongono il ripiegamento delle tende e il trasferimento altrove di tutti i prigionieri di guerra. [12] Si rendono necessari alcuni lavori per la riapertura del campo che però, nonostante l’ordine dello Stato Maggiore del 31/12/42, figura ancora chiuso al marzo ’43. [13] Sicuramente il campo P.G. n. 60 è di nuovo in funzione nell’agosto del 1943, come si evince da forniture fatte in quel mese.

IL SACRIFICIO DEI MILITARI E LA SOLIDARIETA’ AI FUGGIASCHI

L’armistizio coglie di sorpresa anche i militari che gestiscono il campo. Lo dirige, da quasi un anno, il 65enne colonnello Vincenzo Cione, un veterano decorato della Grande Guerra, (di intuibili sentimenti antitedeschi) per la seconda volta richiamato in servizio. Un “uomo bravo” secondo un testimone[14] che spesso lo accompagna alla stazione dalla casa dove abita, sul vicino Colle dell’Uccelliera. Da due giorni incertezza e inquietudine gravano sulle guarnigioni di un esercito lasciato senza direttive dopo la fuga del re e del generale Badoglio a Brindisi. Forse già nelle ore immediatamente successive all’annuncio la mancanza di ordini ha prodotto anche lì qualche riuscito tentativo di fuga. Il giorno 10 settembre[15] verso metà mattinata, il campo è in allerta. Qualcuno ha avvertito del prossimo arrivo di una pattuglia tedesca che, infatti, giunge poche ore dopo dal vicino aeroporto di Tassignano dove è di stanza la Luftwaffe. Non sono molti, i tedeschi: arrivano in moto e sidecar, forse soltanto in quattro, ma ben armati. Intimano la consegna del campo, dei prigionieri e della relativa documentazione. Cione non obbedisce, forse perché spera ancora di poter ottenere ordini superiori, forse perché preoccupato per la sorte dei soldati e dei prigionieri. [16] Certo è che non riconosce subito l’autorità degli avieri del Reich, non si piega immediatamente agli ordini seccamente impartiti. Sulla dinamica dell’episodio si sono date versioni diverse. Alcune testimonianze, nessuna però “in presa diretta”,[17] hanno attribuito l’inizio dell’eccidio (a questo, più che a un vero scontro a fuoco mi pare assimilabile) a cause accidentali: un gesto di sorpresa male interpretato, il terreno sconnesso, le mani alzate in segno di resa. Incidenti, dunque, che avrebbero provocato la “reazione” tedesca, ovvero le raffiche di mitra che freddano, insieme a Cione, il capitano Massimo De Felice e il soldato Felice Mastrippolito, mentre un altro ufficiale resta ferito. È lecito dubitare di questa versione. Quella forse più rilevante (anche se riferita),[18] è del trombettiere del campo, Giuseppe Mangino, presente ai fatti. “Beppe” raccontò chiaramente, la sera stessa, di un allarme da lui suonato su ordine di Cione e del suo netto rifiuto di consegnare il campo. “E subito lo mitragliarono all’istante“. Una “postura” resistenziale, dunque, diversa da quanto accade a Cefalonia o a Rodi, ma espressione di valori (senso di responsabilità e protezione verso i prigionieri nemici affidati alla propria custodia; sentimento di appartenenza all’Esercito Regio, anche se in disfacimento; incompatibilità con la prepotenza brutale degli occupanti) che ritroviamo anche negli ufficiali che, al Sud, stanno ricostituendo i Gruppi di Combattimento e nella “lunga resistenza” degli IMI. I momenti che seguono immediatamente la tragedia sono di inevitabile caos. Difficile che 4 tedeschi possano controllare cosa accade lungo tutto il reticolato. Numerosi testimoni raccontano di soldati e carabinieri (anch’essi allo sbando) che aprono varchi o cancelli per far uscire i prigionieri. Non sappiamo con certezza chi, generosamente, lo fece per primo; non abbiamo i nominativi né il conteggio preciso di quanti riuscirono a fuggire e di quanti invece, soldati e prigionieri, restarono intrappolati in quel recinto che sarebbe poi diventato uno dei “Campi di Salò” riservati all’internamento civile di ebrei (pochi giorni dopo inizierà la “caccia”), oppositori, “diversi”. Abbiamo però una costellazione di episodi, belli e significativi: da quelli ricordati da A. Mancini[19] alle testimonianze rese a Galli e ai successivi studi di E. Pesi e ISREC Lucca. Perfino troppi gli esempi. La famiglia di Giulia Angelini che vuota “le casse dei vestiti” per rivestire i prigionieri; la contadina Zaira di Castelvecchio Alto, che ospita e nutre il trombettiere Beppe e altri tre paracadutisti inglesi; oppure la “Bianca” di S. Leonardo (il “maternage” delle donne fu decisivo). È tutto un pullulare di storie di solidarietà (e futura amicizia) tra chi soccorre e chi fugge, se non dal campo PG. 60, da altri distaccamenti di lavoro. A Matraia, ad esempio, dove l’assistenza delle famiglie è corale. [20] È la nascita di quella rete di protezione che estenderà il suo operato, a dispetto delle pene severissime,[21] anche a renitenti, ebrei, partigiani. Ne faranno parte luminose figure di sacerdoti che si prodigano fino all’estremo sacrificio per fornire, continuativamente e spesso in accordo con CNL e formazioni partigiane, riparo e assistenza ai perseguitati dalla Guardia Nazionale Repubblicana e dai nazisti occupanti.

Il C.P. 60 continuerà ancora per alcuni giorni ad esistere. Trasferiti i militari, deportati i prigionieri e rimasto dunque incustodito, divenne quasi interamente oggetto di appropriazione da parte della popolazione ormai allo stremo. [22] I corpi di Cione e De Felice furono portati a Lucca, nel “campo dei soldati” e deposti in un apposito sacrario, per essere poi sepolti, nel 1990, nei loro luoghi d’origine, ad Avellino e a Chieti. [23]

 

PROSPETTIVE FUTURE

La vicenda del Campo per prigionieri P.G. 60, fissatosi nella memoria popolare postbellica come “campo di concentramento di Colle di Compito“, ha acquistato negli ultimi due decenni, grazie anche a un’accresciuta visibilità mediatica,[24] una forte carica simbolica, travalicando il livello locale. Da un lato, l’immediata adiacenza all’annuncio armistiziale ne fa un epicentro ideale in quanto primo – unico forte e tragico – episodio di resistenza dei militari in Provincia di Lucca (e tra i primi in Toscana). Dall’altro, la concorde gara di solidarietà verso i prigionieri in fuga, che vede protagonista la popolazione del compitese, arricchisce i profili biografici ed esemplifica il nesso tra le diverse resistenze. Non mancano, certo situazioni, analoghe[25] che però, nel panorama nazionale, restano assai contenute.

A ridosso della via dei cipressi, un cippo posto nel 1993 ricorda oggi il sacrificio dei tre militari in un luogo di notevole bellezza paesaggistica: il lago della Gherardesca, zona turisticamente vocata e mèta frequente di passeggiate nella via della Memoria.

A conclusione di quanto finora esposto risulteranno forse utili due raccomandazioni: l’urgenza di sperimentare nuove forme di valorizzazione di questo importante “luogo della memoria” (benché, rispetto ad altre realtà preda di “oblio”, non sia mai venuta meno nei due decenni trascorsi l’attenzione istituzionale) e, soprattutto, l’esigenza ormai matura di procedere ad una sistematica trattazione in sede storiografica.

 

 

NOTA:

[1] Il primo, essenziale, lavoro di raccolta di una parziale ma significativa documentazione, arricchita da 19 testimonianze sui periodi in cui il campo era in funzione, si deve al pionieristico impegno del Prof. Italo Galli, appassionato conoscitore della realtà storica locale coadiuvato dalla Associazione Il Melograno. Italo Galli. I sentieri della memoria: il campo di concentramento di Colle di Compito: i documenti e le voci dei testimoni 1941-1944. Consiglio Regionale della Toscana, 2005.

[2] C.S. Capogreco, I campi del Duce, 2004 p.9; sulle norme: https://www.annapizzuti.it/normativa/testocircolari40.php

[3] I. Galli (op.cit., p.31-33) ritiene di poter assumere per la decisione formale d’allestimento il luglio 1940, anche se la costruzione inizierebbe dal 1941; la fonte è una nota del Podestà di Capannori in cui si cita un decreto (17/7/40) del Comandante della Zona di Pisa che ne dispone, insieme ad altri campi, la costruzione. Le testimonianze rese, pur se discordanti, sono perlopiù inclini a posticipare tale data. Vedi, più oltre, anche la nota n. 7. Il sito “Campi Fascisti” (che riporta documentazione d’archivio consultabile online) ne colloca addirittura al luglio 1942 la piena operatività (cfr: https://campifascisti.it) individuandolo come uno dei sette campi per prigionieri censiti in Toscana (tra cui l’ospedale di guerra per prigionieri n. 202 a Lucca).

[4] Lo scherzoso addio ai beccaccini lo si legge nella targa apposta il 22/8/1925 in prossimità dell’impianto idrovoro.

[5] Una relazione dell’Ufficio tecnico provinciale (LU) (20/12/1943) reca una pianta allegata: si tratta del nuovo progetto di ricostruzione (in forma più ampia, dopo lo smembramento all’indomani del 10 settembre) come “campo di Salò”, operantetra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 (I. Galli, op. cit. p.157). Un testimone che, ‘nel 41, aveva lavoratoalla costruzione del campo parla di due casette in legno – altri invece di quattro – lunghe una trentina di mt.  “imperliate e incatramate sopra”. Le costruzioni per i soldati (dall’altro lato della via vicinale) erano invece “scialbate e murate” mentre le garitte distavano tra loro 50 mt. (I. Galli, op. cit; p.130-31) e passarono dalle iniziali 4 angolari a 12. (I. Galli, op. cit, p.34)

[6] Ne fa menzione una donna di Castelvecchio C. che in data 2/7/42 chiede al podestà il permesso di vendere bibite e frutta nel campo di concentramento “che viene montato” vicino al paese.

[7] Cfr. Documenti e Studi (Isrec Lucca) n.32/2010 p. 285. Nell’incursione del 21/5/’44 fu ucciso l’industriale James C. White (Glasgow, 1889) che risulta – dalla documentazione riferita – internato lì, assieme alla moglie, fin dall’agosto del 1941.

[8] La presenza di ufficiali risulta da testimonianze e documenti, oltre che dai tragici fatti del 10/9/43. Edo Toschi, carabiniere che aveva accesso al campo, poi passato con i partigiani dell’XI zona Patrioti, parla di 9 carabinieri, un maresciallo e un centinaio di soldati in forza nell’agosto ’43 (I. Galli, op.cit. p.37). Il colonnello Vincenzo Cione(dopo il Col. Crarino Di Pietro) assume il comando il 1/10/1942. Neanche un anno dopo il suo rifiuto di consegnare il campo ai tedeschi ne segnerà la sorte.

[9] Le latrine esterne sono assi di legno sul fossato; mancano libri o simili, l’assenza di zanzariere genera 180 casi di malaria. Cfr.https://www.liberationroute.com/it/pois/1477/colle-di-compito-concentration-camp

[10] Alcune testimonianze parlano di “risse” e “pestaggi” tra bianchi e neri e di conseguente divisione degli ambienti.

[11] Al 1/8/’42 sono registrati nel campo 2.465 prigionieri di guerra. Al 30/9/’42 salgono a 3.970, così suddivisi: 2.224 inglesi, 1.737 sudafricani, e 9 di altre nazionalità. Cfr. https://campifascisti.it/documento_doc.php?n=685. Il numero dei prigionieri, fin dall’inizio costante e non molto elevato (alcune centinaia), conosce invece nel secondo semestre del ‘42 andamenti opposti: un’impennata e un crollo. Tant’è che il Prefetto Marotta, in una lettera al colonnello medico scrive (15/11/’42): “il campo dei prigionieri si sta sciogliendo e non si sa dove verranno destinati gli ufficiali medici ad esso addetti” (I. Galli, op cit. pag. 47). Nel settembre ’43 il numero risalirà a 1000-1200, forse anche di più (E. Toschi in I. Galli, op.cit., p.37).

[12] La stasi nel funzionamento del campo che risulta “ripiegato per l’inverno” meriterebbe – ci pare – una ricerca approfondita, quantomeno sulla destinazione di un numero così rilevante di prigionieri e sulla natura delle “difficoltà” insorte. Su questo aspetto anche la fonte da cui attingiamo (https://campifascisti.it/documento_doc.php?n=738) non va oltre l’esibizione dei documenti. Probabili cause della sospensione: l’inizio delle piogge, la scarsa illuminazione e l’assenza di riscaldamento.

[13] Il 23 aprile 1943, (si legge nella stessa fonte) “si propone di utilizzare alcuni prigionieri di guerra tratti dal campo n. 82 di Laterina per portare a termine i lavori di riapertura del campo. In particolare si propone per evitare gli inconvenienti che hanno portato alla chiusura del campo lo scorso inverno” di “spostare l’area cintata dalla parte opposta di quella attuale; montare le tende sui terrazzi a nord e a sud della nuova area utilizzando lo spazio centrale per le adunate e come campo sportivo per i prigionieri”.

[14] Capini Vito, in I. Galli, op.cit. p.99

[15] La data dell’episodio e del decesso di Cione (e dei due militi) verrà definitivamente certificata con rettifica del 21/4/’47 sul suo Stato di servizio. Ciononostante, alcune testimonianze raccolte da I. Galli continuano a indicare date diverse. Edo Toschi, ad es., indica, dichiarandosene certo, il 9/9 come data dell’uccisione dei tre militari.

[16] Del tutto realistica l’interpretazione di G.L. Fulvetti con cui concordiamo: “Cione cerca di guadagnare tempo per consentire la fuga sia ai suoi uomini che ai prigionieri ma i tedeschi indovinano subito le sue intenzioni”. Cfr. G.L. Fulvetti, Una comunità in guerra, L’Ancora del Mediterraneo, 2006. Fondamentale su tutta la vicenda dei prigionieri evasi e sulla assistenza ricevuta dalla popolazione del compitese (e non solo) resta: E. Pesi, Resistenze civili, M.P. Fazzi, 2010, in particolare p.111 e sgg.

[17] Cfr. I. Galli, op.cit., pagg.53-54

[18] Testimonianza di Giulia Angelini (I. Galli, op.cit. p. 124-25). “Beppe” (a cui la famiglia di Giulia forniva latte) ha mantenuto rapporti di amicizia con loro fino alla morte.

[19] A. Mancini (illustre antifascista lucchese, filologo e storico, promotore e presidente del CLN) nelle sue “Memorie dal carcere” (Le Monnier, 1986, p.49) scrive di come molti contadini, nel loro rudimentale inglese di ex emigranti in America, chiamavano i fuggiaschi: “Come, come into my house!” e li ospitavano a prezzo di grandi rischi.

[20] Storie esemplari, come quelle del carbonaio Ghigo e di Doug Harrison del North Yorkshire; oppure quella di Giuseppe Taddeucci e Thomas Dormant dell’Essex.

[21] Il decreto del governo della RSI del 9/10/’43, diffuso a mezzo stampa e manifesti, ricorda che “qualsiasi borghese italiano che potrà dare indicazioni in merito a prigionieri americani o inglesi evasi, atte a facilitare la cattura, avrà una ricompensa di L.500. Ogni borghese italiano che darà alloggio ai prigionieri o suddetti o comunque li aiuterà, sarà immediatamente arrestato e passato per le armi”. In diversi, invece, riceveranno come riconoscimento il “Diploma Alexander”.

[22] Una nota dell’Ufficio tecnico Provinciale di Lucca del 20/12/43 elenca minuziosamente i materiali asportati da ignoti con “vandalico saccheggio” (Cfr. I. Galli, op.cit. pp.157-158).

[23] La famiglia di Mastrippolito, di S. Buoro (CH), raggiunta dopo molti tentativi, lo aveva dato per disperso in Russia; si trovava invece, in licenza, al CP.60.

[24] Oltre al citato libro del Prof. I. Galli, ricordiamo: la prima delle dieci “Pillole di Resistenza” (visibile anche su canale YT Isrec Lucca) e il fumetto Come into my house, M.P. Fazzi, 2019, con testi di E. Pesi e disegni di L. Lenci

[25] Soprattutto le popolazioni dell’Appennino tosco romagnolo, fin dal settembre 1943 accolsero e salvarono dalla prigionia e dalla morte decine di migliaia di persone, ricercate e perseguitate dall’occupante tedesco e dai fascisti della Repubblica sociale italiana (https://percorsisolidarieta.istorecofc.it/)




La battaglia di Piombino

Sono passati 80 anni da quel lontano 10 settembre 1943, quando gli abitanti di Piombino, sostenuti ob torto collo anche dalle forze armate presenti in città (soprattutto dalla Marina di stanza nel territorio della cittadina e lungo le coste del promontorio), si ribellarono alla presenza tedesca e diedero vita ad una vera e propria battaglia caratterizzata sin da subito da un amalgama difficilmente distinguibile di spontaneità e di organizzazione.

Attorno all’episodio, entrato immediatamente – perlomeno alla fine del conflitto – nella narrazione anche retorica costruita attorno alla Resistenza, si sono accumulate intenzioni estranee agli avvenimenti stessi, rendendo la battaglia piombinese un topos obbligato nella rievocazione delle azioni partigiane. Resta comunque il fatto incontrovertibile che essa fu il primo episodio di resistenza nei confronti dei tedeschi, a soli due giorni dall’annuncio dell’armistizio Badoglio dell’8 settembre 1943. A conclusione della guerra, la sua eccezionalità attirò l’attenzione non solo di politici (soprattutto comunisti e socialisti), ma anche di storici che si confrontarono più o meno dettagliatamente sulla vicenda.

Il primo fu il saggio di Ugo Spadoni, pubblicato nel 1955 (in occasione del decennale della Liberazione) su la «Rivista di Livorno», che portava un titolo significativo: Per una storia della battaglia di Piombino. Un paio di anni prima, invero, ne aveva fatto cenno anche Roberto Battaglia nella sua Storia della resistenza italiana, basandosi sulla testimonianza di Edo Azzolini pubblicata su «Vie Nuove» nel 1952.

Come desumibile l’episodio aveva attirato l’interesse di studiosi e di militanti per le sue caratteristiche di spontaneità e organizzazione, perché era il risultato, in parte perlomeno, di una città operaia e sovversiva dove l’odio per i tedeschi ed i fascisti aveva trovato l’occasione ed i mezzi per esprimersi, prefigurando in qualche modo la potenzialità di una sognata ed idealizzata presa del potere da parte delle classi subalterne che riuscivano a piegare ai loro fini anche le squadre del regio esercito. Con il passare degli anni si sono aggiunte altri ricerche: da quella di Ivan Tognarini (al quale si unì poi la voce di un non professionista della materia come Rocco Pompeo, che nel 1965 vi dedicò la tesi di laurea, successivamente pubblicata) fino ai più recenti ed accurati confronti con le carte d’archivio sulle quali ha lavorato Stefano Gallo, studioso sensibile alla tematica senza però mai farsi prendere la mano da un eccessivo entusiasmo come è invece accaduto per altri ricercatori. La stessa narrazione proposta da Ivan Tognarini risultava in qualche modo piegata alla necessità del riconoscimento della medaglia d’oro. Quella d’argento che era stata conferita nel 1973 apparve a tutta la cittadinanza e alla sua classe dirigente, saldamente in mano al Partito comunista, un riconoscimento non solo tardivo ma anche sminuente.

La vicenda, che si colloca due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, ricorrenza della quale quest’anno ricordiamo l’80° anniversario, si realizzò e si consumò nell’arco di circa 48 ore.

Occorre ricordare che nella città c’erano già state manifestazioni di entusiasmo per le strade in occasione del 25 luglio e che probabilmente già da quella data era andato costituendosi un Comitato di concentrazione antifascista presieduto da Ulisse Ducci, figura piuttosto ambigua nel panorama dei resistenti. Arrivato a Piombino dopo una condanna al confino perché implicato in un tentativo di uccisione di Mussolini, divenne abbastanza presto confidente dell’Ovra e giocò in tutto il periodo della sua presenza nella cittadina toscana un ruolo opaco. Tuttavia, fu anche capace di tessere relazioni con l’ambiente antifascista più genuino espresso dalla città, che vedeva in lui un eroe senza macchia[1]. Al suo fianco troviamo nel Comitato di concentrazione antifascista alcuni sicuri oppositori al regime come Giorgio Millul, Federigo Tognarini, Pio Lucarelli, Adriano Vanni, Renato Ghignoli ed altri. Quanto poi ciò che avvenne fosse tutto frutto della direzione del Comitato e quanto invece fosse il risultato di una volontà spontanea di parte della popolazione, è arduo da stabilire. Probabilmente giocò qui, come da altre parti, una mescolanza di entrambi gli atteggiamenti. In ogni caso furono tali spinte che in primis si rivolsero verso i soldati, in particolare i marinai presenti in città, affinché si facessero carico di uno scontro diretto con le truppe tedesche che, all’inizio della giornata del 10 settembre, erano presenti con forze esigue.

Al comando dei militari dislocati sul promontorio c’erano due personalità ben diverse: da una parte il capitano di corvetta Giorgio Bacherini; dall’altra il capitano di fregata Amedeo Capuano. Come ha sottolineato Bardotti nella sua prolusione alla cerimonia per il 10 settembre 2022, l’apparato di difesa militare che faceva capo all’esercito italiano per Piombino era significativo. Tutta la zona dipendeva dalla 215° divisione costiera agli ordini di Cesare Maria De Vecchi che aveva come comandante il generale Fortunato Perni, il quale, tra l’altro, poteva contare su due efficaci batterie a guardia del porto. Agli ordini del capitano Amedeo Capuano faceva capo una terza batteria, in buona efficienza affidata a Giorgio Bacherini. Il dispositivo era ulteriormente rafforzato dal XIX battaglione carri m42 (in tutto 38 mezzi), dislocato presso la pineta di Torrenuova e posto al comando del tenente colonnello Angelo Falconi. In tutto le difese potevano contare su circa 800 militari, oltre ai soldati in attesa d’imbarco per l’Elba, la Corsica e la Sardegna.

Le forze militari tedesche presenti in campo erano invece assolutamente trascurabili: un piccolo contingente tedesco composto da 7-8 militari dislocati presso una stazione radio, nonché dieci unità germaniche di naviglio leggero, erano ancorate in porto. Prendendo le mosse da queste ultime, un gruppo di trenta soldati tedeschi era sceso a terra poco dopo la proclamazione dell’armistizio per impadronirsi delle banchine portuali. Gli aggressori arrestarono alcune sentinelle a guardia dei moli e tentarono di occupare una postazione di mitragliatrici ma il capitano Bacherini, informato di questi movimenti, ordinò di difendere il porto e intimò l’arresto dei tedeschi presso la stazione radio. La batteria della Marina aprì il fuoco e cinque unità del Reich, di cui quattro in porto e una nel canale, vennero affondate mentre alcuni tedeschi vennero fatti prigionieri. Su questa prima reazione pesò sicuramente la volontà dei soldati italiani che fecero la “scelta”, pur senza ordini dall’alto, di resistere e combattere – sicuramente – sostenuti e incoraggiati dalla popolazione civile.

Questa risposta non era stata messa in conto da parte tedesca neppure come ipotesi: quest’ultima aveva pertanto agito sopravvalutando la propria capacità e la disponibilità alla sottomissione dell’ex alleato italiano.

Prima di procedere ulteriormente nella rievocazione della battaglia, che non risulterà lineare, credo sia utile fare alcune precisazioni, alcune di natura geografico-morfologica sulla collocazione di Piombino ed una di ordine sociale. La prima considerazione riguarda la possibilità di chiudere il capoluogo urbano con una relativa facilità. Vi si accedeva con una sola strada d’ingresso e il promontorio roccioso si prolungava verso il canale di fronte all’Elba. La considerazione di ordine sociale ed economico che probabilmente era il vero oggetto dell’interesse dei tedeschi per prendersi la città, era data dalla presenza di due grandi fabbriche siderurgiche: l’Ilva e la Magona, presenza questa che significava automaticamente una potenzialità di materiale bellico per il contingente tedesco, ma significava altresì anche la presenza di masse operaie che erano state sì sottomesse dal regime ma che non avevano mai coltivato verso di esso nessuna particolare inclinazione. Una composizione di classe fortemente politicizzata e sovversiva come scrivevano i tutori dell’ordine, con una forte e radicata tradizione anarchica, socialista e comunista. Vale la pena ricordare perlomeno due episodi, come fa Rocco Pompeo, della resistenza antifascista e dei lutti che questa dovette sopportare: quello di Lando Landi e quello di Amaddio Lucarelli ed Attilio

Landi. Lando Landi (da tutti conosciuto come “Landino”) era un anarchico per temperamento e per educazione che si era lanciato con tutto l’entusiasmo della sua età giovanile nella mischia sociale. Rappresentante di una resistenza individuale non organizzata, fu ucciso dal piombo di un sicario fascista in via Carlo Pisacane nel giugno del 1922. L’altro episodio della prima resistenza piombinese vide coinvolti Amaddio Lucarelli ed Attilio Landi, ambedue militanti comunisti, e fu di poco successivo al primo. Il 9 luglio 1922, in località “campo alle fave” (Fiorentina), i due giovani comunisti si trovavano sul terreno di campagna del loro vicino: Roberto Cantini. Mentre leggevano e commentavano il giornale, quattro fascisti arrivarono armati di rivoltella. Subito dopo ne giunsero altri sette o otto, ed uno di essi, probabilmente il capo della spedizione, si meravigliò di trovare ancora vivi Lucarelli e Landi, ai quali intimò di alzarsi. Estratta poi la rivoltella, aprì il fuoco: Lucarelli cadde ucciso, mentre Landi, ferito, fu soccorso dalle due sorelle Alfea e Maria, che avevano assistito alla scena[2].

Questi episodi vanno collocati ancora prima della presa del potere da parte delle camicie nere. Ricordiamo che tra gli assalitori di campo alle fave, una zona di campagna alle porte di Piombino, c’era anche il direttore dell’Ilva, Garbaglia. [3] Durante il ventennio le manifestazioni non si spensero mai del tutto anche se in sordina, soprattutto all’interno degli stabilimenti. In particolare, negli ultimi mesi del ’42, quando, per una serie di agitazioni operaie, per la pubblicazione insistente di stampa clandestina e la sua distribuzione nelle fabbriche, per le frequentissime scritte sui muri inneggianti ad un mutamento del regime, per l’ascolto di radio Mosca e radio Londra, centinaia di operai furono attesi all’uscita delle fabbriche e bastonati. Molti antifascisti vennero “mandati a letto” con minacce, purtroppo non vane. Il tutto in un clima nel quale il carattere peculiare del fascismo periferico andava rivelandosi più intollerante e spavaldo di quello centrale.

Ricordiamo anche il volantino diffuso il 30 luglio 1943 dal Comitato di Concentrazione Antifascista che incitava i cittadini piombinesi a stare allertati e a tenersi pronti ma vigili senza approfittare del momento, ciascuno al proprio posto di lavoro e all’ordine dell’esercito italiano. Il volantino finiva con: “Viva l’Italia libera!” [4]

Ma ritorniamo ai giorni della battaglia. Occorre ricordare che una delle otto divisioni tedesche che si trovava tra il Lazio e la Toscana, la 3° Panzer Grenadier, era giunta con il compito di collaborare alla difesa con una decisione unilaterale tedesca, perché Hitler personalmente “temeva molto uno sbarco anglo-americano a Livorno“. Di non minore importanza è il fatto che un’altra divisione germanica (la 90° di fanteria, già Sardinien) occupava nel frattempo la Sardegna e la Corsica.

Però occorre anche precisare che il territorio piombinese era stato munito di piani di difesa dallo Stato maggiore dell’esercito, che considerava poco probabile, ma non impossibile, che l’avversario attaccasse le coste del Tirreno toscano. A questo scopo erano state dislocate una serie di batterie lungo la costa, sul litorale, nei punti chiave per la difesa; altre forze militari dell’esercito nell’immediato retroterra; Rifugi Antiaerei erano stati approntati per la popolazione.

La batteria che si incontrava per prima, venendo da est, era quella della località “il Falcone”. Era una batteria navale da 194 mm, ed aveva il compito di contrastare, o di ritardare il più possibile, un attacco sferrato alla zona est del golfo di Salivoli.

Ad una distanza di circa cinquecento metri, spostandosi verso il centro di Salivoli, era piazzata una batteria con un radar da 88 mm; subito dopo nella località Podere Mazzano c’era una terza batteria da 191 mm. Tutta la zona centrale non vedeva nessuna difesa specifica anche perché in ogni strada, in ogni piazza, in ogni costruzione che dominava il territorio, erano collocate piccole unità che controllavano la zona ed avevano il compito di provvedere alla salvaguardia dei civili.

Tutti questi gruppi erano alle dipendenze dirette del Comando Marina, che si trovava sul “Castello”. Sullo stesso castello vi erano collocate due mitragliere R 76 mm. Così come un dispiegamento di forze era stato programmato per la zona del litorale sino al “Semaforo” dove si incontrava una batteria n. 190 da 120 mm alla quale ne seguiva un’altra, all’altezza del viale Regina Margherita. Era chiamato il gruppo mitragliere sud, per distinguerlo da quello nord, disposto alla sinistra di Corso Italia. Il gruppo nord di Casa Parrini doveva essere il corno sinistro della morsa che si sarebbe stretta intorno a chi fosse entrato dal porto per portarsi al centro della città. Il corno destro era dato dal gruppo complementare sud.

Nel retroterra erano dislocate altre tre batterie: una in direzione di “Ponte d’oro”, l’altra in direzione di “Monte Castelli”, la terza in direzione di Populonia: avevano l’ordine di contrastare un eventuale attacco dal lato nord. Erano rispettivamente: una batteria con radar; una batteria da 207 mm; una batteria antiaerea.[5] L’episodio dal quale tutto probabilmente si generò e precipitò è legato all’iniziativa militare di un gruppo di navigli leggeri tedeschi che, per impadronirsi delle banchine portuali, decise di sbarcare con circa trenta soldati poco dopo la proclamazione dell’armistizio. In seguito allo scontro tra i militari tedeschi e i marinai di Bacherini, questi ultimi ebbero la meglio. La catena di comando italiana ebbe a questo punto la sua prima crisi. Il generale Perni ordinò di liberare i prigionieri e di restituire loro le armi. Il capitano Capuano protestò energicamente contro l’ordine e intimò ai tedeschi di lasciare il porto prima delle 12:00 del giorno successivo.

Alle 4:30 un convoglio tedesco, comandato da Karl Wolf Albrand, formato da due cacciatorpediniere, un piroscafo e 10 unità minori, chiese di entrare in porto per approvvigionarsi di acqua e carbone e poi di ripartirsene. Quest’ultimo venne autorizzato ma, una volta attraccato, sarebbe dovuti ripartire immediatamente. Invece sbarcò velocemente, ma i soldi disarmarono le sentinelle e occuparono il punto di osservazione del semaforo. Fu a questo punto che l’azione, limitata fino a quel momento ai militari, passò nelle mani della popolazione, o perlomeno di una parte di essa. Furono gli operai del turno di notte dell’Ilva i primi a diffondere la notizia e a scendere per le strade e manifestare, chiedendo che la città venisse difesa, ma il generale Perni si limitò a schierare le sue truppe per il solo mantenimento dell’ordine pubblico.

Ricordiamo che le batterie aeree e navali erano in mano ai marinai (eccezion fatta per quelle di Salivoli e di Bocca di Cornia, nelle mani di militari del corpo di Artiglieria); un battaglione era dislocato nella pineta di Terranova. Nei pressi della stazione ferroviaria si trovava un centro di smistamento per la Sardegna, la Corsica, e l’Elba che ospitava in quel momento alcune centinaia di militari ed ufficiali. Sicuramente con queste forze in campo era possibile resistere anche se non possiamo sapere per quanto e con quale finalità.

Sul piano sociale e politico, la città a partire dal 25 luglio era stata attraversata da manifestazioni che chiedevano la pace e il ritorno a casa degli uomini partiti per la guerra e la pressione era stata tale che il Comune di Piombino prese una delibera, in data 3 settembre, solo 5 giorni prima dell’annuncio dell’armistizio, con la quale decideva di mutare nome a tutte le strade e località che ricordassero persone o avvenimenti del caduto regime per sostituirli con nomi che ricordassero cittadini e avvenimenti della lotta antifascista piombinese.

Tutto sembrava concorrere per uno scontro aperto. La situazione cominciò a muoversi più velocemente dopo il primo attacco da parte tedesca del 9 settembre, che, vista l’esiguità delle forze in campo poteva risultare, come poi risultò, avventato. Ma probabilmente la presa del porto di Piombino, vicino com’era all’isola d’Elba e alla Corsica costituiva un obiettivo certamente prioritario per le forze germaniche che queste non avrebbero assolutamente potuto mollare. All’inizio i tedeschi ebbero la peggio e corsero verso le loro imbarcazioni dopo una colluttazione con i marinai italiani che costò sicuramente dei feriti da ambo le parti.

Il passa parola su quello che stava avvenendo riempì le strade della città di popolazione e dei membri del Comitato di concentrazione antifascista che chiedevano ai soldati di respingere i tedeschi. I membri del comitato decisero quindi di rimanere in riunione permanente e chiesero alla Tenenza dei Carabinieri di frenare lo sfascio delle forze militari.

Nel frattempo i tedeschi non erano rimasti inermi e la mattina seguente entrarono in porto con 21 mezzi da sbarco (chiattoni armati con numerose artiglierie a bordo), 2 cacciatorpediniere, 1 corvetta, varie motolance ed un grande piroscafo da carico. Una volta sbarcati, occuparono militarmente il porto e, secondo parecchi testimoni, anche la capitaneria, disarmarono i marinai, i finanzieri e i soldati; incoraggiati dalla mancanza assoluta di ogni opposizione alcune pattuglie si diressero verso il semaforo, occupandolo senza alcuna resistenza.

La mattina verso le cinque – racconta l’operaio Amulio Tognarini – in fabbrica (Ilva) si sparse la voce: … i tedeschi stanno sbarcando… bisogna uscire… andiamo a vedere… bisogna difendersi. Poche ore dopo usciamo in massa dagli stabilimenti ed andiamo in piazza dove c’erano altri operai e molta folla:…cosa vogliono i tedeschi?…Perché i comandi li fanno entrare nel porto?…Ai comandi, andiamo a sentire cosa dicono i comandi… Perché i comandi non mettono in atto gli ordini di Badoglio? … Vogliamo combattere anche noi! Vogliamo le armi!

Ad un tratto comparvero i carabinieri gridando l’ordine di circolare e di sgombrare. Noi si rimaneva fermi e si cercava di parlare anche con i carabinieri. Ad un certo punto i militari stavano per aprire il fuoco. Ma non ebbero il tempo; ci si strinse intorno alla macchina urlando. Il maresciallo Ripoldi invitava alla calma e cercava di far comprendere la gravità della situazione. La folla spingeva…[6]

In questi scontri tra la popolazione ed i carabinieri Ermete Cappelli, un testimone e militante antifascista, ricorda che fu estremamente prezioso il deciso atteggiamento delle donne. “Furono loro … che si buttarono addosso ai carabinieri, li abbracciarono, ed impedirono che si facesse fuoco sulla folla. Si evitò così un inutile spargimento di sangue”.[7]

Le forze tedesche, consapevoli del pericolo che correvano, provarono a tergiversare promettendo che sarebbero tornati sulle loro imbarcazioni dopo essersi riforniti di acqua senza colpo ferire. Intanto i militari italiani presenti avevano cominciato a dileguarsi nel caos della situazione e senza ordini superiori chiari si verificò il fenomeno già ampiamente documentato sia dalla storiografia, che dalla memorialistica, che dal cinema di “Tutti a casa”.[8]

In città si formarono commissioni incaricate di fare opera di persuasione presso i soldati italiani che avevano abbandonato le loro posizioni, così come le fortificazioni preposte alla difesa della costa. Alcuni gruppi di cittadini andarono in camion fino a Campiglia per convincere soldati e marinai a tornare alle batterie. Anche il comandante della postazione del Semaforo era scappato con abiti civili e fu riportato indietro e rimesso a difesa della città.

Il generale Perni, visto che la battaglia era inevitabile, chiamò in rinforzo una colonna di carri armati dal senese che giunse verso sera. Da parte del Comitato di Concentrazione fu inviato un messaggio al Comando Marina dell’isola d’Elba per chiedere l’invio di alcuni caccia che si trovavano a Portoferraio.

Vennero decise le ultime misure difensive: squadre di cittadini controllavano alcune zone di accesso al porto, con l’ordine di “aprire il fuoco al minimo segno di ostilità da parte tedesca”. Altre squadre furono incaricate di procedere alla sorveglianza sulle spiagge che potevano diventare vie di accesso per imbarcazioni ed evitare così attacchi di sorpresa. Tali squadre, inoltre, avevano il compito di fermare tutti i soldati ed i marinai che affluivano dalle varie parti, e dalle città dove l’occupazione tedesca era già in atto, per obbligarli a riprendere le armi sotto il comando di zona.

La popolazione fu invitata con segnalazioni acustiche (macchine che giravano per le strade fornite di altoparlanti) a rifugiarsi nei ricoveri antiaerei prima delle ore 19.

Verso le 18, 00 arrivarono i rinforzi chiesti dal generale Perni, che si concretizzarono con l’arrivo del XIX° Battaglione Carri M/42 che, accampato alla pineta di Terranova (Venturina) a disposizione del comando del settore costiero di Piombino, si portò lungo la via piombinese nel tratto Osteria Fiorentina – Strada Statale, poi a Piombino nel pomeriggio del 10 settembre. Comandato dal tenente colonnello Angelo Falconi, disponeva di 20 carri armati e di 18 semoventi: a mezzo di ufficiali e di commissioni cittadine, tale battaglione fu disposto nei punti strategici ed in ordine di combattimento. Falconi poi scrisse:

Sotto l’imperversare del noto bombardamento scatenato improvvisamente dalle armi a bordo dei mezzi navali tedeschi, nella notte sull’11 settembre 1943, completai lo spiegamento delle forze schierate tra il semaforo e gli stabilimenti Ilva, e coordinai e diressi l’azione…[9]

La battaglia era sicuramente già cominciata alle 21.00 del 10 e si era aperto un forte scontro militare con la partecipazione della popolazione (perlomeno quella maschile e più organizzata) di rinforzo alla Marina e all’esercito italiano presenti. Sul luogo e l’inizio della battaglia i testimoni però non sono concordi. Di sicuro, quando lo scontro terminò, i tedeschi fatti prigionieri provenivano sia del Lazio che della Toscana, così come dalla Sardegna e dalla Corsica. Non si trattò solo di uno scontro tra truppe militari ma di una battaglia che vide la partecipazione attiva dei cittadini soprattutto nella difesa che partiva dalle batterie.

Verso la mezzanotte si udì un grande boato: la santa barbara del piroscafo da carico attraccato al lato destro del pontile dell’Ilva era saltata. Tutti, nelle ore della notte del 10 settembre 1943, ebbero da fare. All’ospedale fu assicurato un servizio completo ed interrotto per tutta la notte. Cosa normale in tempi normali, ma quando si osserva che a prestare servizio per tutta la notte fu don Ivo Micheletti ci si rende conto sia di come tutti contribuirono a dare un decisivo contributo alla battaglia, sia di come dalla vicenda emergesse una situazione di caos diffuso.

A trovare la morte per le ferite riportate nella battaglia di Piombino fu Giovanni Lerario, forse la prima vittima della Resistenza italiana. (Il Comune poi gli ha intitolato una via). Alle 3 del mattino dell’11 settembre i tedeschi si ritirarono. Coloro che invece si erano nascosti furono successivamente rastrellati e portati prigionieri al comando italiano. Sul numero dei morti tedeschi non c’è mai stata unanimità; c’è chi parla di 300 vittime e chi di 400. Certo è invece il numero dei prigionieri: 300.

Il disastro dei mezzi da sbarco tedeschi invece fu assai consistente: un caccia saltato in aria; un altro gravemente danneggiato; un piroscafo di medio tonnellaggio ed uno più piccolo, carichi di armi, viveri e munizioni, affondati; varie motolance e varie chiatte da sbarco danneggiate o affondate. Da parte italiana alcuni danni allo stabilimento dell’Ilva, due morti, e solo pochi feriti tra i militari.

Nonostante tutto, nonostante l’esultanza della popolazione, nonostante quella di alcuni militari coinvolti, ci fu un epilogo tragico, forse quasi scontato. Il gen. e fascista Cesare Maria De Vecchi, che da Massa Marittima comandava la divisione costiera della zona, venuto a conoscenza di tutto l’accaduto, impartì l’ordine di liberare i prigionieri.

I prigionieri, che erano stati condotti al castello ove aveva sede il Comando Dicat, furono così prelevati e fatti imbarcare su motozattere tedesche. Fu il comandante Bacherini a consegnarli ad un ufficiale dell’esercito che li aveva chiesti con un ordine del gen. Perni. Lo stesso ufficiale scortò i prigionieri fino al porto e sorvegliò le operazioni di imbarco.

Una sola trasgressione fu presa contro l’ordine di De Vecchi. Mentre quest’ultimo aveva ordinato il rilascio dei tedeschi armati liberi in città, il generale Perni non se la sentì di fare quello che sicuramente sarebbe stato visto e considerato dalla popolazione come una provocazione persino gratuita. Gli ufficiali, i soldati e i marinai abbandonarono i loro posti dove erano tornati per volere della popolazione. Alcuni di loro tentarono di opporsi a tale ordine, ma non poterono nulla per fermare la dispersione dei militari.

Al controllo del Presidio era rimasto un solo piantone: il comandante ed il vice avevano abbandonato la città, dopo aver dato ordine a tutti i reparti di abbandonare le proprie posizioni. Solo il Comando Marina, che già nei giorni precedenti la battaglia aveva fatto sua la volontà popolare, esitò prima di abbandonare la popolazione in mano al nemico.

La sera dell’undici, anche il comandante generale della piazza lasciava la città. Intanto tutti i militari avevano provveduto a rendere inservibili i carri lasciati sparsi per le strade. I pezzi delle batterie erano stati messi fuori uso e le armi e le munizioni fatte sparire. Alcuni vogliono che queste, poi, siano state consegnate ai gruppi di partigiani; altri affermano il contrario.

Le notizie provenienti dalle zone vicine fecero dilagare la sfiducia che si impadronì piano piano di tutti. Le poche novità che giungevano erano infatti sconcertanti e tragiche: solo Piombino, in tutta la Toscana, era insorta contro gli invasori. La città di Livorno era in mano tedesca; a Cecina un generale italiano ed un ufficiale tedesco si erano presentati al comando del Presidio per accordarsi sulla consegna del materiale bellico. A Grosseto l’aeroporto era caduto in mano tedesca.

L’isola d’Elba, su cui si era scatenato un bombardamento infernale da parte dei tedeschi, era caduta, dopo un’eroica resistenza, sotto il dominio germanico, e non aveva potuto inviare le due torpediniere richieste dai piombinesi durante la battaglia. Incombeva inoltre su Piombino la minaccia di un bombardamento, nel caso che i cittadini avessero deciso di continuare a combattere.

In parecchi a Piombino si erano compromessi e decisero di partire, di abbandonare la città prima che finisse in mano tedesca e di sicuro, tra questi, i più coinvolti nel Comitato di concentrazione antifascista. Bacherini ebbe l’ingrato compito di rendere inservibili le armi delle batterie ed i cannoni, e di distruggere tutti i documenti segreti. Fornì inoltre di una licenza-premio i suoi uomini che velocemente si dileguarono.

Dopo una notte insonne arrivarono i primi tedeschi. Nelle prime ore del 12 settembre 1943 erano di nuovo all’ attacco. Ma stavolta, a differenza di due giorni prima, solo le loro armi facevano fuoco. Nessuna reazione da parte italiana; la difesa, le batterie costiere, tacquero come cose morte.

Preceduti da fitte raffiche di mitraglia e da un ben nutrito fuoco di armi di bordo crivellarono di colpi alcune abitazioni di Piombino nei pressi del porto e iniziarono l’occupazione della città, completata da gruppi provenienti da Venturina. Alcuni pensarono addirittura che l’occupazione della città stesse arrivando via terra.

Si concluse così la “battaglia di Piombino”. Con una sconfitta cocente, ma con il ricordo per coloro che vi avevano partecipato di aver provato a difendere la propria dignità e ad uscire vittoriosi dentro una cornice sicuramente ostile.

*Tutto il testo che segue non è il frutto di una ricerca originale ma si appoggia in particolare al volume di Rocco Pompeo La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, prendendo in considerazione anche il testo della prolusione di Riccardo Bardotti (Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea d Siena) pronunciata per la celebrazione del 2022 a Piombino e l’Introduzione al volume di Pompeo di Stefano Gallo, direttore della Biblioteca Serantini di Pisa e ricercatore presso il Cnr di Napoli. A Bardotti e a Gallo va il mio più sentito ringraziamento; per Pompeo rivolgo il mio ringraziamento ai suoi eredi. Le ricerche di Ivan Tognarini sono state ampiamente utilizzate da entrambi e quindi sono entrate in questo pezzo senza difficoltà.

[1] Come aveva sottolineato Pietro Bianconi in La resistenza libertaria. L’insurrezione popolare a Piombino nel settembre ’43, Tracce, Piombino 1983, p. X, poi ripreso da Stefano Gallo nella sua Introduzione al volume di Rocco Pompeo, la polizia aveva ben chiare le caratteristiche della figura di Ducci. Scriveva Bianconi: «Fin dal primo giorno del rovescio del regime fascista, in Piombino, si è messo in evidenza il noto Ducci Ulisse fu Bartolomeo allo scopo evidente di prepararsi una via per una eventuale carica politica. A dire il vero, costui, che ha un ascendente sulle masse operaie, si è affiancato alle autorità e si è tenuto in continuo contatto con i direttori dei locali stabilimenti, con le associazioni dei Mutilati ed invalidi di guerra allo scopo di fare ritornare la calma e perché tale calma continuasse. Nel pomeriggio del 2 andante è stato qui sequestrato l’unito foglio volante – dalle indagini esperite è risultato che autore è stato proprio il Ducci il quale lo ha confessato. Il contenuto di tale foglietto dà la riprova di quanto ho detto e che cioè il Ducci voglia collaborare con le autorità per il mantenimento dell’ordine pubblico. Ciò nonostante d’intesa col locale Comando Militare e con l’Arma dei CC.RR., il Ducci viene sorvegliato attentamente allo scopo di seguirne le mosse ed i precisi suoi scopi».

[2] Rocco Pompeo, La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, p. 3.
[3] www.wuinewsnet, Il delitto di Campo alle fave, ultima consultazione 29 agosto 2023. Nel sito si parla di «direttore del personale e di Garabaglia».
[4] Il testo è riportato in R. Pompeo, La battaglia, cit., p.13.
[5] Tutte le informazioni sulla difesa militare provengono dal volume di Rocco Pompeo.
[6] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.19.
[7] Ivi, pp. 19-20.
[8] Titolo assai azzeccato del film di Luigi Comencini del 1960 (con Alberto Sordi) in cui si racconta lo sfaldamento dell’esercito italiano dopo l’armistizio Badoglio.
[9] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.23.




È bene che si vada via, ma però che si torni in Italia.

La Barbiera che vien di Francia è un canto tradizionale, di origine piemontese, conosciuto con alcune varianti più o meno in tutto il centro-nord d’Italia. La versione attestata sull’Appennino toscano parla di una donna che accetta di fare la barba ad un viandante, nel quale riconosce il marito rientrato dalla Francia solo dopo averlo rasato. La diffusione di questo motivo nell’Appennino toscano è provata dal fatto che gli alunni della scuola elementare di Piteglio (PT) la trascrissero, su dettato delle nonne, in un quaderno illustrativo realizzato per un progetto scolastico. Questi quaderni, oggi conservati alla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, rappresentano una fonte popolare di straordinaria originalità, che mostra quanto la migrazione rientrasse negli orizzonti tradizionali degli abitanti dell’entroterra toscano.

All’inizio del Novecento, la Francia rappresentava la mèta europea più frequentata dai migranti italiani, e per alcune regioni la prima destinazione in assoluto. Nel caso della Toscana (come del Piemonte e della Liguria), questa migrazione di massa si era innestata sulle rotte migratorie risalenti all’età moderna, percorse da stagionali e ambulanti, che sino all’Unità d’Italia avevano rappresentato i principali esempi di presenza italiana oltralpe. Dei 21.971 toscani partiti nel 1900, ben 10.571 erano diretti in Francia. L’attrattività di questo paese aumentò dopo la Prima guerra mondiale: nel 1921 il 78% degli emigranti toscani si dirigeva in Francia e tale percentuale giunse al 92% nel 1925, dopo la chiusura delle rotte transatlantiche.
La guerra aveva arrestato le partenze per qualche anno, ma anche posto le basi per una massiccia ripresa: in Francia, la mancanza di crescita demografica e la costante carenza di manodopera erano state aggravante dalle ingenti perdite umane sul fronte occidentale, mentre l’industrializzazione ormai avviata rendeva necessario un costante afflusso di lavoratori stranieri. La storiografia ha evidenziato recentemente il ruolo della Grande guerra come incentivo per una regolamentazione dei movimenti di lavoratori tramite canali diplomatici. Il Commissariato generale dell’emigrazione (CGE) era stato fondato nel 1901 e aveva esteso via via le proprie funzioni; nel 1915 fu incaricato di approvare le richieste di reclutamenti di manodopera dall’estero e di rilasciare nullaosta per le richieste di espatrio, divenendo di fatto «organismo competente» per il disciplinamento dei reclutamenti. Dopo la guerra, il Trattato di lavoro Italia-Francia del 30 settembre 1919, equiparava i lavoratori italiani ai francesi in merito all’accesso alle tutele sociali e previdenziali; a livello pratico, era previsto che il Servizio manodopera straniera presso il Ministère du Travail raccogliesse le richieste e le relative proposte contrattuali e le trasmettesse al CGE, il quale, valutatane la liceità, attivava i canali di reclutamento locali.

Il caso di Piteglio dimostra che questo canale di reclutamento fu talvolta utilizzato da alcuni migranti giunti individualmente nel bacino minerario del Nord della Francia, che riuscirono a servirsene per richiamare amici e parenti.
Il comune di Piteglio si trova sull’Appennino pistoiese, a nord della Val di Nievole, a pochi chilometri dalla provincia di Lucca e a quasi 700 metri sul livello del mare, mal collegato con la pianura e dunque troppo distante dall’agglomerato industriale in via di sviluppo sull’asse Firenze-Prato-Pistoia. L’abitato sparso tipico dell’Appennino comportava l’inclusione nell’ente comunale, oltre al borgo di Piteglio, di diverse località, come Popiglio, Calamecca, La Lima e Prataccio, per una popolazione totale di 4.761 abitanti secondo il censimento del 1921, il primo a registrare un calo demografico che non si sarebbe più arrestato. Ad eccezione della Società Metallurgica Italiana a Campotizzoro, il comparto industriale era praticamente inesistente e la scarsità di entrate provenienti dalle professioni tradizionali, legate allo sfruttamento del bosco e alla raccolta delle castagne, esponevano da tempo l’Appennino pistoiese alla migrazione stagionale.
Il quaderno realizzato dagli alunni della scuola elementare di Piteglio fu prodotto nel 1929 insieme ad altri 362, provenienti dalle scuole del circondario, nell’ambito del progetto La scuola in mostra, lanciato in occasione dell’istituzione della provincia di Pistoia. Con qualche differenza, i quaderni rispondono tutti allo stesso schema dettato dall’insegnante: la storia del paese, le sue caratteristiche geografiche, la piazza, la chiesa, la popolazione e il folklore.
L’emigrazione è una costante nella descrizione dei borghi della montagna, mentre è spesso assente nei quaderni dedicati a comuni di pianura, ad esempio Quarrata; la sua presenza fra gli orizzonti culturali della comunità appenninica è provata anche dalle filastrocche, come era appunto La barbiera che vien di Francia, o Il carbonaio, il cui mestiere «Venire e andare è tutto un via vai». Qualcuno aveva spiegato ai bambini che le risorse della montagna «non basta[no] al mantenimento di tutti, perciò c’è bisogno dell’emigrazione. Senza contar quelli che fanno ogni anno la migrazione nella Maremma, molti àn sic trovato lavoro nelle miniere della Francia del Nord o alle macchie dell’alta Marna. […] Anche quelli che vanno nell’America del Nord son minatori, mentre quelli che vanno nel Brasile sono boscaioli».

L’influenza delle politiche del regime in materia migratoria è presente anche in una fonte così periferica: i piccoli cittadini di Piteglio scrivevano che «è bene che vanno a guadagnare. Arricchisce la famiglia e quei soldi vanno spesi in Italia. È bene che si vada via ma però che si ritorni in Italia». Nei quaderni non mancano i grafici recanti dati demografici sui nati, i morti e le partenze: il 1921 risulta l’anno in cui l’emigrazione toccò picchi particolarmente alti, sono indicate 254 partenze dal solo borgo capoluogo, a dispetto di 90 nel 1920 e 72 nel 1922; 42 dalla frazione di Prataccio, contro le 15 nell’anno precedente e le 12 nel successivo. Nel censimento del 1931 il comune di Piteglio aveva perso il 20% della popolazione rispetto al censimento di dieci anni prima e 1.273 pitegliesi risultavano stabilmente residenti all’estero.
Ritroviamo buona parte dei pitegliesi espatriati nel comune di Fenain, nel Nord della Francia: la ragione di questo trasferimento potrebbe sembrare una richiesta di manodopera al sindaco del comune proveniente dalla Compagnia delle miniere di Aniche, attiva nello sfruttamento dei pozzi di estrazione del bacino carbonifero del Nord-Pas-de-Calais.
L’Archivio storico comunale conserva la corrispondenza in merito tra il sindaco e il sottoprefetto. Un incrocio con i dati contenuti nello Stato civile dimostra che quando le miniere di Aniche si rivolsero al sindaco avevano già alle proprie dipendenze alcuni pitegliesi, arrivati prima della guerra e interessati a farsi raggiungere da amici e parenti. I documenti reperiti ci dicono ad esempio che Giovanni Picchiarini giunse a Fenain con la moglie nel 1911 e che i fratelli Giuseppe ed Eugenio Ferrari lavoravano per la compagnia già nel 1912. Dopo la guerra, tra il 1919 e il 1920 migrarono nel Nord anche i fratelli di Picchiarini e i cognati, Luigi e Orlando Pacini, fratelli della moglie.
La richiesta di manodopera giunse al sindaco alla metà del 1921, momento dell’aumento delle partenze dal borgo appenninico registrato dai piccoli pitegliesi. Non ci è possibile stabilire precisamente il numero di espatri dal comune alla regione mineraria francese, tuttavia negli anni Trenta le fonti di polizia individuano circa una cinquantina di minatori, stabiliti in Francia con le proprie famiglie da diversi anni. Lo Stato civile del comune permette di dire con certezza che una decina di famiglie espatriarono in diversi momenti tra il 1922 e 1929, secondo una prassi ben nota alle dinamiche migratorie: prima gli uomini, in un secondo momento i fratelli minori, le mogli e i figli. Ad esempio, a Pietro e Bruno Orsucci si unirono prima il fratello Renato, poi Duilio e nel 1928 il padre Silvio, con l’omonimo nipotino, rimasto orfano.
È verosimile supporre che l’attivazione del canale di reclutamento ufficiale nel 1921 volesse regolarizzare una filiera migratoria spontanea. Alcuni pitegliesi giunsero nella corona mineraria Douai-Valenciennes per motivi contingenti e vi restarono, verosimilmente in considerazione del fatto che il carbone rientrava fra i propri orizzonti professionali. Una riconversione, dalla produzione di carbone dai boschi all’estrazione di tipo industriale, si rese senz’altro necessaria, ma la familiarità con il carbone appare la base per l’inserimento di questa comunità nella produzione industriale su scala europea. Il fatto poi che la richiesta di manodopera salti i canali ufficiali – Ministère du Travail e CGE – e giunga direttamente al sindaco, unita alla presenza pregressa di pitegliesi nel comune di Fenain, avvalla l’ipotesi che la richiesta di reclutamento sia stata mossa dai compaesani già stabiliti.
Le ragioni essenzialmente economiche alla base di questa migrazione si intrecciano e si sovrappongono a casi in cui è possibile evidenziare anche ragioni politiche, ovvero a militanti, nella gran parte dei casi socialisti, che preferirono trasferirsi per fuggire al montare dello squadrismo in Italia: la prefettura di Pistoia riferiva nel 1930 che tal Ardelio Cecchini fu «in passato un ardente comunista propagandista […] col sorgere del fascismo, per tema di rappresaglie, emigrò all’estero»; Federico Coppi «durante il periodo bolscevico fu accanito comunista e segretario della sezione del partito a Mammiano»; Egidio Seghi «prima del suo espatrio, malgrado la giovine età, professò apertamente sentimenti comunisti dimostrando palesemente la sua ostilità al regime».
Insomma, nella migrazione da Piteglio al Nord della Francia dei primi anni Venti, vi sono percorsi individuali per cui le ragioni puramente economiche sono completate dal pesante clima che si respirava nella penisola: l’inflazione, la crisi occupazionale, ma anche l’instabilità degli ultimi governi liberali, le agitazioni sociali e il vorticoso sviluppo del movimento fascista.
Una rapida analisi della migrazione da Piteglio all’indomani della prima guerra mondiale ha dunque offerto Spunti di riflessione in tre direzioni: il trasmutarsi dei mestieri e delle rotte migratorie risalenti all’età moderna in movimenti inquadrati nell’ambito degli Stati nazionali e del sistema di produzione industriale; la presenza di reti comunitarie, indispensabili al concepimento della mobilità, che negoziano con la normativa vigente per permettere gli espatri e i ricongiungimenti familiari; infine, il fatto che le rotte della migrazione economica siano servite anche per l’espatrio di militanti comuni che si sentivano minacciati dal fascismo, tematica di grande interesse che meriterebbe una maggiore attenzione storiografica

RIFERIMENTI ARCHIVISTICI

Biblioteca Forteguerriana, La scuola in mostra, quad. 106 Piteglio
Archivio storico comunale di Piteglio, Corrispondenza 1921, titolo XIII Esteri
Archives Departementales du Nord, Carte d’identités étrangers, 321 W 115579
Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, b. 1221, 1463, 4732